Testimoni--------------------------------------------------------------------------------
Foto di Mediterranea
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Martedì sera 6 maggio ricevo un messaggio da David, mio compagno e fratello
della rete RefugeesinLibya. “Bro, guarda”. È un video. Una donna con in braccio
un bimbo, accovacciata in un androne lurido, la luce scarsa. Sussurra quasi, in
una lingua che non conosco. Si vede un’altra ragazza vicino a lei, distesa a
terra. David mi scrive. “È chiusa nel lager di Almasri, con lei tante altre
mamme con i bambini. Le hanno catturate in mare, hanno fatto dei morti. Adesso
le chiedono il riscatto”.
Il 2 maggio, di mattina presto, Fatima con il suo bambino, insieme alla sorella
Rakuya, più giovane di lei, sale sul barcone di legno ancorato a cento metri dal
bagnasciuga della spiaggia di Sabratha. Provo a immaginare quello che nel
messaggio non è scritto. Ha dovuto tenere il bambino in alto, sollevarlo con le
braccia sopra l’acqua del mare, mentre i miliziani che gestiscono il business
dei viaggi, spingevano la gente avanti, ordinando di fare in fretta. 130, 140
persone per un vecchio peschereccio di legno, a due ponti, dove alla fine, dalla
stiva al tetto della plancia, non c’è più posto nemmeno per uno spillo. Quelli
in stiva devono premersi sulla faccia dei panni bagnati: il fumo del vecchio
motore diesel fa soffocare. È un paradosso quel motore: se i suoi pistoni
continuano a martellare, il fumo ti fa morire lì dentro. Se si ferma, e l’aria
può finalmente entrarti nei polmoni senza ucciderti, si ferma anche la pompa di
sentina, che è quella che butta fuori l’acqua altrimenti, pieno così, il barcone
affonda. David dice che loro, Fatima e sua sorella, sono profughe etiopi. Guardo
il bimbo nel video: avrà un anno. È nato in Libia.
La traduzione delle parole di Fatima la fanno tre persone diverse, che parlano
altrettante varianti dell’amarico, la lingua ufficiale. Ma magari è tigrino o
oromiffa. In Etiopia si parlano ottanta lingue e duecento dialetti diversi.
“Aiutateci, siamo all’inferno”. Appena dopo un’ora dalla partenza, i miliziani
stavolta in versione “guardia costiera”, hanno assaltato il barcone pieno di
gente. Hanno sparato raffiche di mitra. Qualcuno è morto subito, colpito
direttamente. Quando sei ammassato in quella maniera, dove scappi? Dove ti
ripari? Solo dietro ad altri corpi, se sei fortunato e quello davanti a te è
sfortunato. I colpi di mitra passano lo scafo, e incendiano il motore. “Una
ragazza è morta bruciata davanti a noi”, dice Fatima nel video.
Ritorno a immaginare. Un’ora di navigazione, con un barcone come quello che
massimo fa sei nodi, significa che li hanno catturati a sei miglia dalla costa.
Acque libiche. Gli stessi che si sono fatti dare i soldi per il viaggio, li
hanno venduti ai loro compari. Un sistema criminale come quello del “controllo
delle frontiere” ben congegnato. Questi banditi hanno ben compreso il concetto
di “massimizzazione dei profitti e minimizzazione del rischio”. Grazie ai
finanziamenti del memorandum Italia-Libia, e ai tanti viaggi del Falcon dei
servizi segreti carico appunto di “servizi” da rendere ai signorotti della
guerra libici, in otto anni gli “scafisti del globo terraqueo” si sono presi il
governo libico. Hanno puntato agli apparati di sicurezza: ministero degli
interni, polizia, marina militare e guardia costiera. Organizzano le partenze
forti del fatto che non esistono vie legali per un profugo, per una madre con
suo figlio, di lasciare la Libia verso l’Europa. I corridoi umanitari, che per
fortuna esistono ma solo grazie all’impegno della Chiesa, dei Valdesi e
dell’Arci, equivalgono a svuotare il mare con un cucchiaio. L’Unione Europea,
codarda in questo come in tutto il resto, è solo passacarte di chi ha preso
l’iniziativa, e cioè la premier dell’Italia. Che nonostante l’Onu, nonostante la
Corte Penale internazionale e nonostante quello che tutti sanno, ha deciso di
caratterizzare il suo “impegno” a dare la caccia agli “scafisti del globo
terraqueo”, riempiendo di milioni di euro i loro capi. D’altronde, a chi
importano le vite di quelle madri, di quei bambini? Come dice Piantedosi,
l’importante è che non partano.
Fatima e Rakuya sono registrate da UNHCR. Da anni. Come la stragrande
maggioranza. Hanno la certificazione da asilo immediato, venendo dall’Etiopia.
Eppure niente. Con David riusciamo, dopo molti tentativi, a prendere di nuovo la
linea. Parliamo con Rakuya, che ci spiega nel dettaglio. Quella che vediamo nel
video distesa a terra, è una ragazza che è morta. Il giorno dopo, ci dice
Rakuya, è morto anche un bimbo piccolo, che aveva bevuto molta acqua in mare. Li
hanno assaltati sparando, hanno catturato i sopravvissuti e li hanno portati nel
lager di “Osama”. Osama è il nome con il quale è conosciuto Almasri, il protetto
del governo italiano, che è “capo della polizia giudiziaria libica” e “direttore
del Al-Nasr Detention Center”, il lager di Zawhija, cinquanta chilometri a
nordovest di Tripoli. Ci facciamo mandare la posizione. Risulta da Google maps,
è quello. Il telefono con il quale ci hanno chiamato da quella prigione, è
l’unico che sono riusciti a tenersi, nascondendolo. I miliziani è la prima cosa
che fanno: spogliano tutti e tutte nudi, e sequestrano i telefoni:
l’addestramento gli ha insegnato che non devono rimanere tracce dei loro
crimini. A volte sono distratti, qualcuno gli sfugge. Hanno comunicato agli
internati che vogliono 6.000 dinari a testa per farli uscire da lì.
Ora non immagino più niente. La mia mente si rifiuta di pensare cosa faranno
alle donne adesso. Cosa faranno agli uomini. Cosa faranno ai bambini. Mandiamo
tutto alla Corte Penale Internazionale.
È questo il motivo per cui, per il governo italiano, siamo un “pericolo per la
sicurezza nazionale”. Per questo i servizi segreti ci spiano. In Libia non
vogliono testimoni. E nemmeno qui. Hanno ricevuto lo stesso addestramento si
vede.
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LEGGI ANCHE QUESTA NOTIZIA DI MEDITERRANEA S.H.:
Uccisioni in mare ad opera della cosiddetta guardia costiera libica e gli orrori
nel lager di Almasri, protetto dal governo italiano
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Luca Casarini, Mediterranea Saving Humans
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