Source - Progetto Melting Pot Europa

Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

La Corte di giustizia dell’Ue boccia il “modello Albania”
Il Tavolo Asilo e Immigrazione 1 ha dichiarato che con la decisione di oggi la Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito un principio chiaro: uno stato membro non può designare un Paese di “origine sicuro” senza garantire un controllo giurisdizionale effettivo e trasparente, né può mantenere tale designazione se nel paese non è assicurata protezione a tutta la popolazione, senza eccezioni. Si tratta di una decisione dirompente, che smentisce in modo radicale la linea del governo italiano. Il cosiddetto “modello Albania”, ideato per esternalizzare le procedure di frontiera verso centri collocati fuori dal territorio nazionale ma sotto giurisdizione italiana, è stato costruito e mantenuto su basi giuridiche oggi dichiarate incompatibili con il diritto dell’Unione europea. La sentenza colpisce al cuore uno degli assi portanti dell’intero impianto: la possibilità di processare richieste di asilo in procedura accelerata, basandosi sulla presunzione automatica di sicurezza del paese d’origine. Non è più possibile, alla luce della pronuncia, utilizzare atti legislativi opachi e privi di fonti verificabili per giustificare il respingimento veloce delle domande di protezione; e non è ammissibile trattare come “sicuro” un paese che non offre garanzie a tutte le persone. È esattamente quanto avvenuto nei trasferimenti verso l’Albania e ciò rende evidente che ogni ripresa di questa pratica comporterebbe gravi violazioni e un elevato rischio di annullamento da parte dei tribunali. Il Tavolo Asilo e Immigrazione sollecita il governo a non riattivare il protocollo Italia-Albania: una richiesta avanzata dal Tai fin da prima dell’avvio delle operazioni e che ora diventa più forte nella cornice di questa sentenza. Nell’ultimo anno l’esecutivo ha più volte cercato di piegare le sentenze al proprio racconto, presentando come legittimazione ciò che non lo era affatto. Questa volta la pronuncia della Corte è inequivocabile ed è difficile immaginare che possa essere strumentalizzata. L’architettura giuridica del modello viene demolita. C’è un altro fronte giuridico ancora aperto e riguarda i trasferimenti verso l’Albania direttamente dai centri di permanenza per il rimpatrio (CPR): la questione è oggetto di un nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. Si tratta di un iter che richiederà almeno due anni. Nel frattempo, anche il nuovo modello è stato oggetto di molteplici censure giudiziali ed è incompatibile con i diritti umani, come raccontato nel report “Ferite di confine” recentemente diffuso dal Tai. Il “modello Albania”, anche nella sua seconda fase, va dismesso immediatamente. Il Tavolo asilo e immigrazione chiede al governo di prendere atto della pronuncia, cessare ogni iniziativa orientata alla riattivazione del protocollo e ricondurre la politica migratoria all’interno del diritto internazionale ed europeo, e delle garanzie costituzionali. PER APPROFONDIRE: * Comunicato stampa della CGUE: “Protezione internazionale: la designazione di un paese terzo come «paese di origine sicuro» deve poter essere oggetto di un controllo giurisdizionale effettivo” * Leggi il report “Ferite di Confine” in pdf 1. A Buon Diritto, ACLI, Action Aid, Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo, Amnesty International Italia, ARCI, ASGI, Avvocato di Strada Onlus, Caritas Italiana, Casa dei Diritti Sociali, Centro Astalli, CGIL, CIES, CIR, CNCA, Commissione Migranti e GPIC Missionari Comboniani Italia, Comunità di Sant’Egidio, Comunità Papa Giovanni XXIII, CoNNGI, Emergency, Ero Straniero, Europasilo, FCEI, Fondazione Migrantes, Forum per cambiare l’ordine delle cose, International Rescue Committee Italia, INTERSOS, Legambiente, Medici del Mondo Italia, Medici per i Diritti Umani, Movimento Italiani senza Cittadinanza, Medici Senza Frontiere Italia, Oxfam Italia, Re.Co.Sol, Red Nova, Refugees Welcome Italia, Save the Children, Senza Confine, SIMM, UIL, UNIRE ↩︎
CPR di Gjadër e inadeguatezza cure sanitarie: immediata liberazione del trattenuto alla luce della sentenza costituzionale n. 96/2025
Il tribunale di Roma dopo un ricorso d’urgenza ex art. 700 ordina l’immediata liberazione di un cittadino straniero trattenuto nel CPR albanese. Assegnaci il tuo 5‰: scrivi 00994500288 Il Giudice anzitutto ribadisce quanto già affermato in precedenza 1 e ormai definitivamente confermato da Corte Costituzionale n. 96/2025, ossia che questa autorità rimane sempre competente quando al di fuori dei casi specificamente regolati dalla legge si debba richiedere la tutela di un diritto fondamentale del cittadino italiano o straniero che sia. Guida legislativa/CPR, Hotspot, CPA LA CORTE COSTITUZIONALE APRE A NUOVE BATTAGLIE CONTRO LA DETENZIONE AMMINISTRATIVA Avv.ti Salvatore Fachile e Gennaro Santoro Avv. Gennaro Santoro (Roma), Studio Legale Antartide (Roma) 4 Luglio 2025 Richiamando la sopracitata sentenza, in mancanza di una normativa che sancisca le competenze, i diritti e le garanzie al diritto alla salute considera inadeguate le cure apprestate dal CPR (posto che non è previsto che nei CPR l’assistenza sanitaria venga fornita direttamente dal Servizio Sanitario Nazionale, a differenza di quanto previsto per gli istituti penitenziari. L’effettiva gestione della presa in carico sanitaria ricade, infatti, sull’ente gestore privato del centro, il quale eroga i servizi secondo quanto previsto dal capitolato d’appalto specifico. Deve, pertanto, ritenersi che nel caso di specie l’unica misura idonea a tutelare il diritto alla salute del ricorrente sia la cessazione del trattenimento e la immediata liberazione). Un passaggio contenuto nella decisione (ndR.): “Consultando il diario clinico e il consenso alle cure ivi contenuto, nulla di tutto ciò sembra essere avvenuto. Non solo, quindi, il ricorrente non sta ricevendo cure adeguate alla sua condizione di salute, che appare essere in continuo peggioramento, ma la terapia appare essere stata somministrata al di fuori delle condizioni e delle garanzie previste dalla legge. Inoltre, la terapia psicologica consigliata fin dal suo ingresso a Gjader non risulta essere stata attivata, risultando essere stati effettuati solo colloqui di monitoraggio. Dal diario clinico non si evince nemmeno a quale ordine appartengano i medici che hanno in cura il ricorrente e se appartengano o meno al servizio sanitario italiano. Infatti, non risulta essere presente in Albania un presidio fisso del Servizio Sanitario Nazionale italiano, mentre appare evidente la necessità che il ricorrente debba essere preso in carico da una struttura adeguata quale il centro di salute mentale presso la ASL. Deve, pertanto, ritenersi che le modalità con cui attualmente il ricorrente è trattenuto presso il CPR di Gjader siano lesive del suo diritto fondamentale alla salute. L’irreparabilità dei danni che possono derivare dalla carenza delle cure e dal peggioramento costante delle condizioni di salute del ricorrente, dagli esiti imprevedibili, giustifica, poi, l’adozione del decreto inaudita altera parte“. In conclusione, il tribunale richiama la recente sentenza della Corte Costituzionale, ma ricorda come quest’ultima non ha fornito indicazioni in ordine ai poteri spettanti al giudice civile. E quindi si riserva eventualmente di interrogare la Corte di Cassazione con un rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art 363 bis c.p.c., al fine di chiarire quali siano le prerogative del giudice civile anche in ordine alle misure alternative, al trasferimento da un determinato Cpr etc. . Tribunale di Roma, decreto del 28 luglio 2025 Si ringrazia l’Avv. Salvatore Fachile per la segnalazione e il commento. 1. Si veda: Tribunale di Roma, ordinanza del 2 settembre 2024 ↩︎
Protezione speciale per madre tunisina con cinque figli: riconosciuto il diritto all’unità familiare
Il Tribunale di Bologna ha accolto il ricorso presentato dalla cittadina tunisina a cui era stato negato il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari a causa di un’assenza prolungata dal territorio nazionale. Il Giudice ha riconosciuto in suo favore il diritto alla protezione speciale, con possibilità di conversione del titolo in permesso per motivi di lavoro, valorizzando il radicamento familiare e sociale comunque maturato in Italia. Assegnaci il tuo 5‰: scrivi 00994500288 La ricorrente, madre di cinque figli minori e moglie di un cittadino tunisino regolarmente soggiornante in Italia sin dal 1991, si era temporaneamente allontanata dal Paese per assistere la madre gravemente malata in Tunisia. Tale circostanza, pur avendo determinato un’interruzione della continuità del soggiorno, è stata ritenuta dal Tribunale giustificata e non tale da far venir meno i legami significativi costruiti sul territorio italiano. Il Giudice ha ritenuto prevalente il diritto alla vita familiare della donna e l’interesse superiore dei figli a mantenere l’unità del nucleo in Italia, richiamando il combinato disposto dell’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dell’art. 19, comma 1.1, del Testo Unico sull’Immigrazione. In particolare, è stato sottolineato come l’allontanamento forzato della madre avrebbe compromesso in modo grave ed irreparabile la stabilità affettiva e lo sviluppo dei minori. La decisione rappresenta un rilevante precedente in materia di protezione speciale, ribadendo l’obbligo per l’amministrazione e la giurisdizione di tenere conto, nei procedimenti di espulsione e rinnovo del permesso di soggiorno, dei vincoli affettivi e dell’inserimento sociale del cittadino straniero, in un’ottica di effettiva tutela dei diritti fondamentali. Tribunale di Bologna, sentenza del 3 luglio 2025 Il procedimento è stato patrocinato dall’Avv. Nicola Montefiori, con la collaborazione della Dott.ssa Antonella Nediani, avvocata argentina con esperienza in diritto dell’immigrazione. * Consulta altre decisioni relative al permesso di soggiorno per protezione speciale
I rifugiati di Agadez lanciano una petizione urgente dopo oltre 300 giorni di protesta
Mentre il governo del Niger intensifica la repressione e viola i diritti dei rifugiati, stare al loro fianco è più importante che mai. Firma e condividi ora 1. Da oltre 300 giorni, i rifugiati del Centro “Umanitario” di Agadez, in Niger, continuano la loro protesta pacifica, denunciando condizioni sempre più dure, negligenza amministrativa e intimidazioni da parte delle autorità nazionali. Dall’inizio di luglio, la maggior parte delle persone ospitate nel centro ha smesso di ricevere l’assistenza alimentare. Secondo l’UNHCR, l’aiuto continuerebbe a essere garantito alle cosiddette “categorie vulnerabili”, come vedove, minori non accompagnati e persone con disabilità o patologie croniche. Ma in pratica, le liste degli aventi diritto, emesse dall’UNHCR, hanno escluso numerose persone che rientrano chiaramente nei criteri dichiarati. Inoltre, chi aveva ricevuto aiuti da ONG partner nel 2023 è stato retroattivamente escluso dai nuovi elenchi. A queste persone, al momento della distribuzione, non era stato comunicato che si trattava di un progetto legato all’integrazione economica, né che quel sostegno avrebbe compromesso la possibilità di ricevere aiuti in futuro. In un comunicato diffuso lo scorso maggio, l’UNHCR ha giustificato i tagli come un’opportunità per “favorire l’autosufficienza” attraverso corsi di formazione professionale. Ma la realtà sul campo è che la maggior parte dei rifugiati oggi fatica a soddisfare i propri bisogni fondamentali.  Interviste/Confini e frontiere MENO CIBO, PIÙ AUTONOMIA? IL PARADOSSO DELL’ASSISTENZA DI UNHCR AL CAMPO DI AGADEZ, NIGER I rifugiati: «Non vogliamo restare qui, nel deserto» Laura Morreale 20 Giugno 2025 L’agenzia ONU attribuisce le difficoltà operative ai tagli dei finanziamenti internazionali e alle restrizioni imposte dal governo del Niger. Tuttavia, alcuni operatori umanitari presenti sul territorio segnalano un contesto sempre più repressivo, che rende difficile persino il dialogo diretto con la popolazione rifugiata. In particolare, lo staff UNHCR ha dovuto affrontare ostacoli e intimidazioni quando ha cercato di dialogare con i rifugiati coinvolti nella protesta. I rifugiati riportano che funzionari dell’Ufficio CNE – l’organismo nazionale incaricato di valutare le richieste d’asilo – hanno impedito o interrotto incontri tra il personale UNHCR e i rappresentanti dei rifugiati. Secondo diverse testimonianze, un funzionario del CNE avrebbe affrontato in modo aggressivo e minaccioso un rappresentante dell’UNHCR responsabile delle politiche nutrizionali nel campo, durante un incontro di routine. Episodi simili fanno pensare che le autorità locali stiano volutamente limitando la capacità dell’UNHCR di comunicare e difendere i diritti dei rifugiati. Notizie/Confini e frontiere GESTIRE IL DISSENSO AD AGADEZ Le autorità nigerine dichiarano sciolti i comitati dei rifugiati Laura Morreale 22 Aprile 2025 Nei giorni scorsi, ad alcuni rifugiati è stato detto di “parlare solo per sé stessi”, perché gli organismi di rappresentanza collettiva sono osteggiati dalle autorità nazionali. A partire da maggio, il CNE ha infatti dichiarato illegittimo il comitato dei rifugiati che guida la protesta. All’epoca, otto attivisti erano stati arrestati senza accuse formali e poi rilasciati. Sei di loro – tre donne e tre uomini – si sono visti sospendere la procedura d’asilo tramite un decreto ministeriale datato 3 luglio, con la motivazione di “disturbo dell’ordine pubblico e rifiuto di rispettare le leggi e i regolamenti in vigore nel paese ospitante”. I tentativi di contestare la decisione sono stati respinti dai giudici, che hanno rinviato i casi all’ufficio del governatore. I rifugiati che hanno cercato di presentare denunce formali sono stati ignorati o dirottati altrove. PH: Refugees in Niger Secondo le persone del centro con cui sono in contatto, altri due rifugiati sarebbero stati deportati verso il loro paese d’origine perché “si erano rivolte al tribunale e avevano parlato con i giudici delle condizioni del centro, del trattamento riservato ai rifugiati da parte del personale e degli incidenti verificatisi nel centro, in particolare l’omicidio di un rifugiato nel 2022”. In un contesto di tagli all’assistenza alimentare, restrizioni alla libertà d’espressione e mancanza di accesso alla giustizia, le condizioni psicologiche dei residenti del centro sono peggiorate. Una rifugiata, Nawal Daoud Mohamed, è stata rilasciata dal centro nonostante fosse noto che soffrisse di disturbi psicologici e ora risulta scomparsa. Il CNE ha riferito che sarebbe apparsa in un villaggio a ottanta chilometri dalla città di Agadez, ma i rifugiati non sanno se l’informazione sia accurata o se si tratti di una strategia per evitare disordini nel campo. Secondo i rifugiati, questo caso è emblematico di una negligenza generalizzata verso il benessere psicologico dei residenti del centro. Secondo i rifugiati, questo caso è emblematico di una negligenza generalizzata verso il benessere psicologico dei residenti del centro. Di seguito, condividiamo il messaggio e la petizione inviataci dai rifugiati di Agadez con cui siamo in contatto da diversi mesi: -------------------------------------------------------------------------------- Grazie a Melting Pot Europa per il sostegno costante e per aver dato visibilità agli abusi in corso ad Agadez. Nonostante la nostra resistenza, e una protesta pacifica e legale che dura da oltre 309 giorni, la situazione è purtroppo peggiorata. Abbiamo bisogno della vostra voce. Vi chiediamo di firmare, condividere e amplificare queste storie, petizioni e testimonianze da Agadez. Enough is enough: when peaceful protest is met with collective punishment Dal 15 luglio 2025, i rifugiati del Centro Umanitario di Agadez hanno vissuto quanto segue: * Nawal Daoud Mohamed, una donna di 27 anni, è scomparsa dopo essere uscita dal campo. Era in stato di grave sofferenza psicologica a causa delle condizioni di vita estreme e disumane del Centro Umanitario di Agadez. * Pompe dell’acqua disattivate nel mese più caldo dell’anno, lasciando 2.000 persone – tra cui 800 bambini – senza acqua adeguata, con temperature nel deserto che superano i 50°C. * Assistenza alimentare eliminata per 1.730 persone come punizione per l’espressione pacifica del dissenso. L’UNHCR lo chiama “promozione dell’autosufficienza”. Il diritto internazionale lo chiama punizione collettiva. Su oltre 2.000 residenti, solo 270 persone classificate come “più vulnerabili” hanno ancora accesso alla nutrizione di base. * Otto leader comunitari, sopravvissuti a una detenzione arbitraria a marzo, oggi affrontano nuove minacce semplicemente perché si rifiutano di restare in silenzio. Il CNE ha intensificato le intimidazioni, avvertendo che lo status di rifugiato potrebbe essere revocato a chiunque continui a documentare le condizioni del centro con la campagna #KeepEyesOnAgadez. * Le cure mediche sono state ridotte al minimo, con farmaci limitati a semplici antidolorifici, mentre donne incinte muoiono durante il parto e i bambini vengono respinti da cliniche chiuse. -------------------------------------------------------------------------------- Non possiamo lasciare che tutto questo continui. Firma ora le petizioni per chiedere il ripristino immediato di cibo, acqua, cure mediche e la fine delle intimidazioni. Ogni firma aumenta la pressione sul governo del Niger e sull’UNHCR. ✍️ Petizione al Governo del Niger ✍️ Petizione all’UNHCR Bastano 5 minuti, ma possono salvare delle vite. Condividi questo appello e tagga 3 persone che hanno a cuore i diritti umani. Quando firmiamo insieme, i funzionari devono ascoltare. 1. ✍️ Petizione al Governo del Niger ✍️ Petizione all’UNHCR ↩︎
Mali, protezione sussidiaria per i richiedenti: minaccia alla vita per la violenza indiscriminata
Il Tribunale di Potenza si è pronunciato sul ricorso presentato da due cittadini maliani contro il provvedimento della Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Bari, che aveva rigettato la loro domanda di protezione internazionale. La Commissione aveva tuttavia ritenuto sussistenti i presupposti per la trasmissione degli atti al Questore, ai fini del rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale ai sensi dell’art. 32, comma 3, del d.lgs. 25/2008 e s.m.i. Assegnaci il tuo 5‰: scrivi 00994500288 I ricorrenti, in particolare, chiedevano al Giudice adito l’annullamento della decisione ed alla luce dell’instabilità che comunque caratterizza lil Mali nella sua interezza che venisse accertato e riconosciuto il diritto dei ricorrenti al riconoscimento della protezione internazionale, quale protezione sussidiaria o, in via gradata, qua le status di rifugiato ed In via ulteriormente gradata, il riconoscimento allo straniero del diritto di asilo costituzionalmente sancito ex art. 10 co. 3. Il tribunale dopo aver elencato numerose fonti internazionali concludeva per il riconoscimento della protezione sussidiaria in quanto vi era un serio pericolo per la loro vita per la sola presenza sul territorio a causa della violenza indiscriminata, oltre alla continua e radicata violazione dei diritti fondamentali della persona. Questo esimeva i ricorrenti dal fornire prova del rischio specifico (v.si, in tal senso, CGUE Grande sezione sentenza del 17 febbraio 2009 nel procedi mento C-465/07, caso Elgafaji), non rilevando, dunque, alcun giudizio di comparazione tra la condizione individuale in cui si troverebbero i ricorrenti in caso di rimpatrio e quella medio tempore raggiunta in Italia. 1) Tribunale di Potenza, decreto del 18 giugno 2026 2) Tribunale di Potenza, decreto del 18 giugno 2026 Si ringrazia l’Avv. Andrea Fabbricatti per la segnalazione e il commento. -------------------------------------------------------------------------------- * Consulta altri provvedimenti relativi all’accoglimento di richieste di protezione da parte di cittadini/e del Mali * Contribuisci alla rubrica “Osservatorio Commissioni Territoriali” VEDI LE SENTENZE * Status di rifugiato * Protezione sussidiaria * Permesso di soggiorno per protezione speciale
Accoglienza al collasso: tra isolamento, revoche e opacità istituzionale
Il report di Action Aid pubblicato a marzo 2025 1 ci racconta i differenti aspetti che il sistema d’accoglienza ha vissuto nell’ultimo anno, disegnando una cornice sistemica e chiara della cognizione corrente che tutto l’apparato presenta. Formato da circa 50 pagine, il rapporto tocca diversi argomenti cruciali, dalle gare d’appalto alle condizioni che si vivono dentro i centri d’accoglienza alle politiche migratorie che i nostri governi implementano sulle differenti questioni. L’INVOLUZIONE DEL SISTEMA D’ACCOGLIENZA Il decreto-legge 20/2023, notoriamente conosciuto come decreto Cutro, ha profondamente cambiato il modello di accoglienza, riducendo i servizi di supporto come assistenza legale, psicologica e corsi di lingua. Questo ha comportato un aumento delle spese per affitti e logistica, ma ha anche deteriorato le condizioni di vita nei centri. Oggi, le risorse sono concentrate sulla gestione degli spazi piuttosto che sull’integrazione delle persone ospitate. I centri sono diventati più grandi, sovraffollati e isolati, limitando le opportunità di inclusione e lavoro. Strettamente interconnesso al decreto Cutro troviamo il capitolato 2024 voluto dal governo Meloni, firmato dal ministro dall’interno Piantedosi. Il capitolato ha il compito di indicare i servizi previsti per ciascuna tipologia di centro e i costi associati. Tra le varie criticità che il rapporto sottolinea, quelle principali sono: * Non c’è monitoraggio né valutazione: l’ultima relazione annuale del Viminale sull’accoglienza riguarda il funzionamento del sistema nel 2021 * Oltre la retorica sui “35 euro”, il nuovo capitolato aumenta i costi complessivi. A crescere però sono soprattutto i costi per il funzionamento delle strutture (affitto, trasporti, cibo). Ridotte drasticamente le spese per i professionisti e i relativi servizi alla persona * Vengono azzerati i servizi di informazione e orientamento legale, orientamento al territorio, assistenza psicologica e corsi di lingua italiana * Nel 2023 nascono i “centri temporanei”, che forniscono solo vitto, alloggio e assistenza sanitaria minima. Non sono previsti servizi sociali. Inoltre l’ accesso alle informazioni circa questi tipi di centri risulta molto scarno LA GEOGRAFIA DELL’ACCOGLIENZA Secondo i dati forniti dal ministero dell’interno, a dicembre 2023 il sistema di accoglienza poteva ospitare poco più di 143mila persone, di cui 97.718 nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas), 5.010 nei centri di prima accoglienza (3,5% – Cpa e Hotspot) e 40.311 nel Sistema di accoglienza e integrazione (Sai). Dati alla mano, l’obiettivo di garantire un’accoglienza diffusa in piccole strutture, con un impatto limitato sulle comunità ospitanti e una maggiore capacità di integrazione degli ospiti, è stato gradualmente abbandonato. Si è dato invece spazio a grandi strutture di accoglienza collettiva, con interventi normativi che inoltre favoriscono la commistione della prima accoglienza con il trattenimento di chi fa ingresso sul territorio italiano. Inoltre, questo avviene in un contesto in cui nel corso dell’anno è stato fatto un uso consistente dell’istituto che permette la revoca dell’accoglienza 2, nonostante le molte pronunce dei tribunali 3 a tutela di persone estromesse dal sistema e la gradualità̀ della sanzione introdotta dal decreto 20/2023. Infatti, se nel 2022 le revoche sono state 30.500 circa e nei primi 9 mesi del 2024 poco più di 27.600, nel 2023 il dato registrato è quasi doppio, circa 50.900 revoche. Si tratta di una disposizione la cui attuazione è stata spesso considerata discriminatoria e in conflitto con principi costituzionali e della carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, come stabilito ad esempio dal Tar della Liguria. Al 31 dicembre 2023 gli ospiti dei centri di accoglienza rappresentavano lo 0,23% della popolazione residente in Italia. La regione in cui si registra la presenza più elevata, rispetto alla popolazione residente, è il Molise (0,58%), mentre la Valle d’Aosta presenta l’incidenza più bassa (0,11%). Analizzando la capacità del sistema però è proprio nelle regioni del sud e delle isole che si hanno più posti disponibili (49.587 ovvero il 34,7%) e, in particolare, nel Sai. Infatti, se nelle altre aree del paese la quota di posti nel sistema ordinario si attesta tra il 17,3% e il 23,2% del totale, nel mezzogiorno questo dato arriva al 43,4%. Non stupisce dunque se tra le prime 10 province per quota di posti nel Sai solo una non si trova in regioni del mezzogiorno. Si tratta di Bologna che, oltre ad avere più posti nel Sai (56,28%) che nel Cas, è anche il territorio che offre più posti nel sistema ordinario in termini assoluti (2.137). Al secondo posto Catania con 1.842 posti nel Sai, che rappresentano il 91,3% dell’accoglienza sul territorio. Ma se dal punto di vista della distribuzione di posti tra Cas e Sai sono le regioni del mezzogiorno a rappresentare un esempio positivo, lo stesso non si può dire quando si parla di grandi centri di accoglienza straordinaria. La capienza media dei Cas, infatti, risulta di appena 10,7 posti nelle regioni del nord est, salendo a 14,6 nel nord ovest e a 16,6 al centro. Nelle regioni del mezzogiorno invece supera i 36 posti per centro. UN SISTEMA CHE NON TUTELA. L’ACCOGLIENZA DELLE PERSONE VULNERABILI Per quanto riguarda i minori stranieri non accompagnati (Msna) la normativa prevede strutture governative di prima accoglienza e strutture di secondo livello che coincidono in via prioritaria con il sistema Sai. In presenza di arrivi consistenti e ravvicinati di Msna, i prefetti possono attivare strutture di accoglienza temporanee esclusivamente dedicate ai minori (ovvero i Cas minori, di cui all’articolo 19 del d.Lgs. 142/2015). In precedenza, in caso di indisponibilità di posti nel sistema pubblico, il minore era temporaneamente accolto dal comune in cui si trovava (fatta salva la possibilità̀ di trasferirlo in altro comune in considerazione del suo superiore interesse). Adesso, con il decreto 133/2023 e la circolare del ministero dell’interno n. 94 del 17 gennaio 2024 si è stabilita l’inversione del criterio: in assenza di posti Sai, prima di sollecitare l’ente locale, si deve verificare la possibile collocazione in Cas minori. Un’altra strada perseguita, specialmente per i minori che arrivano in Italia come ultra sedicenni, è quella di inserirli in centri d’accoglienza per adulti. Questo, sottolinea il ministero del lavoro, segnala una grave discrepanza tra il trattamento nei centri di prima accoglienza rispetto ai Cas per adulti. Nel primo caso è previsto per i Msna un tempo massimo di permanenza di 45 giorni, trascorsi i quali devono essere collocati nel Sai. Nei Cas adulti però questo tempo si triplicherebbe. Un periodo decisamente troppo lungo anche considerando coloro che nel frattempo compiono i 18 anni, i quali vedono cessata l’accoglienza, perdendo persino la possibilità̀ di fruire della maggiore tutela che invece è garantita a chi, nella stessa identica situazione, ha trovato accoglienza nel Sai. Tutto questo avviene in un contesto in cui le presenze complessive in centri destinati ai Msna passano da circa 2.500 nel 2018 a oltre 6.800 nel 2023. Questa crescita è avvenuta anche grazie ad un aumento delle presenze nel Sai e questa è certamente una buona notizia. Al contempo però bisogna registrare nel 2023 una crescita del 177% delle presenze in Cas per Msna rispetto all’anno precedente. Per quanto riguarda la condizione femminile all’interno del circuito dell’accoglienza, è solo grazie al rapporto annuale del Sai 4 che conosciamo il totale delle donne accolte nel sistema nel corso del 2023 (13.874) e grazie alle informazioni fornite dal Servizio Centrale a ActionAid e Openpolis abbiamo il dato relativo alla presenza di donne nel sistema al 31 dicembre dello stesso anno (8.683). Da queste informazioni si evince un ricambio più lento in confronto agli uomini (40.638 accolti nell’anno a fronte di 22.312 presenze al 31 dicembre). Le donne, in altri termini, restano per un periodo più lungo all’interno dei progetti di accoglienza e di accompagnamento all’autonomia. Un elemento da tenere ben presente per una programmazione efficace. I dati disponibili evidenziano inoltre una crescita particolarmente sostenuta delle presenze femminili nei centri Sai. Una tale evoluzione è il risultato degli ampliamenti della rete, prima a seguito della crisi afghana e poi di quella ucraina, che ha portato nel paese soprattutto donne (e minori). Inoltre, il decreto legge 133/2023 individua tutte le donne richiedenti asilo come “vulnerabili”, di fatto convogliando la loro accoglienza nei centri del Sai, creando le premesse per una possibile “femminilizzazione” del sistema. Il potenziale protagonismo della rete Sai nell’accoglienza delle donne migranti può certamente offrire loro percorsi di accoglienza di maggiore qualità̀. Tuttavia il rischio è che a fronte di un numero insufficiente di posti nel Sai, ritorni in campo l’accoglienza straordinaria, con i connessi problemi di doppi standard che vedrebbero alcune migranti ricevere i servizi di accoglienza previsti dalla legge attraverso il circuito Sai, mentre altre, con i medesimi titoli, potrebbero restare incastrate nel circuito dei Cas, se non addirittura in quello dell’accoglienza temporanea. Inoltre, risulta opportuno avviare un’ampia riflessione sul concetto di vulnerabilità̀. Da una parte è positivo che almeno le donne trovino accoglienza nel Sai, al contempo però affermare che tutte le donne siano “vulnerabili”, oltre a evidenziare un approccio paternalistico, significa equiparare le loro diverse situazioni con il rischio che i casi effettivamente più vulnerabili non siano poi riconosciuti come tali. CONCLUSIONI Dal 2018, il progetto “Centri d’Italia” denuncia gravi difficoltà nell’accesso ai dati sul sistema di accoglienza per migranti, dovute a un sistematico ostruzionismo da parte del Ministero dell’Interno. Nonostante sentenze favorevoli (Tar e Consiglio di Stato), mancano trasparenza e collaborazione. Le leggi che impongono la redazione e pubblicazione del Piano Nazionale Accoglienza e di una relazione annuale al Parlamento non vengono rispettate. L’ultima relazione risale al 2022 (dati del 2021). Il Viminale spesso nega o fornisce informazioni incomplete, frammentarie o non utilizzabili. Nemmeno le richieste ordinarie o le vittorie legali garantiscono l’accesso ai dati. Il ministero sostiene spesso di non disporre delle informazioni, nonostante ne abbia l’obbligo per legge. La trasparenza è sistematicamente ostacolata, in violazione del Freedom of Information Act (FOIA 5) e delle linee guida ANAC. Le richieste di accesso non vengono né accolte né riformulate, contravvenendo ai doveri di legge verso la società civile, le ONG e la stampa. Il sistema di accoglienza soffre di mancanza di visione, pianificazione e valutazione. A questo si aggiungono nuove normative (DL 145/2024) che introducono automatismi per l’accesso ai servizi, discriminando chi arriva via terra e penalizzando chi non presenta tempestivamente domanda d’asilo, anche se vulnerabile. Queste misure appaiono in contrasto con le direttive europee e rischiano di escludere le persone più fragili. In generale, il quadro complessivo evidenzia un approccio repressivo, privo di analisi e programmazione, che mina il funzionamento del sistema di accoglienza e la tutela dei diritti fondamentali. 1. Scarica il rapporto ↩︎ 2. Si veda: La revoca dell’accoglienza dei richiedenti asilo. Scheda ASGI – Ottobre 2024 ↩︎ 3. Contrastare le prassi illegittime di Questura e Prefettura: giurisprudenza e formazioni, Asgi ↩︎ 4. Consulta il rapporto ↩︎ 5. Cos’è il FOIA ↩︎
Riconosciuta la protezione speciale al richiedente nigeriano, dopo violazione dei termini della cd. procedura accelerata
Il Tribunale di Napoli ha riconosciuto la protezione speciale in seguito alla presentazione dell’istanza ex art. 7-quinquies del D.L. n. 20/2023. Ciò che rende peculiare questa decisione è il fatto che, all’epoca, il ricorrente aveva presentato una nuova domanda di protezione internazionale presso la Questura di Taranto. La domanda era stata dichiarata inammissibile dalla Commissione Territoriale di Caserta. Assegnaci il tuo 5‰: scrivi 00994500288 Successivamente, il richiedente si è rivolto al difensore legale, quando ormai erano trascorsi i 15 giorni previsti per proporre ricorso secondo la procedura accelerata. La difesa ha quindi sollevato un’eccezione, sostenendo che non erano stati rispettati i termini della procedura accelerata e che, di conseguenza, dovevano applicarsi i termini ordinari di 30 giorni. Il Tribunale di Napoli ha accolto questa eccezione, ritenendo il ricorso tempestivo. Ne deriva che l’effetto sospensivo del provvedimento impugnato è automatico e che il termine per proporre ricorso non è di 15, ma di 30 giorni. A questo proposito, va ricordato che – per quanto riguarda i termini procedurali previsti dall’art. 28-bis del D.Lgs. 25/2008 – la giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, è da tempo consolidata. È stato infatti affermato il principio secondo cui, in caso di superamento dei termini per l’audizione del richiedente o per la decisione della Commissione, si ripristina la procedura ordinaria. In tal caso, si applica nuovamente il principio generale della sospensione automatica del provvedimento della Commissione Territoriale e il termine per impugnare torna ad essere quello ordinario di trenta giorni, previsto dall’art. 35-bis, comma 2, del medesimo decreto. Nel merito, il ricorrente ha dimostrato una solida integrazione sociale e lavorativa. Come rilevato dal Tribunale: “L’acclarata stabilità lavorativa rende l’istante inespellibile ai sensi dell’art. 19, comma 1.1, del Testo Unico sull’Immigrazione, poiché il rimpatrio violerebbe i suoi diritti fondamentali alla vita privata, tutelato dall’art. 8 della CEDU, nonché i diritti al cibo, all’abitazione e a un ambiente salubre, riconosciuti dal Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 3 gennaio 1976 e ratificato dall’Italia con la legge n. 881/1977”. Tribunale di Napoli, decreto del 15 luglio 2025 Si ringrazia l’Avv. Mariagrazia Stigliano per la segnalazione e il commento. * Consulta altre decisioni relative al riconoscimento della protezione speciale
Marco Cavallo scende in piazza: un viaggio contro i CPR, lager del presente
Marco Cavallo è una grande scultura azzurra, alta circa quattro metri, realizzata nel 1973 dai pazienti e dagli operatori del manicomio di San Giovanni a Trieste, durante l’esperienza di Franco Basaglia. Nella sua pancia, i ricoverati inserirono biglietti con i loro desideri. Il 21 gennaio 1973 Marco Cavallo fu portato fuori dal manicomio in un corteo che abbatté muri fisici e simbolici. Quel momento divenne il simbolo della lotta contro l’internamento psichiatrico e per la libertà, contribuendo alla riforma che chiuse i manicomi in Italia. Oggi Marco Cavallo torna a camminare per abbattere un’altra forma di esclusione: i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR). Il progetto, lanciato a febbraio, dal Forum Salute Mentale e inserito nella campagna nazionale #180 Bene Comune, ha già raccolto decine di adesioni da associazioni, gruppi, operatori, comitati, attivisti e reti locali e nazionali 1. Un fronte plurale che chiede con forza la chiusura dei CPR e la fine della detenzione amministrativa. «Come poteva il Forum della Salute Mentale, che tanto si è battuto per la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari e che accompagnò il Cavallo azzurro nelle manifestazioni, restare indifferente davanti allo scandalo dei CPR?» scrive Francesca de Carolis, una delle voci editoriali del Forum. «Strutture che, per molti aspetti, ricordano gli OPG, ma che sono ancora più crudeli. Qui sono rinchiuse persone il cui “reato” è stato varcare un confine, spinte da guerre, difficoltà economiche e dal desiderio legittimo di una vita migliore. Migranti colpevoli di “desiderio di vivere”». Nel suo articolo de Carolis racconta come Marco Cavallo si muova verso i CPR per denunciarne l’orrore. Oggi in Italia ci sono dieci CPR, nati con la legge Turco-Napolitano del 1998 e trasformati nel tempo, con la recente legge Minniti-Orlando che ha prolungato la detenzione fino a 180 giorni. Il viaggio ufficiale di Marco Cavallo partirà il 6 settembre con una manifestazione a Gradisca d’Isonzo. Nei mesi successivi farà tappa a Milano, Roma, Gradisca e altre città. Ogni fermata di questo percorso di denuncia, sarà un’occasione per portare alla luce la realtà dei CPR, raccontare storie dimenticate e denunciare la disumanizzazione di chi vi è rinchiuso. Ogni tappa prevede assemblee pubbliche, performance, letture e momenti di riflessione collettiva. Il Forum Salute Mentale ha lanciato anche una campagna di raccolta fondi per coprire le spese del viaggio (trasporti, accoglienza, materiali, supporto tecnico), coinvolgendo concretamente la società civile. Marco Cavallo non è solo una scultura: è un corpo collettivo in cammino, una memoria che non vuole tacere, un sogno di libertà senza confini. Unitevi al viaggio. 1. Qui le adesioni ↩︎
Minori sedati, non visti e allontanati
Jessica Lorenzon 1 Giudicato colpevole da un branco di pecore Hanno provato a rendermi debole Solo perché non sto alle loro regole, ma Non ho niente da perdere, come un’amichevole Mandami un bacio attraverso le lettere Voglio uscire al più presto e smettere, ma Voglio cambiare vita, mamma Ya, habibi-bibi, yalla Rincorso dai casini, dalla Non siamo noi i cattivi, wallah Mi trattano male, scioperi di fame Sto in isolamento e voglio solo cantare, cantare Siamo quei ragazzi che mamma ci ha fatto pure da papà Sognavo un diploma all’università Ora sogno un futuro lontano da qua e Mi dicono in tanti, “Ti prego, cambia quella mentalità” Ma finché non cambia questa società Rimango lo stesso ribelle di sempre Liberi, liberi, liberi, liberi, liberi, liberi, ah, ah… Baby gang – Liberi Questa presa di parola propone una riflessione sulla condizione dei minori stranieri nelle carceri italiane, in particolare su una preoccupante tendenza le cui spiegazioni risultano sempre più nitide in relazione all’attuale clima politico, ovvero la gestione e la neutralizzazione dei MSNA – minori stranieri non accompagnati – attraverso la reclusione penale, in carcere. Sappiamo da tempo che, a parità di reato, i minori stranieri vengono più spesso puniti con l’isolamento tramite la reclusione rispetto agli italiani; su questo punto le statistiche offrono una prospettiva chiara che a breve verrà discussa. L’Associazione Antigone già nel 2011, anno della pubblicazione del primo Rapporto sulla detenzione minorile, sottolineava come “a mano a mano che ci si addentra nei luoghi di privazione della libertà, la selettività a danno dei minori stranieri è sempre più forte”. Ad oggi, dopo la pubblicazione del c.d. Decreto Caivano (dell’autunno 2023) la situazione è peggiorata significativamente, sia in termini di numeri delle detenzioni, nonché in termini di trattamento e qualità della custodia. > Un quadro mai visto in 30 anni di esperienza penitenziaria, una tensione mai > vista. La chiave è tutta repressiva. L’OSCE in una nota formale dice > chiaramente che è messo in discussione lo Stato di diritto. > > Osservatorio minori di associazione Antigone, 2024 Si premette che chi scrive considera la detenzione intramoenia sempre foriera di sofferenza e mancato rispetto per la dignità umana; andrebbe quindi superata definitivamente. Se fino a qualche anno fa la detenzione minorile in Italia fungeva da modello per altri Paesi, la recente accelerata pan-penalistica, militarizzante, razzializzante e legata a modelli familistici e tradizionali di chiara impronta etero-patriarcale, ha declassato il nostro Paese lasciandolo al vertice solo per quanto riguarda i numeri delle detenzioni dei minori 2. L’Italia è infatti uno dei Paesi europei con il maggior numero di minori detenuti in carcere, seguita solo da Polonia, Svizzera, Regno unito e Galles 3. Il passato è quindi d’obbligo e monito, ci troviamo in una fase politica che in tema di penale sta distruggendo le garanzie e le riforme conquistate tra la fine del Secolo scorso e l’inizio degli anni Duemila. Come anticipato, lo scritto ha l’obbiettivo di mettere in luce un processo che ancora non trova una forma chiara nei dati quantitativi ma che è apparso più volte nel recente discorso pubblico prodotto da coloro che, a vario titolo, si impegnano nel monitoraggio delle condizioni di detenzione e nello studio dei processi di criminalizzazione a danno dei e delle migranti e, in particolare, di coloro che provengono da rotte migratorie estreme. Non è possibile infatti riferirsi alle statistiche per conoscere i movimenti in campo penitenziario dei minori stranieri non accompagnati, i quali ad oggi non sono differenziati da parte del Ministero di Giustizia e si collocano nel grande insieme degli “stranieri”. Riannodiamo qualche filo per rendere più chiara la riflessione proposta, offrendo alcune specifiche soprattutto per le persone non socializzate al lessico penale e penitenziario. La condizione dei minori stranieri in carcere, nonché di tutti i minori detenuti, riguarda gli spazi degli IPM – Istituti di pena per minori -. In Italia questi sono 17, di cui 15 interamente dedicati alla detenzione maschile, uno misto e uno femminile dove le detenute presenti sono poche unità. Queste carceri non ospitano solo minorenni in senso stretto, ma anche giovani adulti, ossia ragazzi processati per titoli di reato compiuti prima della maggiore età. Questi ultimi dovrebbero essere detenuti in IPM fino ai 25 anni di età al fine di promuovere le pratiche educative che il legislatore ha storicamente considerato primarie alla punizione, soprattutto nel caso dei giovani. Una ulteriore tendenza che si sta riscontrando a seguito dell’entrata in vigore del Decreto Caivano è che sempre più, però, i giovani adulti vengono trasferiti dal carcere minorile al carcere per adulti, con tutti i risvolti legati al caso e con buona pace di qualsiasi volontà educativa e di cura. Un dato ancora più perturbante è che, nonostante i numerosi trasferimenti, i numeri delle detenzioni in IPM stanno continuando a salire, raggiungendo picchi mai visti prima. Se fino a qualche anno fa il dato sulle presenze non aveva storicamente superato le 300 unità, oggi le tendenze sono in ascesa. Alla fine dell’anno 2021 erano 281 le persone detenute in IPM, a settembre 2023 erano presenti invece 550 detenuti a fronte di una capacità totale di 516 posti, con un tasso di affollamento del 107%. Per quanto riguarda le caratteristiche dei giovani detenuti risulta chiaro che a subire la detenzione, nella maggioranza, non sono coloro che in virtù del reato ascritto possiamo considerare i più pericolosi, bensì: > Negli IPM ci vanno i marginali, quelli per cui il sistema non riesce o non > vuole trovare collocazione. Il nuovo mandato alle carceri per minori non è > “preparateli all’uscita” ma teneteceli perché non sappiamo dove mandarli, > dall’insediamento del nuovo governo in poi il mandato è chiaro. > > Osservatorio minori di associazione Antigone, 2024 Arrivando all’oggi, secondo i dati dell’ultimo rapporto fornito dal Ministero della giustizia 4, a febbraio 2025 sono 587 le persone detenute negli IPM italiani, di questi 561 ragazzi e 26 ragazze. La divisione relativa alla nazionalità parla di 294 italiani e 293 stranieri. Per quanto riguarda le provenienze, 36 provengono da Paesi d’Europa (Croazia, Romania, Albania e Serbia); gli altri 234 provengono principalmente da: Algeria, Egitto, Marocco, Senegal e Tunisia (in ordine decrescente rispetto ai dati del Rapporto). 13 ragazzi provengono dall’ “America” (dicitura generica dal Rapporto del Ministero) e 10 dal continente asiatico (di cui 5 dalla Cina). Le classi d’età sono state raggruppate nell’elaborazione di chi scrive in due macro insiemi: i ragazzi tra i 14 e i 17 anni, quindi minorenni, sono 359 (di cui 163 italiani e 196 stranieri); i ragazzi tra i 18 e i 24 anni, c.d. giovani adulti, sono 228 (di cui 131 italiani e 97 stranieri). I dati quantitativi poc’anzi narrati non andrebbero considerati come assoluti, bensì dovrebbero fungere da strumento per un inquadramento generale della situazione. Sappiamo infatti che risulta molto complesso raccogliere informazioni statistiche attraverso la comunicazione con gli istituti di pena per minori. Chi scrive ha avuto esperienza diretta, durante una visita di monitoraggio, della discrezionalità con cui talvolta vengono classificati e qualificati detenuti italiani e stranieri. Emblematica a questo proposito la conversazione con un Direttore che segnalava come italiano il detenuto C., il quale era nato in un Paese dell’Unione europea, non aveva documenti e per lui era prevista l’espulsione dall’Italia a fine pena. Di fronte a una richiesta di chiarimento, il Direttore rispose che “C. è come noi, parla perfettamente italiano e ha anche l’accento del posto”. Una piccola nota etnografica a testimonianza di come, lo stigma che spesso viene associato al migrante, porta con sé uno scotoma su quelli che sono elementi strutturali di differenza come l’accesso ai servizi pubblici e sanitari, la possibilità di avere una residenza sul territorio. Requisiti essenziali e, tra i pochi riconosciuti ufficialmente nella letteratura scientifica di settore, come elementi prodromici di una scelta di desistenza ai circuiti collegati alla devianza; quindi volti all’abbassamento delle tendenze recidivanti. Provando a scendere ancora più nel dettaglio rispetto all’oggetto di questa riflessione, ovvero l’intersezione tra detenzione penale e percorso biografico dei MSNA, il Ministero ha recentemente reso pubbliche le tabelle sulle classi di reato e le caratteristiche generali delle persone detenute in IPM ad essi collegate. Il dato generale è che su 59.696 reati registrati nell’anno 2024, il 69,12% è a carico di italiani. La distribuzione delle condanne tra IPM e altre misure mette in evidenza le sproporzioni dei percorsi. Senza pretesa di esaustività emerge che, per quanto riguarda le varie classi di reato, le detenzioni sono così distribuite: Percentuale sul totale delle persone in detenzione in IPM – istituto penale per minori – per classi di reatoPercentuale sul totale delle persone in carico ai Servizi della giustizia minorile per classi di reato NazionalitàitalianistranieriitalianistranieriContro la persona 57,242,874,5725,43Contro la moralità pubblica, la famiglia e il buon costume 78,3321,6785,4114,59Contro il patrimonio 45,6954,3161,1638,84Contro l’incolumità pubblica 69,9630,478,8521,15Contro la fede pubblica 307067,8432,16Contro Stato, altre istituzioni, ordine pubblico 47,1852,8267,5532,45 Elaborazione dell’autrice sui dati forniti dal Ministero di Giustizia (2025) Dalla tabella notiamo che, per tutte le classi di reato, sia quelle connotate dal senso comune come “gravi” che quelle “lievi”, la percentuale degli italiani coinvolti è superiore. Le stesse tendenze tuttavia non si registrano in relazione alla scelta punitiva, infatti si nota in modo chiaro come più spesso siano gli stranieri a parità di reato ad essere detenuti in carcere. Approfondendo ulteriormente le classi di reato in relazione alla gravità percepita appare altresì che, per i reati considerati di grave entità, come ad esempio l’omicidio volontario (sia esso agito o tentato) la percentuale di italiani sul totale è nettamente superiore. Le stesse tendenze si registrano anche per quei reati che sono correlabili alla violenza maschile e di genere. Lo stesso dicasi per i reati contro la moralità pubblica, la famiglia e il buon costume, come ad esempio i maltrattamenti in famiglia; di questi (898) il 78,40% è imputato a italiani. La classe di reati che più significativamente possiamo accostare alla giovane identità migrante è quella “contro il patrimonio”, furto e rapina in primis. Più in generale possiamo dire che le tendenze vedono i reati collegati al possesso di soldi e all’uso o allo spaccio di droga quelli che coinvolgono maggiormente gli stranieri (non in senso assoluto poiché abbiamo visto come le percentuali più alte nelle statistiche coinvolgano sempre il gruppo degli italiani). Nel primo caso si tratta di reati che rientrano nei c.d. reati economici, non di rado correlati alla povertà; nel secondo si tratta di reati spesso in comorbidità con una situazione di abuso e dipendenza. Una ulteriore questione non trova facili risposte, ovvero se nel percorso biografico del minore sia arrivata prima l’abitudine all’uso di sostanze, oppure lo spaccio e gli atti di devianza volti al procurarsi quest’ultima. Quello che è chiaro è che è in corso, all’interno degli IPM, una vera e propria sedazione di massa – a danno nuovamente degli stranieri in particolare – attraverso l’uso massiccio di psicofarmaci, come riportato dall’inchiesta condotta dall’associazione Antigone in collaborazione con Altreconomia 5. A seguito della pubblicazione dell’inchiesta è stata aperta una interrogazione parlamentare. L’utilizzo smodato di talune sostanze è infatti correlato al mantenimento della condizione di dipendenza che talvolta i ragazzi presentano già al momento dell’ingresso. Una presa in carico istituzionale che passa quindi attraverso gli stessi processi associabili ai reati forieri dell’ingresso in carcere. Infine, la tabella non riporta la classe che il Ministero definisce “altri delitti” e che comprende il traffico d’armi e le violazioni in materia di immigrazione. Sul totale di 108 casi registrati a questo titolo, 98 sono a carico di italiani e si legano al traffico illecito di armi. Il dato interessante per la nostra riflessione è che per i reati che violano le norme in materia di immigrazione vi sono 8 persone detenute in IPM. Questi ragazzi (tutti maschi) sono con buona probabilità stati definiti “scafisti”. Il giovane scafista è stato recentemente presentato a fini propagandistici come uno dei nuovi nemici pubblici d’elezione, insieme ad altre figure che non vengono qui citate per ragioni di spazio come ad esempio i “raver”. “Prima di partire l’uomo arabo con la pistola mi ha detto che avrei dovuto tenere la bussola mentre a quello in fila dietro di me (eravamo l’ultimo ed il penultimo della fila) è stato dato il comando dell’imbarcazione, sotto minaccia di essere sparati. Solo dopo ho scoperto che quella sera per tutte e tre le barche che sono partite, gli ultimi due della fila erano stati scelti per condurre la barca. Non si può fare nulla, tutti sono armati in Libia. Non è possibile opporsi a quello che comanda. 6” Così come si registra per le tendenze detentive degli adulti, anche nel caso delle detenzioni in IPM, gli stranieri vengono più spesso trattenuti in carcere anche nella fase di custodia cautelare, ovvero prima di ricevere la condanna definitiva. Anche in questo caso il primo elemento di spiegazione è sociale e non penale e spesso riferito all’assenza di capitale materiale. Sono stati fino a qui forniti alcuni elementi utili al proseguo dell’ipotesi che ha guidato questa presa di parola, ovvero che la detenzione in carcere per i minori stranieri appare sempre più come un dispositivo di controllo sociale e neutralizzazione di una eccedenza difficilmente collocabile e scarsamente tollerata, quindi oppressa. Una neutralizzazione che agisce in due direzioni: in un primo momento attraverso l’isolamento e il contenimento architettonico in carcere, poi nella presa in carico istituzionale quotidiana attraverso la sedazione con l’utilizzo di psicofarmaci. Molti degli elementi considerati non sono nuovi agli addetti ai lavori, la novità è l’avanzata spietata in Italia del richiamo al campo penale per risolvere qualsiasi questione di matrice sociale, nel caso dei minori tutto ciò risulta ancora più perturbante rispetto all’ideale risocializzante che ha sempre guidato, almeno nelle parole, la detenzione minorile. 1. Jessica Lorenzon è attivista e osservatrice con Antigone, di cui coordina la sede veneta. Psicologa e criminologa critica, si è dottorata a Padova studiando i percorsi di uscita dai circuiti penali e penitenziari. ↩︎ 2. L’approfondimento di Stroppa (Antigone 2024) a questo link. ↩︎ 3. Per approfondire: Children of Prisoners Europe. ↩︎ 4. Minorenni e giovani adulti in carico ai Servizi minorili – Analisi statistica dei dati 2024 (provvisori); Minorenni e giovani adulti in carico ai Servizi minorili – Analisi statistica dei dati 2024 (convalidati). ↩︎ 5. Per approfondire: Gli psicofarmaci negli Istituti penali per i giovani reclusi, di Luca Rondi – 1 ottobre 2023; Psicofarmaci all’Ipm “Beccaria” di Milano: l’altra faccia di abusi e torture, di Luca Rondi – 14 maggio 2024; Fine pillola mai. Psicofarmaci negli IPM, di Luca Rondi. ↩︎ 6. Per approfondire l’indagine condotta da ARCI Porco Rosso e Alarm Phone: “Dal mare al carcere“. ↩︎
Assegno sociale negato a rifugiato, l’INPS condannato per condotta discriminatoria
Il Tribunale di Roma – Sezione Lavoro condanna l’Inps per aver negato l’assegno sociale ad un rifugiato politico siriano che non aveva prodotto l’attestazione da parte dell’ambasciata del paese di origine circa l’assenza di redditi. La sentenza si segnala in quanto riconosce la natura discriminatoria della condotta posta in essere dall’INPS. Il provvedimento impugnato pregiudica i rifugiati politici che non hanno possibilità di accedere senza rischi nelle ambasciate del loro paese per richiedere una documentazione reddituale superflua e priva di riscontro normativo. Assegnaci il tuo 5‰: scrivi 00994500288 Secondo il provvedimento del Tribunale: “Detta pretesa si traduce in una violazione del vincolo di parità di trattamento in ragione del fatto che porre quale condizione necessaria ad un rifugiato la produzione di documentazione personale e reddituale da richiedere alle autorità del proprio Paese di cittadinanza – lo stesso dal quale il cittadino straniero è fuggito per un pericolo di persecuzione e ha ottenuto protezione in Italia – equivale ad impedire allo stesso di accedere in concreto alla prestazione sociale alla quale avrebbe diritto per legge”. Tribunale di Roma, sentenza n. 7872 del 3 luglio 2025 Si ringrazia l’Avv. Marco Galdieri per la segnalazione e il commento.
Donne migranti e lavoro: sfruttamento e abusi negli insediamenti informali
Questo testo analizza le condizioni di lavoro e di vita delle donne migranti impiegate nei settori agricolo e domestico, con particolare attenzione allo sfruttamento nei contesti informali e alle dinamiche di genere. Per molte donne migranti, l’impiego in agricoltura rappresenta, insieme al lavoro domestico e di cura, una delle poche opportunità di accesso al mondo del lavoro. Le braccianti lavorano nelle campagne in condizioni di sfruttamento e degrado: la giornata lavorativa dura generalmente dalle nove alle dieci ore; le lavoratrici passano la maggior parte del tempo piegate o in piedi, esposte a temperature elevate e a contatto diretto con fitofarmaci altamente aggressivi. A queste condizioni si sommano ulteriori elementi di discriminazione, come la differenza salariale di genere (“gender pay gap”). Secondo l’ultimo Rendiconto di Genere del Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell’INPS, molte lavoratrici risultano formalmente assunte con contratti a tempo determinato che registrano meno di 50 giornate lavorative annue, nonostante l’effettivo impiego sia ben superiore. Questo escamotage le esclude dall’accesso a misure di welfare fondamentali come sussidi di disoccupazione e maternità. La mancanza di reti familiari e sociali di supporto rende la loro condizione ancora più vulnerabile. Le difficili condizioni lavorative si intrecciano spesso con situazioni abitative precarie: sovraffollamento, isolamento, e dipendenza dal datore di lavoro – soprattutto nei casi in cui l’alloggio è fornito da quest’ultimo – creano un contesto favorevole ad abusi e violenze. In molti casi, il bisogno di ottenere o rinnovare un permesso di soggiorno vincolato al contratto di lavoro obbliga le donne a sopportare condizioni inaccettabili.  Allargando lo sguardo, anche il lavoro domestico e di cura è fortemente femminilizzato e rappresenta il settore con il più alto tasso di irregolarità. Le cause sono molteplici: difficoltà nei controlli, mancanza di servizi pubblici di assistenza, svalorizzazione del lavoro di cura, paura di denunciare per timore di perdere lavoro o permesso di soggiorno. Spesso i contratti sono informali e poco chiari, negoziati caso per caso, senza tutele né prospettive. Situazioni di particolare vulnerabilità si verificano nei casi di co-residenza con il datore di lavoro, sfociando in alcuni casi in vere e proprie situazioni di servitù domestica. In entrambi i settori, agricolo e domestico, le donne migranti vivono un intreccio di discriminazioni legate al genere, alla nazionalità, allo status socio-economico e giuridico, che le espone a esclusione sociale e a frequenti violazioni dei diritti umani. Come sottolinea la ricercatrice Letizia Palumbo dell’Università di Venezia, questo multiplo livello di sfruttamento non può essere ridotto a fatto episodico ma va analizzato nella “natura sistemica che lo caratterizza, in un quadro socio-economico segnato da profonde disuguaglianze, dalla perdurante eredità patriarcale e da politiche migratorie sempre più restrittive e selettive 1”. La “vulnerabilità” delle lavoratrici migranti, è quindi determinata dall’intreccio di fattori personali, sociali, economici e culturali, in un contesto segnato da discriminazioni e disuguaglianze strutturali che si traduce nella mancanza di una reale possibilità di scelte alternative. Il termine vulnerabilità negli ultimi anni si è diffuso nel linguaggio politico e giuridico, spesso usato per indicare categorie di soggetti considerati ontologicamente vulnerabili, come donne, minori e disabili. Tuttavia, la vulnerabilità in questo ambito è solo e unicamente il risultato di fattori sociali che riducono o annullano la capacità di una persona di prevenire e/o reagire a un rischio, e dunque di sottrarsi a un vulnus, a un’offesa. È sempre legata alla posizione sociale e ai rapporti di potere. Nell’esperienza femminile, è proprio per la loro posizione subordinata nei rapporti di potere che le donne sono vulnerabili rispetto a molteplici rischi e violazioni dei loro diritti. PATRIARCATO E RETI DI RESISTENZA INTERNA La percezione, da parte delle donne migranti, di non avere altra scelta che sottomettersi allo sfruttamento lavorativo deve essere letta alla luce delle gerarchie patriarcali che regolano i rapporti sociali. In molti casi, le lavoratrici domestiche hanno lasciato il proprio paese per sostenere economicamente la famiglia d’origine: figli, genitori e, spesso, anche il marito. Questa centralità nel sostentamento familiare si traduce in una pressione psicologica fortissima, che spinge molte donne ad accettare condizioni di lavoro e di vita profondamente ingiuste pur di non interrompere il flusso di reddito verso casa 2. Nel lavoro agricolo, la situazione assume tratti differenti, ma altrettanto complessi: qui, molte donne scelgono questo impiego perché è l’unico che consente loro di vivere con i figli, seppur in condizioni abitative e sanitarie spesso drammatiche. Il bisogno di conciliare lavoro e maternità si scontra con un sistema che non prevede tutele, né alternative. L’aspetto più critico, come già evidenziato, è il doppio livello di sfruttamento a cui molte donne sono sottoposte: a quello lavorativo si aggiunge frequentemente l’abuso sessuale. Questa dinamica, lungi dall’essere eccezionale, è talmente diffusa da essere percepita come parte “normale” dell’esperienza migratoria e lavorativa femminile. Non sorprende, dunque, che alcune donne abbiano iniziato a organizzarsi per proteggere le più giovani, consapevoli che senza forme di tutela esse sarebbero esposte a violenze tali da compromettere perfino la loro “reputazione” e, con essa, le possibilità future di matrimonio. Nel libro “Amara Terra”, Amina, una lavoratrice di origine marocchina, racconta come molte donne siano pienamente consapevoli del rischio di essere ricattate o abusate sessualmente una volta giunte nei campi della Calabria. La raccolta delle cipolle, ad esempio, viene spesso associata all’idea di “disponibilità sessuale” da parte dei caporali, il che può compromettere in modo permanente la posizione sociale e matrimoniale delle giovani donne. Proprio per questo, le lavoratrici marocchine hanno elaborato strategie di mutuo supporto: organizzano le partenze in modo da tutelare le più vulnerabili, proteggendole da esperienze che le marchierebbero socialmente. Questo tipo di resistenza interna mostra come lo sfruttamento sia talmente sistemico da indurre le donne a ideare autonomamente pratiche di autodifesa collettiva. IL CASO DEL RAGUSANO Un esempio particolarmente emblematico di questa complessa rete di sfruttamento è rappresentato dalle lavoratrici rumene impiegate nelle serre della provincia di Ragusa. A partire dalla fine degli anni Sessanta, la produzione agricola della zona si è trasformata da stagionale a permanente, grazie all’introduzione estensiva delle coltivazioni in serra. Questa transizione ha portato con sé un progressivo reclutamento di manodopera migrante stanziale, spesso femminile. Nel tempo, si è così sviluppato un modello organizzativo sistemico in cui le aziende agricole non solo gestiscono il lavoro, ma anche l’alloggio delle lavoratrici e delle loro famiglie. Gli spazi abitativi forniti sono però, nella maggior parte dei casi, insediamenti informali ricavati da vecchi magazzini, garage o capannoni situati direttamente all’interno delle proprietà agricole. Isolati, lontani dai centri abitati e privi di servizi essenziali, questi luoghi diventano un terreno invisibile di subordinazione, che alimenta dinamiche di controllo, dipendenza e dominio – vere e proprie forme di neocolonialismo radicate nel territorio. Un tema centrale è rappresentato dalle  condizioni abitative delle lavoratrici e dei lavoratori migranti nel settore agro-alimentare:  tra ottobre 2021 e gennaio 2022, è stata condotta la prima indagine nazionale “InCas” sulle condizioni di vita dei migranti impiegati nel settore agro-alimentare, con particolare attenzione alla mappatura degli insediamenti informali 3. L’inchiesta ha coinvolto 3.851 Comuni italiani – pari al 48,7% del totale – e ha restituito un quadro allarmante dello sfruttamento lungo tutta la filiera agricola nazionale. Non si è trattato solo di un’analisi delle condizioni lavorative, ma anche di un’esplorazione approfondita dei contesti territoriali che, attivamente o per omissione, contribuiscono a mantenere e riprodurre situazioni di marginalizzazione e dominio, in una logica che richiama dinamiche neocoloniali. Le principali nazionalità che subiscono tali condizioni sono: rumena, marocchina, indiana, albanese, senegalese, pakistana e nigeriana. Secondo i dati raccolti, sono 38 i Comuni in cui è stata rilevata la presenza di migranti che vivono in insediamenti informali o spontanei: strutture non autorizzate, spesso definite “ghetti”, come nel caso emblematico di Borgo Mezzanone (Manfredonia) o del Ghetto di Rignano (San Severo). In totale, questi insediamenti accolgono oltre 10.000 persone, in condizioni di vita estremamente precarie. La gravità della situazione emerge con particolare evidenza dalla quasi totale assenza di servizi essenziali. In ben 32 insediamenti informali – pari al 34% del totale mappato – mancano completamente acqua potabile, energia elettrica, strade asfaltate e trasporti pubblici. Anche dove questi servizi sono presenti, si tratta comunque di una minoranza di casi: meno della metà degli insediamenti dispone di almeno uno dei servizi primari. Ancora più drammatica è la situazione sul piano socio-sanitario e lavorativo. L’assistenza socio-sanitaria, pur essendo il servizio più diffuso, è garantita solo nel 13,8% dei casi, mentre strumenti fondamentali come la formazione professionale, l’orientamento al lavoro e la rappresentanza sindacale sono pressoché assenti. Si tratta di un isolamento strutturale, che esclude un segmento di società non solo da tutele fondamentali, ma lo ostacola nel processo di emancipazione dallo sfruttamento. Particolarmente preoccupante è la presenza di nuclei familiari con minori: oltre un insediamento su cinque ospita bambini, e circa il 30% degli abitanti degli insediamenti informali è costituito da rifugiati o richiedenti asilo. In assenza di servizi educativi, sanitari e di sicurezza, si configura un quadro di esclusione permanente che compromette tanto il presente quanto il futuro di intere famiglie. La mancanza di illuminazione pubblica e di servizi igienici accentua la vulnerabilità, soprattutto per le donne, esponendole a rischi quotidiani di violenza e rendendo estremamente difficile cercare aiuto o denunciare abusi. In un contesto già segnato dallo sfruttamento lavorativo, la precarietà abitativa e l’assenza di diritti basilari diventano ostacoli strutturali all’emancipazione individuale e collettiva. L’indagine InCas restituisce così l’immagine di un sistema agricolo che non si limita a sfruttare il lavoro delle persone migranti, ma ne gestisce attivamente la segregazione e la marginalizzazione, negando loro l’accesso a qualsiasi forma di cittadinanza attiva. La mancanza di prospettive non è un effetto collaterale, ma il prodotto diretto di un modello economico e politico che alimenta, attraverso l’abbandono istituzionale, una forza lavoro sottomessa, silenziosa e ricattabile. COME STIMARE GLI ABUSI NEGLI INSEDIAMENTI INFORMALI? Stimare con precisione la diffusione degli abusi e dello sfruttamento nelle campagne italiane è estremamente complesso. La maggior parte delle lavoratrici non denuncia per paura di ritorsioni, perdita del lavoro o del permesso di soggiorno. Tuttavia, alcuni indicatori indiretti possono offrire uno spaccato della violenza sommersa. Uno di questi è il numero delle interruzioni volontarie di gravidanza tra le donne migranti. Secondo i dati ISTAT relativi al triennio 2016–2018, in Puglia e in particolare nella provincia di Foggia, dove si concentrano i principali insediamenti informali, è stato registrato il numero più alto di aborti volontari tra donne rumene. Nel solo 2017, 119 su 324 interruzioni sono state eseguite a Foggia. Questi numeri non possono essere letti semplicemente come dati sanitari: sono segnali allarmanti di contesti lavorativi segnati da abusi e controllo sul corpo delle donne. A testimoniare questa realtà è la storia di T., una lavoratrice rumena che per nove anni ha subito un doppio sfruttamento, sessuale e lavorativo, da parte del suo datore di lavoro. Ogni estate, racconta Alessandra Sciurba nell’articolo “Libere di scegliere? L’aborto delle donne migranti in Italia, tra politiche migratorie, sfruttamento lavorativo e casi estremi di abusi e violenza“, T. tornava in Romania per sottoporsi ad aborto, spesso in modo clandestino e rischioso, utilizzando anche metodi estremi come l’acqua bollente. La sua vicenda non è un’eccezione, ma la manifestazione di un sistema che agisce nel silenzio. La prostituzione nei ghetti agricoli rappresenta un’altra espressione brutale dello sfruttamento. In diverse aree del sud Italia, in particolare in Puglia e Campania, molte donne – in particolare nigeriane – vengono avviate alla prostituzione già nei centri di accoglienza, per poi essere trasferite nei campi. La componente di genere aggiunge quindi un livello specifico e sistemico di violenza: non solo forza lavoro sfruttata, ma corpi su cui esercitare controllo e dominio sessuale.  Tra Foggia e Manfredonia, nel 2019, la testimonianza di un operatore umanitario al quotidiano Avvenire: “Qua c’è prostituzione in baracca, 10 euro a prestazione, e anche per strada, 30-40 euro. Vengono tanti italiani di notte per ‘consumare’. Anche ragazzi. Perfino per feste di laurea e compleanni. Altri italiani, sfruttatori legati a gruppi criminali, vengono e le portano via, per farle prostituire. Le ragazze comunque qui stanno poco, ci sono partenze per gli altri ghetti, anche fuori regione, e nuovi arrivi”. Insediamento informale a Rosarno (RC) – Ph: Intersos Molte lavoratrici vivono, anche con i loro bambini, in abitazioni informali. In questo scenario di totale dipendenza dal datore di lavoro, di invisibilità e isolamento, aggravati dalla carenza dei servizi, lo sfruttamento è spesso caratterizzato da ricatti e abusi sessuali. Spesso bambini e ragazzi assistono a queste dinamiche o diventano essi stessi strumenti di ricatto.  È il caso di Luana, una donna rumena che viveva e lavorava in una serra con i suoi due figli. Il datore di lavoro li accompagnava a scuola, ma in cambio la donna doveva cedere alle sue richieste sessuali per mantenere lavoro e alloggio, raccontano sempre Letizia Palumbo e Alessandra Sciurba in un articolo su Melting Pot, purtroppo ancora attuale. Quando l’uomo temette che i bambini potessero denunciare, smise di portarli a scuola. Luana rifiutò di continuare a subire abusi, ma il datore la minacciò di togliere ai bambini l’accesso all’acqua potabile. Solo allora, con l’aiuto del centro anti-tratta di Ragusa, Luana fuggì con i figli. Tuttavia, dopo qualche mese e senza alternative concrete, abbandonò il centro e tornò a lavorare in un’altra azienda agricola, probabilmente ancora in condizioni di sfruttamento. PERCHÉ LA DENUNCIA “TARDA” AD ARRIVARE? OSSERVAZIONI CONCLUSIVE E PROSPETTIVE FUTURE Quando vengono individuate situazioni di super-sfruttamento, ciò che le lavoratrici chiedono prima di tutto è un’alternativa lavorativa concreta. Troppo spesso, però, gli interventi repressivi si limitano all’avvio di procedimenti penali contro gli autori, senza prevedere supporti per aiutare le vittime a ricostruire un percorso di vita e migratorio, aumentando così la loro vulnerabilità. È quindi necessario orientare il processo penale verso una giustizia “utile” alle vittime, istituendo un sistema di presa in carico reale, che le indirizzi verso percorsi di protezione e assistenza adeguati. Tra i progetti si segnala “Navigare”, una rete nazionale antitratta che sostiene le vittime di sfruttamento, soprattutto nei settori agricolo e domestico. Attraverso sportelli mobili, assistenza legale e percorsi di inserimento socio-lavorativo, aiuta le donne migranti a uscire dalla vulnerabilità e a ricostruire la propria autonomia. Conoscenza dei fenomeni, esperienza e competenza nel settore sono fondamentali per ottenere dei risultati: la Cooperativa Sociale Dedalus, con sede a Napoli, capofila del progetto “Fuori Tratta” in Campania, rappresenta un modello esemplare di accoglienza nel supporto alle vittime di tratta e sfruttamento, sia lavorativo che sessuale. Attraverso unità mobili di strada, sportelli di primo contatto e centri d’ascolto, Dedalus ha raggiunto oltre 12.000 contatti, supportando quasi 800 persone con percorsi individualizzati di orientamento al lavoro, assistenza legale, sostegno psicologico, corsi di lingua e autonomia abitativa. Un intervento integrato, incluse attività di formazione per operatori e campagne di sensibilizzazione territoriali. Come già precedentemente affermato, lo sfruttamento delle donne migranti non è un’emergenza episodica, ma il risultato del razzismo istituzionale, di disuguaglianze strutturali, leggi restrittive e assenza di tutele. Per cambiare questo sistema serve un impegno concreto: politiche inclusive con fondi e progettualità, un aumento generale all’accesso ai diritti e sostegno a progetti virtuosi che offrano alternative concrete alla vulnerabilità e all’invisibilità. 1. Sfruttamento lavorativo e vulnerabilità in un’ottica di genere. Le condizioni di vita e di lavoro delle lavoratrici migranti nelle serre del Ragusano. Letizia Palumbo, Università Ca’ Foscari di Venezia  ↩︎ 2. Le donne migranti in agricoltura: sfruttamento, vulnerabilità, dignità e autonomia. Maria Grazia Giammarinaro e Letizia Palumbo ↩︎ 3. Tabelle e grafici sono ripresi dal rapporto ↩︎
f.Lotta: un’occupazione marittima contro il sistema dei confini
IL DESERTO DEL MEDITERRANEO CENTRALE Il Mediterraneo centrale è una delle rotte migratorie più letali al mondo, dove il razzismo delle politiche di frontiera dell’Unione Europea appare in modo evidente: oltre 25.000 persone sono morte dal 2014 1. I soldi dell’Unione Europea finanziano il controllo del confine, costruiscono centri di detenzione in Nord Africa e ostacolano gli sforzi delle navi ONG. La strategia ha dato i suoi frutti: lo stato ha espanso il proprio controllo in questa zona di frontiera, irregimentando la solidarietà in un quadro operativo che si conclude quasi sempre con la detenzione o l’assegnazione di un porto lontano per lo sbarco. Peggio ancora: la violenza frontaliera dello stato sta diventando invisibile. F.LOTTA f.Lotta è una chiamata dal basso a rifiutare questa situazione e il sistema mondo che l’ha normalizzata.  f.Lotta organizzerà una protesta in mare a sud di Lampedusa, riunendo il maggior numero possibile di imbarcazioni, per ripoliticizzare quello che oggi è un cimitero a cielo aperto. Vogliamo occupare il Mediterraneo centrale con la nostra solidarietà e resistenza collettiva, vogliamo riscattarlo dal regime dei confini. Barche provenienti da molti porti d’Italia e d’Europa convergeranno verso Lampedusa attraverso tappe logistico-politiche in diversi porti, per diffondere le idee di f.Lotta e creare connessioni con le realtà locali e le reti di solidarietà. La protesta in mare a sud di Lampedusa durerà 3 giorni, in un periodo compreso tra il 10 e il 20 settembre. Comprenderà due momenti di concentrazione vicino all’isola, una navigazione collettiva attraverso il confine meridionale dell’Unione Europea e commemorActions. OCOB: ONE CAMPAIGN ONE BOAT f.Lotta è una campagna di campagne. L’orizzonte politico comune di f.Lotta è la libertà di movimento. Gruppi politici e collettive a terra sostengono f.Lotta sviluppando campagne specifiche che arricchiscono una piattaforma politica condivisa a favore di un sistema diverso. Ogni barca di f.Lotta diventa testimone e portabandiera di una specifica campagna, portandola simbolicamente con sé durante l’azione in mare: se f.Lotta fosse un manifesto, ogni barca sarebbe una rivendicazione. Potete scoprire le campagne sul nostro sito web. F.LOTTINE E F.LOTTA DI TERRA f.Lotta vuole contrastare l’espansione dell’estrema destra e non si esaurisce con la protesta in mare a sud di Lampedusa. Le f.Lottine e la f.Lotta di terra sono ulteriori articolazioni dell’iniziativa, azioni di protesta parallele che collegano lo spazio del Mediterraneo centrale con altre città europee e altre aree di confine. Una f.Lottina è un’altra occupazione marittima o fluviale, mentre un’azione di f.Lotta di terra può assumere diverse forme: un’occupazione, una marcia, un sit-in davanti a un centro di deportazione. Crediamo che molteplici occupazioni di mare, di fiume e di terra siano necessarie per creare connessioni con realtà e lotte già esistenti, raggiungendo quante più persone possibile. Da quando l’Europa ha deciso di diventare una fortezza, ha accettato il rischio di un assedio collettivo. LA MARCIA DELLA SPERANZA f.Lotta rende omaggio e trae ispirazione da un momento che 10 anni fa sconvolse i rapporti di forza all’interno del sistema dei confini. A settembre 2015, migliaia di rifugiate iniziarono a camminare sulle autostrade dall’Ungheria verso la Germania. La loro azione spontanea e diretta aprì i confini interni dell’Unione Europea. Alcuni anniversari devono essere rumorosi. CHI SIAMO f.Lotta federa un gruppo molteplice di persone unite dalla convinzione che un orizzonte politico diverso sia possibile. Non siamo un’organizzazione istituzionalizzata. La protesta in mare apre il Mediterraneo centrale a forme di solidarietà e resistenza diverse rispetto al soccorso marittimo professionalizzato, riunendo persone, collettive, gruppi con o senza barche. Invita la società civile a rigettare ovunque il regime di frontiera, fino alle sue fondamenta: razzismo, colonialismo, capitalismo e patriarcato. CON O SENZA BARCA Qui potete leggere la nostra chiamata, con diversi modi per sostenere f.Lotta. Squattiamo il mare assieme! Contatti: https://flotta.noblogs.org F_Lotta@inventati.org https://www.instagram.com/f.lotta_ 1. Si veda: Missing Migrant Project ↩︎