Source - Progetto Melting Pot Europa

Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Rinnovo del PdS per cure mediche: accertata la mancanza di assistenza adeguata in Tunisia
Il Tribunale di Bari ha riconosciuto il diritto al rinnovo del permesso di soggiorno per cure mediche a un cittadino tunisino affetto da grave patologia psichiatrica cronica. Il ricorrente ha potuto ritirare il permesso nella giornata dell’1 agosto, ma solo dopo la diffida del legale inviata al Questore e al Capo di Gabinetto. Il ricorso era stato presentato contro il diniego della Questura di Foggia, che aveva motivato il rifiuto con presunte carenze documentali. Il Tribunale ha evidenziato che, in casi come questo, è prevalente il diritto alla salute, un valore primario tutelato dalla legge, e non un semplice interesse legittimo dell’immigrato. La valutazione della gravità della patologia e dell’impossibilità di ricevere cure adeguate in Tunisia, confermata dalle COI (informazioni sui Paesi di origine) aggiornati sulle condizioni del sistema sanitario tunisino, ha portato i giudici a riconoscere il rinnovo del permesso per un anno, con possibilità di ulteriori rinnovi finché persisteranno le condizioni sanitarie che giustificano la protezione. Tribunale di Bari, sentenza n. 2471 del 25 giugno 2025 Si ringrazia l’Avv. Gerarda Carbone per la segnalazione. * Consulta altre decisioni relative al permesso di soggiorno per cure mediche
Lotte Baye Fall – Solidarietà contro il colonialismo, le frontiere e le prigioni
DEANNA DADUSC, MADIEYE DIEYE, BARABARA GRISANTI, CHEIKH SENE “Capitani, scafisti, detenuti, migranti, rifugiati. Veniamo chiamati tanti nomi, e tante persone ci vedono solo attraverso queste etichette, nel bene e nel male. Questa serie podcast è il risultato di un 

percorso di formazione su lotte, solidarietà e filosofia Baye Fall, in cui tentiamo di proporre nuovi linguaggi e immaginari che mettono al centro il nostro sguardo e la nostra esperienza, e far capire che la nostra esistenza, le nostre lotte e le nostre pratiche di solidarietà hanno una storia che precede il momento in cui cominciamo ad esistere agli occhi europei. Prima di diventare migranti, capitani, detenuti siamo stati e continuiamo a essere movimenti di solidarietà e resistenza, con una filosofia, religione e spiritualità profonde, nonostante tutti i tentativi, correnti e storici, di disumanizzarci, reprimerci e incasellarci in etichette o prigioni”. L’associazione “Ragazzi Baye Fall a Palermo” è un’associazione basata sui principi della solidarietà e del mutuo supporto ed è composta da difensori dei diritti umani provenienti dal Senegal e dal Gambia, molti dei quali lavoravano come pescatori e, vista la loro conoscenza del mare, sono diventati conducenti delle imbarcazioni che li hanno portati in Europa. Per questo sono stati criminalizzati come capitani/scafisti. In un contesto politico in cui le leggi e le politiche di frontiera vengono spesso messe in discussione dalla società civile, le persone migranti nel mirino di queste leggi continuano a essere de-umanizzate e la loro voce politica è spesso silenziata o filtrata. A parte alcune eccezioni i saperi e le memorie delle persone che migrano e di quelle criminalizzate sono messe a tacere da narrazioni neo-coloniali e euro-centriche che tendono a essenzializzare come vittime o criminali piuttosto che come attori politici. Diventa quindi necessario riportare al centro delle lotte la voce e le narrazioni di chi questa violenza la ha vissuta sulla propria pelle, per formulare analisi che de-centrino i punti di vista nati da prospettive Europee ed eurocentriche.  Per questo, in collaborazione altre realtà 1, i Ragazzi Baye Fall hanno organizzando un percorso di formazione che ha seguito le storie e le memorie delle persone Baye Fall a partire dalle pratiche di espropriazione coloniale e di resistenza in Senegal e Gambia fino alle lotte contro la criminalizzazione in Europa. Il percorso è stato pensato come strumento per evidenziare e valorizzare la capacità di analisi, le forme di solidarietà e il potere politico delle persone che sono direttamente colpite da leggi, pratiche e discorsi che le confinano, le discriminano e le incarcerano. Il tentativo è quello di smettere di essenzializzare le persone migranti assecondando etichette e categorie prodotte dal regime di frontiera europeo, e dalle forme di apartheid razzista che esso sostiene, al fine di produrre immaginari e linguaggi che possano situare la criminalizzazione delle migrazioni all’interno di più ampi percorsi geografici, storici e (anti)coloniali delle persone che migrano, a partire dalla decostruzione di categorizzazioni binarie tra criminale/vittima, così come l’antitesi migrante/salvatore, che dominano il linguaggio non solo degli attori politici che criminalizzano, ma anche di coloro che difendono le persone migranti. Nel primo episodio parliamo della storia e della filosofia Baye Fall, nata da pratiche di resistenza anti-coloniali in Senegal, e centrata su modi di vita solidali, e di mutuo-aiuto. Parliamo di come Cheikh Amadou Bamba è stato criminalizzato, esiliato e incarcerato per essersi opposto alle leggi dei coloni francesi che volevano proibire le pratiche spirituali e religiose senegalesi. Una repressione che però non ha piegato ma al contrario ha amplificato le sue lotte, trasformandole in un movimento di lotta anti-coloniale e spirituale che ad oggi è uno dei più grandi del Senegal e diffuso in tutta la diaspora.  Ci siamo poi spostati a Lampedusa per condividere, insieme alle persone che si occupano di pesca sull’isola, un’analisi delle pratiche di vita e di sussistenza legate al mare, e dei processi neocoloniali di sea-grabbing/saccheggio del mare da parte di enti Europei che hanno portato alla necessità di intraprendere un percorso migratorio.  Siamo tornati a Palermo per un approfondimento sulla solidarietà Baye Fall innescata durante il processo migratorio, forme di solidarietà e auto-organizzazione che spesso vengono criminalizzate con l’etichetta di “facilitazione dell’immigrazione clandestina”. Da qui, abbiamo dato spazio a riflessioni sulla criminalizzazione delle persone che hanno guidato le imbarcazioni verso l’Europa, situando tale analisi all’interno di un percorso storico e politico di cui abbiamo precedentemente evidenziato le matrici (neo)coloniali. Le forme di solidarietà migrante e Baye Fall però, non si sono fatte fermare dal carcere.  Il percorso si è tenuto in presenza presso Maldusa Palermo (con l’eccezione di una sessione a Lampedusa – il 14 aprile). Ogni sessione è stata registrata per produrre una serie podcast. Le musiche e i canti Baye Fall sono state registrate a Lampedusa, durante l’evento sulla pesca e sul furto del mare. Di seguito potete trovare gli episodi o sul canale Spotify di radio alqantara, o scaricando il file MP3 dal sito di Maldusa. Sito Maldusa per Scaricare MP3 Spotify radio alqantara  Sito Ragazzi Baye Fall 1. Il progetto è stato realizzato con il supporto di un fondo di UK Art and Humanities Research Council (AHRC), gestito da Dr. Deanna Dadusc, School of Humanities and Social Science, University of Brighton. Il percorso è stato ideato e sviluppato in una collaborazione tra i Ragazzi Baye Fall, FAC research, Maldusa e radio alqantara. Un ringraziamento speciali ai membri dei Ragazzi Baye Fall che hanno sia partecipato al percorso, sia contribuito alla sua ideazione e sviluppo: Amadou Niang, Assane Seck, Bacary Sagna, Cheikh Sene, Djibril Badji, Lamine Diop, Madieye Dieye, Mor Diop e Sini Ndiaye. Un ringraziamento speciale anche all3 attivist3 di Maldusa e radio aqantara che hanno collaborato alla creazione del percorso e alla realizzazione della serie podcast: Barbara Grisanti, Beatrice Tagliabue, Chadli Aloui, Claudia Spagnulo, Giuliana Spera and Sara Biasci ↩︎
Bulgaria. Detenzione senza fine: 47 mesi a Busmantsi
Prima che Sofia si svegli, noi rifugiati nel campo di detenzione di Busmantsi ci svegliamo al rumore delle chiavi e al tonfo degli stivali della polizia sul pavimento di cemento, accompagnati da risate fugaci durante i cambi di turno. I nomi vengono chiamati con freddezza, ci alziamo dai letti di ferro infestati da insetti che si nutrono di noi, proprio come la nostra pazienza si nutre di speranza, poi le porte vengono sigillate ancora una volta. Sofia Busmantsi Detention Centre. PH: Global Detention Project Sono Abdulrahman Al-Bakr (Al-Khalidi), giornalista e difensore dei diritti umani dell’Arabia Saudita. Non ho commesso alcun crimine, eppure vivo dietro porte chiuse qui dall’ottobre 2021, quarantasette mesi, quasi quattro anni, affrontando sempre la stessa scena. Quello che sta accadendo non è una storia lontana dall’Europa. In questi campi, uomini, donne e bambini sono detenuti in uno stato liminale senza processo, o nonostante le sentenze dei tribunali che vengono ignorate; senza un orizzonte temporale e con la speranza che svanisce. La detenzione a tempo indeterminato non è protezione delle frontiere; è la silenziosa erosione dell’idea di giustizia, una violazione dei diritti umani e un indebolimento dei principi per cui sono stati creati i sistemi giuridici. Il diritto internazionale è chiaro: garantisce ai rifugiati il diritto di chiedere asilo e vieta la detenzione arbitraria di chiunque. La Dichiarazione universale dei diritti umani e la Convenzione sui rifugiati affermano questa protezione. Eppure qui, persone spaventate, plasmate dai loro regimi autoritari originari, vengono trattate come terroristi e criminali, costrette a una detenzione a tempo indeterminato e a una speranza che va scemando. Non riesco a trovare una descrizione più accurata per Busmantsi che “campo di detenzione”: un territorio al di fuori della giurisdizione del diritto bulgaro e internazionale, dove il potere esecutivo invade quello giudiziario semplicemente perché siamo rifugiati stranieri, trasformando l’identità e l’origine in un “reato” in Bulgaria e in Europa. Nel corso di 47 mesi, e nonostante due sentenze definitive e inappellabili del Tribunale amministrativo di Sofia – il 18 gennaio 2024 e il 26 marzo 2025 – che ordinavano il mio immediato rilascio, l’Agenzia statale per la sicurezza nazionale (DANS) ha emesso delle “contro-decisioni” per annullare le sentenze o aggirarle. Notizie QUANDO LA “SICUREZZA” DIVENTA ABUSO Gli aggiornamenti sulla vicenda di Abdulrahman Al-Khalidi Abdulrahman Al-Khalidi 4 Agosto 2025 Ho presentato ricorso e ho vinto tre volte le cause di asilo davanti alla Corte amministrativa suprema, una delle quali ha condannato l’ingerenza della DANS nel mio fascicolo e ha invalidato le loro decisioni di rigetto. I tribunali continuano a confermare gravi violazioni nel mio caso. Eppure io rimango qui, perché un percorso parallelo per il potere esecutivo attraverso decisioni amministrative impedisce l’applicazione giudiziaria. Gli amici mi chiedono: cosa significano le “contro-decisioni”? In realtà, la DANS, erede diretta degli apparati di sicurezza segreti dell’era comunista (DS), ha sostituito l’astratto “nemico del popolo” con la frase “minaccia alla sicurezza nazionale”. Inoltre, le rigide regole del centro si scontrano assurdamente con l’innocenza al 100% dei suoi abitanti, facendo svanire l’equilibrio della giustizia e l’uguaglianza davanti alla legge. Il DANS appare “al di là del controllo giudiziario”, trattando le sentenze definitive come “linee guida non vincolanti”. Una persona può essere detenuta amministrativamente per 46 mesi con accuse per le quali un cittadino non sarebbe trattenuto nemmeno per 24 ore. Come ogni detenzione, la detenzione a tempo indeterminato priva le persone della libertà in condizioni difficili, ma in questo caso ci priva anche di qualsiasi possibilità di ottenerla. L’impatto psicologico è devastante: ansia, depressione e traumi che si accumulano giorno dopo giorno. E io non sono un caso eccezionale al di fuori del diritto europeo e internazionale dei diritti umani; ci sono altri casi, come quello di Nidal Hassan di Gaza, che è stato espulso immediatamente dopo una sentenza che ne ordinava il rilascio, e anche quello di M.N., in cui sono state utilizzate procedure volte a eludere la legge e a modificare lo status di detenzione per garantirne la continuazione. A questo punto, i “casi individuali” non sono più una spiegazione ragionevole, ma un modello istituzionale che richiede di essere esaminato. Tutto ciò solleva una questione sulla giustizia delle misure coercitive e sui loro costi etici e sociali. La giustizia spesso contraddice la legge; a volte appartengono a mondi paralleli. Ciò è evidente nei campi di detenzione. Questa vasta disparità nel trattare le persone in base alla loro identità mi riporta alla storia dell’Europa gravata da crisi di “sé e dell’altro” – dai campi per ebrei e rom ai campi per gli stessi europei dopo la “La Retirada” spagnola. Oggi non fa eccezione: le necessità della vita e i principi umani, come la libertà, sono oggetto di dibattito solo nel nostro caso come rifugiati. C’è una somiglianza dinamica tra il destino dei rom il 2 agosto 1944 e il nostro destino oggi; in entrambi i casi vengono promulgate leggi discriminatorie, le leggi internazionali e i principi di giustizia vengono calpestati nel modo più duro e informale, e le leggi vengono ignorate con un atteggiamento arrogante: “Violeremo tutte le leggi e vedremo chi ci fermerà”. È un crimine che deriva dal razzismo e dalla disumanizzazione, e assistiamo al silenzio scioccante di politici, diplomatici e intellettuali in risposta. E anche se gli amici cercano di darmi “dosi di speranza”, vedo un filo sottile, affilato come una spada, come una corda tesa sopra le porte dell’inferno, che separa l’incredulità nella speranza dalla resa alla realtà. La mia incredulità nella speranza non contraddice la mia fede assoluta nella libertà. Come dice Cioran: “La speranza è il peggiore dei mali, perché prolunga i tormenti dell’uomo”. Non è necessario leggere “Il conte di Montecristo” per entrare nella mente di qualcuno che non solo è stato accusato ingiustamente, ma anche punito con estrema crudeltà. Ricordo con i miei amici la mia ‘sfortuna’: la mia fuga dall’Arabia Saudita alla Bulgaria è stata ironica e sfortunata come la “fuga” dell’abate Faria dalla sua cella, solo per finire – in una tragica ironia – in un’altra cella con Edmond Dantès nel Château d’If. È stata una fuga da uno Stato senza legge a un altro Stato senza legge, un’ironia che mi fa sorridere amaramente, ma che riflette una realtà che mi mette in contrasto con il concetto di speranza. Sia la prigione saudita che quella bulgara uccidono lo spirito, ma qui sento un tradimento ancora più grande, poiché la mia libertà mi viene confiscata definitivamente in nome dell’Unione Europea, in netto contrasto con i suoi principi. Cosa si prova a distaccarsi dalla speranza? È ciò che gli psicologi chiamano “dissociazione”: una separazione dalle emozioni e l’incapacità di provarle insieme: nessun dolore mescolato alla gioia, nessuna disperazione mescolata alla speranza; un’emozione pura senza diluizione. E tu, mio lettore, sei testimone, come Dio e le persone sono testimoni: sono triste, un dolore puro e profondo, impotente senza forza. Un dolore che nessuna lingua può domare o abitare; perché la lingua abita il dolore come una madre che consola il proprio figlio. Se la nostra vita è una “Divina Commedia”, allora l’inferno è alle mie spalle, il paradiso davanti a me, e io cammino nel “Purgatorio”, il cui tormento e l’attesa della sua fine possono essere più duri dell’inferno stesso. Eppure questo dolore non mi impedisce di andare avanti. I casi dei rifugiati nei campi di detenzione bulgari saranno un giorno studiati nelle facoltà di giurisprudenza come esempio di quante leggi e accordi possano essere violati in un unico fascicolo. E sono certo, come dice Omar El Akkad, che «un giorno saremo tutti contro tutto questo». Ma rimane l’amara domanda: perché siamo stati in grado di provare empatia per il passato, ma non siamo in grado di farlo ora, in un momento in cui questa compassione potrebbe salvare delle vite? Ripetiamo “Non succederà più” riguardo ai crimini di ieri, ma non riusciamo a dire lo stesso di fronte ai crimini di oggi. Siamo stati puniti nei nostri paesi per aver insistito sulla giustizia, e ci aggrapperemo ostinatamente ad essa nonostante la nostra realtà. Nel nostro caso, ci impegniamo a chiedere la fine della detenzione amministrativa aperta, un vero controllo giudiziario sui materiali segreti e garanzie che non saremo rimandati in luoghi dove temiamo la tortura o l’arresto arbitrario. I nostri problemi non sono una questione di sicurezza, ma di sottoporre un fascicolo complesso al massimo grado di trasparenza e responsabilità giudiziaria. Ciò è nell’interesse della Bulgaria, poiché limita i vecchi sospetti sulla mancata applicazione delle sentenze dei tribunali o sull’espansione delle agenzie di sicurezza nell’uso di fascicoli segreti non soggetti a un controllo efficace, come nell’era precedente. E nonostante l’assenza di speranza, continuo a lottare e a fare tutto il possibile per perseguire la libertà, ed è questa l’essenza della mia incredulità nella speranza: aggrapparmi alla libertà nonostante la mancanza di speranza. O rifugiati e sostenitori dei rifugiati, resistiamo per la giustizia, lecchiamoci le nostre ferite e andiamo avanti. Condividiamo il nostro pane e ridiamo, mentre il pane ride nelle nostre mani. Non abbiamo lobby o miliardari, ma abbiamo l’un l’altro, e questo è sufficiente per muovere la storia. Alla fine, il mio carceriere non è solo il mio più grande nemico, ma quella “speranza” che continua a bussare alla mia testa affinché io non muoia e non mi apre alcuna porta se non quelle della pazienza.
Visti negati, diritti calpestati: l’inerzia del Governo nei confronti dei palestinesi di Gaza
Dal 6 agosto al 10 settembre 2025, il Tribunale di Roma ha emesso una serie di provvedimenti 1 che obbligavano lo Stato italiano a rilasciare visti d’ingresso a famiglie palestinesi intrappolate nella Striscia di Gaza 2. Si tratta, in gran parte, di nuclei con bambini e bambine, riconosciuti come titolari di un diritto all’ingresso in Italia. Nonostante ordini espliciti che imponevano al Ministero degli Affari Esteri e al Consolato italiano a Gerusalemme di agire “entro e non oltre sette giorni”, ad oggi nessun visto è stato materialmente rilasciato. Non sono valsi a nulla i numerosi solleciti inviati dalle avvocate e dagli avvocati ASGI: lo Stato italiano resta inerte 3. L’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), che ha seguito i ricorsi, denuncia una «grave e colpevole mancata esecuzione dei provvedimenti giudiziari». Con un nuovo comunicato, ASGI sottolinea come «il silenzio dello Stato italiano non trovi alcuna giustificazione ed è evidente la responsabilità che si assume per l’inerzia sin qui dimostrata». L’associazione evidenzia che tale inadempienza «appare tanto più grave alla luce della drammatica situazione in corso nella Striscia di Gaza, documentata e resa evidente all’intera comunità internazionale». «Sappiamo che la situazione è estremamente complessa e che tutto deve passare anche dalle autorità israeliane. Al momento, però» – spiega l’avvocato Dario Belluccio di ASGI – «non abbiamo ricevuto nessuna comunicazione sulle eventuali attività svolte dall’Italia per dare seguito alla decisione del Tribunale. I nostri assistiti non ce la fanno più, sono allo stremo. E qualsiasi ritardo può costare loro la vita». Un’ordinanza del Tribunale sostiene: «Lo Stato italiano non solo non può legittimamente ostacolare l’ingresso sul territorio dei ricorrenti in fuga da Gaza, ma anzi ha un obbligo rafforzato a consentirne l’accesso, quale misura di protezione minima e necessaria per prevenire la violazione irreparabile del diritto alla vita, all’incolumità personale e alla dignità umana». Le ordinanze riguardano cinque nuclei familiari, per un totale di circa una quarantina di persone, molte delle quali sono minori, anziani, persone malate, oppure familiari di cittadini italiani. Il tribunale ha fatto espresso riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio, sottolineando che l’Italia ha obblighi giuridici non solo di cooperazione ma di prevenzione. Le autorità italiane, secondo ASGI, non hanno fornito risposte concrete: nessuna motivazione ufficiale per il ritardo, nessuna conferma che siano stati compiuti atti per ottenere le autorizzazioni necessarie dalle autorità israeliane. La situazione nella Striscia di Gaza è documentata come genocidaria: bombardamenti indiscriminati, fame e difficoltà nell’accesso a beni di prima necessità, rischio costante per i civili, specie per i più vulnerabili. ASGI ribadisce: «Lo Stato italiano deve agire immediatamente, nessun ulteriore ritardo è giustificabile. Tutti i palestinesi devono avere gli stessi diritti. Riterremo responsabile lo Stato italiano della colpevole inerzia se qualcuno dei nostri assistiti dovesse morire o subire ulteriori gravissimi danni». Quanto emerso mostra che non è più possibile considerare questo un difetto amministrativo: è una questione politica, giuridica e morale. Lo Stato italiano è chiamato non solo a rispettare la legge nazionale, ma anche gli obblighi internazionali – inclusi quelli derivanti da trattati che ha sottoscritto. ASGI chiede: il rilascio immediato dei visti ordinati, l’avvio concreto delle operazioni di fuoriuscita dalla Striscia, la trasparenza sulle richieste e i contatti con le autorità israeliane, e che ogni ritardo venga riconosciuto come aggravante. «Ogni ulteriore ritardo – conclude l’associazione – costituirà un’aggravante della già grave responsabilità politica, giuridica e morale assunta dal Governo. Ogni limite è superato ed è chiara la colpevole responsabilità dello Stato italiano, di cui si chiederà soddisfazione in ogni sede». 1. La sintesi delle pronunce del Tribunale di Roma emesse tra il 6 e il 13 agosto, ASGI (26 agosto 2025) ↩︎ 2. Gaza, il tribunale di Roma ordina l’ingresso di famiglie palestinesi. Asgi: “Ma il governo ancora non agisce”, Il Fatto Quotidiano (23 agosto 2025) ↩︎ 3. Il comunicato di ASGI del 23 agosto 2025 ↩︎
Procedura accelerata inapplicabile senza fonti affidabili sulla designazione dei Paesi sicuri
Un interessante provvedimento cautelare emesso dal Tribunale Civile di Roma nei confronti di un cittadino tunisino nell’ambito di una procedura c.d. accelerata. Il Tribunale nell’accogliere l’istanza di sospensione del diniego di protezione internazionale ha puntualizzato come, a seguito della recente pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sentenza 1 agosto 2025, Cause riunite C-758/24 [Alace] e C-759/24 [Canpelli]) gli Stati membri siano tenuti, in forza dell’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, “ad adattare il loro diritto nazionale in un modo tale da garantire un accesso sufficiente e adeguato alle fonti di informazione sulle quali essi si sono basati per designare i Paesi di origine sicuri. Questo accesso deve consentire a un richiedente protezione internazionale originario di un tale Paese, e al giudice nazionale investito di un ricorso avverso una decisione concernente la domanda di protezione internazionale, di prendere utilmente conoscenza di dette fonti di informazioni (par. 87 sentenza CGUE cit.)” . Il D.L. 158/2024 è privo dell’indicazione di tali fonti e pertanto non può ritenersi legittimamente applicabile la procedura accelerata (“e debba applicarsi la procedura ordinaria per l’esame della domanda di protezione internazionale”) in assenza dei presupposti indicati dalla Corte. Una lista dei paesi sicuri seppur astrattamente legittima deve essere ancorata a delle fonti affidabili debitamente indicate, anche per evitare che tali liste siano predisposte indicando arbitrariamente i paesi con il maggiore flusso migratorio anziché quelli con le condizioni politiche-sociali ed ambientali più stabili. Tribunale di Roma, provvedimento del 22 agosto 2025 Si ringrazia l’Avv. Marco Galdieri per la segnalazione e il commento. * Consulta altre decisioni relative alla cd. procedura accelerata
Nulla osta ex art. 42, co. 2, d.l. 73/2022: obblighi istruttori e difetto di motivazione nel provvedimento di revoca
Un’ordinanza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte – sezione prima – che accoglie un’istanza cautelare relativa ai “nuovi” nulla osta all’ingresso di lavoratori stranieri (art. 42, co. 2, d.l. 73/2022), emanati senza una preventiva verifica circa l’eventuale sussistenza di elementi ostativi. Nel caso di specie, il nulla osta era stato rilasciato nonostante la già intervenuta condanna del datore di lavoro, circostanza che rendeva quest’ultimo inidoneo alla stipula del contratto. Il lavoratore, dopo aver ottenuto il visto di ingresso dalla competente Ambasciata su istanza del datore, era giunto in Italia; solo dopo molti mesi gli veniva tuttavia notificato il provvedimento di revoca del nulla osta. Il Collegio, in sede cautelare, non ha approfondito le censure sollevate di illegittimità costituzionale dell’art. 42, co. 2, d.l. 73/2022 e di violazione del principio di legittimo affidamento, ma si è concentrato su due profili: * il difetto di motivazione, poiché l’Amministrazione aveva utilizzato un mero modulo prestampato senza individuare la fattispecie concreta; * il difetto istruttorio, atteso che – nel caso in esame – l’impossibilità di stipulare il contratto (per la condanna già esistente a carico del datore prima dell’emanazione del nulla osta) imponeva alla P.A. l’onere di valutare ogni altra possibilità, comprese eventuali alternative occupazionali per il lavoratore. T.A.R. per il Piemonte, ordinanza n. 266 del 26 giugno 2025 Si ringrazia l’avv. Pasquale Franco De Rosa per la segnalazione e il commento.
Festival delle Migrazioni, un bilancio della settima edizione
Cinque giorni intensi, oltre trenta eventi, cento ospiti e più di cinquemila presenze. Con un sold out emozionante al Palestinian Circus, che ha portato in scena le storie quotidiane sotto occupazione con danza, musica, teatro e acrobatica, si è chiusa a Torino la settima edizione del Festival delle Migrazioni (10-14 settembre), dedicata al tema Il cuore oltre l’ostacolo. Notizie/Arti e cultura IL PROGRAMMA DEL FESTIVAL DELLE MIGRAZIONI 2025: «IL CUORE OLTRE L’OSTACOLO» A Torino dal 10 settembre cinque giorni di incontri, arte, teatro, cinema e letteratura 9 Settembre 2025 Un gesto politico e poetico che ha attraversato incontri, spettacoli, laboratori e momenti conviviali, e che ha confermato ancora una volta il Festival come spazio di confronto vivo, capace di unire linguaggi artistici e riflessione critica. La rassegna ha dato spazio a conflitti e resistenze che attraversano il presente: Monica Perosino e Anna Zafesova hanno discusso dello stato della guerra in Ucraina; Moni Ovadia ha dialogato con Noor Abo Alrob (direttore artistico del Palestinian Circus) e con Miriam Ambrosini di Terre des Hommes sulle lotte in Palestina; Antonella Sinopoli ha raccontato con Black Sisters e AfroWomenPoetry le voci delle donne dell’Africa sub-sahariana; Boban Pesov ha riportato, attraverso il graphic novel C’era una volta l’Est, il tema delle radici e delle memorie divise. Un’attenzione particolare è stata dedicata alle esperienze delle donne: dalle opere di Parnian Javanmard, artista iraniana che interroga i concetti di casa e identità, alla poesia di Samira Fall, fino alle storie delle vincitrici del Concorso Lingua Madre, che raccontano la complessità delle appartenenze multiple. Il Festival non è stato solo parola e riflessione. Teatro, musica, cinema e linguaggi ibridi hanno attirato un pubblico curioso e partecipe. Tra le novità, la performance Stupefacenti, l’anteprima assoluta di Ceci n’est pas Omar di Omar Giorgio Makhloufi e l’esperienza multimediale Audiowalk Borgodora. Grande successo anche per i workshop, dai laboratori sull’attivismo intersezionale e sulla costruzione artigianale di tamburi, fino al Migrantour a Porta Palazzo. Il momento più corale è stata la Cena delle Cittadinanze, che ha visto 700 persone condividere piatti e storie, seguita dal concerto dei The Brothers’ Keepers. Parallelamente, diverse mostre hanno accompagnato l’intera durata del Festival, dando spazio a fotografi, collettivi e artisti rifugiati. L’appuntamento con l’ottava edizione del Festival delle Migrazioni è fissato a settembre 2026. Un tempo che servirà a consolidare il percorso costruito in questi anni e a rafforzare la rete di realtà artistiche, sociali e associative che hanno reso possibile questa esperienza. Il Festival è ideato e organizzato da Almateatro e A.M.A. Factory, con il sostegno della Fondazione Compagnia di San Paolo, del Ministero della Cultura – Direzione Generale Spettacolo, della Città di Torino, di Legacoop Piemonte e Iren, oltre a un’ampia rete di partner e collaborazioni che include associazioni, media indipendenti, fondazioni e collettivi. In un contesto politico e sociale in cui le migrazioni sono spesso ridotte a slogan e paure, il Festival delle Migrazioni ribadisce la necessità di creare spazi di ascolto, racconto e incontro. Un luogo dove le persone in movimento non sono oggetti di narrazione, ma soggetti che prendono parola attraverso l’arte, la memoria e la testimonianza. Un laboratorio di cittadinanza e di diritti che guarda già al 2026 per continuare a mettere il cuore oltre gli ostacoli.
CPR di Palazzo San Gervasio: liberato il cittadino dominicano dopo l’ingiusta convalida del trattenimento
Il Giudice di Pace di Melfi convalidava illegittimamente il trattenimento di un cittadino dominicano e avverso il provvedimento veniva proposta istanza di riesame, la quale veniva accolta il 16.8.2025; nelle more del primo ricorso, il GdP di Roma con decreto dell’8.8.2025 accoglieva l’istanza di sospensiva proposta nel ricorso avverso l’espulsione. Giudice di Pace di Melfi, decreto del 16 agosto 2025 Giudice di Pace di Roma, decreto del 8 agosto 2025 Si ringrazia l’Avv. Antonello Andriuolo per la segnalazione e il commento. LA VICENDA DEL RICORRENTE Il 21.7.2025 alla Stazione Termini di Roma viene fermato un cittadino dominicano e dagli accertamenti della Polizia risulta che la Questura di Terni aveva disposto la revoca del permesso di soggiorno UE per la convivenza con una cittadina italiana, nonostante il permesso fosse stato rilasciato dalla Questura di Catania. Il Prefetto di Roma dispone l’espulsione e il competente Questore l’immediato ordine di trattenimento presso il CPR di Palazzo San Gervasio. La Polizia desume la sua pericolosità sociale sulla base di lievi precedenti penali risalenti al periodo della minore età e antecedenti al rilascio del PdS. La Questura di Roma non permette in alcun modo al cittadino dominicano di richiedere un permesso per motivi di famiglia, di lavoro o attesa occupazione, nonostante vi fossero i presupposti. Il trattenimento viene ingiustamente convalidato dal GDP di Melfi, competente per il CPR di Palazzo San Gervasio, e il sottoscritto avvocato congiuntamente al suo cliente decidono di non richiedere la protezione internazionale (prassi molto diffusa all’interno del CPR di Potenza) e di procedere con il riesame considerata la superficialità del primo giudice di Pace che non ha nemmeno esaminato la documentazione prodotta nel fascicolo telematico. Durante l’udienza di Convalida, il sottoscritto difensore si limita a riportarsi all’atto e alla documentazione prodotta, e il GDP, costatato che il ricorrente ha un figlio e una madre naturalizzata italiana, in accoglimento del ricorso, ordina l’immediata liberazione del trattenuto. Nelle more viene proposta l’impugnazione del provvedimento di espulsione e il Giudice di Pace di Roma, letto il ricorso, accoglie l’istanza di sospensiva rinviando, per il carico di ruolo, all’udienza del 23.9.2025. Dopo oltre 14 anni che tratto la materia dell’immigrazione, ritengo che in tanti casi la richiesta di protezione internazionale, all’interno dei CPR, possa compromettere i diritti dei cittadini stranieri oltre che per il periodo di trattenimento anche perché, cessate le misure di trattenimento, in tanti casi, potrebbero restare privi di qualunque tutela. L’istanza di protezione internazionale va esperita, in estrema ratio, quando si intuisce che sta per essere rilasciato il lascia passare necessario al rimpatrio coatto. La richiesta di protezione non è uno strumento che deve essere utilizzato per trasferire la competenza del caso alla CDA competente, illudendo il trattenuto di poter avere un’altra possibilità di ottenere la cessazione delle misure di trattenimento. E’ necessario che il difensore tuteli il diritto di soggiorno dello straniero anche dopo la sua liberazione dandogli la possibilità di avere un titolo di soggiorno altrimenti al primo controllo delle forze dell’ordine potrebbe essere nuovamente sottoposto alle misure di trattenimento.
Rimpatri, la nuova stretta dell’UE: «Un regolamento disumano che va respinto»
L’11 marzo 2025 la Commissione Europea ha presentato una nuova proposta di Regolamento sui Rimpatri che, dietro la veste burocratica e il linguaggio tecnico, punta a definire un’Europa più oppressiva e punitiva. Questo regolamento è destinato a sostituire l’attuale Direttiva Rimpatri e per impianto ideologico strizza l’occhio ai promotori del Remigration Summit e alle politiche trumpiane, rafforzando un modello che non ha nulla a che vedere con la tutela dei diritti, ma si allinea alla propaganda securitaria e la normalizzazione di pratiche autoritarie. La logica dichiarata è quella di aumentare i tassi di espulsione, la sostanza è un sistema che poggia i suoi pilastri su detenzione, deportazioni e sorveglianza. Non un testo amministrativo, bensì un manifesto politico che considera la mobilità umana una minaccia e la trasforma in un problema di ordine pubblico. Oltre duecento organizzazioni europee hanno deciso di denunciare il Regolamento con un documento congiunto che smaschera la natura reale della proposta: “Il regolamento sull’espulsione fa parte di un cambiamento nella politica migratoria dell’UE che caratterizza il movimento umano come una minaccia per giustificare deroghe alle garanzie dei diritti fondamentali”, si legge nell’introduzione. Lo statement entra nel dettaglio punto per punto, mostrando la portata devastante delle misure. La prima “novità” riguarda la possibilità di espellere persone considerate irregolari verso paesi terzi in cui non hanno mai vissuto e con cui non hanno alcun legame personale, una pratica che distruggerebbe famiglie e comunità e che aprirebbe la strada a veri e propri centri di rimpatrio offshore, luoghi di detenzione al di fuori dell’UE in cui la tutela dei diritti diventerebbe un miraggio. In pratica, un’estensione e normalizzazione del cosiddetto “modello Albania”. Un altro punto riguarda la sorveglianza generalizzata: gli Stati membri sarebbero obbligati a mettere in atto sistemi di individuazione delle persone irregolari, alimentando così profilazioni razziali, retate di polizia, paura nelle comunità migranti. Un ulteriore elemento è l’estensione della detenzione amministrativa fino a 24 mesi, che colpirebbe indiscriminatamente minori, soggetti vulnerabili e persone che non possono essere espulse: una gravissima violazione del diritto internazionale e della dignità umana.  Il testo denuncia poi l’introduzione di misure punitive e coercitive sproporzionate: multe, restrizioni, divieti di ingresso e accesso ai servizi, fino alla negazione di prestazioni essenziali, con il paradosso di penalizzare chi non può adempiere a obblighi materiali impossibili, come l’ottenimento di documenti in caso di apolidia. Si colpisce anche il diritto di ricorso, eliminando la sospensione automatica delle espulsioni: in questo modo diventa quasi impossibile difendersi da un rimpatrio forzato. Infine, critica l’uso massiccio della sorveglianza digitale, con tracciamenti GPS, raccolta e condivisione di dati sensibili – inclusi quelli sanitari – anche con paesi terzi privi di tutele adeguate, creando un mercato redditizio per le multinazionali della sicurezza e della tecnologia. Le organizzazioni rigettano l’intero regolamento in modo netto: “Non risolverà nulla, ma produrrà solo più irregolarità, più marginalità, più esclusione sociale”.  «Questo regolamento aprirà la strada a un regime distopico di detenzione e deportazione, con decine di migliaia di persone rinchiuse nei centri di detenzione per migranti in tutta Europa, famiglie separate e persone inviate in paesi che non conoscono nemmeno – denuncia Silvia Carta, Advocacy Officer del PICUM – i legislatori dell’UE devono respingerla e lavorare invece su misure che promuovano l’inclusione sociale e la regolarizzazione delle persone costrette a vivere in un limbo legale». Le realtà associative e i movimenti accusano le istituzioni europee di alimentare sentimenti razzisti e xenofobi, di favorire gli interessi economici di chi lucra sui centri di detenzione e sui sistemi di sorveglianza, di sacrificare i diritti sull’altare della propaganda securitaria. Lo statement sottolinea l’assenza di una valutazione di impatto sui diritti fondamentali, evidenziando che si tratta di una proposta costruita senza consultazioni, senza trasparenza, senza rispetto delle stesse regole procedurali che la Commissione dice di voler applicare. “È la conferma di una scelta politica precisa: continuare a investire nella paura e nella punizione invece che nella protezione e nell’inclusione”. Le alternative esistono. Le organizzazioni chiedono di rafforzare i canali regolari di ingresso, di ampliare i permessi di soggiorno basati sui diritti, di garantire accesso alla salute, alla casa, al lavoro dignitoso, di costruire comunità forti e inclusive. «In un momento in cui le politiche di esclusione avanzano, chiediamo un rinnovato impegno verso la solidarietà e i diritti umani la sicurezza non può fondarsi sulla paura e sulla discriminazione, ma solo sull’inclusione, il rispetto e pari opportunità”, afferma Giovanna Cavallo, coordinatrice del Forum per Cambiare l’ordine delle cose e della Road Map per il Diritto d’Asilo e la Libertà di Movimento.  Il documento si chiude con una richiesta inequivocabile: il ritiro immediato della proposta e un’inversione di rotta radicale. Perché un’Europa che si definisce democratica e fondata sul rispetto dei diritti non può scegliere la strada della detenzione di massa e della deportazione. Perché la vera sicurezza non nasce dai muri, ma dalla giustizia sociale. Perché le vite delle persone non sono numeri da espellere, ma priorità da difendere. Lo scenario prossimo è quindi stretto tra questo Regolamento il nuovo e criminale Patto europeo su migrazione e asilo. Segnali inequivocabili di una trasformazione profonda: i governi europei, seppur in modo contradditorio, non parlano più di accoglienza, integrazione o protezione internazionale, ma di rimpatri di massa, detenzione e deportazioni. Un evidente spostamento a destra che occorre contrastare in tutti i modi possibili, attraverso l’attivazione sociale e politica, alleanze transnazionali tra movimenti e soprattutto momenti comuni di mobilitazione. Serve organizzarsi e lottare insieme, in Europa e oltre i suoi confini. Un primo appuntamento di rilievo è già stata lanciata dal Network Against Migrant Detention (NAMD) per l’1 e 2 novembre in Albania: “A due anni dalla firma del memorandum Rama-Meloni torneremo a Tirana, Gjadër e Shëngjin per contestare le deportazioni fasciste e per chiedere la chiusura definitiva dei CPR e le politiche di deportazione”. > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da Network Against Migrant Detention > (@networkagainstmigrantdetention)
ReSST lancia ciclo di webinar per riaffermare dignità e diritti delle persone sopravvissute a tortura
Se c’è una urgenza che torna con forza nella discussione pubblica, è quella di non lasciare sole le persone che hanno subito torture: nel corpo, nella mente, nelle relazioni, nei loro percorsi quotidiani. È da questo bisogno che nasce “ReSST – Rete di Supporto per le Persone Sopravvissute a Tortura”, che promuove un ciclo di webinar dedicato a prendersi cura, sostenere, riflettere. Comunicati stampa e appelli TORTURA: NASCE LA RESST, LA RETE ITALIANA PER SUPPORTARE I SOPRAVVISSUTI A TORTURA Il comunicato delle realtà fondatrici Caritas, Ciac, La Kasbah, MCT, MSF, MEDU, Naga, SaMiFo 8 Aprile 2025 Un percorso formativo gratuito e aperto rivolto a operatori e operatrici dell’accoglienza, professionisti della salute mentale, avvocati, mediatori, chiunque lavori a contatto con i rifugiati, le persone migranti, le vittime di tortura. Attraverso questi incontri, la Rete intende diffondere buone pratiche, modelli di presa in carico efficaci, strumenti multidisciplinari, esperienze concrete messe in campo da organizzazioni che già operano sul territorio. IL CALENDARIO DEGLI APPUNTAMENTI 2025 23 settembre, ore 18Sopravvissuti a tortura: sfide e prospettive in vista dell’attuazione del Patto sulla Migrazione e l’Asilo dell’UEGianfranco Schiavone, esperto migrazioni; Caterina Bove, avvocata ASGI 28 ottobre, ore 18Geografia delle vulnerabilità: identificazione e supporto ai sopravvissuti a tortura sul territorio e nel sistema di accoglienzaChiara Peri (IPRS), Fabrizio Coresi (ActionAid) 25 novembre, ore 18La certificazione medico-legale sugli esiti di tortura e il Protocollo di IstanbulCristina Cattaneo (Labanof), Duarte Nuno Vieira (Università di Coimbra, esperto forense ONU) La partecipazione è gratuita. È sufficiente registrarsi per ricevere i dettagli del collegamento.
Il CPR di Palazzo San Gervasio sotto la lente d’ingrandimento del Garante Nazionale
Sono stati pubblicati alla fine di agosto i rapporti stilati dalla delegazione del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale che il 12 e 13 dicembre ha fatto visita ai Centri di Permanenza per i Rimpatri di Palazzo San Gervasio e Bari – Palese 1. Si tratta di documenti importanti intanto per l’autorevolezza dell’Autorità che ha provveduto alla loro redazione, ma anche per i contenuti che confermano, se ancora ve ne fosse bisogno, le gravi mancanze che tali strutture presentano. In questo articolo ci soffermeremo su quanto riscontrato dalla delegazione nel Centro di Palazzo San Gervasio, rimandando ad altro intervento l’analisi della visita effettuata presso la struttura detentiva di Bari – Palese. LA VISITA PRESSO IL CPR DI PALAZZO SAN GERVASIO Il 12 dicembre 2024 una delegazione del Garante Nazionale, composta dl prof. Mario Serio e dalle dott.sse Elena Adamoli e Silvia Levorato, ha avuto accesso al CPR di Palazzo San Gervasio e nel corso dell’accesso ha avuto modo di interloquire con il Funzionario responsabile del dispositivo di vigilanza, con la responsabile dell’Ufficio immigrazione e con la responsabile dell’ente gestore – Cooperativa Officine Sociali, ma anche con diverse figure professionali presenti nella struttura. Assente invece la Prefettura di Potenza che, come riporta il rapporto, “non è stata in grado, per esigenze di ufficio, di inviare un proprio funzionario”. Un’assenza che non stupisce chi conosce le dinamiche del Centro di Permanenza di Palazzo San Gervasio ed è costretto a scontrarsi con le costanti assenze e i colpevoli silenzi della Prefettura di Potenza. La relazione pubblicata nel mese di agosto, dopo il preventivo invio alle autorità preposte ad effettuare osservazioni (Prefettura e Questura di Potenza) si compone di più parti, alcune destinate a fornire le informazioni generali sulla struttura visitata, altre ad analizzare singoli aspetti della vita dei trattenuti e dei servizi offerti (condizioni materiali, tutela della salute, assistenza psicologica e sociale, qualità della vita detentiva e contatti con il mondo esterno, sicurezza, diritto all’informazione e accesso alla giustizia). Per ognuna delle sopra indicate sezioni, oltre ad un’analisi della situazione riscontrata, la delegazione effettua una serie di raccomandazioni al fine di risolvere e migliorare le criticità riscontrate. CONDIZIONI MATERIALI DELLA STRUTTURA Con specifico riferimento alle condizioni materiali, il Garante evidenzia come la struttura appaia connotata da scarsità di arredi, sbarre alle finestre e una copertura metallica a maglia molto fitta intorno ai moduli abitativi. Si tratta di un rilievo già effettuato in passato dallo stesso ufficio del Garante Nazionale, oltre che dai rapporti pubblicati da ASGI 2 e da CILD 3 negli anni scorsi. I moduli abitativi sono 14 e sono circondati da alte cancellate perimetrali. Un’area abitativa è vuota e viene utilizzata solo nel caso in cui si renda necessario sfollare temporaneamente un settore per interventi di riparazione. I moduli visitati sono privi di spazi di socialità/mensa come invece richiede il Regolamento sui CPR all’art. 4, paragrafo 4, lett. G 4. Gli ambienti, inoltre, si presentano molto bui a causa della copertura fitta dell’area esterna. Non vi sono campanelli di chiamata utilizzabili per chiedere interventi di urgenza del personale in casi di necessità (come malori, aggressioni, disordini) e questa appare una elementare violazione degli standard di sicurezza che appare ancora più significativa nel CPR di Palazzo San Gervasio per la conformazione della struttura e la distanza che sussiste tra i moduli detentivi e l’area medica o l’area in cui sosta il personale di polizia. Rispetto a tale situazione, la delegazione evidenzia come il Garante Nazionale abbia già in passato evidenziato tale situazione e ribadisce pertanto la necessità di dotare i moduli detentivi di campanelli di allarme. Per quanto riguarda invece gli ambienti esterni ai moduli, la delegazione evidenzia le seguenti carenze: 1) assenza di locali per l’attività dell’informatore legale che è costretto a svolgere i colloqui con i trattenuti all’aperto davanti ai singoli moduli detentivi con i trattenuti oltre le sbarre; 2) la mancanza di ambienti per lo svolgimento di attività ricreative o formative. Di fatto, le attività vengono pianificate nell’unico locale disponibile nella palazzina uffici, la sala c.d. di degenza, utilizzata anche per i colloqui dello psicologo e dell’assistente sociale. Una sala che può ospitare non più di 4 persone. In alternativa le attività devono svolgersi all’aperto, quando possibile. Altra importante mancanza riguarda proprio la sala di degenza che dovrebbe essere adibita a “locale di osservazione sanitaria” per l’alloggiamento temporaneo di persone con particolari esigenze sanitarie. Tale locale appare privo dei requisiti minimi funzionali allo scopo cui è preordinata. Manca infatti un accesso diretto ai servizi igienici, presenta una scaffalatura occupata da faldoni e documentazione in uso allo psicologo, all’assistente sociale e all’informatore legale. Per completezza e in aggiunta a quanto rilevato dalla delegazione nel mese di dicembre del 2024, possiamo dire che da diversi mesi la situazione è addirittura peggiorata. Infatti, come denunciato da ASGI in una missiva inviata alla Prefettura di Potenza che non ha ottenuto alcuna risposta, da diversi mesi la c.d. sala di degenza viene utilizzata anche per i colloqui difensivi essendo stata occupata la sala che in precedenza veniva utilizzata dagli avvocati per incontrare i propri assistiti. Per quanto riguarda invece l’infermeria, la delegazione ha evidenziato la mancanza di un lavandino nella sala dove vengono effettuare le visite e somministrati i farmaci in violazione della normativa che prescrive i requisiti minimi che deve possedere un Ambulatorio medico, ed in particolare un lavandino con rubinetto a pedale. Appare singolare che nelle visite e accessi compiuti dalle autorità chiamate a vigilare sul CPR di Palazzo San Gervasio, tale mancanza non sia mai stata evidenziata. Strano che gli addetti dell’ASP e delle altre autorità di controllo non abbiano mai rilevato tale mancanza che appare particolarmente grave. TUTELA DELLA SALUTE Dalle informazioni raccolte dalla delegazione nel corso della visita anche a seguito del colloquio con il medico di turno, sono emerse difficoltà relative alle verifiche sanitarie preliminari da effettuare al momento dell’ingresso e la mancanza di documentazione sanitaria attestante i problemi di salute e le terapie in corso da parte degli stranieri che vengono condotti nella struttura. Una situazione che riguarda soprattutto i soggetti tossicodipendenti i quali fanno accesso alla struttura senza una preventiva, reale e concreta verifica della loro condizione e, quindi, della loro compatibilità con la vita ristretta. Particolarmente gravi appaiono le dichiarazioni della direttrice del Centro che riferisce alla delegazione in visita di aver avuto indicazione di accettare in ingresso nel CPR anche persone che giungono senza visita medica. Tale situazione sarebbe avvalorata da quanto sostenuto dal protocollo sottoscritto dalla Prefettura di Potenza, dalla Questura di Potenza, dall’Azienda ospedaliera San Carlo di Potenza e dall’Ente gestore, che consente di effettuare la visita anche nelle successive 48 ore, ma si pone in contrasto con la Direttiva Lamorgese contenente il Regolamento sui CPR, che prevede un termine di 24 ore. Il Garante, pertanto, raccomanda di allinearsi a quanto previsto dal Regolamento CPR garantendo la visita di idoneità al massimo nelle 24 ore successive all’ingresso nel Centro. Ma le mancanze rilevate non si limitano a questo. Il Garante evidenzia anche la prassi in uso presso il CPR di Palazzo San Gervasio di consentire che lo screening sanitario in ingresso sia effettuato dall’operatore sanitario presente al momento, considerato che la presenza del medico è garantita soltanto per 35 ore settimanali. Tale differimento della visita medica è rischiosa e può arrecare danno alle persone che fanno il loro ingresso e anche alle persone che già sono trattenute nel Centro. Inoltre, oltre alle ragioni di opportunità a che tale prassi non venga seguita, vi sono anche ragioni di legittimità. La compilazione di una scheda medica da parte di personale che non riveste tale qualifica può considerarsi legittima? Ancora, sulle problematiche che attengono al diritto alla salute, si sottolinea nel rapporto che “anche alla luce della documentazione esaminata” e riguardante alcune segnalazioni pervenute al Garante, nella pratica la rivalutazione sanitaria può giungere con molto ritardo rispetto al manifestarsi delle vulnerabilità e soprattutto che, “nel caso di valutazioni psichiatriche, il medico si limita a stabilire una terapia senza interrogarsi sulla compatibilità delle condizioni di salute della specifica persona con la misura restrittiva cui è sottoposto”. Mancano inoltre protocolli di trattamento delle vulnerabilità e del rischio suicidario e in caso di azioni di autolesionismo ci si limita ad aumentare i colloqui con psicologo e assistente sociale. Un paragrafo, poi, è dedicato anche alla fase delle dimissioni dei trattenuti e alle assurde condizioni in cui queste avvengono. Sul punto il Garante evidenzia come le prassi in uso presso il CPR di Palazzo San Gervasio violino la disciplina di settore per i rimpatri e, in casi specifici, anche le raccomandazioni mediche. QUALITÀ DELLA VITA DETENTIVA E CONTATTI CON IL MONDO ESTERNO Nonostante un programma di iniziative previste per il giorno della visita (attività all’aperto, art therapy, giochi di società, calcio, gruppo di psicoterapia e corso di lingua italiana), la delegazione fa rilevare nel rapporto che “fatto salvo l’accesso al campo sportivo, le attività programmate il giorno della visita non avevano luogo concretamente, mentre psicologo e assistente sociale si limitavano a passeggiere accanto ai settori per qualche colloquio con gli stranieri”. Tale affermazione riassume perfettamente la realtà del Centro di Palazzo San Gervasio dove è facile riscontrare una costante discrasia tra quanto formalmente dichiarato e quanto concretamente attuato. D’altra parte, la mancanza di strutture, di spazi idonei, di convenzioni con associazioni esterne, rende la realizzazione di attività ricreative, sociali e culturali una semplice utopia. Quanto alla possibilità di mantenere rapporti con il mondo esterno, questa è fortemente limitata, se non addirittura preclusa, dalla prassi in uso presso il Centro di requisire i cellulari personali al momento dell’ingresso. L’unica possibilità di comunicare con il mondo esterno è data dall’utilizzo di un cellulare (non smartphone) che deve essere condiviso dagli ospiti dei singoli moduli. Tale condizione crea tensioni tra i trattenuti per l’utilizzo del telefono e limita anche la possibilità di comunicare con familiari e con il difensore. Per questo il Garante raccomanda di assicurare alle persone trattenute la libertà di corrispondenza che al momento appare limitata fortemente e si invita a garantire anche la possibilità di effettuare videochiamate. DIRITTO ALL’INFORMAZIONE E ACCESSO ALLA GIUSTIZIA Oltre alle condizioni di estrema precarietà che contraddistinguono la somministrazione della informativa legale da parte degli operatori legali, la delegazione ha evidenziato nel rapporto anche l’esiguità del Regolamento interno del Centro che si limita a riproporre alcune norme del Regolamento ministeriale senza aggiungere altro e senza regolamentare nello specifico il trattamento riservato ai soggetti trattenuti nella struttura di Palazzo San Gervasio. Assente nel regolamento è ogni riferimento ai controlli per il rinvenimento di oggetti vietati, o la custodia degli effetti personali, ma anche le modalità di presentazione di domante da parte dei trattenuti (istanze, reclami, richieste di protezione internazionale). Allo stesso modo non vi sono regole scritte che determinano le procedure di nomina dell’avvocato di fiducia, i colloqui e le visite, le modalità di comunicazione con l’esterno, l’accesso ai servizi, la fruizione delle attività, l’acquisto di beni, le regole di comportamento e di convivenza, la consultazione del cellulare personale. > In mancanza di norme scritte e precise, prevale la discrezionalità o > addirittura l’arbitrarietà. Tra le mancanze più importanti rilevate rispetto all’accesso alle informazioni e al diritto di difesa, oltre alla mancanza di mediatori culturali in grado di parlare il portoghese o le lingue asiatiche (Hindi, urdu, farsi, pshtu), lingue utilizzate da una quota non trascurabile di stranieri trattenuti, spicca la mancanza di pratiche tempestive per consentire la registrazione della volontà di chiedere la protezione internazionale. La prassi in uso presso il CPR di Palazzo San Gervasio prevede che lo straniero debba fare richiesta di colloquio con l’Ufficio immigrazione per il tramite del personale dell’ente gestore e che solo in sede di colloquio con l’Ufficio immigrazione viene presa in considerazione e formalizzata la richiesta di protezione internazionale. Considerando che l’Ufficio immigrazione non è operativo dal sabato pomeriggio al lunedì mattina, è facile che passino diversi giorni prima che una richiesta di colloquio venga presa in carico. Quanto poi al diritto di assistenza legale, il Garante evidenzia nel rapporto la necessità di inserire nel regolamento del Centro le modalità di nomina del legale di fiducia, che sia l’ente gestore a raccogliere le nomine e, infine, che la nomina venga tempestivamente comunicata al difensore incaricato. CONCLUSIONI Ancora una volta, il Garante nazionale ha evidenziato la presenza di gravi mancanze e di criticità all’interno del Centro di Permanenza per i Rimpatri di Palazzo San Gervasio. Criticità che riguardano la struttura e la gestione della stessa, ma anche la mancanza di controlli da parte delle autorità che dovrebbero vigilare sul rispetto delle regole all’interno del Centro. La compressione di diritti fondamentali come quello ad una compiuta informazione legale o quello alla tutela della salute, anche dopo gli episodi numerosi e reiterati che sono stati segnalati in questi mesi, ma soprattutto dopo il decesso del povero Oussama Darkaoui il 5 agosto 2024 5, non sono più giustificabili, accettabili, tollerabili. Il rapporto della visita compiuta dalla delegazione del Garante nazionale lo scorso 12 dicembre, rappresenta l’ennesima dimostrazione che il CPR di Palazzo San Gervasio è un luogo strutturalmente patogeno e che troppe sono le omissioni da parte delle autorità a vari livelli. 1. Leggi il rapporto sulle visite effettuate ai Cpr di Palazzo San Gervasio e di Bari il 12 e il 13 dicembre 2024 ↩︎ 2. Diritti negati al CPR di Palazzo San Gervasio. Report e raccomandazioni di ASGI – 17 giugno 2022 ↩︎ 3. Buchi neri. La detenzione senza reato nei CPR – 15 ottobre 2021 ↩︎ 4. Si veda la direttiva ↩︎ 5. Oussama Darkaoui, un anno dopo: il ricordo, la lotta, la speranza ↩︎
Il diritto al rispetto della vita privata e familiare come fondamento della protezione speciale, anche dopo il d.l. 20/2023
I decreti del Tribunale di Roma qui raccolti offrono un quadro significativo del ruolo che la protezione speciale (art. 32, co. 3, d.lgs. 25/2008) continua a rivestire nell’ordinamento italiano, nonostante gli interventi legislativi volti a ridurne la portata. In tutti e tre i casi i giudici romani, pur escludendo i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, hanno valorizzato l’obbligo per l’Italia di rispettare i vincoli costituzionali e internazionali in materia di diritti umani, in particolare il diritto al rispetto della vita privata e familiare sancito dall’art. 8 CEDU e dall’art. 5, co. 6, T.U. immigrazione. I giudici ricostruiscono le vicende personali dei richiedenti, ne riconoscono la credibilità e accertano l’esistenza di un percorso di inserimento sociale e lavorativo in Italia sufficiente a far scattare il divieto di espulsione e quindi il diritto alla protezione speciale. Le decisioni si inseriscono in una giurisprudenza ormai consolidata che interpreta la protezione speciale come strumento di garanzia dei diritti fondamentali, capace quindi di sopravvivere alle restrizioni normative introdotte dal d.l. 20/2023, proprio in virtù del suo fondamento costituzionale e sovranazionale, riconoscendo la centralità del diritto al rispetto della vita privata e familiare previsto dall’art. 8 CEDU. Nello specifico, per i due richiedenti asilo tunisini è riconosciuta in ragione del percorso di integrazione in Italia (studio della lingua, iscrizione a corsi di formazione, inserimento lavorativo), ritenuto sufficiente a fondare il diritto al rispetto della vita privata e sociale ai sensi dell’art. 8 CEDU, e come valorizzazione del radicamento in Italia. Tribunale di Roma, decreto del 24 aprile 2025 Tribunale di Roma, decreto del 7 luglio 2025 Anche per il ricorrente del Senegal, viene riconosciuta grazie al concreto percorso di integrazione in Italia (contratti di lavoro regolari, autonomia abitativa, corso di lingua italiana), che renderebbe sproporzionata l’espulsione rispetto alla tutela della vita privata e familiare. Tribunale di Roma, decreto del 16 luglio 2025 Si ringrazia l’Avv. Eugenio Francesco Caputo per la segnalazione. * Consulta altre decisioni relative al riconoscimento della protezione speciale