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Tunisia: il confine invisibile d’Europa
Detenzioni arbitrarie, deportazioni e cooperazione UE: come la strategia di esternalizzazione alimenta violenze e violazioni dei diritti delle persone migranti. La Tunisia è uno dei principali Paesi di transito, ma anche di destinazione, per persone migranti, rifugiati e richiedenti asilo, provenienti principalmente dall’Africa sub-sahariana. In passato, le condizioni di vita di rifugiati e migranti erano considerate generalmente migliori rispetto a quelle di altri Paesi, come ad esempio la Libia. Dal 2023, tuttavia, in seguito alla decisione del governo di adottare un approccio più duro, la situazione è nettamente peggiorata.  Kaïs Saïed è in carica dal 2019, ma è nel 2021 che, sospeso il parlamento, ha cominciato a governare per decreto, tanto da parlare di “iper-presidenzialismo”, in cui l’opposizione politica è praticamente assente.  In questa situazione, la questione migratoria viene utilizzata politicamente per compattare la nazione contro un nemico comune, fomentando il razzismo già presente nella società tunisina.  Il presidente, infatti, ha dichiarato che l’arrivo di «orde di migranti illegali» dall’Africa sub-sahariana fa parte di un «piano criminale per cambiare la composizione demografica» 1 della Tunisia. Come ha sottolineato l’antropologa Kenza Ben Azouz, «Incolpando la comunità subsahariana senza affrontare in modo sostanziale la questione migratoria, egli si aggrappa a una logica populista e opportunistica» 2, in accordo con le diffuse (soprattutto in Europa) narrative di una presunta “sostituzione etnica”. Inevitabilmente, questi commenti «danno legittimità a chiunque voglia attaccare una persona nera per strada» 3, denuncia Saadia Mosbah. Quest’ultima, presidente dell’associazione Mnemty, è stata arrestata nel maggio 2024 4, mentre l’associazione, impegnata nella lotta contro il razzismo, è stata sottoposta, insieme a molte altre organizzazioni per i diritti umani, a un mese di sospensione delle attività 5.  E infatti è stato documentato un incremento di violenza contro i migranti africani, tramite raid, arresti arbitrari e detenzioni, ma anche deportazioni di massa ai confini con Algeria e Libia. Le persone migranti vengono abbandonate senza cibo e acqua ed esposte al rischio di rapimenti, estorsioni, lavoro forzato, violenza sessuale e perfino morte 6. Nonostante i richiami e le ingiunzioni al governo da parte delle Nazioni Unite, affinché migliorasse il trattamento delle persone senza cittadinanza e mettesse fine alla retorica xenofoba, il trattamento discriminatorio e violento continua, così come la propaganda razzista.  Ad aprile 2025, ad esempio, le autorità hanno smantellato i campi vicino Sfax, che ospitavano circa 7000 migranti sub-sahariani, dando fuoco alle tende prima di arrestarli e deportarli  7. L’incremento di questo tipo di azioni, insieme alla detenzione di rappresentanti delle organizzazioni della società civile e alla retorica xenofoba, coincide con il crescente supporto dell’Unione Europea per quanto riguarda il controllo del confine e la gestione dei flussi migratori, che è a sua volta parte della più generale strategia di esternalizzazione del confine europeo.  Una tappa fondamentale nella costruzione delle relazioni UE-Tunisia è stata il Memorandum d’intesa firmato a luglio 2023 dal presidente tunisino Kais Saied, dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, dalla premier italiana Giorgia Meloni e dall’ex-premier olandese Mark Rutte. Grazie a questo accordo la Tunisia ha ottenuto 105 milioni di euro dedicati alla gestione dei confini e alla “lotta contro l’immigrazione illegale” 8, che hanno finanziato anche la Guardia Nazionale tunisina, la quale, secondo un’indagine del The Guardian, ha sottoposto centinaia di migranti a stupri, pestaggi e altri abusi 9.  L’ultimo rapporto di Global Detention Project (GDP) e Forum Tunisien pour les droits économiques et sociaux (FTDES) 10, pubblicato a ottobre, fa luce proprio sulla situazione attuale e sulle numerose problematiche legate alla detenzione di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. L’utilizzo della detenzione per le persone in movimento è impiegato sistematicamente in Tunisia, anche se la legge tunisina non contiene disposizioni specifiche relative alla detenzione amministrativa per motivi di immigrazione o alla detenzione prima del rimpatrio. Il GDP e l’FTDES, infatti, hanno documentato ripetutamente l’uso di centri di detenzione informali nel Paese, nonostante l’assenza di qualsiasi base legale chiara per il loro funzionamento. Il Forum Tunisien pour les Droits Économiques et Sociaux (FTDES) è un’organizzazione tunisina indipendente, fondata nel 2011, che si occupa di difendere e promuovere i diritti economici, sociali e ambientali. Conduce ricerche, monitora politiche pubbliche e denuncia violazioni riguardanti lavoro, migrazioni, disuguaglianze regionali e giustizia sociale. È riconosciuto come una delle principali voci della società civile tunisina. Questi includono la struttura Al-Wardia, fuori Tunisi, e un’altra vicino a Ben Guerdane, utilizzata per raccogliere i migranti prima della loro deportazione in Libia. Sebbene le autorità designino alcuni siti come “centri di accoglienza e orientamento”, nella pratica essi funzionano come vere e proprie strutture di detenzione. Nel 2020, diverse organizzazioni, come Avocats Sans Frontières e Terre d’Asile Tunisie, hanno inviato degli avvocati al centro di Al-Wardia, i quali hanno riferito di essersi visti negare l’ingresso, confermando che per migranti all’interno non era possibile uscire 11. In seguito alle pressioni della società civile, 22 migranti sono stati rilasciati nel settembre dello stesso anno, ma le autorità hanno comunque continuato a trattenere i non-cittadini all’interno della struttura, compresi donne e bambini, nonostante manchino le basi legali per farlo 12.  Oltre a queste strutture, gli osservatori riportano anche l’uso di stazioni di polizia, sedi della polizia di frontiera e stazioni della polizia di frontiera aeroportuali e marittime per la detenzione di persone senza la cittadinanza tunisina. Rapporti attendibili indicano, inoltre, che un numero significativo di migranti subsahariani viene detenuto all’interno delle carceri del paese e nei “dépôts” (strutture di detenzione preventiva) a seguito della loro condanna per ingresso, soggiorno e uscita irregolari. Alcuni vengono trasferiti in centri di detenzione informali (senza autorizzazione giudiziaria), il che comporta sostanzialmente un allungamento significativo del periodo della loro reclusione 13. Pochi osservatori sono stati in grado di entrare in questi centri e quindi vi è una trasparenza molto limitata riguardo ciò che accade all’interno. Tuttavia, il GDP e l’FTDES hanno documentato in diversi rapporti le condizioni e i trattamenti che i non-cittadini, la maggior parte dei quali di origine subsahariana, devono affrontare durante la permanenza in queste strutture. Nel marzo 2023, France 24 ha pubblicato rapporti e foto dall’interno del centro Al-Wardia, che includono accuse di abusi fisici, grave sovraffollamento e spazio insufficiente per dormire 14. Gli osservatori riportano inoltre che i detenuti hanno difficoltà a contattare avvocati e interpreti, il che, combinato con il mancato obbligo delle autorità di informare i detenuti del loro diritto di fare ricorso, crea significative barriere all’accesso a qualsiasi forma di revisione giudiziaria significativa. A ciò si aggiunge che, poiché la legge tunisina non prevede la detenzione amministrativa, essa non contiene disposizioni riguardanti la durata massima della detenzione, lasciando i detenuti esposti al rischio di detenzione indefinita 15.  Persone migranti, rifugiati e richiedenti asilo detenuti nella struttura di Al-Wardia hanno inoltre segnalato violenze durante perquisizioni e arresti, trasferimenti verso altri siti non identificati e problemi, tra cui scarsa igiene, mancanza di cibo, confisca dei beni, stress psicologico. Inoltre, poiché il trattenimento legato all’immigrazione non è previsto dalla legge tunisina, non esistono nemmeno garanzie o protezioni formali per gruppi vulnerabili come i bambini, le vittime di tratta e i richiedenti asilo. Allo stesso tempo, tuttavia, la legge non prevede alcuna base giuridica per privare tali gruppi della libertà per motivi legati alla migrazione 16.  Inoltre, in assenza di un sistema nazionale di asilo, l’UNHCR ha condotto la registrazione dei richiedenti asilo e la determinazione dello status di rifugiato, ma queste procedure sono state sospese nel giugno 2024, lasciando molte persone bloccate senza uno status legale. Ciò ha lasciato centinaia di persone senza protezione ed esposte all’arresto e alla detenzione. I rapporti indicano che molti – in particolare quelli provenienti dall’Africa sub-sahariana – che intendono richiedere protezione vengono arrestati, detenuti e deportati senza avere l’opportunità di fare domanda di asilo.  L’FTDES e il GDP chiedono pertanto la ripresa immediata della registrazione delle domande di asilo e l’adozione di una legge nazionale sull’asilo conforme agli standard internazionali. Ritengono inoltre che le strutture di detenzione debbano essere chiuse immediatamente. Le organizzazioni che presentano la denuncia invitano inoltre le autorità ad adottare regole chiare e pubbliche per qualsiasi luogo in cui una persona sia privata della libertà: registrazione, informazioni in una lingua che il detenuto comprenda, accesso a un avvocato e a un interprete al momento dell’arrivo, certificato medico, separazione tra uomini e donne e visite regolari da parte di organizzazioni indipendenti. Senza trarre insegnamenti dai risultati devastanti della cooperazione con la Libia, l’attuale cooperazione UE-Tunisia in materia di controllo delle migrazioni ha portato al contenimento delle persone in un Paese in cui sono esposte a diffuse violazioni dei diritti umani. Questa cooperazione è ancora in corso a più di due anni di distanza, nonostante le allarmanti e ben documentate segnalazioni di violazioni. Tuttavia, dando priorità al controllo della migrazione a scapito del diritto internazionale, la collaborazione è stata celebrata dai funzionari europei come un successo, citando una significativa riduzione degli arrivi irregolari via mare di persone dalla Tunisia dal 2024 17. Come ha dichiarato Heba Morayef, direttrice regionale per il Medio Oriente e il Nord Africa di Amnesty International, «il silenzio dell’UE e dei suoi Stati membri di fronte a questi orribili abusi è particolarmente allarmante. Ogni giorno che l’UE persiste nel sostenere in modo sconsiderato il pericoloso attacco della Tunisia ai diritti dei migranti, dei rifugiati e di coloro che li difendono, senza rivedere in modo significativo la sua cooperazione in materia di migrazione, i leader europei rischiano di diventarne complici» 18. 1. Tunisia’s President Saied claims sub-Saharan migrants threaten country’s identity, Le Monde (23 febbraio 2023) ↩︎ 2. Cfr. Le Monde (23 febbraio 2023) ↩︎ 3. Cfr. Le Monde (23 febbraio 2023) ↩︎ 4. Affaire Mnemty : la justice tunisienne relance les poursuites, la société civile alerte, tunisienews (6 agosto 2025) ↩︎ 5. Suspension des activités de l’association Mnemty, BusinessNews (28 ottobre 2025) ↩︎ 6. Global Detention Project, “Tunisia: Detention and “Desert Dumping” of Sub-Saharan Refugees,” 8 luglio 2024 ↩︎ 7. Tunisia dismantles sub-Saharan migrant camps and forcibly deports some | Reuters, Reuters (5 aprile 2025) ↩︎ 8. EU-Tunisia Memorandum of Understanding ↩︎ 9. The brutal truth behind Italy’s migrant reduction: beatings and rape by EU-funded forces in Tunisia | Global development | The Guardian, The Guardian (19 settembre 2024) ↩︎ 10. Global Detention Project, “Tunisia: Issues Related To The Immigration Detention Of Migrants, Refugees, And Asylum Seekers”, ottobre 2025 ↩︎ 11. Note-juridique-El-Ourdia-VF.pdf, OMCT, “Note sur la détention arbitraire au centre de détention de migrants d’El-Ouardia,” 2023 ↩︎ 12. Tunisia, la denuncia: “Nei centri di detenzione illegale anche migranti bambini”, Dire (17 novembre 2025) ↩︎ 13. Note-juridique-El-Ourdia-VF.pdf, OMCT, “Note sur la détention arbitraire au centre de détention de migrants d’El-Ouardia,” 2023 ↩︎ 14. ‘They spit on us’: What’s really going on in the El Ouardia migrant centre in Tunis, France24 (13 marzo 2023). ↩︎ 15. Note-juridique-El-Ourdia-VF.pdf, OMCT, “Note sur la détention arbitraire au centre de détention de migrants d’El-Ouardia,” 2023 ↩︎ 16. En Tunisie, “les prisons sont remplies de migrants subsahariens” condamnés pour “séjour irrégulier” – InfoMigrants, Infomigrants (18 novembre 2024) ↩︎ 17. Answer given by Mr Brunner on behalf of the European Commission ↩︎ 18. Tunisia: Rampant violations against refugees and migrants expose EU’s complicity risk, Amnesty International (6 novembre 2025) ↩︎
Frontex conferma le responsabilità delle autorità bulgare nella morte di tre minori
A quasi un anno dalla morte di tre minori egiziani in Bulgaria, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali di Frontex (The Fundamental Rights Officer – FRO) ha pubblicato un report 1 che conferma il racconto di Collettivo Rotte Balcaniche e No Name Kitchen, identificando chiaramente la responsabilità diretta della polizia di frontiera bulgara per queste morti. Nel dicembre 2024, Ahmed Samra, Ahmed Elawdan e Seifalla Elbeltagy – tre minori egiziani – avevano comunicato ai gruppi solidali di trovarsi in condizioni di emergenza nella zona di Gabar, in Bulgaria, dopo aver attraversato il confine turco-bulgaro. Pur essendo stata avvisata con ripetute telefonate, la polizia di frontiera bulgara non solo non ha risposto alle chiamate, ma si è anche adoperata per bloccare i tentativi del Collettivo di raggiungere i tre minori, che sono poi morti di ipotermia. A quasi un anno di distanza, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali di Frontex conferma la versione delle organizzazioni solidali: “Le autorità bulgare avevano l’obbligo di assistere e soccorrere i migranti. Avendo informazioni sufficienti a determinare che essi si trovavano in pericolo di vita, essendo a conoscenza della loro posizione esatta e avendo i mezzi per intervenire, esse non hanno comunque adottato le misure necessarie in tempo, con il risultato che tre persone hanno perso la vita”. L’Agenzia europea rigetta inoltre la campagna di diffamazione avviata dal Ministero dell’Interno bulgaro dopo la pubblicazione del report Frozen Lives redatto dalle organizzazioni.  Rapporti e dossier/Confini e frontiere VITE CONGELATE AL CONFINE: LE RESPONSABILITÀ DELLE AUTORITÀ BULGARE E LA COMPLICITÀ DELL’UE Il rapporto di No Name Kitchen e del Collettivo Rotte Balcaniche Anna Bonzanino 5 Febbraio 2025 Secondo il Collettivo Rotte Balcaniche, inoltre la polizia di frontiera «ha intensificato il livello di criminalizzazione delle ONG, moltiplicando le indagini e gli arresti, in un chiaro tentativo di silenziare il lavoro di denuncia della violenza sul confine». Il documento di Frontex riconosce, inoltre che, al di là di questo evento specifico, la cosiddetta “incapacità” di compiere operazioni di ricerca e soccorso è in realtà una pratica di routine delle autorità bulgare. Negli ultimi anni, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali ha documentato ripetutamente le azioni della polizia di frontiera bulgara, affermando che “i pushback, spesso caratterizzati da alti livelli di violenza e trattamenti inumani o degradanti, sono una pratica quotidiana della polizia di frontiera bulgara” ed esprimendo una “profonda preoccupazione rispetto alle accuse ripetute nei confronti delle autorità bulgare di non rispondere in maniera appropriata alle chiamate di emergenza.” Tuttavia, il Collettivo ci tiene a sottolineare anche il ruolo strumentale di Frontex «che finanzia e collabora alle attività di controllo dei confini bulgari, si autoassolve nuovamente, scaricando la responsabilità dell’accaduto sulle autorità bulgare e utilizzando persino queste morti per richiedere un aumento della propria presenza in Bulgaria». Questa posizione viene definita contraddittoria, poiché il personale di Frontex opera legalmente sotto il controllo delle autorità locali: secondo il Collettivo, infatti, «i migranti intercettati da Frontex vengono poi espulsi in maniera illegale e violenta», mentre il personale dell’Agenzia «rischia di essere complice – o meglio è direttamente responsabile – di queste espulsioni». A partire da marzo 2025, Frontex ha inoltre «ripetutamente bloccato e seguito per ore squadre di ricerca e soccorso», impedendo loro di raggiungere le persone in movimento in condizione di emergenza. E ciò nonostante l’Ufficio per i Diritti Fondamentali riconosca il lavoro delle squadre civili come «autentico», denunciando al contempo i tentativi della polizia di ostacolarlo. Il Collettivo definisce però queste affermazioni come meri interventi superficiali, privi di ricadute operative: «Affermazioni come quelle dell’Ufficio restano soltanto cosmetiche se non accompagnate da azioni concrete». Da qui la richiesta di interrompere «immediatamente ogni collaborazione con e supporto alle autorità bulgare». Infine, un’eventuale inazione di Frontex sarebbe solo un’ulteriore conferma del carattere sistemico delle politiche europee di frontiera: «Se Frontex non adotterà misure adeguate, sarà una conferma in più che queste morti non sono state un incidente ma il risultato voluto e cercato di politiche di confine europee che, se non smantellate, possono soltanto uccidere». Dello stesso avviso anche No Name Kitchen che tramite la rappresentante Ric Fernandez afferma che «questi minori avrebbero potuto essere salvati, le stesse conclusioni di Frontex confermano l’esistenza di un sistema progettato per lasciar morire le persone alla frontiera, e chiunque sostenga tale sistema ne è responsabile». Anche NNK chiede a Frontex di sospendere immediatamente ogni cooperazione operativa con la polizia di frontiera bulgara, nonché di pubblicare i risultati completi del FRO e tutte le comunicazioni interne relative all’incidente, infine garantire di accertare la responsabilità per qualsiasi agente coinvolto nell’ostruzione dei soccorsi. «Questo caso non è una tragedia isolata. Esso mette in luce le carenze sistemiche nell’applicazione delle norme di frontiera dell’UE, dove le operazioni di Frontex e le autorità nazionali effettuano congiuntamente respingimenti illegali, pratiche violente e ostacoli ai soccorsi. Se Frontex continuerà a cooperare con le autorità bulgare nonostante questi risultati, confermerà che queste morti non sono incidenti isolati, ma il risultato prevedibile della politica dell’UE, una politica che continuerà a uccidere se non verrà modificata radicalmente», conclude No Name Kitchen. 1. Frontex Report – Serious Incident Reports Cat 1 ↩︎
Livorno, i ragazzi tunisini morti al porto sono vittime delle politiche di respingimento
Due giovani ancora senza nome sono morti nel porto industriale di Livorno. Era il 30 ottobre, intorno alle 13:30, quando i loro corpi sono stati risucchiati dalle eliche delle navi in manovra, nelle acque del canale tra la Darsena Toscana e il varco Zara.   I due ragazzi erano stati trovati poco prima dalla Polizia Marittima sulla nave Stena Shipper, battente bandiera danese, ma noleggiata dalla compagnia statale tunisina CoTuNav, proveniente dal porto di Radès. Erano arrivati a Livorno nascosti in uno dei container della nave.  Una volta scoperti, sarebbero stati reimbarcati sulla stessa nave e affidati alla custodia del comandante, in attesa di essere rimpatriati. Una riconsegna quindi “informale”, al di fuori di qualsiasi procedura operativa e prevista dalle normative, senza alcuna identificazione. Chiusi in una cabina a bordo, sarebbero riusciti a liberarsi e, nel tentativo disperato di evitare il ritorno in Tunisia, si sarebbero gettati in mare. Quel che è certo è che erano vivi, in Italia, quando la polizia di frontiera li ha fatti scendere dal cargo e poi risalire, per essere riconsegnati al comandante della nave. Nessun colloquio con un avvocato, nessun mediatore, nessuna informativa sui loro diritti. Nessuna possibilità di chiedere asilo, o anche solo di manifestare la volontà di farlo.  Le autorità parlano di una “procedura standard”, ma si tratta in realtà di un respingimento informale, una pratica che da anni si consuma silenziosamente nei porti italiani, probabilmente i più noti alle cronache sono quelli dell’Adriatico. Un’inchiesta di Lighthouse Reports, pubblicata nel gennaio 2023 1, grazie al lavoro del Network Porti Adriatici aveva infatti documentato decine di casi di rimpatri forzati – compresi minori non accompagnati – dai porti di Venezia, Ancona, Bari e Brindisi verso la Grecia, in violazione del diritto internazionale.  Anche a Livorno, il comportamento delle autorità sembra ricalcare lo stesso schema: quando i due giovani hanno capito che sarebbero stati rispediti indietro, hanno tentato di fuggire e si sono buttati in mare.  Appresa la notizia, i primi a chiedere di fare chiarezza sulla vicenda sono stati i sindacati e le associazioni. «Troppe cose ancora non tornano – hanno scritto Usb Livorno e la sezione locale di Asgi -: due ragazzi sono morti nel tentativo di conquistare una vita migliore. Non sappiamo niente di loro perché qualcuno ha deciso che non avevano diritto di parlare con un avvocato, un mediatore o un’associazione. Dopo averli fatti sbarcare e tenuti ore al varco portuale, li hanno rinchiusi in una cabina e, una volta tuffatisi in mare, sono morti affogati». Durante il partecipato presidio del 7 novembre al varco Zara, al quale ha preso parte anche il Sindaco della città, il rappresentante di Usb Livorno ha chiesto giustizia: «Vogliamo sapere chi ha deciso per il rimpatrio immediato, se c’è un decreto di espulsione, se davvero hanno chiesto, come alcuni testimoni affermano, di parlare con un avvocato. E perché, quando i loro corpi non erano ancora stati trovati, è stato autorizzato il passaggio di un’altra nave nel canale. Evidentemente, la vita di due persone vale meno dei traffici marittimi». Anche la Cgil Toscana e la Cgil Livorno hanno definito l’episodio l’ennesimo capitolo nero del fallimento delle politiche securitarie. «La criminalizzazione e l’etichetta di clandestino hanno sostituito l’umanità e le buone pratiche di accoglienza – si legge in una nota -. Occorre individuare le responsabilità di chi ha portato due ragazzi a gettarsi in mare piuttosto che affidarsi alle istituzioni». Il deputato Marco Grimaldi di AVS è intervenuto in Parlamento: «Lo Stato ha altri due morti sulla coscienza. Non gli è stato permesso di chiedere protezione internazionale, di vedere un medico, un avvocato. La polizia li ha caricati su una nave perché li riportasse in Tunisia. Si sono buttati in acqua e sono morti. Perché non hanno ricevuto cure e accoglienza? Perché non hanno avuto la possibilità di chiedere asilo?». Nel frattempo, la procura di Livorno ha aperto un fascicolo per omicidio colposo contro ignoti. Nessuno è al momento indagato. Il comandante della nave avrebbe dichiarato di aver “controllato i due migranti ogni venti minuti”. Asgi ha predisposto un esposto perché ci sia un’indagine accurata sulle procedure utilizzate e si chiariscano le responsabilità.  Secondo i dati pubblicati da Il Tirreno, nel porto di Livorno si registrano in media una ventina di respingimenti l’anno. Ma altre fonti parlano di più del doppio. Negli ultimi due anni – riferisce ancora il quotidiano – sono state rafforzate le barriere fisiche a chiusura della banchina destinata alle navi provenienti dal Nordafrica, per rendere più difficile l’accesso alle aree di sbarco. Dall’inizio del 2024, circa sessanta navi arrivate da Tunisi e Radès, molte delle quali appartenenti alla compagnia CoTuNav, hanno attraccato nello stesso punto. Il fenomeno strutturale dei respingimenti interessa sicuramente altri porti tirrenici, ma al momento non si hanno dati ufficiali.  Di sicuro il caso di Livorno non è isolato, ma un ulteriore tassello della pratica dei respingimenti informali che da anni si consuma nei porti italiani, tanto sull’Adriatico quanto sul Tirreno. Una pratica illegittima, che viola la Convenzione di Ginevra, l’articolo 10 della Costituzione e l’articolo 33 della Convenzione europea dei diritti umani, perché impedisce a chi arriva di esercitare il diritto di chiedere protezione internazionale.  Qualsiasi persona rintracciata in area portuale o prima dell’ingresso formale nel territorio nazionale deve essere informata dalle autorità della possibilità di presentare domanda d’asilo, ricevere assistenza legale e linguistica e non può essere rimandata in un Paese dove potrebbe rischiare persecuzioni o trattamenti inumani e degradanti.  La violazione è resa ancor più grave con due giovani che potevano essere ancora minorenni. Nulla di tutto ciò è accaduto e due ragazzi sono morti perché un sistema politico, culturale e amministrativo è strutturalmente razzista e seleziona chi può restare e chi deve essere respinto in base alla provenienza geografica, al colore e alla classe.  Chi parla di “incidente” o “fatalità” non vuole mettere in discussione questa nuda verità: le morti sono l’effetto diretto di un clima politico che favorisce delle scelte che riducono le persone a “irregolari” da espellere, senza alcuna valutazione ulteriore, senza il rispetto dei loro diritti. Scelte che ancora una volta hanno ucciso. 1. Respingimenti illegali dall’Italia alla Grecia: richiedenti asilo detenuti in prigioni segrete, Meltingpot.org ↩︎
Grecia. Quando i diritti diventano reato
Dal 2016, le autorità greche hanno avviato oltre cinquantatré procedimenti giudiziari e indagini nei confronti di organizzazioni della società civile e singoli individui impegnati in attività di assistenza alle persone in movimento. Nel solo 2023, trentuno persone sono state imputate per reati connessi a tali attività. Con procedimenti dalla durata media di circa tre anni e mezzo, la criminalizzazione della solidarietà da parte delle autorità greche incide profondamente sull’operato delle organizzazioni umanitarie e dei difensori dei diritti coinvolti, compromettendo altresì il pieno esercizio dei diritti fondamentali delle persone in movimento. Tale fenomeno si configura come una diramazione diretta del processo di securitizzazione 1 e, più specificamente, come manifestazione della criminalizzazione della migrazione, intesa quale insieme di politiche, norme e prassi amministrative che, fondendo il diritto dell’immigrazione con la logica punitiva del diritto penale, finiscono per trasformare la mobilità umana in una condotta di rilevanza criminale. Attraverso questo approccio, il governo greco ha progressivamente costruito un vero e proprio “diritto penale del nemico”, nel quale la persona migrante non è più riconosciuta come soggetto titolare di diritti, ma viene trattato come potenziale trasgressore, destinatario di un apparato sanzionatorio spesso privo delle garanzie procedurali proprie dello Stato di diritto. Emblematico, in tal senso, è l’emendamento n. 71 della Legge 5218 2 adottato dal governo greco nel luglio 2025, che ha sospeso per tre mesi la possibilità di presentare domanda d’asilo per le persone giunte via mare dal Nord Africa, nonché l’intervento normativo introdotto con la Legge 5226/2025 3, approvata nel mese di settembre 2025, che istituzionalizza la criminalizzazione del soggiorno irregolare. Approfondimenti/Confini e frontiere GRECIA, SOSPENSIONE DELL’ASILO E NUOVA RIFORMA RAZZISTA DEL GOVERNO MITSOTAKIS Atene anticipa la linea più dura del Patto UE Redazione 14 Agosto 2025 In risposta all’implementazione di questa legge draconiana e alle deportazioni da Creta dei richiedenti asilo senza alcun esame individuale delle loro domande, centootto organizzazioni della società civile hanno presentato ricorso cautelare dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 4. Le organizzazioni hanno denunciato la palese incompatibilità di tale sospensione con il diritto internazionale ed europeo, in particolare con il divieto assoluto di refoulement, ottenendo così l’emanazione delle misure provvisorie della Corte del 14 agosto 5, che hanno impedito la deportazione di otto richiedenti asilo sudanesi e, il 29 agosto 6, di quattro richiedenti asilo eritrei, tutti giunti a Creta. PH: Stop Pushbacks Lesvos (4.11.25) Questa vittoria della società civile rappresenta un trionfo dello Stato di diritto e dei diritti umani sulle logiche securitarie della politica migratoria greca. Tuttavia, il Ministro della Migrazione, Thanos Plevris, ha annunciato nuove misure per silenziare le critiche alle politiche del governo: le ONG potrebbero essere rimosse dal registro ufficiale se promuovono politiche migratorie contrarie, contestano decisioni come detenzioni amministrative o sospensioni delle procedure di asilo, o gestiscono i fondi in maniera ritenuta irregolare. Secondo le autorità, queste restrizioni sarebbero giustificate dalla presunta condotta “anticostituzionale” delle organizzazioni, accusate persino di consigliare ai migranti di ignorare l’ordinamento giuridico greco. In realtà, questa misura si inscrive perfettamente nel piano di criminalizzazione avviato dal governo ellenico con l’obiettivo di plasmare uno spazio civico sempre più ristretto per le organizzazioni operanti nell’ambito della solidarietà come evidenziato, tra l’altro, dal rapporto della Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i Difensori dei Diritti Umani 7, Mary Lawlor, già nel 2023. Tuttavia, contro la criminalizzazione governativa della società civile – che, oltre a danneggiare chi ha bisogno, mina il tessuto stesso della democrazia, come sottolineato da Human Rights Watch 8 – continuano a resistere numerose realtà di solidarietà attiva. Tra queste, a Lesbo, il Community Centre di Paréa (Europe Cares), dal greco “cerchio di amici”, a soli dieci minuti dal campo di Mavrovouni, ridà alle persone in movimento normalità, dignità e senso di comunità. Secondo il team, il centro rappresenta un memorandum quotidiano del potere del lavoro collettivo, uno spazio in cui volontari internazionali e della comunità migrante costruiscono insieme una vera comunità nella solidarietà. Oltre ai servizi offerti, Paréa promuove l’empowerment delle persone in movimento, anche attraverso la partecipazione politica. Un gruppo di volontari attivi sull’isola di Lesvos in Grecia, uniti per lottare contro i pushbacks delle persone in movimento nel Mar Egeo. La loro missione è creare consapevolezza, attraverso proteste e una campagna sui social media, per porre fine a queste pratiche. Profilo IG Il 4 novembre, a Mitilene (sull’isola di Lesbo), si è svolta una manifestazione e commemorazione contro la condotta illegale dei pushbacks in mare e le morti in mare, in seguito alla tragedia del 27 ottobre, che ha visto la morte di quattro persone nelle acque dell’isola. Volontari internazionali, persone in movimento e abitanti locali si sono radunati davanti al mare, ciascuno con una candela in mano, in un potente momento di memoria, solidarietà e resilienza. 1. Con il termine “securitizzazione” della migrazione si fa riferimento al processo attraverso il quale le persone in movimento vengono rappresentate e trattate come una minaccia esistenziale per l’identità nazionale, la sicurezza dello Stato e l’ordine pubblico. Tale processo si fonda su atti linguistici e pratiche istituzionali che mirano a trasferire la questione migratoria dal piano della gestione ordinaria a quello dell’emergenza e della sicurezza. In tal modo, si legittima una gestione eccezionale del fenomeno migratorio, spesso estranea alle procedure democratiche e ai meccanismi ordinari del diritto, e pertanto priva delle garanzie proprie dello Stato di diritto ↩︎ 2. Qui l’emendamento ↩︎ 3. Qui la legge ↩︎ 4. Ai sensi dell’articolo 39 del Regolamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il ricorso cautelare è una procedura d’urgenza volta all’ottenimento di un provvedimento idoneo a fronteggiare – e, se possibile, a prevenire – il rischio di un’imminente violazione di un diritto garantito dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ↩︎ 5. European Court of Human Rights blocks deportation of refugees detained by Greece under unlawful asylum suspension – RSA (agosto 2025) ↩︎ 6. New ECtHR decision: Greece prohibited from deporting refugees before they have had access to asylum procedure – RSA (settembre 2025) ↩︎ 7. Leggi il rapporto ↩︎ 8. Eva Cossé, (2025). “Greece’s Latest Assault on Civil Society. EU Action Needed to Protect Civic Space”, Human Rights Watch ↩︎
Il confine come laboratorio di impunità: il Policy Memo del BVMN sui Balcani
Il 22 settembre, il Border Violence Monitoring Network (BVMN) ha pubblicato Policy Memo: Strengthening Migration Governance Monitoring in the Balkans 1, un documento politico che ha preso forma nel corso della consultazione con l’Alto Commissariato ONU per i diritti umani. Rispondendo alla Risoluzione 57/14 del Consiglio dei diritti umani, l’Ufficio dell’Alto Commissariato ONU per i diritti umani (OHCHR) ha realizzato un’indagine sulla possibilità di monitorare gli effetti pratici delle politiche migratorie europee. In questo contesto, le Nazioni Unite hanno consultato organizzazioni della società civile per rispondere a una domanda complessa: è possibile trovare strumenti per rilevare e controllare le pratiche usate nella gestione dei flussi migratori? La relazione finale dell’OHCHR 2 nominava in modo esplicito il Border Violence Migration Network (BVMN) come soggetto in grado di svolgere questa funzione, specialmente nei contesti caratterizzati da scarsa accessibilità e ostacolo al monitoraggio (delle aree più remote, ma non solo), criminalizzazione e difficoltà nel contatto coi i decisori politici. Il Network è stato quindi una delle organizzazioni più ascoltate dell’OHCHR stessa nel corso dei suoi lavori. Nel contesto di questi, il BVNM ha consegnato alle Nazioni Unite una nota politica e risposte scritte alle domande più critiche sollevate sulle tecnologie usate per il controllo delle persone migranti. Nel Policy Memo, i Balcani in particolare sono individuati come zona di grave mancanza di accountability degli attori statali e di confini segnati da violenza e violazioni dei diritti umani 3. Gli unici soggetti che qui agiscono per cercare un cambiamento positivo sono organizzazioni della società civile, spesso criminalizzate e in difficoltà per la mancanza cronica di fondi e di spazi (reali e virtuali) dove diffondere il proprio lavoro e portare avanti azioni di sensibilizzazione del contesto sociale. In generale, gli Stati europei usano sparizioni forzate e pushback istantanei per nascondere i propri abusi sui migranti. Il Network e i suoi membri hanno rilevato 25.000 pushback da parte di 14 Paesi. Spesso le persone migranti vengono detenute in segreto in luoghi inadatti al fermo di qualsiasi soggetto: garage, caravan, stalle, edifici abbandonati e pericolanti, container di metallo e addirittura canili. Nel 2021 il 20% delle detenzioni dimostrate di persone migranti non erano comunicate formalmente, non seguivano le normali procedure per la detenzione di individui. Nel 2024, il BVMN ha raccolto prove di 19 detenzioni irregolari. In totale continuità con questa pratica è evitare di registrare le persone migranti detenute: diventano fantasmi che passano attraverso carceri (veri o improvvisati) senza lasciare traccia. Tra 2022 e 2024, il 96% delle persone migranti soggette a pushback in Grecia non era stata registrata dalle autorità. Questo meccanismo alimenta l’impossibilità di obbligare gli attori statali a rispondere del destino delle persone migranti sul loro territorio. Per creare poi maggior danno alle persone migranti e insieme nascondere meglio gli abusi da loro subiti, le autorità distruggono i loro beni personali (e sopratutto dei telefoni cellulari). Significa distruggere la loro possibilità di geolocalizzarsi, comunicare con la famiglia, dimostrare la loro identità, provare l’eventuale passaggio attraverso diversi Stati e raccogliere prove di violazioni dei loro diritti. In Croazia, il Network ha documentato vere e proprie pire di oggetti “migranti”. Questa pratica si inserisce all’interno di un contesto legislativo, amministrativo e spesso sociale che criminalizza la migrazione nel tentativo (mai riuscito) di scoraggiarla. Nel 2022, ad esempio, la Turchia ha deportato una ragazza siriana verso il Nord della Siria dopo che, per proteggerla, il fratello ha denunciato gli abusi fisici e verbali che lei subiva a scuola. Rispetto alla società civile, il BVMN ha rilevato che gli Stati costruiscono ostacoli (legislativi e di fatto) per impedire alle organizzazioni non-governative di monitorare la gestione dei flussi migratori e di effettuare operazioni di search and rescue a terra. In più, si impegnano nella criminalizzazione dei difensori dei diritti umani attraverso strumenti più o meno formali: ostacoli burocratici e amministrativi alla loro vita quotidiana, legislazioni sempre più restrittive, sorveglianza (non dichiarata), inchieste e procedimenti giudiziari non giustificati, campagne diffamatorie, aggressioni, atti di vandalismo, furti. Il tutto nella quasi completa impunità, perché anche in questo contesto le autorità continuano a sfuggire a qualsiasi meccanismo di controllo e di ottemperanza a politiche rispettose dei diritti umani. Nel Policy Memo, il Border Violence Migration Network suggerisce buone pratiche. Sottolinea particolarmente la necessità di integrare il lavoro di investigazione della società civile, delle ONG e dei difensori dei diritti umani nelle riflessioni e procedure delle grandi istituzioni (come l’ONU) per portare alla luce in modo più completo e capillare le violazioni dei diritti umani che gli Stati perpetrano (quasi) indisturbati ai danni delle persone migranti e per responsabilizzare in modo inderogabile i decisori politici. Suggerisce anche l’uso delle nuove tecnologie per verificare il destino e/o la posizione delle persone migranti scomparse. Ma proprio la tecnologia, sottolinea ancora il BVMN, ha una doppia valenza. Chiamato dal Consiglio ONU sui diritti umani a rispondere ad alcune domande riguardanti l’uso di nuove tecnologie nelle politiche migratorie da parte degli Stati, il Network ha infatti messo in luce alcune pratiche molto pericolose. Innanzitutto, la mancanza di trasparenza nell’implementazione di tecnologie per la consapevolezza situazionale nei sistemi di sorveglianza dei confini: i Governi non rendono noto in maniera completa quali strumenti tecnologici usano, in che quantità e modalità, dove lungo i confini li posizionano. La scusa è la “sicurezza nazionale”, spesso usata nei discorsi giustificanti la violenza contro le persone migranti e chi le aiuta e difende. Complesso è pure l’accesso a dati, fotografie, filmati raccolti da droni, radar e camere: spesso sono fatti scomparire, cancellati o nascosti, per evitare che servano in processi di denuncia e rivendicazione di diritti umani. A ciò si aggiunge l’evoluzione materiale di queste tecnologie, che ne rende molto difficile l’identificazione: a fronte di una sempre crescente precisione e velocità di rilevamento dati, hanno dimensioni sempre più piccole e aspetto sempre più anonimo. Infine, c’è l’uso allarmante di spyware per colpire organizzazioni e individui che difendono i diritti delle persone migranti. A febbraio 2025, diversi quotidiani italiani hanno riportato che i cellulari di circa 90 attiviste italiane e non sono stati infettati da Graphite, un software di spionaggio creato a scopi militari dall’azienda israeliana Paragon. In merito alla questione, il presidente esecutivo di Parago John Fleming ha dichiarato: la società «concede in licenza la sua tecnologia a un gruppo selezionato di democrazie globali, principalmente agli Stati Uniti e ai suoi alleati». Non ha fatto alcuna ulteriore specifica. Il Policy Memo: Strengthening Migration Governance Monitoring in the Balkans contiene un’ulteriore prova che il sistema di impunità costruito, alimentato e difeso da “democrazie” violatrici di diritti umani, discriminatorie e razziste è consistente e si sta evolvendo utilizzando strumenti di ultima generazione, pratiche che tendono alla “violazione invisibile” dei diritti umani e politiche che de-umanizzano le persone migranti mentre squalificano socialmente chi le aiuta. Il lavoro del Border Violence Migration Network dimostra anche che l’unico ostacolo a questa corruzione è la reazione della società civile. 1. Qui il documento ↩︎ 2. Leggi il documento ↩︎ 3. BVMN Monthly Report – August 2025 ↩︎
La CEDU condanna nuovamente la Croazia per le espulsioni illegali
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha nuovamente condannato la Croazia (caso Y.K. contro Croazia) per aver espulso un cittadino turco di etnia curda senza garantirgli l’accesso effettivo alla procedura d’asilo e senza dare la possibilità di ricorrere a un rimedio giuridico in grado di sospendere automaticamente la sua espulsione. La Corte ha riconosciuto la violazione dell’articolo 3 della Convenzione, che vieta trattamenti inumani o degradanti, e dell’articolo 13, che tutela il diritto a un ricorso effettivo, e ha disposto un risarcimento di 8.500 euro per danno morale e 3.300 euro per spese legali. Y.K., nato nel 1984, aveva raccontato di essere stato perseguitato e torturato in Turchia per il suo attivismo politico. Dopo essere fuggito dal Paese, nel febbraio 2021 era entrato irregolarmente in Croazia dalla Serbia. Arrestato a Zagabria e trasferito nel centro di detenzione per stranieri di Ježevo, si era trovato di fronte a diverse barriere burocratiche. Nonostante avesse espresso più volte la volontà di chiedere asilo (anche in presenza dei rappresentanti della Difensora civica croata e tramite il proprio avvocato), le autorità non avevano registrato la richiesta e avevano continuato a trattarlo come una persone migrante da espellere. Secondo la Corte, la polizia croata approfittò della vulnerabilità del richiedente – privato della libertà, senza contatti con il suo legale e sottoposto a isolamento con il pretesto della quarantena Covid – per indurlo a firmare documenti di “rimpatrio volontario” verso la Macedonia del Nord. Quel consenso, osservano i giudici di Strasburgo, non fu affatto libero: Y.K. era stato dissuaso dal presentare domanda d’asilo con la minaccia di restare a lungo detenuto e con la promessa di una partenza “tranquilla” se avesse accettato di lasciare il Paese. La Corte ha sottolineato che le autorità croate erano perfettamente consapevoli del rischio di persecuzione che l’uomo avrebbe corso in caso di ritorno in Turchia e che, in ogni caso, prima di allontanarlo, avrebbero dovuto valutare se la Macedonia del Nord fosse davvero un Paese sicuro, verificando l’effettivo accesso alla procedura d’asilo. Nulla di tutto ciò è stato fatto. Inoltre, il legale di Y.K. non aveva ricevuto copia dei provvedimenti di espulsione e non aveva potuto presentare ricorso, perché nessuno dei rimedi giuridici disponibili in Croazia prevedeva la sospensione automatica della misura di allontanamento. Per la Corte di Strasburgo, la partenza di Y.K. non fu quindi volontaria ma il risultato di una pressione esercitata dalle autorità con l’obiettivo di evitare che potesse formalizzare la richiesta di protezione internazionale. In questo modo, la Croazia ha violato i suoi obblighi derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, privando un richiedente asilo del diritto a essere ascoltato e a ottenere una valutazione reale del rischio di persecuzione. «La Corte europea condanna nuovamente la Croazia per violazioni dei diritti dei richiedenti asilo – commenta il Consorzio Italiano di Solidarietà (ICS) – Ufficio Rifugiati -. La sentenza, ormai definitiva, riconosce che la Croazia ha violato il diritto d’asilo nei confronti di Y. K., cittadino turco di origine curda, che cercava protezione dopo essere fuggito da persecuzioni politiche e torture. Invece di garantirgli accesso alla procedura d’asilo, le autorità croate lo hanno detenuto e poi espulso, esponendolo al rischio di nuove violenze». L’ICS sottolinea che la decisione «conferma quanto denunciato da anni dal Centro per gli Studi sulla Pace di Zagabria e da numerose organizzazioni per i diritti umani: la Croazia espelle sistematicamente e illegalmente i rifugiati, negando loro il diritto di asilo, la rappresentanza legale e l’accesso alla giustizia». Il Consorzio accoglie la sentenza come «una vittoria della giustizia e un riconoscimento delle gravi violazioni in atto alle frontiere europee» e rinnova l’appello alle istituzioni «a porre fine ai respingimenti, garantire accesso all’asilo, assistenza legale e rimedi effettivi a tutte le persone in cerca di protezione». La sentenza, effettivamente, ribadisce un principio già affermato in precedenti decisioni come M.H. e altri c. Croazia 1: uno Stato non può eludere il principio di non refoulement fingendo che un richiedente asilo abbia “scelto” di partire, se quella scelta è stata estorta in un contesto di detenzione e isolamento. Si richiama così ancora una volta i Paesi europei al rispetto sostanziale, e non solo formale, del diritto d’asilo e delle garanzie procedurali che ne sono parte integrante. 1. Il capolinea dello stato di diritto: la Croazia e la rotta balcanica, tra Schengen, l’Unione europea e violazioni sistematiche dei diritti umani alle frontiere, Francesco Luigi Gatta – Diritto, Immigrazione e Cittadinanza. ↩︎
Mama Africa: quando la cura sfida la violenza
Quello che segue è un estratto di una lunga conversazione con Marino Dubois, Mama Africa: ricordi, appunti, riflessioni, informazioni tra traiettorie, persone, violenze e i meccanismi che le governano. È una parte dello scambio – intervista tra lei e quattro membri dell’equipaggio di Tanimar: Marie Milliard, Roberta Derosas, Georges Kouagang e Luca Queirolo Palmas 1. Il testo documenta la trasformazione delle frontiere mediterranee: respingimenti in mare, deportazioni nel deserto, rapimenti, estorsioni e la violenza crescente negli accampamenti a nord di Sfax, in Tunisia. L’intervista descrive inoltre le reti complesse di attori informali che operano lungo le rotte – arnaqueurs, cokseurs, aventuriers, taxi-mafia – ed evidenzia il ruolo politico dell’azione di Dubois: bénévole au sujet de la migration, così come si definisce lei di fronte ai suoi oltre 100mila followers. In una casa di campagna da qualche parte in Europa vive Marino Dubois, detta Mama Africa. Intorno a lei, quaderni fitti di note e di numeri di telefono, appunti, date. Sul suo profilo Facebook, che è stato chiuso e riaperto più volte, scorrono avvisi, fotografie, richieste di aiuto. Ad ogni momento, che sia giorno o notte, le arrivano chiamate da uomini e donne, esseri umani in cerca di speranza, bloccati da qualche parte in Tunisia o Libia, persone in viaggio lungo le rotte del Mediterraneo. Riceve richieste da famiglie che cercano i propri cari, da chi non sa più a chi rivolgersi, perché compresso dalle logiche degli Stati europei che gestiscono la vita e la morte delle persone, riducendo a cifre la sorte di chi attraversa il Mediterraneo. Marino Dubois ha cominciato circa otto anni fa: l’elemento scatenate per lei è stato l’omicidio di un giovane della Guinea che viveva in Francia. Si trattava di Mamoudou Barry, ricercatore all’Università de Rouen-Normandie, ucciso per il colore della sua pelle, a pugni e colpi di bottiglia. Rouen (19 luglio 2020), manifestazione in memoria di Mamoudou Barry Questo omicidio di stampo razzista, ennesimo frutto della violenza a cui molti sono sottomessi, l’ha spinta ad agire. Da allora il suo lavoro si è trasformato in un’attività costante: informare, raccogliere testimonianze, denunciare sparizioni, restituire tracce e nomi a chi rischia di svanire senza lasciare segno. Abbiamo passato con lei due lunghe giornate: la conversazione tra noi è stata un filo stretto tessuto per ore. Dal suo racconto emergono le trasformazioni delle frontiere mediterranee: i respingimenti in mare, le deportazioni nel deserto, la tratta di stato che continua fra Tunisia e Libia nonostante il fenomeno sia ormai divenuto pubblico e documentato 2, i rapimenti e le estorsioni a scopo di riscatto, la violenza crescente negli accampamenti improvvisati negli uliveti intorno a Sfax. Una violenza che si ripete come la corrente del Mediterraneo: silenziosa, continua, inevitabile. L’intervista restituisce anche la complessità delle reti che si muovono attorno a queste rotte animate da arnaqueurs, cokseurs, taxi-mafia: figure che gestiscono spostamenti, soldi e persone lungo i percorsi migratori. Dubois spiega questi termini e ne restituisce la funzione all’interno di un sistema di violenza e solidarietà che conosce dall’interno. Li ritroviamo, insieme a molti altri, nel Contro-dizionario del confine, testo che raccoglie e restituisce l’esperienza del viaggio a partire dai diretti protagonisti 3. Nel corso della conversazione emergono le relazioni che Dubois ha tessuto: con le persone in viaggio, con le famiglie che cercano i dispersi, con chi la chiama per chiedere aiuto, coi bambini che portano il suo nome, tra progetti scolastici nati negli insediamenti, i matrimoni e i battesimi a cui è stata invitata, nelle reti di solidarietà che operano tra precarietà e violenza. È un lavoro di cura il suo, in cui da pensionata continua una esperienza lavorativa da assistente sociosanitaria, ma in un contesto in cui la vita e la morte sono in gioco ogni giorno sul filo di una chiamata o di una notizia condivisa. Quello che fa, ha un valore politico: raccontare la realtà delle frontiere, denunciare violenze e sparizioni, costruire reti di sostegno significa sfidare le logiche statali e l’indifferenza europea, restituendo voce e visibilità a chi è marginalizzato e invisibile.  COME HAI COMINCIATO A SOSTENERE LE PERSONE CHE CERCANO DI ATTRAVERSARE LA FRONTIERA EUROPEA? L’elemento scatenante è stata la storia di un ragazzo della Guinea, 7 o 8 anni fa. Un giovane che abitava in Francia e che, intervenendo in soccorso di un’altra persona, aggredita, è stato ucciso. Mi aveva scioccato il fatto che un ragazzo potesse essere freddato in quel modo, a mani nude, in Francia. Era una brava persona. Aveva una vita davanti. Ho iniziato così, da quell’ingiustizia che mi è sembrata insopportabile. CHI SA QUELLO CHE FAI? Scherzi? Nessuno qui sa che sono Marino Dubois e nessuno deve saperlo. Neppure la mia famiglia. Non capirebbero quello che faccio, e poi credo che sarebbe un pericolo. Nessuno sa dove abito, anche se la mia foto è sulla pagina facebook. Nessuno sa in che paese vivo. Ho già ricevuto molte minacce. CHE LAVORO FACEVI PRIMA? Ero assistente sociosanitaria in ospedale. Ora sono in pensione. In realtà, continuo il mio lavoro, solo in un altro modo, curando, ascoltando. Facevo parte del mondo medico; ho lavorato anche in un reparto di cure palliative, quindi c’è qualcosa che continua. In ospedale ti trovi di fronte alla morte. Ma ora mi trovo di fronte a molte morti. Si prova una sorta di angoscia, di stress, perché ti dici: “Ma…ove sono? Quanti sono? Quanti sopravvissuti?”. Poi ti immagini al loro posto. E quando li portano alle prigioni e li picchiano e li mandano in Libia, sono spesso feriti. Per esempio, nell’ultima barca erano tutti ustionati molto gravemente.  Prima del 2023, in Tunisia, le persone intercettate in mare erano lasciate libere di tornare negli uliveti o nelle città; ma è dal 2023, dai grandi arrivi a Lampedusa e con l’Unione Europea alle spalle, che le autorità tunisine hanno cambiato il loro modo di agire. Ecco cosa hanno causato gli accordi. Altri morti. Ecco tutto. L’Unione Europea vuole fermare il flusso migratorio, ma hanno coscienza delle morti che generano queste politiche?  Potrebbero mandarli a casa loro, se volessero. Che sia l’Algeria o la Tunisia, hanno tutti aeroporti, hanno l’OIM. Io dico: ”Ma fateli partire, non gettateli nel deserto, non mandateli a morire”. Questo è il problema. E così dal 2023: siamo nel 2025, sono passati due anni. Provate a immaginare il numero di morti… RACCONTACI COSA FA OGNI GIORNO MAMA AFRICA… Sono passati 7 anni, ma non vedo passare il tempo, non lo conto. Sono attiva tutti i giorni, 24 ore su 24, perché le persone migranti che sono lì, gli avventurieri, non mi lasciano dormire. Mi chiamano nel cuore della notte, a volte mi dicono che è urgente. Sai, mi dicono che la mattina si alzano e la prima cosa che fanno è ascoltare Mama Marino, leggono quello che ho pubblicato su Facebook, le notizie, quali sono i giorni adatti alla navigazione e quali no…Non hanno idea, bisogna stare sempre ad ascoltarli e ti chiedono molte parole, molto sostegno. Riconoscimento, speranza. Perché non ce l’hanno più, hanno perso tutto. È così. Quindi sono obbligata a rispondere. Spesso mi dicono che non mi devo ammalare: “Curati, curati. Non ti ammalare perché abbiamo bisogno di te, abbiamo troppo bisogno di te. Non ti ammalare”, mi dicono. Hanno perso tutto, non hanno nulla. Per loro sono una persona importante, anche se per me non è così, ma per loro lo sono. Forse è egoista, ma loro hanno bisogno che io sia lì per le loro richieste, le loro domande, i loro problemi, per aiutare a recuperare quanto hanno perso, per i contatti…  INTORNO A TE SI È CREATO UN INCREDIBILE SISTEMA DI COMUNICAZIONE E DI SAPERE CONDIVISO. AD ESEMPIO, QUANDO ABBIAMO PERSO UN NOSTRO AMICO IN TUNISIA, TI ABBIAMO CHIESTO DI PUBBLICARE LA SUA FOTO. GRAZIE AI COMMENTI AL POST DI QUESTA SCOMPARSA, ABBIAMO SCOPERTO RAPIDAMENTE CHE ERA STATO DETENUTO, POI DEPORTATO E VENDUTO IN LIBIA E CHE ERA RIUSCITO A SCAPPARE IN ALGERIA; SIAMO ANCHE RIUSCITI A CHIAMARLO TRAMITE UN COKSEUR… Pubblico molti post perché ci sono tantissime persone che scompaiono. Ed è importante pubblicare la foto di qualcuno che molto probabilmente è deceduto, perché significa anche lasciarne una traccia. Questo è il problema quando le persone scompaiono: perché le autorità non recuperano tutti i corpi di chi muore in mare? Perché li seppelliscono in fosse comuni e nessuno ne sa più nulla? Le famiglie non sono al corrente. Lo trovo inaccettabile. Per esempio: ci sono molte donne che sono morte, diverse incinte, ho molti video… È dura vedere quelle immagini. A volte vengono deportati e abbandonati più volte, che sia in Libia, in Tunisia, in Algeria. Ci sono migranti che non escono dal deserto per giorni, settimane. Non c’è acqua, non hanno niente, non hanno più il telefono, non possono più comunicare la loro posizione, non sanno dove si trovano. Così muoiono molte persone. HAI VISTO DEI CAMBIAMENTI DA QUANDO HAI INIZIATO LA TUA ATTIVITÀ? Certo. La situazione è peggiorata, perché 7-8 anni fa non vedevo nulla di tutto questo. Ho incominciato quando molte persone migranti erano in Algeria. Le loro condizioni di vita erano pessime. C’erano comunque dei morti nei cantieri, dove lavoravano e vivevano. Poi ho conosciuto il Niger e anche qui, che dire? Le condizioni anche lì sono disumane: le persone non hanno cibo, fanno la fila per lavarsi, non c’è acqua, ci sono le tempeste di sabbia, dormono per terra all’aperto. Le condizioni sono spaventose. Ma la situazione è peggiorata in tutti i sensi, sia a livello delle autorità, ma anche fra i migranti… la violenza è aumentata. Perché la violenza chiama violenza. A partire dal settembre 2023, dopo l’ultimo grande ingresso a Lampedusa, è stato un disastro. Ho iniziato così ad occuparmi anche della Tunisia e quello che facevo prima non ha più nulla a che vedere con l’attualità. Ora ad esempio ci sono i rapimenti, un fenomeno che prima non esisteva.  PUOI SPIEGARTI MEGLIO? CHI SONO I RAPITORI, I KIDNAPPEUR? Ci sono sequestri di persona operati a scopo di riscatto da tunisini o altri migranti subsahariani e spesso sono legati ad altre forme di violenza e tortura sulle persone sequestrate. È un sistema in cui trovi migranti e non, arnaqueurs, taxi mafia, cokseurs. Per esempio – e mi riferisco principalmente alla Tunisia – ci sono persone che vengono respinte nel deserto dell’Algeria e lì trovano i taxi mafia che si offrono di riportarli a Sfax. Le persone pagano, è costoso, tra i 200 e 250 euro. Solo che, invece di essere liberate, sono portate dai kidnappeur, in case e altri luoghi a Sfax. Le persone vengono torturate, picchiate; i sequestratori prendono loro il telefono e chiamano le famiglie. Un tempo a me accadeva che mi chiamassero mentre torturavano le persone; ricevevo i video. Ci sono i rapimenti che fanno parte di un sistema di violenza diffusa. C’è molta droga, molto alcool, che prima non c’erano. E anche questa è colpa di Sayed, del presidente tunisino. Risale a quando ha cacciato tutti da Sfax, quando ha proibito ai neri di avere un tetto e un lavoro. Li hanno caricati su dei bus per poi scaricarli negli zitounes (uliveti) e lì, i migranti hanno costruito case di fortuna, per chilometri. L’alcool, i machete, la droga…ma le persone non sono arrivate con i machete, con l’alcol e neppure con la droga, le caramelle, i bonbons come dicono loro. E chi li produce? Chi glieli dà? Non è nemmeno erba, sono pasticche. Vengono da qualche parte, non le producono certo i migranti negli uliveti. Sono i tunisini a far arrivare droga e alcool.  HAI PARLATO DI KM, DI ZITOUNES… Risale tutto al 2023, quando le persone sono state cacciate da Sayed e portate a Nord di Sfax. Chi non è partito prendendo il mare, ha costruito tende e baracche sotto gli ulivi, lungo i km di costa. Sono gli zitounes.  Sono campi di ulivi, di proprietà di persone tunisine. A volte sono grandi campi, a volte sono più piccoli. Infiniti chilometri, come noi abbiamo città con tanti chilometri, dal km 5, 6 fino all’80 credo, e quindi tutti i chilometri vengono utilizzati dai migranti per accampare perché non hanno più diritto a stare nelle case. In realtà, le autorità tunisine li hanno parcheggiati in questi posti. E poi li hanno respinti, hanno distrutto le loro tende e loro le hanno ricostruite e così di seguito… e questo non fa altro che creare problemi perché, come ho detto, la violenza genera violenza. Perché si creano bande che sono in conflitto e che vogliono prendere il controllo dello spazio e dei traffici… e questo crea grossi problemi. La gente ora ha paura. Hanno persino paura di parlarmi.  PIÙ SI BLOCCA IL MARE, PIÙ AUMENTA LA VIOLENZA… MA ALLO STESSO TEMPO, NEGLI ZITOUNES CI SONO ANCHE MOLTE INIZIATIVE DI SOLIDARIETÀ… Sì, un giorno un migrante mi ha chiamato per dirmi: «Stiamo per avviare un progetto scolastico». Ho detto: «È fantastico, perché ci sono tanti, tantissimi bambini, almeno li terrà occupati». All’inizio ce n’erano una decina, ma poi si sono ritrovati con una trentina di bambini. Era davvero una buona cosa. Li teneva occupati. E poi tutto questo è stato distrutto. C’erano anche delle moschee, luoghi di preghiera, degli ospedali. Ci sono stati matrimoni, ci sono stati battesimi. Le autorità distruggono, loro ricostruiscono. E LE PERSONE TI FANNO PARTECIPARE A QUEI MOMENTI COSÌ INTIMI? Certo! Anche quando ci sono i sacrifici, quando si preparano a salire sulla barca per attraversare, quando sacrificano la pecora prima di un viaggio, tutto questo, sì. Sono al corrente di tutto, mi informano. Ci sono bambini che portano il mio nome. CI HAI RACCONTATO CHE A VOLTE TI CHIAMAVANO DURANTE LE TORTURE… Ora non lo fanno quasi più, perché gli aguzzini a Sfax, i sequestratori, bloccano i telefoni. Prima, quando mi chiamavano, potevamo localizzarli. Ora non più. Più volte, mi han chiamato e mi hanno fatto sentire come torturano. Prendono dei sacchetti di plastica, li incendiano e poi li fanno cadere sui loro corpi, oppure usano i coltelli o i machete. Anche le donne vengono picchiate, torturate, violentate. È terribile. La violenza, questa violenza prima non esisteva, perché le persone potevano andarsene. E ora sono bloccati lì a Sfax come topi. Ma in fondo è quello che le autorità tunisine volevano. Le persone non hanno più niente. Ne ho tanti, tanti che mi chiamano, che mi chiedono aiuto. E io… non posso aiutare tutti. Mi chiedono aiuto ogni giorno, ma io non riesco. Non hanno niente da mangiare e anche questo ovviamente crea violenza. Come puoi sopportare tutto questo? Appena riattacco, il telefono squilla di nuovo, per un’altra cosa e sono sempre in movimento. Assistere a tutta questa violenza è terribile. PER CHI NON HA MAI VISTO LA TUA PAGINA, PUOI SPIEGARE COSA FAI? Allora, innanzitutto i migranti la usano come pagina di informazione; guardano quello che ho scritto, perché così ricevono almeno informazioni su ciò che accade nei paesi in cui si trovano. Parlo delle aggressioni; quando c’è la polizia che brucia gli uliveti o ci sono arresti, lo racconto. E poi le sparizioni e le deportazioni: persone che scompaiono, le famiglie nei paesi di origine che mi mandano foto, che mi chiedono di pubblicarle. Ne ritroviamo molti. Ricevo molte chiamate dalle famiglie. Pubblico anche le barche che sono scomparse. O ancora: che una certa barca è partita da un porto. Scrivo sui naufragi, informo sulle condizioni meteo nei luoghi di partenza di Algeria, Tunisia e Marocco e su quelli di arrivo a Lampedusa, Pantelleria, Spagna…dico di non partire con il cattivo tempo. Perché ho iniziato a farlo? perché penso che potrò salvare delle vite. È il mio obiettivo. Anche dare consigli. Per esempio: esistono problemi di sovraccarico nelle barche, li invito a rispettare le condizioni meteo, di fare attenzione alla costruzione della barca, al motore. La maggior parte dei naufragi è dovuta a questo, perché le persone partono in condizioni molto sfavorevoli, con barche che erano di legno e ora sono di ferro, saldate male. Non ho mai navigato, eppure sono diventata un’esperta di meteo, barche, di motori. Proprio io, che non sono mai salita su una barca. Ci sono troppi capitani inesperti, sempre più inesperti, persone che non sono mai state in mare e che sono messe al comando. La maggior parte dei naufragi è dovuta al mancato rispetto delle condizioni base di sicurezza. E poi, nelle pubblicazioni, parlo dei cokseurs. Loro sono le persone che offrono informazioni e contatti per proseguire il viaggio, raccolgono i passeggeri per formare gli equipaggi di autobus, taxi, barche, per costituire insomma il gruppo di viaggio. Ci sono i lanceurs, che “lanciano” in mare le persone. Lo fanno ovviamente tutti in cambio di soldi. Alcuni sono corretti, altri meno. Capita che gli aventuriers diano i soldi ai cokseurs e questi poi non organizzano il viaggio. Allora il mio compito è quello di far recuperare i soldi alle persone. Organizzo delle conferenze, cerchiamo un terreno d’intesa, un rimborso possibile per chi ha pagato. E se non si trova un accordo, allora io pubblico le facce dei cokseurs sulla mia pagina dicendo che sono degli imbroglioni, degli arnaqueurs. Finire sulla mia pagina, fa cattiva pubblicità e toglie “clienti” a un cokseur. Adesso, ad esempio, sto denunciando “il mauritano”, fa prezzi stracciati, fa partire con cattivo tempo, con barche di ferro più grandi, fanno molti naufragi le barche del “mauritano”… COME HAI SVILUPPATO QUESTA CAPACITÀ DI RAPPRESENTANZA, DI COMUNICAZIONE? NEL TUO LAVORO, PER ESEMPIO, FACEVI ATTIVITÀ SINDACALE? PERCHÉ CI SEMBRI QUASI UNA SINDACALISTA DEI PASSEGGERI DA QUELLO CHE RACCONTI… NE DIFENDI I DIRITTI DI FRONTE AD “ORGANIZZATORI” CHE NON RISPETTANO GLI ACCORDI… Mai fatto sindacato. Difendo solo i più poveri e non l’avevo mai fatto prima. Non lo so, è venuto così e sono state le persone a insegnarmi… Sono state loro a darmi le carte in mano. A volte mi arrabbio. A volte ci vogliono mesi e mesi prima di recuperare i soldi. E la gente aspetta un anno, due anni. A volte non hanno tutti i loro soldi, ma va bene, per me se recuperano qualcosa per curarsi, per mangiare. HAI CORRISPONDENTI PRINCIPALI NEI DIVERSI PAESI… Sono in contatto con molte persone e poi ci sono quelli che mi chiamano molto spesso e con cui ho già instaurato un rapporto di fiducia e che, anche se rimpatriate, continuano a chiamarmi dalla Guinea, Costa d’Avorio, Mali, Burkina, per raccontarmi di loro e darmi informazioni. LAVORI CON IL TELEFONO SU WHATSAPP, SU FACEBOOK E POI HAI DEI QUADERNI… Questo è il quaderno dove annoto tutto. Ogni volta che ricevo una chiamata, annoto. Per esempio, se tu guardi qui è annotata la data “1° settembre” e ho scritto di una barca che era partita. Conservo tutti i quaderni. Ci sono i numeri di telefono di chi mi chiama, di associazioni, di un medico, di chi può dare una mano…Guarda qui per esempio: “Tarfaya, 8 aprile, non partito. Terza ondata, naufragio, nessun morto, salire, salire sugli scogli, molto stanco, non ha la forza di camminare”. Scrivo così come viene, come mi dicono. Ah, mi ricordo di questo evento (sfoglia il quaderno): un ragazzo che aveva perso sua sorella, una giovane donna ritrovata poi morta in ospedale. Faccio anche delle ricerche per chi è deceduto, ci sono le famiglie che mi chiamano. Una volta si poteva… Ora non si può più. Avevo dei conoscenti, potevano andare all’obitorio, negli ospedali, cercare in Tunisia. A un certo punto, era possibile. Facevano delle giornate “porte aperte”, diciamo; ora non è più possibile, non c’è più accesso ad ospedali e obitori. I parenti non sapranno mai dove sono finiti i loro figli. Sono triste perché so che li seppelliscono in fosse comuni.  Ecco un altro esempio: uno studente che aveva i documenti e che aveva perso molti dei suoi fratelli su una barca. Voleva rimpatriare i corpi nel loro paese ma non è stato possibile. C’erano 10 corpi. Li hanno seppelliti nelle fosse comuni che nessuno sa dove siano, perché nessuno lo dice. Come tutte le persone che muoiono in Tunisia negli ospedali. Mi sono sempre chiesta: dove sono i corpi? Cosa ne fanno? Dove sono le persone? Ci sono molte persone che sono malate. E vanno in ospedale e spariscono. È per questo che i migranti hanno paura di andare in ospedale. Perché sanno che… non si hanno più notizie. Non so cosa ne facciano. Ne ho sentito parlare spesso di traffico degli organi, ma non ho prove. Cosa ne fanno di tutte queste persone che muoiono? Perché, quando qualcuno muore, dovrebbero segnalarlo all’ambasciata, no? Quello che non riesco a capire è come mai i presidenti africani rimangano in silenzio di fronte al massacro dei propri cittadini. È come se non fossero camerunesi, non fossero nigeriani, non fossero… Non so, se un italiano morisse in Tunisia… sarebbe sulla prima pagina di tutti i giornali.  TI ASSUMI QUESTA RESPONSABILITÀ DI PARLARE, DI RACCONTARE… Se so che una barca è naufragata, sono obbligata a dirlo, non posso lasciar loro credere che le persone sono vive se non lo sono. Perché la guardia costiera tunisina sulla sua pagina web racconta solo bugie. È anche insopportabile l’ipocrisia europea; perché se ascolti i nostri governanti che stringono accordi con la Tunisia, la Libia, ti dicono che lo fanno per salvare vite umane. Quindi vogliono bloccare la migrazione perché, se le persone partono, muoiono. Eppure sanno benissimo cosa accade con i loro accordi… quello che vi ho appena raccontato. I migranti mi fanno sempre questa domanda «Ma cosa abbiamo fatto, cosa abbiamo fatto?». Ed è proprio così: sai dirmi tu cosa hanno fatto? 1. Luca Queirolo Palmas, docente di sociologia delle migrazioni all’Università di Genova, coordina il progetto di ricerca Solroutes; Georges Kouagang, mediatore culturale e rifugiato, è parte del Laboratorio di Sociologia Visuale dell’Università di Genova e anima il progetto The Routes Journal; Marie Millard, filmaker e webdesigner; Roberta Derosas, social worker, ricercatrice indipendente, attivista ↩︎ 2. Si veda il rapporto State Trafficking a cura del collettivo RR(X) ↩︎ 3. Equipaggio Della Tanimar, Controdizionario del confine. Parole alla deriva nel Mediterraneo centrale, TAMU, Napoli 2026 ↩︎
Italia-Libia, Human Rights Watch chiede la fine del patto sui controlli alle frontiere
Tra meno di un mese, il memorandum d’intesa tra Italia e Libia 1 sulla cooperazione in materia di migrazione 2 si rinnoverà automaticamente. Otto anni dopo la sua firma nel 2017, il bilancio di questo accordo è drammatico: decine di migliaia di persone intercettate in mare, riportate in Libia e consegnate a detenzioni arbitrarie, torture, violenze sessuali e abusi quotidiani. Eppure l’Italia e l’Unione Europea sembrano pronte a continuare su questa strada, ignorando le evidenze. Human Rights Watch (HRW) non usa mezzi termini: l’accordo è ““Il Memorandum di intesa Italia-Libia si è rivelato un quadro di riferimento per la violenza e la sofferenza, e dovrebbe essere revocato, non rinnovato””. La cosiddetta “Guardia Costiera libica“, sostenuta dall’Italia con mezzi tecnici e finanziari, opera in un contesto di conflitto e frammentazione politica, dove milizie e forze statali si intrecciano con reti di traffico e contrabbando. Chi viene intercettato in mare non trova sicurezza: trova detenzione, fame, violenze fisiche e sessuali, lavori forzati e negazione dei diritti fondamentali. Negli ultimi mesi, le motovedette donate dall’Italia 3 hanno addirittura aperto il fuoco contro navi di ricerca e soccorso come Ocean Viking e Sea-Watch, confermando che la complicità italiana non riguarda solo i respingimenti, ma anche la messa in pericolo dei naufraghi e delle organizzazioni. Eppure, l’Europa sostiene queste stesse forze, con la sorveglianza di Frontex e investimenti milionari per il contenimento dei flussi migratori. Uno degli episodi più gravi e preoccupanti è avvenuto nel primo pomeriggio del 12 ottobre 2025 quando Alarm Phone (AP) 4 ha ricevuto una chiamata da un gruppo di circa 100-150 persone che stavano cercando di fuggire dalla Libia su un peschereccio. «Ci hanno ripetutamente detto che erano stati colpiti da colpi di arma da fuoco sparati da un’imbarcazione non identificata», denuncia AP. «Hanno identificato i responsabili come una milizia libica. La loro posizione GPS alle 13:30 CEST li collocava in acque internazionali, nella zona di ricerca e soccorso maltese (N34 50, E015 54)». «Sebbene non sia possibile verificare chi abbia attaccato il gruppo di persone in fuga,» – continua Alarm Phone – «questo comportamento indica che potrebbe trattarsi della milizia libica, come identificato dalle persone a bordo». «Le organizzazioni della società civile, tra cui Refugees in Libya, un gruppo di sopravvissuti alla violenza contro le persone migranti in Libia,» scrive HRW, «si stanno mobilitando contro l’accordo Italia-Libia e chiedono all’UE di sospendere ogni cooperazione in materia di migrazione con la Libia». È una richiesta che mette al centro la vita e la dignità delle persone, non le logiche securitarie che hanno trasformato il Mediterraneo centrale in un cimitero a cielo aperto. Per denunciare questa politica di esternalizzazione e brutalizzazione delle frontiere europee, Refugees in Libya ha lanciato un appello a una mobilitazione comune a Roma il 18 ottobre alle 14:00 in Piazza Santi Apostoli. Approfondimenti/In mare MEMORANDUM ITALIA-LIBIA, UN PATTO DI VIOLAZIONI E ABUSI Il 2 novembre l’accordo sarà rinnovato. Refugees in Libya: manifestiamo a Roma il 18 ottobre Carlotta Zaccarelli 29 Settembre 2025 “Il continuo sostegno alle forze illegali e irresponsabili in Libia è indifendibile”, afferma Judith Sunderland, direttrice associata per l’Europa e l’Asia centrale di Human Rights Watch. “L’UE e tutti i suoi Stati membri, compresa l’Italia, dovrebbero smettere di finanziare e legittimare la violenza contro i migranti e riorientare radicalmente le loro politiche mediterranee per dare priorità al soccorso in mare e a percorsi migratori sicuri e legali”. 1. A questo link il Memorandum ↩︎ 2. Cos’è e cosa prevede il Memorandum Italia-Libia, Lenius ↩︎ 3. Already Complicit in Libya Migrant Abuse, EU Doubles Down on Support, HRW (febbraio 2023) ↩︎ 4. Alarm Phone (formalmente Watch The Med – Alarm Phone) è una rete di attivisti e volontari creata nel 2014, che gestisce una linea telefonica di emergenza per le persone migranti in difficoltà durante le traversate nel Mar Mediterraneo (e in parte anche lungo le rotte atlantiche e balcaniche) ↩︎
Respinti in Libia da nave militare italiana: riconosciuto risarcimento di 15.000 euro
La Corte di Appello di Roma conferma la sentenza di primo grado e condanna il Ministero della Difesa e la Presidenza del Consiglio dei Ministri per un respingimento effettuato dalla nave militare “Orione” nel 2009 ai danni di alcuni cittadini eritrei in Libia. Il gruppo, soccorso in acque internazionali dalla nave militare, fu riportato in Libia senza alcuna possibilità di chiedere asilo. Una prassi che li espose a detenzione e violenze, e che da anni era al centro di una lunga battaglia legale. Ancora una volta la Corte di Appello di Roma conferma che nessuno accordo con la Libia o atto politico può pregiudicare il diritto delle persone straniere a entrare in Italia in attuazione dell’art. 10 della costituzione per richiedere asilo politico e del principio internazionale di non-refoulement, che vieta di respingere persone verso Paesi dove rischiano persecuzioni o trattamenti inumani. Lo Stato italiano fu responsabile di una grave violazione del diritto costituzionale d’asilo e gli accordi bilaterali con Paesi terzi non possono in alcun modo giustificare pratiche contrarie alla Costituzione e al diritto internazionale. I protagonisti della vicenda sono già in Europa e riceveranno un risarcimento per ciascuno di 15.000 euro; una decisione importante ma riconosciuta in casi simili, tra cui il noto caso “Asso 29” in cui oltre al risarcimento del danno è stato ordinato al ministero di rilasciare un visto umanitario di ingresso per l’esercizio del diritto di asilo. Giurisprudenza italiana/Guida legislativa ASSO 29, HA DIRITTO AL VISTO PER CHIEDERE ASILO UNA PERSONA RESPINTA ILLEGALMENTE IN LIBIA Il Tribunale di Roma: lo Stato italiano avrebbe dovuto assicurare il loro trasporto in un luogo sicuro ASGI - Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione 13 Settembre 2024 La sentenza di rilievo, quindi, non riguarda solo il passato, ma la stretta attualità e quanto accade quotidianamente nel Mediterraneo, perché ribadisce che le azioni compiute da navi italiane in mare aperto ricadono sotto la responsabilità diretta dello Stato e devono rispettare i diritti fondamentali. Corte d’Appello di Roma, sentenza n. 4611 del 21 luglio 2025 Si ringrazia l’avv. Salvatore Fachile per la segnalazione. Il commento è a cura della redazione di Melting Pot.
Brutal Barriers: respingimenti, violenza e violazioni alla frontiera tra Polonia e Bielorussia
Dalla violenza delle parole alla violenza della frontiera Sono «Orde di banditi… che cercano di attaccare i soldati polacchi» 1. «Immagina una ragazza di 18 anni che attraversa molte frontiere, senza famiglia… Non ha idea di come siano le foreste Europee… di quanto poco bene ci sia» 2. Due narrazioni antitetiche. Lo stesso oggetto: la frontiera tra Polonia e Bielorussia. Il rapporto Brutal Barriers realizzato da Oxfam e l’ONG Egala 3, pubblicato nel marzo 2025, grida le prove e le testimonianze delle persone in movimento, dei volontari e degli operatori umanitari presenti nel cosiddetto ‘Sistema’: quello che in arabo viene chiamato Muharrama, cioè: ‘terra di nessuno’, ‘zona di morte’. Il Sistema è un’area lunga 38 miglia situata nella primordiale, ostile all’uomo, foresta di Białowieża, oggi scena di una crisi umanitaria e dei diritti umani che si aggrava ininterrottamente dal 20214, risultato della sistematica strumentalizzazione delle persone in movimento dal regime di Lukashenko e della brutale politica dei ‘pushbakcs’ adottata dal Governo Tusk. Questo articolo si propone di contro informare sugli orrori documentati dal rapporto Brutal Barriers, configurandosi quale contro-pratica discorsiva rispetto alla crescente criminalizzazione e securitizzazione delle persone in movimento e dei difensori dei diritti umani, come denunciato nel rapporto stesso. In un contesto in cui emozioni e sentimenti vengono evocati per propagandare la negazione di questa crisi umanitaria, funzionale alla tutela dello schema identitario dell’Unione Europea (UE), saranno proprio le voci grassroots raccolte nel documento di Oxfam ed Egala a parlare del Sistema, rivelando il décalage esistente tra la violenza semantica delle retoriche securitarie e la violenza sistemica che domina la Muharrama. A COSA ASSOMIGLIA LA FRONTIERA TRA POLONIA E BIELORUSSIA? «Stavo camminando nella foresta. Continuavo a guardarmi alle spalle per controllare se ci fossero soldati polacchi (…), avevo paura che mi prendessero. Non mangiavo da molto tempo. (…) Ero vicino al fiume (…). Ero bagnata, ero lenta perché mi dovevo muovere nel fango» 5. A partire dal 2021, la frontiera orientale tra Polonia e Bielorussia è oggetto di un processo di progressiva e sistematica fortificazione multilivello. Alle barriere naturali preesistenti, rappresentate dalla foresta di Białowieża, si sono affiancate diverse tipologie di ostacoli, riconducibili a quattro principali dimensioni: * Barriere artificiali di natura militare e tecnologica, costituite da infrastrutture di contenimento quali recinzioni in filo spinato, barriere “intelligenti” dotate di sensori di movimento e sistemi avanzati di videosorveglianza. * Barriere coercitive, rappresentate da prassi consolidate e documentate di violazione dei diritti fondamentali da parte delle autorità polacche e bielorusse. Tali pratiche includono operazioni di respingimento collettivo (pushbacks), uso sproporzionato della forza e privazione deliberata di beni essenziali quali cibo, acqua, cure mediche e riparo, in violazione del diritto internazionale ed europeo dei diritti umani. * Barriere normative, ovvero misure legislative e regolamentari finalizzate alla formalizzazione e legittimazione giuridica di un regime strutturale di compressione dei diritti umani e dello stato di diritto. Tra queste si segnalano: la reintroduzione della ‘zona di esclusione’ nel giugno 2024; la Legge polacca 1248/2024, che prevede un’esenzione dalla responsabilità penale per i membri delle forze armate, della guardia di frontiera e della polizia operanti nelle aree frontaliere, anche in caso di uso eccessivo della forza, concedendo il via libera ad abusi; lo stanziamento di 52 milioni di euro da parte della Commissione Europea nell’ambito del Regolamento (UE) 2021/1148 6, destinati al rafforzamento del controllo delle frontiere esterne e alla gestione delle cosiddette ‘minacce ibride’; nonché la Legge polacca 389/2025, che autorizza la sospensione temporanea del diritto d’asilo in situazioni eccezionali. L’insieme di questi strumenti solleva rilevanti questioni di compatibilità con più articoli della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, la Convenzione Europea dei Diritti Umani (CEDU), e la Convenzione sullo Status dei Rifugiati del 1951. ‘ZONA DI ESCLUSIONE’ REINTRODOTTA NEL LUGLIO 2024 Fonte: Oxfam & Egala (2025, p. 7 * Barriere all’assistenza umanitaria, derivanti dalla totale assenza di una risposta istituzionale alla crisi umanitaria in corso e da forme sistematiche di ostruzionismo nei confronti delle attività svolte da soggetti della società civile, come documentato da Amnesty International 7. Queste ultime si concretizzano in azioni di criminalizzazione, intimidazione, molestie, anche attraverso canali digitali, controllo repressivo e fenomeni di vigilantismo armato e organizzato da parte di attori non istituzionali. PUSHBACKS, VIOLENZE E ASSENZA DELLO STATO DI DIRITTO IN POLONIA E IN BIELORUSSIA Secondo quanto riportato da Medici Senza Frontiere, nel giugno 2024 i pazienti giunti in Polonia hanno dichiarato di aver trascorso in media 21 giorni nella foresta, con permanenze che in alcuni casi hanno raggiunto i 90 giorni 8. Durante questa agonia nel Sistema, sia dal lato polacco che da quello bielorusso, le persone in movimento hanno affermato di essere state sottoposte a diverse pratiche non conformi al diritto, non solo nazionale, ma anche a norme di ius cogens erga omnes. Le organizzazioni della società civile hanno registrato 5,615 richieste di assistenza e 3,183 casi di pushbacks 9 da territorio polacco. Inoltre, secondo i dati raccolti da We Are Monitoring, tra giugno e novembre 2024 10, 122 persone in movimento, bisognose di immediata assistenza medica – anche donne incinte – sono state respinte, di cui 13 direttamente da strutture ospedaliere polacche, includendo anche soggetti minorenni 11. Approfondimenti/Rapporti e dossier/Confini e frontiere «HO DETTO, VOGLIO RIMANERE IN POLONIA MA MI HANNO RESPINTO» Testimonianze dal confine polacco-bielorusso nel rapporto di We Are Monitoring Gaia Facchini 24 Marzo 2025 A ciò si aggiungono una pluralità di violazioni dei diritti umani che, nei casi più gravi, si configurano come una lesione del diritto alla vita, garantito, inter alia, dall’articolo 2 della CEDU, dovute tanto alle pratiche di respingimento collettivo, quanto alle infrastrutture di frontiera. In particolare, la fortificazione della frontiera ha determinato, nel periodo compreso tra gennaio e settembre 2023, un incremento del 40% delle lesioni fisiche direttamente imputabili all’interazione con tali dispositivi. «Molto spesso, la prima cosa che sentiamo dai pazienti assistiti negli ospedali polacchi è l’espressione ‘No Bielorussia, No Bielorussia’», riferisce Justyna, volontaria presso l’ospedale gestito da Egala. Le testimonianze raccolte evidenziano che le violenze perpetrate sul lato bielorusso assumono spesso forme drammatiche: le persone vengono punite e percosse in conseguenza del mancato ingresso in Polonia. Sono frequenti le ferite causate da morsi di cani e i segni di percosse, mentre non mancano le segnalazioni di violenza sessuale, come riferisce Olga, operatrice di Egala, mettendo in luce come le donne in movimento subiscano anche forme specifiche di violenza intersezionale, dovute alla loro condizione di essere sia in movimento sia donne. Inoltre, sul versante bielorusso, al di là della violenza sistemica, emerge la totale impossibilità per le persone in movimento di sfuggire al Sistema: esse non hanno la possibilità né di lasciare la regione né di raggiungere Minsk, restando di fatto costrette a tentare l’attraversamento verso la Polonia. Tra metà 2021 e novembre 2024, la foresta di Białowieża è divenuta il luogo di morte documentata di 88 persone, secondo quanto riportato dalle organizzazioni della società civile, senza considerare il presumibile numero di vittime non registrate. RACCOMANDAZIONI Oxfam ed Egala propongono, inter alia, le seguenti raccomandazioni: Al Governo della Repubblica di Polonia: cessare la politica e la prassi dei respingimenti collettivi, assicurare un trattamento conforme agli standard internazionali ed europei sui diritti umani per tutte le persone presenti nella zona di frontiera, abrogare la Legge 1248/2024, e garantire un accesso effettivo alla zona di frontiera per le organizzazioni umanitarie e di tutela dei diritti fondamentali. Al Governo della Repubblica di Bielorussia: prevenire, indagare e sanzionare con urgenza ogni forma di abuso, in particolare violenza sessuale, tortura e trattamenti inumani o degradanti perpetrati da personale in uniforme; porre fine al trattenimento delle persone in movimento nel Sistema, assicurando un accesso effettivo alle procedure di asilo. Alle istituzioni e agenzie dell’Unione Europea: indagare sulle presunte violazioni della normativa UE in materia di asilo e di gestione delle frontiere da parte della Polonia, condannare pubblicamente gli abusi e sospendere ogni forma di sostegno politico, finanziario e operativo dell’UE, incluso Frontex, per infrastrutture o attività di protezione della frontiera polacca, basi delle violazioni dei diritti umani. Alla comunità internazionale: condannare pubblicamente ogni violazione, politica o operativa, dei diritti connessi al diritto d’asilo nella zona di confine e sostenere l’assistenza umanitaria per rispondere ai bisogni immediati delle persone coinvolte. CONCLUSIONI Dal 2021, la crisi umanitaria nella foresta di Białowieża si è progressivamente aggravata, accompagnata da violazioni dei diritti umani sempre più sistematiche, istituzionalizzate sul piano giuridico e avallate politicamente anche attraverso strategie propagandistiche di negazione e distorsione dei fatti, generando così una legittimazione simultanea sul piano giuridico, istituzionale, politico e sociale. Guardando al futuro, l’entrata in vigore del Regolamento (UE) 1348/2024 12 sulle procedure di asilo, con le quattro modifiche introdotte alla nozione di Paese terzo sicuro, rischia di produrre effetti restrittivi sulla protezione internazionale, in particolare in contesti di frontiera come quello tra Polonia e Bielorussia, dove potrebbe consolidare approcci securitari e ostacolare maggiormente l’accesso effettivo alla procedura d’asilo. In senso potenzialmente opposto, la recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea 13, così come le decisioni attese della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nelle cause H.M.M. e altri c. Lettonia, C.O.C.G. e altri c. Lituania e R.A. e altri c. Polonia potrebbero costituire delle contro-pratiche top-down alla plurima legittimazione della negazione dello stato di diritto nella foresta di Białowieża. Le sentenze attese saranno determinanti per chiarire l’applicazione combinata dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 (proibizione di espulsioni collettive di stranieri) e dell’articolo 3 (proibizione di tortura) della CEDU, con riferimento al margine di apprezzamento degli Stati e alla possibilità di deroga prevista dall’ articolo 15 della CEDU in situazioni qualificate come ‘emergenze’ – come quelle definite dagli Stati convenuti in giudizio come ‘guerra ibrida’ – in nome della sicurezza nazionale o dell’ordine pubblico. Non da meno sarà la valutazione circa l’effettiva disponibilità, o meno, di canali legali e genuini di ingresso nei tre Paesi interessati. 1. Come riportato da Reuters (2024). Polish border migrant crisis: bill to allow use of arms sparks rights concern ↩︎ 2. Testimonianza di Sanibab. Brutal Barriers Report on the Poland-Belarus Border, P. 4 (2025) ↩︎ 3. Leggi il rapporto ↩︎ 4. Nel 2021, il regime bielorusso ha deliberatamente favorito e strumentalizzato i flussi migratori provenienti da Paesi terzi, agevolando l’ingresso di migranti e richiedenti asilo verso il confine con la Polonia al fine di esercitare pressione politica sull’Unione Europea (UE), in risposta alle sanzioni adottate dall’UE nei confronti del regime di Lukashenko a seguito delle contestate elezioni presidenziali del 2020 e della repressione violenta delle proteste interne ↩︎ 5. Testimonianza di Sanibab. Brutal Barriers Report on the Poland-Belarus Border. (2025). P. 10 ↩︎ 6. Consulta il regolamento ↩︎ 7. Amnesty International (2022). Poland: Cruelty Not Compassion, at Europe’s Other Borders. ↩︎ 8. Oxfam, intervista a testimone privilegiato con Judyta Kuc, Responsabile del Supporto alla Missione e dell’Advocacy, MSF (11 giugno 2024) ↩︎ 9. Dati di We Are Monitoring forniti a Oxfam, gennaio 2025 ↩︎ 10. Scarica il rapporto (ENG) ↩︎ 11. Ibid ↩︎ 12. Consulta il regolamento ↩︎ 13. Consulta la sentenza ↩︎