Anatomia di un approdo qualsiasiLampedusa, agosto. Il giorno dopo l’ennesimo naufragio.
Attraverso la descrizione delle pratiche di sbarco al molo Favaloro, spazio
liminale e metonimia del confine europeo, il testo mette in luce la tensione
costante tra accoglienza e controllo, tra salvataggio e classificazione. Il molo
appare come luogo fisico di approdo, ma anche come dispositivo politico e
simbolico, in cui il “naufrago” diventa “migrante ufficiale” e i corpi, ridotti
a numeri, vengono gestiti secondo logiche amministrative e securitarie.
Al tempo stesso, negli interstizi di questo limine, si collocano forme di
riconoscimento reciproco: gesti minimi che aprono spazi di relazione volti a
restituire dignità e soggettività. In un contesto dominato dall’urgenza e dalle
cifre, è possibile interrompere la “circolarità della violenza”: questo accade
quando si trasforma il molo da luogo di pura gestione a spazio di resistenza e
un corpo migrante da numero torna ad essere persona.
PH: Tanja Boukal
È agosto, l’indomani dell’ennesima strage evitabile, e quello che si compie
stasera è un normalissimo
arrivo, il secondo della giornata. Ci sono stati tempi, sull’isola, in cui gli
approdi si susseguivano senza sosta, ma le politiche europee e gli accordi con
Libia e Tunisia stanno ottenendo il loro effetto nella riduzione dei numeri di
persone migranti che approdano qui. Anche la tipologia degli arrivi pare
diversa: ai grandi gruppi paiono stranamente sostituirsi i piccoli.
Se non fosse per la presenza dei giornalisti, passerebbe inosservato ciò sta
accadendo in questa calda serata d’estate, accanto ad una delle spiagge più
turistiche dell’isola, la Guitgia: vacanzieri spensierati alla ricerca di mare e
divertimento e cittadini stranieri non autorizzati, i primi attesi con
impazienza, i secondi fermati, schedati, soccorsi, respinti, salvati e, in
qualche modo, comunque accolti.
Stasera partecipo come volontaria a uno sbarco, per usare un termine poco amato
da chi interviene al molo per il suo richiamo al linguaggio militare.
Evento marittimo numero 2 (EV. 2), lo definiscono le forze dell’ordine o la
Croce Rossa (CRI). Tuttavia, molti, nelle conversazioni informali, ritornano
all’uso della parola militare. Già: un Mediterraneo in assetto di guerra,
eserciti e flotte civili che dispiegano i propri equipaggi in questa frontiera
liquida. E poi quella terrestre, coi moli: due a Lampedusa, il Favaloro – più
noto – e il Commerciale.
PH: Tanja Boukal
Spazio liminale, soglia giuridica, emotiva e politica. Non luogo, primo spazio
di relazione e di accoglienza a terra, ma anche di trasformazione perché qui il
“naufrago” diventa “migrante ufficiale”.
Spazio di osservazione, di azione, ma anche di potere delle diverse agenzie i
cui operatori (sia istituzionali e governativi che non) occupano un territorio
che definisce anche la loro importanza in ordine di intervento e di decisione 1.
Mai accesso libero, il molo diventa metonimia del confine: geografico,
cronologico, politico, esistenziale.
Rappresenta il trait d’union di tutte le contraddizioni: luogo di soccorso e
accoglienza, ma anche spazio di cesura in cui si definisce chi può restare e chi
deve essere respinto, chi è potenzialmente legale e chi non lo è, chi deve
essere protetto e chi no, chi è vulnerabile e chi appare ancora dotato di forze
e capacità, chi è vittima e chi è carnefice.
La funzione del molo, come luogo di transito e di organizzazione delle
operazioni di sbarco, non può essere separata dalla sua carica simbolica e
neppure dalla violenza che lo abita, perché qui le politiche migratorie si
concretizzano e si traducono nella classificazione e gestione delle persone che
fanno parte di un evento.
Al molo, le dinamiche di intervento ed azione sono continuamente ridisegnate,
discusse e ristabilite durante il tempo dello sbarco, in una sorta di danza
fluttuante, a seconda del momento in cui le persone migranti arrivano, le loro
condizioni fisiche, il loro numero, la presenza di donne o minori non
accompagnati, i tempi di trasferimento, ma anche a seconda delle competenze e
del saper essere
degli operatori e della loro disponibilità emotiva al tempo X dell’approdo.
È un giorno d’agosto.
Al molo, stanotte, tutti i presenti sono in attesa: medico e infermiere per
effettuare una prima verifica delle condizioni fisiche delle persone, due agenti
di Frontex accompagnati da un mediatore linguistico dell’OIM, una persona di
Save the Children, un’operatrice di International Rescue Committee (IRC),
quattro operatori della CRI e poi noi volontari del Forum solidale di Lampedusa.
Le forze dell’ordine sono dispiegate ai nostri lati. Ognuno al suo posto.
PH: Tanja Boukal
La nave della Guardia Costiera entra in porto poco dopo le 21.00, con a bordo il
suo carico di naufraghi. Partiti da Tripoli due giorni fa, sono quarantuno
persone a sbarcare: uomini provenienti da Bangladesh ed Egitto, cinque bambini,
tre donne, almeno tre minori – o forse di più – ma solo questi confermati. Dal
ponte della CP le persone scendono e cominciano a camminare lungo la striscia di
cemento che li separa dal cancello, dove li attende il furgone della Croce
Rossa, pronto a trasportarli all’hotspot.
Il personale medico provvede subito a mettere una fascetta attorno al polso, a
indicare se un qualunque tipo di patologia affligga queste persone. In genere,
si tratta di scabbia.
Stanotte una persona viene trasportata al poliambulatorio in barella: si è
sentita male poco prima dell’arrivo a terra. Nulla di grave: è “solo” l’effetto
di un viaggio estenuante in mare, senza acque, sotto il sole, in balia della
corrente e delle preghiere che forse stavolta sono state ascoltate.
Durante i primi scambi, il corpo si impone: ferite, piedi nudi, sguardi,
movimenti raccontano in silenzio.
L’odore arriva prima delle parole: un miscuglio acre di urina, sale marino e
vomito. I vestiti sono zuppi, impregnati d’acqua e di viaggio. I piedi scalzi,
bianchi di macerazione per le ore trascorse in acqua, raccontano di chilometri
camminati e di ore immobili. Sfilano, timidi, esitanti. Stanotte, come sempre,
mi sembrano vergognarsi dei nostri sguardi, dei vestiti bagnati, della miseria
dei loro corpi. Noi volontari del forum lampedusano siamo in ultima postazione
sul molo.
PH: Tanja Boukal
Siamo in quattro: proviamo ad accogliere in questo spazio ristretto, in un tempo
che anche lui è di limite- limine, queste persone sfiancate dal viaggio, da
quello che le ha precedute, dal deserto che hanno attraversato, dalle prigioni
in cui sono stati forse detenute, dalle connection house che hanno incontrato
nel percorso, e così a ritroso, fino ad arrivare al paese che li ha visti
nascere. Distribuiamo the, acqua e ciabatte: il gesto si ripete, meccanico, ma
ogni volta diverso perché tentiamo di lasciare loro spazio, di incontrarle, una
per una.
Un giovane egiziano fa da interprete improvvisato: non un mediatore ufficiale,
ma un membro del gruppo che, per istinto, si mette a fare da ponte linguistico e
culturale. Questa mediazione spontanea mostra come, anche in un contesto di
vulnerabilità estrema come questo, possano emergere forme di auto-organizzazione
e solidarietà interna.
C’è una donna con un bambino piccolo portata subito al punto medico per
accertamenti; sembra stare bene. I minori non accompagnati, egiziani, attendono
in silenzio, scalzi come la maggior parte del gruppo. Sorridono, di risposta a
un sorriso, dicono “grazie” a un semplice “Benvenuto. Sei al sicuro”. Una
sicurezza momentanea, ma consolazione al viaggio appena lasciato alle spalle, in
attesa di un altro che ricomincia.
Parlo con un uomo. Dice di venire dall’Egitto. Alla domanda da dove sia partito,
la risposta è secca: “Tripoli”. Poi il silenzio. Gli chiedo se sa dove si trovi.
“Lapadusa”, pronuncia. Gli spiego il percorso che lo attende: da quest’isola
alla Sicilia, poi un centro in Italia. Anche lui, come molti altri, non sa se
vuole restare, parla di un altrove in Europa, dove ci sono familiari,
connazionali, o solo un futuro immaginato che qui, sul molo, stanotte non si può
spiegare.
Un ragazzo chiede di sedersi. Fa segno che sta male e prima di poterlo
allontanare dal gruppo, vomita bile. Il corpo si piega su se stesso. Cerchiamo
di portarlo in un angolo protetto, lontano dagli sguardi perché la vergogna, in
questi momenti, è quasi tangibile.
Osservo altri che massaggiano le gambe. So che le traversate avvengono in
posizioni forzate, con corpi incastrati tra loro, spesso dai trafficanti stessi.
Muoversi durante il tragitto in mare è pericoloso: basta alterare l’equilibrio
della barca per rischiarne il capovolgimento. Così le persone restano immobili
per ore: l’assenza di movimento diventa dolore.
Molti hanno lo sguardo perso, un’assenza che sembra protezione. Ma basta cercare
i loro occhi perché, quasi sempre, succeda qualcosa: lo sguardo ritorna e spesso
si allarga in un sorriso. Nel primo luogo di procedure e controlli, il contatto
visivo agisce come atto di riconoscimento reciproco, interrompe la logica
amministrativa dello sbarco, apre uno spazio di relazione tra chi arriva e chi
accoglie.
Stanotte, in risposta al freddo di questi uomini e in mancanza di vere coperte,
tiriamo fuori quelle termiche: mantelline ripiegate con cui li copriamo. Lo
facciamo per scelta: le apriamo, li avvolgiamo. Uno per uno: perché si mantenga
un contatto autentico, perché sentano che sono persone e non numeri, perché la
cura dell’altro questo prevede.
In attesa di salire sul bus della Croce Rossa per il trasporto all’hotspot,
alcune chiedono di andare in bagno. Non possono andarci sole, devono essere
accompagnate per questioni di sicurezza, di controllo e gestione e per questo
andiamo noi volontari del forum: per interrompere la circolarità di una violenza
che ci è imposta e che obbliga uomini a tornare bambini, privati persino
dell’autonomia di un gesto elementare come andare in bagno.
Stanotte non ci autorizzano, perché le persone stanno per essere trasportate
all’hotspot. “Possono aspettare. Avrebbero dovuto chiedere prima”. Corpi
obbligati a un’attesa che un altro decide per loro.
PH: Tanja Boukal
Quando le persone sono in attesa di essere caricate sul pulmino della CRI per il
trasferimento all’hotspot, le fila si rompono e l’ordine è meno evidente. Lo
spazio è occupato in modo meno armonico e ordinato, nonostante la sorveglianza
della polizia non si abbassi mai. Gli operatori, invece, si muovono in questo
spazio. Il clima, generalmente si distende.
Sono molte le persone in attesa che chiedono “Wi- Fi”: il bisogno evidente è
quello di comunicare a chi è rimasto a casa di essere arrivato a destinazione ed
essere sopravvissuto.
Un uomo ci chiede di chiamare la famiglia: non ha il telefono. Parla un inglese
stentato. Racconta in lacrime che ha lasciato sua figlia in Bangladesh, appena
nata e che non ha potuto chiamare in questi mesi. Vuole avvisare per dire che ce
l’ha fatta a bruciare queste frontiere, ad arrivare.
La conversazione si chiude: il trasferimento all’hotspot non aspetta i tempi di
una conversazione, di un bagno, una preghiera, di una confessione.
Uno sbarco ha il tempo di cifre e urgenze vitali. Tutto il resto deve attendere.
Solo negli interstizi di questo limine la relazione ha spazio per fiorire. Ed è
lì, nella frontiera fragile tra controllo e accoglienza, che un operatore agisce
perché un corpo migrante da numero diventi persona, perché uno sbarco si
trasformi in approdo e la relazione, anche solo per un istante di confine,
interrompa la catena della violenza.
1. In M. MARCHETTI, Il fondamento territoriale del potere di fronte alle
trasformazioni spaziali globali, pubblicato sulla rivista Diritti
fondamentali il territorio è condizione di esistenza delle strutture di
potere; è forma spaziale ove l’uomo orienta i propri sensi, colloca,
individua ed organizza le strutture della vita comune; esso ha un’intima
essenza antropologica, essendo l’uomo stesso “un essere terrestre, un essere
che calca la terra”, avvinto ad essa da un legame simbiotico che imprime
unità ed identità al gruppo stesso. Gli antropologi definiscono tale legame
ricorrendo all’espressione “imperativo territoriale”, per intendere
quell’istinto o quella pulsione primordiale che spinge gli uomini (come
anche gli animali) a difendere il territorio in forza di un sentimento
possessivo, esclusivo ed escludente ↩︎