Donne migranti e lavoro: sfruttamento e abusi negli insediamenti informaliQuesto testo analizza le condizioni di lavoro e di vita delle donne migranti
impiegate nei settori agricolo e domestico, con particolare attenzione allo
sfruttamento nei contesti informali e alle dinamiche di genere.
Per molte donne migranti, l’impiego in agricoltura rappresenta, insieme al
lavoro domestico e di cura, una delle poche opportunità di accesso al mondo del
lavoro.
Le braccianti lavorano nelle campagne in condizioni di sfruttamento e degrado:
la giornata lavorativa dura generalmente dalle nove alle dieci ore; le
lavoratrici passano la maggior parte del tempo piegate o in piedi, esposte a
temperature elevate e a contatto diretto con fitofarmaci altamente aggressivi.
A queste condizioni si sommano ulteriori elementi di discriminazione, come la
differenza salariale di genere (“gender pay gap”). Secondo l’ultimo Rendiconto
di Genere del Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell’INPS, molte lavoratrici
risultano formalmente assunte con contratti a tempo determinato che registrano
meno di 50 giornate lavorative annue, nonostante l’effettivo impiego sia ben
superiore. Questo escamotage le esclude dall’accesso a misure di welfare
fondamentali come sussidi di disoccupazione e maternità. La mancanza di reti
familiari e sociali di supporto rende la loro condizione ancora più vulnerabile.
Le difficili condizioni lavorative si intrecciano spesso con situazioni
abitative precarie: sovraffollamento, isolamento, e dipendenza dal datore di
lavoro – soprattutto nei casi in cui l’alloggio è fornito da quest’ultimo –
creano un contesto favorevole ad abusi e violenze. In molti casi, il bisogno di
ottenere o rinnovare un permesso di soggiorno vincolato al contratto di lavoro
obbliga le donne a sopportare condizioni inaccettabili.
Allargando lo sguardo, anche il lavoro domestico e di cura è fortemente
femminilizzato e rappresenta il settore con il più alto tasso di irregolarità.
Le cause sono molteplici: difficoltà nei controlli, mancanza di servizi pubblici
di assistenza, svalorizzazione del lavoro di cura, paura di denunciare per
timore di perdere lavoro o permesso di soggiorno. Spesso i contratti sono
informali e poco chiari, negoziati caso per caso, senza tutele né prospettive.
Situazioni di particolare vulnerabilità si verificano nei casi di co-residenza
con il datore di lavoro, sfociando in alcuni casi in vere e proprie situazioni
di servitù domestica.
In entrambi i settori, agricolo e domestico, le donne migranti vivono un
intreccio di discriminazioni legate al genere, alla nazionalità, allo status
socio-economico e giuridico, che le espone a esclusione sociale e a frequenti
violazioni dei diritti umani. Come sottolinea la ricercatrice Letizia Palumbo
dell’Università di Venezia, questo multiplo livello di sfruttamento non può
essere ridotto a fatto episodico ma va analizzato nella “natura sistemica che lo
caratterizza, in un quadro socio-economico segnato da profonde disuguaglianze,
dalla perdurante eredità patriarcale e da politiche migratorie sempre più
restrittive e selettive 1”.
La “vulnerabilità” delle lavoratrici migranti, è quindi determinata
dall’intreccio di fattori personali, sociali, economici e culturali, in un
contesto segnato da discriminazioni e disuguaglianze strutturali che si traduce
nella mancanza di una reale possibilità di scelte alternative. Il termine
vulnerabilità negli ultimi anni si è diffuso nel linguaggio politico e
giuridico, spesso usato per indicare categorie di soggetti considerati
ontologicamente vulnerabili, come donne, minori e disabili. Tuttavia, la
vulnerabilità in questo ambito è solo e unicamente il risultato di fattori
sociali che riducono o annullano la capacità di una persona di prevenire e/o
reagire a un rischio, e dunque di sottrarsi a un vulnus, a un’offesa. È sempre
legata alla posizione sociale e ai rapporti di potere. Nell’esperienza
femminile, è proprio per la loro posizione subordinata nei rapporti di potere
che le donne sono vulnerabili rispetto a molteplici rischi e violazioni dei loro
diritti.
PATRIARCATO E RETI DI RESISTENZA INTERNA
La percezione, da parte delle donne migranti, di non avere altra scelta che
sottomettersi allo sfruttamento lavorativo deve essere letta alla luce delle
gerarchie patriarcali che regolano i rapporti sociali. In molti casi, le
lavoratrici domestiche hanno lasciato il proprio paese per sostenere
economicamente la famiglia d’origine: figli, genitori e, spesso, anche il
marito. Questa centralità nel sostentamento familiare si traduce in una
pressione psicologica fortissima, che spinge molte donne ad accettare condizioni
di lavoro e di vita profondamente ingiuste pur di non interrompere il flusso di
reddito verso casa 2.
Nel lavoro agricolo, la situazione assume tratti differenti, ma altrettanto
complessi: qui, molte donne scelgono questo impiego perché è l’unico che
consente loro di vivere con i figli, seppur in condizioni abitative e sanitarie
spesso drammatiche. Il bisogno di conciliare lavoro e maternità si scontra con
un sistema che non prevede tutele, né alternative.
L’aspetto più critico, come già evidenziato, è il doppio livello di sfruttamento
a cui molte donne sono sottoposte: a quello lavorativo si aggiunge
frequentemente l’abuso sessuale. Questa dinamica, lungi dall’essere eccezionale,
è talmente diffusa da essere percepita come parte “normale” dell’esperienza
migratoria e lavorativa femminile. Non sorprende, dunque, che alcune donne
abbiano iniziato a organizzarsi per proteggere le più giovani, consapevoli che
senza forme di tutela esse sarebbero esposte a violenze tali da compromettere
perfino la loro “reputazione” e, con essa, le possibilità future di matrimonio.
Nel libro “Amara Terra”, Amina, una lavoratrice di origine marocchina, racconta
come molte donne siano pienamente consapevoli del rischio di essere ricattate o
abusate sessualmente una volta giunte nei campi della Calabria. La raccolta
delle cipolle, ad esempio, viene spesso associata all’idea di “disponibilità
sessuale” da parte dei caporali, il che può compromettere in modo permanente la
posizione sociale e matrimoniale delle giovani donne. Proprio per questo, le
lavoratrici marocchine hanno elaborato strategie di mutuo supporto: organizzano
le partenze in modo da tutelare le più vulnerabili, proteggendole da esperienze
che le marchierebbero socialmente. Questo tipo di resistenza interna mostra come
lo sfruttamento sia talmente sistemico da indurre le donne a ideare
autonomamente pratiche di autodifesa collettiva.
IL CASO DEL RAGUSANO
Un esempio particolarmente emblematico di questa complessa rete di sfruttamento
è rappresentato dalle lavoratrici rumene impiegate nelle serre della provincia
di Ragusa. A partire dalla fine degli anni Sessanta, la produzione agricola
della zona si è trasformata da stagionale a permanente, grazie all’introduzione
estensiva delle coltivazioni in serra. Questa transizione ha portato con sé un
progressivo reclutamento di manodopera migrante stanziale, spesso femminile.
Nel tempo, si è così sviluppato un modello organizzativo sistemico in cui le
aziende agricole non solo gestiscono il lavoro, ma anche l’alloggio delle
lavoratrici e delle loro famiglie. Gli spazi abitativi forniti sono però, nella
maggior parte dei casi, insediamenti informali ricavati da vecchi magazzini,
garage o capannoni situati direttamente all’interno delle proprietà agricole.
Isolati, lontani dai centri abitati e privi di servizi essenziali, questi luoghi
diventano un terreno invisibile di subordinazione, che alimenta dinamiche di
controllo, dipendenza e dominio – vere e proprie forme di neocolonialismo
radicate nel territorio.
Un tema centrale è rappresentato dalle condizioni abitative delle lavoratrici e
dei lavoratori migranti nel settore agro-alimentare: tra ottobre 2021 e gennaio
2022, è stata condotta la prima indagine nazionale “InCas” sulle condizioni di
vita dei migranti impiegati nel settore agro-alimentare, con particolare
attenzione alla mappatura degli insediamenti informali 3. L’inchiesta ha
coinvolto 3.851 Comuni italiani – pari al 48,7% del totale – e ha restituito un
quadro allarmante dello sfruttamento lungo tutta la filiera agricola nazionale.
Non si è trattato solo di un’analisi delle condizioni lavorative, ma anche di
un’esplorazione approfondita dei contesti territoriali che, attivamente o per
omissione, contribuiscono a mantenere e riprodurre situazioni di
marginalizzazione e dominio, in una logica che richiama dinamiche neocoloniali.
Le principali nazionalità che subiscono tali condizioni sono: rumena,
marocchina, indiana, albanese, senegalese, pakistana e nigeriana.
Secondo i dati raccolti, sono 38 i Comuni in cui è stata rilevata la presenza di
migranti che vivono in insediamenti informali o spontanei: strutture non
autorizzate, spesso definite “ghetti”, come nel caso emblematico di Borgo
Mezzanone (Manfredonia) o del Ghetto di Rignano (San Severo). In totale, questi
insediamenti accolgono oltre 10.000 persone, in condizioni di vita estremamente
precarie.
La gravità della situazione emerge con particolare evidenza dalla quasi totale
assenza di servizi essenziali. In ben 32 insediamenti informali – pari al 34%
del totale mappato – mancano completamente acqua potabile, energia elettrica,
strade asfaltate e trasporti pubblici. Anche dove questi servizi sono presenti,
si tratta comunque di una minoranza di casi: meno della metà degli insediamenti
dispone di almeno uno dei servizi primari.
Ancora più drammatica è la situazione sul piano socio-sanitario e lavorativo.
L’assistenza socio-sanitaria, pur essendo il servizio più diffuso, è garantita
solo nel 13,8% dei casi, mentre strumenti fondamentali come la formazione
professionale, l’orientamento al lavoro e la rappresentanza sindacale sono
pressoché assenti. Si tratta di un isolamento strutturale, che esclude un
segmento di società non solo da tutele fondamentali, ma lo ostacola nel processo
di emancipazione dallo sfruttamento.
Particolarmente preoccupante è la presenza di nuclei familiari con minori: oltre
un insediamento su cinque ospita bambini, e circa il 30% degli abitanti degli
insediamenti informali è costituito da rifugiati o richiedenti asilo. In assenza
di servizi educativi, sanitari e di sicurezza, si configura un quadro di
esclusione permanente che compromette tanto il presente quanto il futuro di
intere famiglie.
La mancanza di illuminazione pubblica e di servizi igienici accentua la
vulnerabilità, soprattutto per le donne, esponendole a rischi quotidiani di
violenza e rendendo estremamente difficile cercare aiuto o denunciare abusi. In
un contesto già segnato dallo sfruttamento lavorativo, la precarietà abitativa e
l’assenza di diritti basilari diventano ostacoli strutturali all’emancipazione
individuale e collettiva.
L’indagine InCas restituisce così l’immagine di un sistema agricolo che non si
limita a sfruttare il lavoro delle persone migranti, ma ne gestisce attivamente
la segregazione e la marginalizzazione, negando loro l’accesso a qualsiasi forma
di cittadinanza attiva. La mancanza di prospettive non è un effetto collaterale,
ma il prodotto diretto di un modello economico e politico che alimenta,
attraverso l’abbandono istituzionale, una forza lavoro sottomessa, silenziosa e
ricattabile.
COME STIMARE GLI ABUSI NEGLI INSEDIAMENTI INFORMALI?
Stimare con precisione la diffusione degli abusi e dello sfruttamento nelle
campagne italiane è estremamente complesso. La maggior parte delle lavoratrici
non denuncia per paura di ritorsioni, perdita del lavoro o del permesso di
soggiorno. Tuttavia, alcuni indicatori indiretti possono offrire uno spaccato
della violenza sommersa.
Uno di questi è il numero delle interruzioni volontarie di gravidanza tra le
donne migranti. Secondo i dati ISTAT relativi al triennio 2016–2018, in Puglia e
in particolare nella provincia di Foggia, dove si concentrano i principali
insediamenti informali, è stato registrato il numero più alto di aborti
volontari tra donne rumene. Nel solo 2017, 119 su 324 interruzioni sono state
eseguite a Foggia. Questi numeri non possono essere letti semplicemente come
dati sanitari: sono segnali allarmanti di contesti lavorativi segnati da abusi e
controllo sul corpo delle donne.
A testimoniare questa realtà è la storia di T., una lavoratrice rumena che per
nove anni ha subito un doppio sfruttamento, sessuale e lavorativo, da parte del
suo datore di lavoro. Ogni estate, racconta Alessandra Sciurba nell’articolo
“Libere di scegliere? L’aborto delle donne migranti in Italia, tra politiche
migratorie, sfruttamento lavorativo e casi estremi di abusi e violenza“, T.
tornava in Romania per sottoporsi ad aborto, spesso in modo clandestino e
rischioso, utilizzando anche metodi estremi come l’acqua bollente. La sua
vicenda non è un’eccezione, ma la manifestazione di un sistema che agisce nel
silenzio.
La prostituzione nei ghetti agricoli rappresenta un’altra espressione brutale
dello sfruttamento. In diverse aree del sud Italia, in particolare in Puglia e
Campania, molte donne – in particolare nigeriane – vengono avviate alla
prostituzione già nei centri di accoglienza, per poi essere trasferite nei
campi. La componente di genere aggiunge quindi un livello specifico e sistemico
di violenza: non solo forza lavoro sfruttata, ma corpi su cui esercitare
controllo e dominio sessuale.
Tra Foggia e Manfredonia, nel 2019, la testimonianza di un operatore umanitario
al quotidiano Avvenire: “Qua c’è prostituzione in baracca, 10 euro a
prestazione, e anche per strada, 30-40 euro. Vengono tanti italiani di notte per
‘consumare’. Anche ragazzi. Perfino per feste di laurea e compleanni. Altri
italiani, sfruttatori legati a gruppi criminali, vengono e le portano via, per
farle prostituire. Le ragazze comunque qui stanno poco, ci sono partenze per gli
altri ghetti, anche fuori regione, e nuovi arrivi”.
Insediamento informale a Rosarno (RC) – Ph: Intersos
Molte lavoratrici vivono, anche con i loro bambini, in abitazioni informali. In
questo scenario di totale dipendenza dal datore di lavoro, di invisibilità e
isolamento, aggravati dalla carenza dei servizi, lo sfruttamento è spesso
caratterizzato da ricatti e abusi sessuali. Spesso bambini e ragazzi assistono a
queste dinamiche o diventano essi stessi strumenti di ricatto.
È il caso di Luana, una donna rumena che viveva e lavorava in una serra con i
suoi due figli. Il datore di lavoro li accompagnava a scuola, ma in cambio la
donna doveva cedere alle sue richieste sessuali per mantenere lavoro e alloggio,
raccontano sempre Letizia Palumbo e Alessandra Sciurba in un articolo su Melting
Pot, purtroppo ancora attuale. Quando l’uomo temette che i bambini potessero
denunciare, smise di portarli a scuola. Luana rifiutò di continuare a subire
abusi, ma il datore la minacciò di togliere ai bambini l’accesso all’acqua
potabile. Solo allora, con l’aiuto del centro anti-tratta di Ragusa, Luana fuggì
con i figli. Tuttavia, dopo qualche mese e senza alternative concrete, abbandonò
il centro e tornò a lavorare in un’altra azienda agricola, probabilmente ancora
in condizioni di sfruttamento.
PERCHÉ LA DENUNCIA “TARDA” AD ARRIVARE? OSSERVAZIONI CONCLUSIVE E PROSPETTIVE
FUTURE
Quando vengono individuate situazioni di super-sfruttamento, ciò che le
lavoratrici chiedono prima di tutto è un’alternativa lavorativa concreta. Troppo
spesso, però, gli interventi repressivi si limitano all’avvio di procedimenti
penali contro gli autori, senza prevedere supporti per aiutare le vittime a
ricostruire un percorso di vita e migratorio, aumentando così la loro
vulnerabilità. È quindi necessario orientare il processo penale verso una
giustizia “utile” alle vittime, istituendo un sistema di presa in carico reale,
che le indirizzi verso percorsi di protezione e assistenza adeguati.
Tra i progetti si segnala “Navigare”, una rete nazionale antitratta che sostiene
le vittime di sfruttamento, soprattutto nei settori agricolo e domestico.
Attraverso sportelli mobili, assistenza legale e percorsi di inserimento
socio-lavorativo, aiuta le donne migranti a uscire dalla vulnerabilità e a
ricostruire la propria autonomia.
Conoscenza dei fenomeni, esperienza e competenza nel settore sono fondamentali
per ottenere dei risultati: la Cooperativa Sociale Dedalus, con sede a Napoli,
capofila del progetto “Fuori Tratta” in Campania, rappresenta un modello
esemplare di accoglienza nel supporto alle vittime di tratta e sfruttamento, sia
lavorativo che sessuale. Attraverso unità mobili di strada, sportelli di primo
contatto e centri d’ascolto, Dedalus ha raggiunto oltre 12.000 contatti,
supportando quasi 800 persone con percorsi individualizzati di orientamento al
lavoro, assistenza legale, sostegno psicologico, corsi di lingua e autonomia
abitativa. Un intervento integrato, incluse attività di formazione per operatori
e campagne di sensibilizzazione territoriali.
Come già precedentemente affermato, lo sfruttamento delle donne migranti non è
un’emergenza episodica, ma il risultato del razzismo istituzionale, di
disuguaglianze strutturali, leggi restrittive e assenza di tutele. Per cambiare
questo sistema serve un impegno concreto: politiche inclusive con fondi e
progettualità, un aumento generale all’accesso ai diritti e sostegno a progetti
virtuosi che offrano alternative concrete alla vulnerabilità e all’invisibilità.
1. Sfruttamento lavorativo e vulnerabilità in un’ottica di genere. Le
condizioni di vita e di lavoro delle lavoratrici migranti nelle serre del
Ragusano. Letizia Palumbo, Università Ca’ Foscari di Venezia ↩︎
2. Le donne migranti in agricoltura: sfruttamento, vulnerabilità, dignità e
autonomia. Maria Grazia Giammarinaro e Letizia Palumbo ↩︎
3. Tabelle e grafici sono ripresi dal rapporto ↩︎