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Il deserto dei Tartari
Silence fini è il racconto di tre settimane nel Mediterraneo centrale a bordo del veliero Nadir 1 di RESQSHIP, in cui ho vissuto il soccorso in mare e osservato da vicino le vite delle persone migranti e dell’equipaggio, tra responsabilità, vulnerabilità e privilegio, in un mare che resta coerente e implacabile. Attraverso la mia esperienza personale, esploro cosa sia un soccorso e come frontiere, norme e gerarchie si manifestino nei corpi, nei gesti, nelle decisioni e negli sguardi. Silence fini vuole aprire ad una riflessione sulle contraddizioni etiche e politiche del Mediterraneo contemporaneo. Il racconto della navigazione a bordo di questo veliero della Civil fleet che opera monitoraggio e soccorso nel central med, vuole ricordare la violenza strutturale che colpisce chi attraversa, tra respingimenti, detenzioni e pratiche di Stati che negano sicurezza e diritti fondamentali. SILENCE ET ATTENTE. IL DESERTO DEI TARTARI Se mi chiedessero quanto tempo dura un soccorso, potrò dire che può durare 26 minuti e che quei minuti ovviamente perdono dimensione: si dilatano, allungano, sparpagliano.  Notte insonne o quasi.  Alle dieci di mattina del 5 novembre, riceviamo un Mayday relay forte e chiaro da Eagle 1, Frontex: un gommone sgonfio con a bordo circa 70 persone. Siamo a solo due ore dal target, o poco più.  Ci prepariamo, con calma, con ordine: sappiamo che siamo in SAR Libica e che la segnalazione di frontex via radio arriva a tutti, compresa alla so called Libyan GC. Siamo, quasi, poco convinti… in questi giorni le segnalazioni sono state numerose, ma alla fine qualcosa ci ha sottratto al soccorso: un’altra barca della civil fleet nella migliore delle situazioni, un naufragio o una cattura da parte di GC tunisine o libiche, nelle altre. Nel frattempo arriva la comunicazione via VHF anche da SB, aereo che fa parte della flotta civile. Ci conferma le informazioni di E1, ma aggiunge che i libici si stanno dirigendo veloci verso quella direzione e che sono armati fino ai denti. Lascio che questa informazione mi scivoli addosso, come molte di quelle che arriveranno nelle ore che seguono: giusto parole, una dopo l’altra, che non si aggrappano al cervello. Non trattengo, non “processo”, non registro. Quanto di più tipico durante un’azione d’urgenza. Mi ci soffermerò dopo, ad operazione finita, lo farò nei prossimi giorni. Una certezza: chi presta soccorso, non è e non deve essere armato, se non di forza, coraggio, speranza, desiderio, cura e molto altro. Ma no, nella lista le armi non sono previste.  Ci dirigiamo e continuiamo la corsa.  Poi, li avvistiamo e ci facciamo riconoscere. L’immagine che si profila e che appare poco a poco più netta, mi sembra quella tipica di un soccorso, come se ne vedono molte: le persone sono a bordo di un gommone mezzo sgonfio, sovraffollato. Sono dentro e a cavalcioni di questa cosa che galleggia. Ovunque persone: sui lati, all’interno. Piedi nudi,  gambe sospese nel vuoto.  Niente di rosso ci appare: nessun gilet di salvataggio, solo qualche pneumatico nero attorno alle braccia di quelli che sono più esterni, seduti sui bordi.  Facciamo segno, ci riconoscono, esultano. L’accoglienza che ci riservano, le benedizioni che ci inviano è bella ma pericolosa: il loro equilibrio è talmente precario che in un attimo lacosachegalleggia potrebbe capovolgersi. Li invitiamo alla calma. Con le parole, coi gesti.  Le procedure standard, su cui siamo formati, prevederebbero di mettere in mare il nostro RHIB. Ma la corsa contro il tempo non lo consente e quindi ci limitiamo ad avvicinarci e a comunicare in modo chiaro e forte chi siamo, che li porteremo a bordo e come lo faremo. Il resto non so spiegarlo. Come un film al rallentatore,  una serie di gesti che si incollano un pezzo alla volta. Noi dell’equipaggio funzioniamo come un corpo a cui la testa ha dato i comandi. Io a prua e un’altra persona a poppa dobbiamo lanciare una cima che le persone a bordo di quella cosa sgonfia dovranno tenere, dall’inizio alla fine, senza mai lasciarla. Due persone devono stare all’interno, per accogliere chi entrerà a bordo, due alla porta d’ingresso per farle passare dalla zattera alla nostra nave, primo porto sicuro. Il capitano al comando di questa manovra.  Iniziamo e da questo momento fino al termine dell’operazione sono concentrata su quello che devo fare senza avere una completa visibilità su quello che i miei compagni compiono. Eppure siamo coordinati. Scoprirò alla fine che per far salire a bordo tutte le 71 persone, ci abbiamo messo soltanto 26 minuti. Lancio loro la cima. Non ricordo se sono la prima a farlo o il mio compagno a poppa. Reportage e inchieste/In mare SILENCE FINI Il racconto di una navigazione a bordo del veliero Nadir Roberta Derosas 27 Novembre 2025 Lancio e la prendono, la afferrano, la stringono. Se potessero, mi sembra che se la legherebbe attorno. Dall’altro lato è uguale. Il gommone nero si attacca alla chiglia della nostra N. Le braccia si tendono. La maggior parte delle persone è adulta: dalla posizione in cui mi trovo, mi ricordano i miei figli quando da piccoli mi tendevano le braccia. Vedo i visi, gli occhi, gli sguardi.  E ancora le braccia tese.  Si appendono alle cime, cercano di arrampicarsi, mentre gridiamo per farci sentire: è pericoloso quello che che accade. Il loro barcone ondeggia mentre sono tutti in piedi nel suo ventre sgonfio e bagnato. Grida di paura, grida di ordine, di comando, di indicazioni, di pretese e richieste di essere accolti per primi.  Sollevano i bambini, vogliono passarceli, salvarli. D’istinto ne prendo uno che qualcuno mi passa.  Penso a quella celebre frase che ricorda che nessun genitore affronterebbe quel viaggio se avesse un’altra scelta. Nessuno metterebbe in mare i propri figli dandoli in pasto alla morte, prima del tempo.  Comincia il trasbordo: cerchiamo di far passare prima le donne e i bambini. Ma non sempre è possibile. le persone si pressano, accalcano: la paura di non farcela li rende aggressivi tra loro all’inizio. Uno, due, tre, quattro… “mantenete la calma, salirete a bordo tutti”.  Cinque, sei, sette, otto…  “Non lasciate le cime”  Nove, dieci, undici e ancora, ancora, ancora, uno di più, senza smettere, senza pace né tregua, correndo per portarli tutti a bordo.  E mentre alcuni salgono, altri aspettano il loro turno, chi con calma, chi con ansia, mentre li rassicuriamo. A gesti e a parole.  Un ragazzo di fronte a me, un minore che viaggia da solo. Mi guarda e mantengo il contatto con lo sguardo, gli sorrido, lo rassicura. Potrebbe avere l’età di mia figlia. Tra i 16 e i 17 anni. Lei è al caldo, a quest’ora è a scuola. Le persone salgono a bordo e io indico agli uomini che salgono sul ponte dove sedersi a prua. Le donne e i bambini all’interno. Il gommone nero si svuota. Ne restano a bordo tre, due, uno. Nessuno.  Sono tutti qui ora nella nostra barca.  Tutti al sicuro.  La procedura prevede mail e chiamate, compreso la MRCC libica. Tocca a me, fa parte delle mie funzioni a bordo. Al primo e secondo numero non risponde nessuno. Al terzo, mi rispondono. “No english, only arabic”. Ripeto e provo anche in francese. La risposta è la stessa. Silenzio. Riagganciano. Da MRCC Malta non risponde nessuno. Solo una segreteria telefonica. Da Roma invece qualcuno all’altro capo del filo. L’ufficiale di servizio conferma di aver ricevuto la mail. Sudo. Questa è la parte che mi fa più timore, eppure ho sempre l’appoggio del capitano. Ma basta una mail mandata al momento sbagliato, una parola non precisa che si rischia l’arresto delle operazioni da parte delle autorità. Nel frattempo, la N si trasforma: non esiste uno spazio vuoto. Le nostre cabine sono piene di oggetti. Altrove, persone ovunque.  E poi odore di urina, di escrementi, di paura, di mare bagnato.  Gente che vomita ovunque.  Le persone sono fradice: di viaggio, di fatica, di anni di lotta ed erranza. Se mi chiedessero quale odore associo alla migrazione di chi arriva dall’Africa attraverso il mare, è questo. Lo stesso che ho sentito ai moli durante gli approdi.  Cominciamo ad aiutare le donne a lavarsi, a mettere vestiti asciutti. Ancora una volta: una, due, tre, quattro…. Ci vuole qualche ora perché siano tutte coi vestiti asciutti. I sacchi si riempiono di panni bagnati pieni di vomito, urina, dolore.  Siamo in tre donne a prenderci cura di loro. Le aiutiamo a lavarsi, a passare il sapone su schiene, seni, ventri che hanno cicatrici di colpi e smagliature dei parti. Corpi nudi, indifesi. A cui cerchiamo di restituire ciò che mi sembra sia stato tolto per anni. Non smetto di pensare a come mi sentirei se una sconosciuta mi guardasse nuda. Cerco di essere discreta, a me non piacerebbe. Credo vorrei solo chiudermi da qualche parte lontano da tutto. Chiediamo loro se vogliano essere aiutate. Nessuna rifiuta. Metto tenerezza in quel gesto, la stessa cura che userei verso i miei figli, verso me stessa, verso chi conosco e amo. Alcune parlano, altre distolgono lo sguardo, altre ancora raccontano la loro storia. Una donna nigeriana mi dice che è rimasta in Libia oltre un anno dopo aver restituito il debito alla madam. “Ho continuato a lavorare per conto mio, mi sono pagata il viaggio”. Ha una grossa ferita sul seno. Mi dice che le è esplosa una bombola di gas addosso mentre cucinava. Non faccio domande, ascolto chi ha voglia di raccontare. Osservo i corpi, in silenzio: i lividi, le cicatrici, le scarificazioni, la forma, le macchie; Siamo tutti sfiancati:  le persone a bordo sono stanche, gli ospiti si addormentano, adattando i corpi ai posti disponibili. Noi ci diamo i turni per avere qualche ora di riposo. Il ponte è dorato dalle coperte termiche; fa lo stesso rumore della carta di una caramella. Solo che le caramelle qui sono persone. 49 uomini. Dentro 26 donne. 5 bambini, tra cui una neonata di soli 21 giorni, che una madre sfinita allatta senza sosta ad ogni risveglio. Per fortuna, non ricorderà nulla di questa notte senza fine.  Avrà memoria degli anni che arriveranno, delle procedure, dei centri, dei cambiamenti di case e paesi. Forse.  Ma non dei 26 minuti di questo soccorso. 1. Nadir è un veliero che svolge operazioni di search and rescue nel Mediterraneo e fa parte della Civil Fleet ↩︎
Silence fini
Silence fini è il racconto di tre settimane nel Mediterraneo centrale a bordo del veliero Nadir 1 di RESQSHIP, in cui ho vissuto il soccorso in mare e osservato da vicino le vite delle persone migranti e dell’equipaggio, tra responsabilità, vulnerabilità e privilegio, in un mare che resta coerente e implacabile. Attraverso la mia esperienza personale, esploro cosa sia un soccorso e come frontiere, norme e gerarchie si manifestino nei corpi, nei gesti, nelle decisioni e negli sguardi. Silence fini vuole aprire ad una riflessione sulle contraddizioni etiche e politiche del Mediterraneo contemporaneo. Il racconto della navigazione a bordo di questo veliero della Civil fleet che opera monitoraggio e soccorso nel central med, vuole ricordare la violenza strutturale che colpisce chi attraversa, tra respingimenti, detenzioni e pratiche di Stati che negano sicurezza e diritti fondamentali. SILENCE, ATTENTION. C’è molto da raccontare dopo tre settimane a bordo della Nadir: le vite che l’hanno attraversata e abitata, il dovere dei soccorsi a cui ho preso parte, il dolore, la miseria. E non penso solo a quella di chi parte e sale al sicuro: quella è una povertà facile.  Mi riferisco a quella sporca, di esseri umani che infliggono tortura e degradazione ad altri, quella di chi nega diritti,  quella in cui gli Stati bianchi e protetti da una fortezza pagano complici a sud per ricacciare indietro uomini, donne, bambini: vite che hanno diritti di cui si tenta di ignorare l’esistenza, vittime di un’indecenza a cui si tenta di rispondere. Tre settimane in un veliero, eterotopia per eccellenza in cui si rende onore al dovere di soccorso e in cui navigare è pratica politica. Ventuno giorni che, nel loro dispiegarsi, hanno disegnato, affermato, cancellato e sospeso frontiere. Il mare continua a essere perfetto anche quando tutto il resto non lo è, fa il suo mestiere con coerenza millimetrica: ospita, custodisce, trasporta, ingoia, mentre gli uomini sembrano smarrire il proprio compito, quando cercano senza trovare o ignorano ciò che si vede.  L’attesa talvolta è stata una compagna complessa, faticosa, che mi si è attorcigliata come un filo mal teso. Durante la navigazione, il mare mi è apparso, talvolta,  come una superficie uniforme. Più spesso, mi ha rivelato correnti, decisioni, ruoli, movimenti. Sono stata a bordo con sette persone  che lo hanno vissuto per il tempo sospeso della rotation #10. Quattro uomini e tre donne che, nel tempo di questa navigazione tra il 25 ottobre e il 15 novembre, sono stati marinai, volontari, ricercatori, giuristi, film maker, fotografi, esperti di logistica, sia rivestendo ruoli già conosciuti perché parte del loro quotidiano nel loro paese di origine, ma altrettanto nuovi e differenti nello spazio marino.  Abbiamo abitato l’ordine mobile imposto dall’acqua e dal vento,  nel ritmo altalenante delle onde, nel perimetro stretto delle manovre, nel silenzio che precede le comunicazioni radio, nel gracchiare di un canale VHF connesso h 24 rumoroso nei momenti più inopportuni. Ogni gesto quotidiano – tra nodi, scelta delle rotte, controllo di motori, mail, cibo cucinato e condiviso, soccorsi – ha disegnato una coreografia ripetuta eppure varia.  Per tre settimane ho osservato il mare e suoi i movimenti, chi lo lo abita e lo traversa, chi lo confina o ne apre i varchi e, allo stesso tempo, me  stessa lì dentro: ciò che che ho temuto, affrontato, invocato, curato. Quello che mi ha suscitato domande e quello che ha generato certezze, in un costante movimento di relazione all’Altro. Etnografia e auto etnografia del mare. Ho condiviso un tempo e uno spazio con altre persone a cominciare dalla crew. L’equipaggio aveva, in parte, esperienze pregresse di SAR nel Mediterraneo Centrale. Tutti provenienti dalla Germania tranne due persone, la comunicazione a bordo è sempre stata l’inglese, ma talvolta una lingua ibrida si è usata tra i membri, un broken english, sporcato da accenti diversi e parole tedesche, italiane e francesi, a seconda delle lingue comuni. Il capitano, I., tedesco, oltre che essere uno dei fondatori di questa OnG, lo è stato anche di un’altra, da cui si è allontanato nel 2019. Meccanico in pensione, ha profonde conoscenze dei salvataggi in mare, in cui opera come capitano volontario da oltre dieci anni. Il meccanico di bordo, ma anche responsabile degli ospiti, M.,  ha già partecipato con diverse organizzazioni a missioni di soccorso. In Germania si occupa a domicilio di persone paraplegiche, con un ruolo che prevede la cura fisica e quella amministrativa.  Il medico, una donna, ha una lunga esperienza nei contesti di emergenza in Germania, ma era alla sua prima navigazione. Il fatto di partecipare a questa rotazione è un’idea che si è fatta strada, per lei, nel corso del 2025. Come Filmmaker e Official Media Communicator oltre che RHIB driver, T., un altro tedesco appassionato di fotografia, ma di mestiere operatore sanitario nei contesti di urgenza da più di 25 anni nella sua città, nel nord della Germania. Di operazioni di soccorso, ne ha fatte molteplici. Come guest care un altro tedesco, J, che ha partecipato, anche lui, a molte operazioni. In Germania è avvocato penalista. Poi D, una ragazza greca che vive in Francia come me: è stata co- skipper e nel RHIB si è occupata di avere il primo contatto con le persone migranti. È la più giovane del gruppo e si affaccia alla search and rescue bubble, ma ha al suo attivo una forte esperienza di militanza con persone migranti. Naviga per mestiere. E poi ci sono io, a metà tra Italia e Francia, a metà tra lavoro sociale e ricerca. Ho il compito di comunicare con le autorità sia per scritto che via radio VHF e telefono, ma anche degli ospiti a bordo insieme a J., sia per la distribuzione di vestiti e cibo quando le persone saranno soccorse che per spiegare loro cosa significa arrivare in Europa. Questa è la seconda operazione a cui partecipo: ciò non fa di me una grande esperta, solo una persona cosciente di cosa mi aspetta. Le motivazioni che ci hanno spinti a bordo sono molteplici e col denominatore comune di pensare al soccorso in mare come un atto doveroso quando le persone attraversano. Ne abbiamo parlato in queste tre settimane di vita comune, ma più sono aumentati i giorni di navigazione che hanno trasformato la terra in un miraggio alle nostre spalle, meno sono stati gli spazi condivisi di discussione sulle motivazioni che ci avevano spinti a bordo: abbiamo vissuto in un sistema di shift in cui, due alla volta, ci siamo divisi le giornate a spicchi e quando non siamo stati di watch, spesso abbiamo cercato di dormire. La fatica  e il sonno rendono silenziosi. Il tempo in barca si ritesse come la frontiera che abbiamo percorso senza sosta.  Accanto alla relazione a me stessa e all’equipaggio di cui ho fatto parte, si è aggiunta quella con tutti gli altri attori del Mediterraneo, dalle persone in movimento, ai pescatori, dagli altri membri della civil fleet marina, aerea e terrestre, a quelli istituzionali, compagni talvolta imposti dal mare e dal diritto che lo regola, ma profondamente temuti e indesiderati, come le GC Tunisina e Libica. Nelle note che seguono, il Mediterraneo centrale è al contempo attore e scenario: con la sua bellezza ha accolto e accompagnato la nostra azione e la navigazione di questa barca, accentuando il contrasto indecente tra la perfezione della natura – che mi stupisce sempre – e l’assoluta assenza di logica che abita talvolta il soccorso in mare, tra barche segnalate che non si trovano e altre cariche solo di oggetti lasciati a macerare, ma prive di persone di cui non si conosce il destino. Siamo partiti da Malta, dove la barca è ancorata tra un’operazione e l’altra, isola che scopro per la prima volta. Mi fa pensare a Lampedusa, che arrivando dall’aereo, appare piccola piccola. Il maltese mi sembra un insieme strano di inglese, siciliano, arabo. Una lingua vecchia di rapporti e dominazione, di parole eleganti e suoni duri, un archivio di incontri, ferite, scambi, compromessi. Nelle parole si sente chi è arrivato dal mare e chi dal deserto. Mi fa pensare a chi, nei secoli, attraverso questa lingua, ha perso una patria o ne ha conquistata una, chi ha scelto di rimanere e chi è stato costretto a farlo. In fondo, un idioma è più onesto delle politiche che si applicano in migrazione: non c’è lingua che resta pura, né confine che rimane intatto. Le vocali sono un prestito, le consonanti diventano testimoni di un movimento umano: di lavoro, di fuga, di desiderio, di sopravvivenza. Le lingue si sporcano e tessono di incontri: sono testimoni del fatto che nessun popolo è mai stato solo e isolato. A bordo, navigando, si sono tessute conversazioni. A volte, il mondo si è apparentemente diviso tra noi e loro, The migrants come li chiamano nella bubble SAR: Corpi bruciati, carne ossidata dal sale, mare, gasolio che laviamo con acqua e sapone quando salgono a bordo. Persone, cicatrici, dolore, movimento, oggetto, soggetto, vittime, attori. Ossimoro vivente, continuamente riprodotto dal mare e dallo sguardo di chi lo attraversa. Io faccio fatica, all’inizio della navigazione, a usare questa parola per indicare le persone che si incontrano perché mi pare di ridurle al solo fatto della migrazione, di dimenticare che sono molto altro che il viaggio che affrontano. Penso a Sayed quando dice che l’immigrato, per definizione, non é jamais tout à fait un homme: il est d’abord immigré, un’identità che cancella la biografia, una parola che descrive la persona solo attraverso una lente e lo riduce, esclusivamente, a soggetto in movimento. Ma quante storie esistono dentro queste persone che si muovono? Penso a H. Arendt e a Judith Butler che invita a riflettere a come il linguaggio crei una frontiera tra “noi” e “loro”. Se loro sono “migranti da soccorrere”, allora automaticamente noi siamo “soccorritori”. Siamo categorie: i salvati da una parte, i salvatori dall’altra, come se non esistessero alternative. E invece la realtà è meno ordinata di così. Il viaggio ci mette tutti in una condizione vulnerabile, solo in forme diverse. C’è chi ha perso la terra da cui viene, chi si misura con la frattura tra ciò che vede e ciò che il mondo finge di non vedere e il movimento non lascia nessuno intatto. Cosa significa essere soccorsi o soccorrere, essere tratti dall’acqua, riconosciuti come persone? Cosa significa avere il diritto a esistere senza dover giustificare la propria esistenza? Le frontiere non sono solo nel mare o tra le terre, ma cominciano dalle parole e dagli sguardi.  Durante la navigazione, in mare, non esistono confini tracciati a vista o muri fatti di reti, eppure ogni tratto d’acqua ha qualcuno che ne ascolta le voci. Nella zona SAR, quando un’emergenza appare, la centrale di coordinamento di quell’area deve intervenire e distribuire i ruoli: chi si avvicina, chi rimane in attesa, chi osserva. Non si tratta di approvare o giudicare, ma di mantenere l’ordine necessario perché le vite sull’acqua non vadano disperse nella confusione. Nel soccorso in mare il paese “proprietario” di quelle acque è destinato ad averne il controllo e  riportare nella propria terra, nei propri porti. Ma da quando la Libia è un porto sicuro? E la Tunisia lo è? Perché in questi luoghi gli esseri umani sono venduti, torturati e liberati solo a condizione di pagare un riscatto. Il principio di non refoulement, che detto in francese suona elegante,  e il duty to render assistance sono solo parole inanellate le une alle altre. Il Mediterraneo Centrale è un’Odissea moderna, popolata da creature strane, luoghi, farabutti, avventurieri, eroi, protagonisti e personaggi che fanno da sfondo. Abbiamo navigato percorrendo la banana route, derivato accanto alla piattaforma di Miskar nel Golfo di Gabes: una struttura innaturale che, eppure, si confonde col paesaggio. Un sistema di piani, scale e tubature che lavora per catturare ciò che si nasconde sotto il fondale. Di giorno, il metallo sembra un’anima priva di vita; di notte, le luci la rendono una presenza spettrale. Miskar non è soltanto metallo. È anche una specie di frontiera: tra l’uomo e il mare, tra ciò che si estrae dal profondo e ciò che resta in superficie, in una sorta di dimensione sospesa. Senza essere un luogo, lo diventa, come una barca ancorata in eterno. Ne ho sentito parlare senza sosta da chi ha già navigato nel Mediterraneo Centrale partecipando a operazioni di soccorso e ne ho memoria dai racconti di un amico etiope, che lasciando la Libia nel 2006, l’ha incrociata di notte e confusa con una nave insieme ai compagni d’avventura. Mi ha raccontato dell’entusiasmo, mentre navigava con gli altri, nel vedere le luci in lontananza, ma poi della delusione alla certezza che non si trattasse di una barca.  Nel cuore di questo sud liquido, abbiamo incontrato imbarcazioni: piene di persone, vuote. Di lamiera, di gomma, di legno, di vetroresina. Blu, nere, azzurre, grigie, ruggine. Anonime o col marchio di fabbrica: una tra tutte quella incontrata  dopo qualche giorno di navigazione. Dieci metri di lamiera stridenti incollata con lo sputo e il sudore destinate ad accogliere almeno ottanta persone. Sulla chiglia, a prua, il marchio di chi l’ha prodotta: King 24. Di questo mostro di metallo, Marinetti avrebbe riprodotto una serie di suoni sinistri. È un affronto alle leggi della fisica. Dentro, qualche scarpa, qualche pneumatico nero, uno zaino da bambino, due macchinine giocattolo, distrazione infantile durante un viaggio insensato. Abbiamo tentato di affondarlo, questo mostro, ma ci ha resistito cigolando in modo sinistro.  In ventuno giorni, abbiamo perlustrato, derivato, corso, veleggiato, usato il motore: ci siamo imbattuti per caso in barche abbandonate, ci siamo diretti verso mezzi di fortuna segnalati che non abbiamo mai trovato. Certi giorni abbiamo lottato, altri abbiamo dovuto riporre la speranza. Penso al giorno in cui siamo andati la mattina in direzione di un target che non abbiamo mai raggiunto e di cui, la sera, abbiamo conosciuto il triste epilogo: uomini che, partiti dalla Libia, sono rimasti troppo vicini alle coste e entrati nella SAR tunisina. Sottratti al mare dalla GC Tunisina, sono stati immediatamente detenuti. L’epilogo si conosce: saranno portati alla frontiera tra Tunisia e Libia, incarcerati, trasferiti e poi venduti dagli agenti di Stato Tunisini ai miliziani libici. Ne parlano anche i testimoni del rapporto State Trafficking del collettivo RRX. Si sa; è storia nota che si vuole tenere all’oscuro. C’è un privilegio che ho sentito dolorosamente a bordo: quello della bellezza costante di questo mare, quella della navigazione su un veliero, quella di essere bianchi e nati dentro la fortezza e non al di fuori, quella di scegliere sempre da che parte stare.  1. Nadir è un veliero che svolge operazioni di search and rescue nel Mediterraneo e fa parte della Civil Fleet ↩︎
Mama Africa: quando la cura sfida la violenza
Quello che segue è un estratto di una lunga conversazione con Marino Dubois, Mama Africa: ricordi, appunti, riflessioni, informazioni tra traiettorie, persone, violenze e i meccanismi che le governano. È una parte dello scambio – intervista tra lei e quattro membri dell’equipaggio di Tanimar: Marie Milliard, Roberta Derosas, Georges Kouagang e Luca Queirolo Palmas 1. Il testo documenta la trasformazione delle frontiere mediterranee: respingimenti in mare, deportazioni nel deserto, rapimenti, estorsioni e la violenza crescente negli accampamenti a nord di Sfax, in Tunisia. L’intervista descrive inoltre le reti complesse di attori informali che operano lungo le rotte – arnaqueurs, cokseurs, aventuriers, taxi-mafia – ed evidenzia il ruolo politico dell’azione di Dubois: bénévole au sujet de la migration, così come si definisce lei di fronte ai suoi oltre 100mila followers. In una casa di campagna da qualche parte in Europa vive Marino Dubois, detta Mama Africa. Intorno a lei, quaderni fitti di note e di numeri di telefono, appunti, date. Sul suo profilo Facebook, che è stato chiuso e riaperto più volte, scorrono avvisi, fotografie, richieste di aiuto. Ad ogni momento, che sia giorno o notte, le arrivano chiamate da uomini e donne, esseri umani in cerca di speranza, bloccati da qualche parte in Tunisia o Libia, persone in viaggio lungo le rotte del Mediterraneo. Riceve richieste da famiglie che cercano i propri cari, da chi non sa più a chi rivolgersi, perché compresso dalle logiche degli Stati europei che gestiscono la vita e la morte delle persone, riducendo a cifre la sorte di chi attraversa il Mediterraneo. Marino Dubois ha cominciato circa otto anni fa: l’elemento scatenate per lei è stato l’omicidio di un giovane della Guinea che viveva in Francia. Si trattava di Mamoudou Barry, ricercatore all’Università de Rouen-Normandie, ucciso per il colore della sua pelle, a pugni e colpi di bottiglia. Rouen (19 luglio 2020), manifestazione in memoria di Mamoudou Barry Questo omicidio di stampo razzista, ennesimo frutto della violenza a cui molti sono sottomessi, l’ha spinta ad agire. Da allora il suo lavoro si è trasformato in un’attività costante: informare, raccogliere testimonianze, denunciare sparizioni, restituire tracce e nomi a chi rischia di svanire senza lasciare segno. Abbiamo passato con lei due lunghe giornate: la conversazione tra noi è stata un filo stretto tessuto per ore. Dal suo racconto emergono le trasformazioni delle frontiere mediterranee: i respingimenti in mare, le deportazioni nel deserto, la tratta di stato che continua fra Tunisia e Libia nonostante il fenomeno sia ormai divenuto pubblico e documentato 2, i rapimenti e le estorsioni a scopo di riscatto, la violenza crescente negli accampamenti improvvisati negli uliveti intorno a Sfax. Una violenza che si ripete come la corrente del Mediterraneo: silenziosa, continua, inevitabile. L’intervista restituisce anche la complessità delle reti che si muovono attorno a queste rotte animate da arnaqueurs, cokseurs, taxi-mafia: figure che gestiscono spostamenti, soldi e persone lungo i percorsi migratori. Dubois spiega questi termini e ne restituisce la funzione all’interno di un sistema di violenza e solidarietà che conosce dall’interno. Li ritroviamo, insieme a molti altri, nel Contro-dizionario del confine, testo che raccoglie e restituisce l’esperienza del viaggio a partire dai diretti protagonisti 3. Nel corso della conversazione emergono le relazioni che Dubois ha tessuto: con le persone in viaggio, con le famiglie che cercano i dispersi, con chi la chiama per chiedere aiuto, coi bambini che portano il suo nome, tra progetti scolastici nati negli insediamenti, i matrimoni e i battesimi a cui è stata invitata, nelle reti di solidarietà che operano tra precarietà e violenza. È un lavoro di cura il suo, in cui da pensionata continua una esperienza lavorativa da assistente sociosanitaria, ma in un contesto in cui la vita e la morte sono in gioco ogni giorno sul filo di una chiamata o di una notizia condivisa. Quello che fa, ha un valore politico: raccontare la realtà delle frontiere, denunciare violenze e sparizioni, costruire reti di sostegno significa sfidare le logiche statali e l’indifferenza europea, restituendo voce e visibilità a chi è marginalizzato e invisibile.  COME HAI COMINCIATO A SOSTENERE LE PERSONE CHE CERCANO DI ATTRAVERSARE LA FRONTIERA EUROPEA? L’elemento scatenante è stata la storia di un ragazzo della Guinea, 7 o 8 anni fa. Un giovane che abitava in Francia e che, intervenendo in soccorso di un’altra persona, aggredita, è stato ucciso. Mi aveva scioccato il fatto che un ragazzo potesse essere freddato in quel modo, a mani nude, in Francia. Era una brava persona. Aveva una vita davanti. Ho iniziato così, da quell’ingiustizia che mi è sembrata insopportabile. CHI SA QUELLO CHE FAI? Scherzi? Nessuno qui sa che sono Marino Dubois e nessuno deve saperlo. Neppure la mia famiglia. Non capirebbero quello che faccio, e poi credo che sarebbe un pericolo. Nessuno sa dove abito, anche se la mia foto è sulla pagina facebook. Nessuno sa in che paese vivo. Ho già ricevuto molte minacce. CHE LAVORO FACEVI PRIMA? Ero assistente sociosanitaria in ospedale. Ora sono in pensione. In realtà, continuo il mio lavoro, solo in un altro modo, curando, ascoltando. Facevo parte del mondo medico; ho lavorato anche in un reparto di cure palliative, quindi c’è qualcosa che continua. In ospedale ti trovi di fronte alla morte. Ma ora mi trovo di fronte a molte morti. Si prova una sorta di angoscia, di stress, perché ti dici: “Ma…ove sono? Quanti sono? Quanti sopravvissuti?”. Poi ti immagini al loro posto. E quando li portano alle prigioni e li picchiano e li mandano in Libia, sono spesso feriti. Per esempio, nell’ultima barca erano tutti ustionati molto gravemente.  Prima del 2023, in Tunisia, le persone intercettate in mare erano lasciate libere di tornare negli uliveti o nelle città; ma è dal 2023, dai grandi arrivi a Lampedusa e con l’Unione Europea alle spalle, che le autorità tunisine hanno cambiato il loro modo di agire. Ecco cosa hanno causato gli accordi. Altri morti. Ecco tutto. L’Unione Europea vuole fermare il flusso migratorio, ma hanno coscienza delle morti che generano queste politiche?  Potrebbero mandarli a casa loro, se volessero. Che sia l’Algeria o la Tunisia, hanno tutti aeroporti, hanno l’OIM. Io dico: ”Ma fateli partire, non gettateli nel deserto, non mandateli a morire”. Questo è il problema. E così dal 2023: siamo nel 2025, sono passati due anni. Provate a immaginare il numero di morti… RACCONTACI COSA FA OGNI GIORNO MAMA AFRICA… Sono passati 7 anni, ma non vedo passare il tempo, non lo conto. Sono attiva tutti i giorni, 24 ore su 24, perché le persone migranti che sono lì, gli avventurieri, non mi lasciano dormire. Mi chiamano nel cuore della notte, a volte mi dicono che è urgente. Sai, mi dicono che la mattina si alzano e la prima cosa che fanno è ascoltare Mama Marino, leggono quello che ho pubblicato su Facebook, le notizie, quali sono i giorni adatti alla navigazione e quali no…Non hanno idea, bisogna stare sempre ad ascoltarli e ti chiedono molte parole, molto sostegno. Riconoscimento, speranza. Perché non ce l’hanno più, hanno perso tutto. È così. Quindi sono obbligata a rispondere. Spesso mi dicono che non mi devo ammalare: “Curati, curati. Non ti ammalare perché abbiamo bisogno di te, abbiamo troppo bisogno di te. Non ti ammalare”, mi dicono. Hanno perso tutto, non hanno nulla. Per loro sono una persona importante, anche se per me non è così, ma per loro lo sono. Forse è egoista, ma loro hanno bisogno che io sia lì per le loro richieste, le loro domande, i loro problemi, per aiutare a recuperare quanto hanno perso, per i contatti…  INTORNO A TE SI È CREATO UN INCREDIBILE SISTEMA DI COMUNICAZIONE E DI SAPERE CONDIVISO. AD ESEMPIO, QUANDO ABBIAMO PERSO UN NOSTRO AMICO IN TUNISIA, TI ABBIAMO CHIESTO DI PUBBLICARE LA SUA FOTO. GRAZIE AI COMMENTI AL POST DI QUESTA SCOMPARSA, ABBIAMO SCOPERTO RAPIDAMENTE CHE ERA STATO DETENUTO, POI DEPORTATO E VENDUTO IN LIBIA E CHE ERA RIUSCITO A SCAPPARE IN ALGERIA; SIAMO ANCHE RIUSCITI A CHIAMARLO TRAMITE UN COKSEUR… Pubblico molti post perché ci sono tantissime persone che scompaiono. Ed è importante pubblicare la foto di qualcuno che molto probabilmente è deceduto, perché significa anche lasciarne una traccia. Questo è il problema quando le persone scompaiono: perché le autorità non recuperano tutti i corpi di chi muore in mare? Perché li seppelliscono in fosse comuni e nessuno ne sa più nulla? Le famiglie non sono al corrente. Lo trovo inaccettabile. Per esempio: ci sono molte donne che sono morte, diverse incinte, ho molti video… È dura vedere quelle immagini. A volte vengono deportati e abbandonati più volte, che sia in Libia, in Tunisia, in Algeria. Ci sono migranti che non escono dal deserto per giorni, settimane. Non c’è acqua, non hanno niente, non hanno più il telefono, non possono più comunicare la loro posizione, non sanno dove si trovano. Così muoiono molte persone. HAI VISTO DEI CAMBIAMENTI DA QUANDO HAI INIZIATO LA TUA ATTIVITÀ? Certo. La situazione è peggiorata, perché 7-8 anni fa non vedevo nulla di tutto questo. Ho incominciato quando molte persone migranti erano in Algeria. Le loro condizioni di vita erano pessime. C’erano comunque dei morti nei cantieri, dove lavoravano e vivevano. Poi ho conosciuto il Niger e anche qui, che dire? Le condizioni anche lì sono disumane: le persone non hanno cibo, fanno la fila per lavarsi, non c’è acqua, ci sono le tempeste di sabbia, dormono per terra all’aperto. Le condizioni sono spaventose. Ma la situazione è peggiorata in tutti i sensi, sia a livello delle autorità, ma anche fra i migranti… la violenza è aumentata. Perché la violenza chiama violenza. A partire dal settembre 2023, dopo l’ultimo grande ingresso a Lampedusa, è stato un disastro. Ho iniziato così ad occuparmi anche della Tunisia e quello che facevo prima non ha più nulla a che vedere con l’attualità. Ora ad esempio ci sono i rapimenti, un fenomeno che prima non esisteva.  PUOI SPIEGARTI MEGLIO? CHI SONO I RAPITORI, I KIDNAPPEUR? Ci sono sequestri di persona operati a scopo di riscatto da tunisini o altri migranti subsahariani e spesso sono legati ad altre forme di violenza e tortura sulle persone sequestrate. È un sistema in cui trovi migranti e non, arnaqueurs, taxi mafia, cokseurs. Per esempio – e mi riferisco principalmente alla Tunisia – ci sono persone che vengono respinte nel deserto dell’Algeria e lì trovano i taxi mafia che si offrono di riportarli a Sfax. Le persone pagano, è costoso, tra i 200 e 250 euro. Solo che, invece di essere liberate, sono portate dai kidnappeur, in case e altri luoghi a Sfax. Le persone vengono torturate, picchiate; i sequestratori prendono loro il telefono e chiamano le famiglie. Un tempo a me accadeva che mi chiamassero mentre torturavano le persone; ricevevo i video. Ci sono i rapimenti che fanno parte di un sistema di violenza diffusa. C’è molta droga, molto alcool, che prima non c’erano. E anche questa è colpa di Sayed, del presidente tunisino. Risale a quando ha cacciato tutti da Sfax, quando ha proibito ai neri di avere un tetto e un lavoro. Li hanno caricati su dei bus per poi scaricarli negli zitounes (uliveti) e lì, i migranti hanno costruito case di fortuna, per chilometri. L’alcool, i machete, la droga…ma le persone non sono arrivate con i machete, con l’alcol e neppure con la droga, le caramelle, i bonbons come dicono loro. E chi li produce? Chi glieli dà? Non è nemmeno erba, sono pasticche. Vengono da qualche parte, non le producono certo i migranti negli uliveti. Sono i tunisini a far arrivare droga e alcool.  HAI PARLATO DI KM, DI ZITOUNES… Risale tutto al 2023, quando le persone sono state cacciate da Sayed e portate a Nord di Sfax. Chi non è partito prendendo il mare, ha costruito tende e baracche sotto gli ulivi, lungo i km di costa. Sono gli zitounes.  Sono campi di ulivi, di proprietà di persone tunisine. A volte sono grandi campi, a volte sono più piccoli. Infiniti chilometri, come noi abbiamo città con tanti chilometri, dal km 5, 6 fino all’80 credo, e quindi tutti i chilometri vengono utilizzati dai migranti per accampare perché non hanno più diritto a stare nelle case. In realtà, le autorità tunisine li hanno parcheggiati in questi posti. E poi li hanno respinti, hanno distrutto le loro tende e loro le hanno ricostruite e così di seguito… e questo non fa altro che creare problemi perché, come ho detto, la violenza genera violenza. Perché si creano bande che sono in conflitto e che vogliono prendere il controllo dello spazio e dei traffici… e questo crea grossi problemi. La gente ora ha paura. Hanno persino paura di parlarmi.  PIÙ SI BLOCCA IL MARE, PIÙ AUMENTA LA VIOLENZA… MA ALLO STESSO TEMPO, NEGLI ZITOUNES CI SONO ANCHE MOLTE INIZIATIVE DI SOLIDARIETÀ… Sì, un giorno un migrante mi ha chiamato per dirmi: «Stiamo per avviare un progetto scolastico». Ho detto: «È fantastico, perché ci sono tanti, tantissimi bambini, almeno li terrà occupati». All’inizio ce n’erano una decina, ma poi si sono ritrovati con una trentina di bambini. Era davvero una buona cosa. Li teneva occupati. E poi tutto questo è stato distrutto. C’erano anche delle moschee, luoghi di preghiera, degli ospedali. Ci sono stati matrimoni, ci sono stati battesimi. Le autorità distruggono, loro ricostruiscono. E LE PERSONE TI FANNO PARTECIPARE A QUEI MOMENTI COSÌ INTIMI? Certo! Anche quando ci sono i sacrifici, quando si preparano a salire sulla barca per attraversare, quando sacrificano la pecora prima di un viaggio, tutto questo, sì. Sono al corrente di tutto, mi informano. Ci sono bambini che portano il mio nome. CI HAI RACCONTATO CHE A VOLTE TI CHIAMAVANO DURANTE LE TORTURE… Ora non lo fanno quasi più, perché gli aguzzini a Sfax, i sequestratori, bloccano i telefoni. Prima, quando mi chiamavano, potevamo localizzarli. Ora non più. Più volte, mi han chiamato e mi hanno fatto sentire come torturano. Prendono dei sacchetti di plastica, li incendiano e poi li fanno cadere sui loro corpi, oppure usano i coltelli o i machete. Anche le donne vengono picchiate, torturate, violentate. È terribile. La violenza, questa violenza prima non esisteva, perché le persone potevano andarsene. E ora sono bloccati lì a Sfax come topi. Ma in fondo è quello che le autorità tunisine volevano. Le persone non hanno più niente. Ne ho tanti, tanti che mi chiamano, che mi chiedono aiuto. E io… non posso aiutare tutti. Mi chiedono aiuto ogni giorno, ma io non riesco. Non hanno niente da mangiare e anche questo ovviamente crea violenza. Come puoi sopportare tutto questo? Appena riattacco, il telefono squilla di nuovo, per un’altra cosa e sono sempre in movimento. Assistere a tutta questa violenza è terribile. PER CHI NON HA MAI VISTO LA TUA PAGINA, PUOI SPIEGARE COSA FAI? Allora, innanzitutto i migranti la usano come pagina di informazione; guardano quello che ho scritto, perché così ricevono almeno informazioni su ciò che accade nei paesi in cui si trovano. Parlo delle aggressioni; quando c’è la polizia che brucia gli uliveti o ci sono arresti, lo racconto. E poi le sparizioni e le deportazioni: persone che scompaiono, le famiglie nei paesi di origine che mi mandano foto, che mi chiedono di pubblicarle. Ne ritroviamo molti. Ricevo molte chiamate dalle famiglie. Pubblico anche le barche che sono scomparse. O ancora: che una certa barca è partita da un porto. Scrivo sui naufragi, informo sulle condizioni meteo nei luoghi di partenza di Algeria, Tunisia e Marocco e su quelli di arrivo a Lampedusa, Pantelleria, Spagna…dico di non partire con il cattivo tempo. Perché ho iniziato a farlo? perché penso che potrò salvare delle vite. È il mio obiettivo. Anche dare consigli. Per esempio: esistono problemi di sovraccarico nelle barche, li invito a rispettare le condizioni meteo, di fare attenzione alla costruzione della barca, al motore. La maggior parte dei naufragi è dovuta a questo, perché le persone partono in condizioni molto sfavorevoli, con barche che erano di legno e ora sono di ferro, saldate male. Non ho mai navigato, eppure sono diventata un’esperta di meteo, barche, di motori. Proprio io, che non sono mai salita su una barca. Ci sono troppi capitani inesperti, sempre più inesperti, persone che non sono mai state in mare e che sono messe al comando. La maggior parte dei naufragi è dovuta al mancato rispetto delle condizioni base di sicurezza. E poi, nelle pubblicazioni, parlo dei cokseurs. Loro sono le persone che offrono informazioni e contatti per proseguire il viaggio, raccolgono i passeggeri per formare gli equipaggi di autobus, taxi, barche, per costituire insomma il gruppo di viaggio. Ci sono i lanceurs, che “lanciano” in mare le persone. Lo fanno ovviamente tutti in cambio di soldi. Alcuni sono corretti, altri meno. Capita che gli aventuriers diano i soldi ai cokseurs e questi poi non organizzano il viaggio. Allora il mio compito è quello di far recuperare i soldi alle persone. Organizzo delle conferenze, cerchiamo un terreno d’intesa, un rimborso possibile per chi ha pagato. E se non si trova un accordo, allora io pubblico le facce dei cokseurs sulla mia pagina dicendo che sono degli imbroglioni, degli arnaqueurs. Finire sulla mia pagina, fa cattiva pubblicità e toglie “clienti” a un cokseur. Adesso, ad esempio, sto denunciando “il mauritano”, fa prezzi stracciati, fa partire con cattivo tempo, con barche di ferro più grandi, fanno molti naufragi le barche del “mauritano”… COME HAI SVILUPPATO QUESTA CAPACITÀ DI RAPPRESENTANZA, DI COMUNICAZIONE? NEL TUO LAVORO, PER ESEMPIO, FACEVI ATTIVITÀ SINDACALE? PERCHÉ CI SEMBRI QUASI UNA SINDACALISTA DEI PASSEGGERI DA QUELLO CHE RACCONTI… NE DIFENDI I DIRITTI DI FRONTE AD “ORGANIZZATORI” CHE NON RISPETTANO GLI ACCORDI… Mai fatto sindacato. Difendo solo i più poveri e non l’avevo mai fatto prima. Non lo so, è venuto così e sono state le persone a insegnarmi… Sono state loro a darmi le carte in mano. A volte mi arrabbio. A volte ci vogliono mesi e mesi prima di recuperare i soldi. E la gente aspetta un anno, due anni. A volte non hanno tutti i loro soldi, ma va bene, per me se recuperano qualcosa per curarsi, per mangiare. HAI CORRISPONDENTI PRINCIPALI NEI DIVERSI PAESI… Sono in contatto con molte persone e poi ci sono quelli che mi chiamano molto spesso e con cui ho già instaurato un rapporto di fiducia e che, anche se rimpatriate, continuano a chiamarmi dalla Guinea, Costa d’Avorio, Mali, Burkina, per raccontarmi di loro e darmi informazioni. LAVORI CON IL TELEFONO SU WHATSAPP, SU FACEBOOK E POI HAI DEI QUADERNI… Questo è il quaderno dove annoto tutto. Ogni volta che ricevo una chiamata, annoto. Per esempio, se tu guardi qui è annotata la data “1° settembre” e ho scritto di una barca che era partita. Conservo tutti i quaderni. Ci sono i numeri di telefono di chi mi chiama, di associazioni, di un medico, di chi può dare una mano…Guarda qui per esempio: “Tarfaya, 8 aprile, non partito. Terza ondata, naufragio, nessun morto, salire, salire sugli scogli, molto stanco, non ha la forza di camminare”. Scrivo così come viene, come mi dicono. Ah, mi ricordo di questo evento (sfoglia il quaderno): un ragazzo che aveva perso sua sorella, una giovane donna ritrovata poi morta in ospedale. Faccio anche delle ricerche per chi è deceduto, ci sono le famiglie che mi chiamano. Una volta si poteva… Ora non si può più. Avevo dei conoscenti, potevano andare all’obitorio, negli ospedali, cercare in Tunisia. A un certo punto, era possibile. Facevano delle giornate “porte aperte”, diciamo; ora non è più possibile, non c’è più accesso ad ospedali e obitori. I parenti non sapranno mai dove sono finiti i loro figli. Sono triste perché so che li seppelliscono in fosse comuni.  Ecco un altro esempio: uno studente che aveva i documenti e che aveva perso molti dei suoi fratelli su una barca. Voleva rimpatriare i corpi nel loro paese ma non è stato possibile. C’erano 10 corpi. Li hanno seppelliti nelle fosse comuni che nessuno sa dove siano, perché nessuno lo dice. Come tutte le persone che muoiono in Tunisia negli ospedali. Mi sono sempre chiesta: dove sono i corpi? Cosa ne fanno? Dove sono le persone? Ci sono molte persone che sono malate. E vanno in ospedale e spariscono. È per questo che i migranti hanno paura di andare in ospedale. Perché sanno che… non si hanno più notizie. Non so cosa ne facciano. Ne ho sentito parlare spesso di traffico degli organi, ma non ho prove. Cosa ne fanno di tutte queste persone che muoiono? Perché, quando qualcuno muore, dovrebbero segnalarlo all’ambasciata, no? Quello che non riesco a capire è come mai i presidenti africani rimangano in silenzio di fronte al massacro dei propri cittadini. È come se non fossero camerunesi, non fossero nigeriani, non fossero… Non so, se un italiano morisse in Tunisia… sarebbe sulla prima pagina di tutti i giornali.  TI ASSUMI QUESTA RESPONSABILITÀ DI PARLARE, DI RACCONTARE… Se so che una barca è naufragata, sono obbligata a dirlo, non posso lasciar loro credere che le persone sono vive se non lo sono. Perché la guardia costiera tunisina sulla sua pagina web racconta solo bugie. È anche insopportabile l’ipocrisia europea; perché se ascolti i nostri governanti che stringono accordi con la Tunisia, la Libia, ti dicono che lo fanno per salvare vite umane. Quindi vogliono bloccare la migrazione perché, se le persone partono, muoiono. Eppure sanno benissimo cosa accade con i loro accordi… quello che vi ho appena raccontato. I migranti mi fanno sempre questa domanda «Ma cosa abbiamo fatto, cosa abbiamo fatto?». Ed è proprio così: sai dirmi tu cosa hanno fatto? 1. Luca Queirolo Palmas, docente di sociologia delle migrazioni all’Università di Genova, coordina il progetto di ricerca Solroutes; Georges Kouagang, mediatore culturale e rifugiato, è parte del Laboratorio di Sociologia Visuale dell’Università di Genova e anima il progetto The Routes Journal; Marie Millard, filmaker e webdesigner; Roberta Derosas, social worker, ricercatrice indipendente, attivista ↩︎ 2. Si veda il rapporto State Trafficking a cura del collettivo RR(X) ↩︎ 3. Equipaggio Della Tanimar, Controdizionario del confine. Parole alla deriva nel Mediterraneo centrale, TAMU, Napoli 2026 ↩︎
Di f.Lotta, di Mediterraneo Centrale e di persone che imparano a nuotare
Navigare nel cuore di questa frontiera liquida partecipando all’azione di f.Lotta, ha significato confrontarsi con pensieri ed emozioni disordinati e non lineari, intrecciare dimensione individuale e collettiva: quella che si costruisce in barca, quella con gli altri velieri che hanno partecipato alla manifestazione, quella con le persone agli altri lati delle frontiere e così via, a rimbalzo, come un sasso che disegna cerchi concentrici sull’acqua. È stata una navigazione politica, un modo di riprendersi in mano uno spazio comune. Approfondimenti/In mare F.LOTTA: OCCUPARE IL MEDITERRANEO PER LA LIBERTÀ DI MOVIMENTO Dal 14 al 16 settembre una flotta indipendente attraverserà il Central Med. A bordo anche Melting Pot sulla Tanimar Roberta Derosas 12 Settembre 2025 Ogni veliero che ha partecipato all’azione lo ha fatto accogliendo una o più campagne specifiche. Tanimar ne ha portato a bordo due: quella promossa da Mem.Med – Memoria Mediterranea, di supporto alla ricerca delle persone migranti disperse nel Mediterraneo e quella contro la tratta di Stato perpetrata da Tunisia e Libia dove i responsabili della mercificazione di altri esseri umani sono agenti di Stato 1. Ne è responsabile la politica di esternalizzazione dei confini promossa e finanziata dall’Unione Europea.  PH: Roberta Derosas È stata un filo teso di riflessioni, una rete rammendata dalle mani abili di un pescatore che conosce il mare questa navigazione di settembre che ha ritrasformato il Mediterraneo centrale in un ricamo. Difficile raccontarlo senza retorica, restituendo cosa significhi per chi lo attraversa, lo naviga, ci pesca, soccorre, prova a cancellarne le linee e i confini, si batte perché questo spazio ritorni ad essere quello che in un tempo lontano è stato: uno spazio di vita per tutti e non solo per i privilegiati nati all’interno di una fortezza i cui muri si spostano sempre più a sud.  Tanimar è stata uno spazio in movimento. Al suo interno, i corpi hanno convissuto stretti: c’era chi lavorava, chi fuggiva, chi sorvegliava, chi sognava, chi attendeva. Un mondo nel mondo. Fuori, un mare che non offre confini: solo linee che si spostano, acque che non trattengono. La barca è stata un luogo reale e provvisorio che accoglie e separa, salva e inghiotte, porta vicino e allontana. Un frammento di mondo che galleggia e che non si radica mai. È stata al contempo, Tanimar, strumento di libertà e confine mobile, incorporando in sé la contraddizione di uno spazio che è al tempo stesso apertura e barriera. Foucault lo dice: una barca è l’eterotopia per eccellenza 2. Su Tanimar, la navigazione con f.Lotta ha alimentato condivisione di spazi emotivi e intellettuali: indovinati prima di partire, ma forse davvero compresi quando ce li siamo spiegati a voce, nelle interviste fatte mentre salpavamo, o quando ne abbiamo parlato collettivamente il secondo giorno di rotta, sul ponte di questo veliero, in mare aperto. L’orizzonte al tramonto sembrava un quadro di Rothko. Privilegio bianco. Il nostro equipaggio era composto da una capitana e un capitano, due professori universitari, un membro della redazione di “The Routes Journal”, una filmaker, un’artista, due giovanissimi attivisti vicini ad un’altra frontiera, e io, che di questa navigazione ho tentato di fare una narrazione con gli altri per il progetto Melting Pot Europa, traducendo a parole le azioni, le immagini e gli eventi che si sono compiuti. Dieci esseri umani accomunati dal desiderio di partecipare ad un’iniziativa , forse in apparenza un po’ pretenziosa, lanciata da f.Lotta per occupare il Mediterraneo. Dieci individui su Tanimar, accomunati dalla certezza condivisa del libero movimento dovuto ad ogni essere umano, spinti dalla necessità di portare la voce di chi è inascoltato. Eravamo convinti che aderire a questa manifestazione a favore delle persone in movimento significhi anche lasciare spazio alla loro parola: per questo, prima della partenza, abbiamo proposto di far simbolicamente partecipare al viaggio alcune tra loro, testimoni scomodi che attendono di partire, nascosti in Libia o in Tunisia. Eravamo e restiamo certi che non esista cosa peggiore che voltare lo sguardo e rendere l’Altro invisibile, fingendo che la distanza geografica renda l’azione impossibile. Se il rapporto “Tratta di Stato” 3 è stato redatto, lo si deve proprio a loro, che, insieme ad altri uomini e donne – ascoltati più di un anno fa da ricercatori sicuramente impreparati all’inizio alla disarmante assurdità che le persone intervistate stavano raccontando 4 – hanno spiegato le condizioni di migliaia di esseri umani respinti, violati, privati di qualunque diritto. Hanno fatto parte del nostro equipaggio di terra e abbiamo cercato di amplificare la loro voce, di coinvolgerli nella navigazione, di evidenziare «anche la forza e la capacità collettiva delle vittime di far sentire la loro voce» 5. Le loro parole ci hanno interpellati, motivati, messi in discussione, commossi, spaventati. “Portarli a bordo” ci è parso un dovere. Tra gli equipaggi di terra, anche una donna che vive da qualche parte, in Francia, conosciuta da migliaia di persone che aspettano le sue parole prima di imbarcarsi e durante gli attraversamenti: mama Africa, Marino Dubois. Le sue pubblicazioni su facebook, che supportano gli aventuriers, che denunciano pubblicamente gli sfruttatori, che attaccano i cokseur e gli arnaqueurs 6, che indicano la meteo, i naufragi, le persone disperse possono lasciare sorpresi. E poi alcune radio universitarie, che hanno tessuto insieme a noi le trame di una narrazione complessa, appassionata. > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da The Routes Journal (@theroutesjournal) Su Tanimar, dimensioni individuali e collettive si sono intrecciate: in fondo, le storie personali di ognuno generano il nostro modo, politico, di stare in questo mondo e noi abbiamo provato a tessere insieme. Abbiamo condiviso la paura, emozione comune, percepita prima della navigazione, verbalizzata al primo incontro, generata da ragioni diverse: per alcuni il timore di incrociare altri uomini alla deriva, per altri quella di essere intercettati, scoperti, violati da chi li ricaccia indietro. C’è stata per alcuni la paura del mare che si alza e inghiotte. O quella di tendere la mano e non riuscire a soccorrere. Abbiamo sentito e lasciato spazio al desiderio, come motore, come strumento potente capace di farci pensare ad un’azione in cui ci si riappropria di uno spazio, lo si occupa, lo si abita. Si dice che il Mediterraneo sia una ferita aperta, un cimitero. Eppure, così, lo si descrive solo in parte e se ne restituisce solo la più violenta, quella che ferisce, che sanguina, che ingoia corpi che troppo spesso non sono restituiti o che non hanno nomi. E poi: in un cimitero, le lapidi invitano a pregare corpi che hanno nomi e storie, mentre in quel mare non c’è spazio per la sepoltura. Forse, proprio perché il Mediterraneo Centrale è una ferita aperta, questa decina di barche ha accettato la sfida di navigare in mezzo a quelle acque in cui, non molte settimane fa, la guardia costiera libica ha aperto il fuoco contro una nave che opera soccorso in mare, per affermare il semplice dovere di rendere assistenza, come il diritto impone. Ma questo Mediterraneo che si è voluto occupare è molto di più. Alla partenza dal porto commerciale le barche a vela di f.Lotta hanno fatto rumore e sorpreso i motoscafi dei vacanzieri di ritorno dopo una giornata di navigazione tra le acque trasparenti di Lampedusa. Ci hanno guardati sorpresi questi turisti che navigano quello stesso mare, con le nostre grida, con i fumogeni colorati. Li abbiamo incuriositi rompendo il loro calmo movimento di ritorno sull’isola. Mentre abbiamo disegnato cerchi e incroci, allontanandoci dalle coste lampedusane, una nave della GF ha seguito i movimenti della navigazione, che quasi sembrava partecipasse alla danza di queste barchette dalle chiglie colorate, dissidenti eppure disciplinate disposte in cerchio e poi allineate in fila indiana. Ci ha scortati e sorvegliati fino a tarda sera. Al tramonto le barche di f.Lotta si sono avvicinate di nuovo e i movimenti si sono ripetuti anche nel tempo successivo della navigazione. Abbiamo condiviso, con le nostre voci, slogan potenti, a sostegno della libertà di movimento, legandole a quelle del sostegno al popolo palestinese. Gridare a squarciagola in mare aperto mi ha generato fastidio all’inizio: perché pronunciare frasi che solo noi potevamo sentire? Eppure ne ritrovo ora il valore simbolico: in fondo, in quel mare lontano e profondo, dove le vite si perdono e le tracce delle rotte di chi non sa navigare si cancellano, può sentire solo chi decide di farlo, chi ci mette, in quel gesto, tutta la cura per l’altro. Quel gridare in mezzo al mare mi ha fatto pensare all’indecenza di un mondo che si volta altrove, a cui non interessa se ci sono persone che muoiono affogate, se le vite si spezzano con le torture, se gli stati vendono corpi considerati oro nero, merce umana da vendere a basso costo, come i nostri testimoni di terra. Ricordarla tra noi, che crediamo a questa doverosa necessità di rendere il Mediterraneo uno spazio di vita e libera circolazione, ha avuto la strana forza di farci sentire meno soli, ma anche di ricordarci, ancora, quanto privilegio bianco esista in questo nostro mondo in cui manifestiamo in barca a vela. Ne abbiamo parlato durante la riunione che abbiamo fatto a bordo, al calare della seconda sera.  Ci siamo ripetuti, anche, che abbiamo il dovere di andare oltre la nostra cerchia di appartenenza di attivisti, militanti, “sensibili alla causa”, che sentiamo l’urgenza del desiderio di arrivare a parlare di diritti di tutti gli esseri umani. Abbiamo condiviso sulla necessità dell’uso di un linguaggio che sia chiaro, diretto, inclusivo e accessibile a tutti, per raggiungere anche chi di questi argomenti si interessa meno. Ci siamo parlati di tempi, di quelli necessari a che le cose cambino: necessari certo, perché le azioni si facciano mature. Ma per una parte dell’equipaggio a bordo l’urgenza generata dal dolore per le vite disperse non tollera pazienza, per altri tutto sta già cambiando, solo che i cambiamenti veri arrivano con il tempo 7. Non credo ci sia stato un momento di navigazione in cui la bellezza non sia stata una percezione dolorosa. Anche vedere i velieri di f.Lotta allineati al risveglio, nel secondo giorno di mare, in un’ora che cambia tra Italia e Tunisia, in un tempo che si sospende, ci ha spinti a pensare a chi ci muore affogato, disidratato, soffocato, ustionato davanti a troppi sguardi indifferenti.  A chi, semplicemente, non è considerato e trattato come essere umano. Perché non c’è altra spiegazione che questa. Altrimenti non si capisce come si possa torturare, vendere e guardare morire altri uomini senza provare a soccorrere. Navigando sempre più a sud, abbiamo incontrato una delle barche che svolge operazioni di Search and Rescue. L’abbiamo circondata, in un abbraccio virtuale e marittimo, ci siamo avvicinati abbastanza da far sentire la nostra voce all’equipaggio che, qualche ora più tardi, ha svolto un’azione di soccorso in cui non ci sono solo stati sopravvissuti, ma anche una donna ivoriana morta. È restata senza nome, fino al nostro arrivo. Io non so, oggi, se qualcuno sappia come si chiamasse.  Abbiamo osservato attenti quel mare carico di lotta e di morte, tracciato dalle rotte dei mercanti, palcoscenico di miti, di storie di viaggi e approdi, tesoro di racconti, di favole e di leggende, scrutando l’orizzonte. Abbiamo guardato i nostri tracciati sul radar la notte, ascoltandoci e sorvegliandoci alla radio, dalla nave “madre” alle altre, in un tam tam costante in cui i capitani si sono scambiati indicazioni sui percorsi, in cui ci si è tenuti svegli, in cui ci si è contattati solo per ricordarci che eravamo insieme (“Tanimar Tanimar Tanimar, ….: do you copy?”) in canali radio che cambiano di continuo. E mentre lo abbiamo percorso, siamo restati vigili e attenti perché ci sono imbarcazioni abbandonate nel suo cuore, come fantasmi in catene, mai arrivati a destinazione. Ne abbiamo incrociata una durante la prima navigazione notturna, faticando a riconoscerne il profilo nell’ombra della notte. Navigando, abbiamo vissuto a bordo un’altra esperienza che fa pensare al Mediterraneo non solo come una ferita aperta, ma come un taglio che si cicatrizza col sale. L’abbiamo pensato tutti ascoltando la storia di un uomo a bordo con noi, arrivato dieci anni fa in una barca come tutte le altre che sono soccorse, e che lo ha attraversato senza saper nuotare. In quel primo viaggio, ha perso tre persone a lui care. Dopo per lui, è stato difficile pensare di poterci entrare ancora e provare a sentirsi accolto. In questa navigazione, il secondo giorno, la capitana lo ha aiutato ad immergersi nelle acque più profonde del Mediterraneo e lui ha scelto di accettare l’invito. A bordo, siamo stati spettatori grati e silenziosi di un atto di protezione, accudimento, accoglienza che si è intrecciato a un gesto di coraggio. Alla fine di questa navigazione, quella di f.Lotta mi pare non solo un’occupazione pacifica del Mediterraneo, ma un atto di cura carico di senso politico verso le persone che devono poter essere soccorse e accolte, che devono poter attraversare senza rischiare la vita. Cura verso questo mare che merita di essere descritto per la sua bellezza e generosità, come una madre capace di vita. Cura di uomini verso gli uomini, in cui l’azione non è un tanto o solo un gesto di disobbedienza civile, ma un atto di responsabilità collettiva, capace di restituire dignità a chi viene reso invisibile e di riaffermare il diritto di tutti a un mare comune. 1. State of Trafficking, collettivo RR[X] ↩︎ 2. «…le bateau, c’est un morceau flottant d’espace, un lieu sans lieu, qui vit par lui-même, qui- est fermé sur soi et qui est livré en même temps à l’infini de la mer et qui, de port en port, de bordée en bordée, de maison close en maison close, va jusqu’aux colonies chercher ce qu’elles recèlent de plus précieux en leurs jardins, vous comprenez pourquoi le bateau a été pour notre civilisation, depuis le XVIème siècle jusqu’à nos jours, à la fois non seulement, bien sûr, le plus grand instrument de développement économique (ce n’est pas de cela que je parle aujourd’hui), mais la plus grande réserve d’imagination. Le navire, c’est l’hétérotopie par excellence. Dans les civilisations sans bateaux les rêves se tarissent, l’espionnage y remplace l’aventure, et la police, les corsaires.». M. Foucault, Des Espace Autres, Conférence au Cercle d’études architecturales, 14 mars 1967, in Architecture, Mouvement, Continuité, no 5 (1984): 46-49 ↩︎ 3. RR[X] (2025) The Tunisian state as a human trafficker. Evidence from the report: “State Trafficking: Expulsion and sale of migrants from Tunisia to Libya“ ↩︎ 4. Questo dato si desume da quanto indicato nel rapporto sopra citato: «Nel dicembre 2023, mentre l’equipe cercava di capire la vita negli accampamenti e l’organizzazione sociale del viaggio, ci siamo per la prima volta imbattuti nella parola “vendita” o “scambio”». Dalla ricerca, alla denuncia. Perché la ricerca non è solo conoscenza, ma responsabilità ↩︎ 5. Per usare gli stessi termini del già citato nello stesso rapporto, p.8 ↩︎ 6. Questi termini, indicati proprio dai testimoni del già citato rapporto, hanno contribuito alla redazione di un controdizionario della migrazione (che sarà pubblicato entro ottobre 2025) e riporta i termini utilizzati dalle persone in movimento in attesa di partire ↩︎ 7. Da una conversazione con un membro dell’equipaggio di mare ↩︎
f.Lotta: occupare il Mediterraneo per la libertà di movimento
IL CONTESTO E LE RAGIONI Dal 14 al 16 settembre 2025, ci sarà un  appuntamento in mare per partecipare ad un’azione il cui nome contiene il programma:  f.Lotta, un gioco di parole tra “flotta di mare” e “lotta“ ad “indicare la natura politica e intransigente dell’iniziativa”. Notizie F.LOTTA: UN’OCCUPAZIONE MARITTIMA CONTRO IL SISTEMA DEI CONFINI Dal 10 al 20 settembre a sud di Lampedusa 28 Luglio 2025 Un movimento indipendente, orizzontale e auto-organizzato che prevede una massiccia occupazione del Mediterraneo Centrale, a sud di Lampedusa per rivendicare la libertà di movimento per ogni cittadino del mondo. Questa “critical mass” del mare, nata dal basso, vuole contrastare il modello di controllo e esternalizzazione – razzista, capitalista e neocoloniale – proposto dalla Fortezza Europa. Per tre giorni, in un “spazio” sempre attraversato da soggetti diversi -persone che cercano di passare da una sponda all’altra, cosiddette guardie costiere libiche e tunisine, droni, aerei e navi di Frontex, flotte civili che operano il salvataggio e barche di pescatori – una quindicina di barche si danno appuntamento. Da Lampedusa al cuore del central Med, con l’idea di abitare questa frontiera liquida. Il messaggio generale di f.Lotta è la libertà di movimento, ma, accanto ad esso, si declinano 15 campagne politiche specifiche 1 di cui ogni barca sarà portavoce e testimone. A questa f.Lotta partecipa anche Tanimar, il cui progetto nasce nel 2022: da marinaie e marinai, da ricercatrici e ricercatori che hanno deciso di entrare in relazione con il Mediterraneo, provando a realizzare un’etnografia del mare e nel mare, a cominciare dallo stretto di Sicilia, per continuare con la Tunisia (2023) e con l’Egeo (2025).  Fotografia tratta da Linosa. Isolitudine. Equipaggio della Tanimar (2022) Durante le precedenti navigazioni, hanno tentato di disegnare un percorso che si intreccia con le rotte delle persone in movimento: per ricomporre memorie e analisi, per rendere più visibile la polifonia di voci e la pluralità di visioni sul futuro del Mediterraneo. Per questa nuova navigazione, saliranno a bordo persone e organizzazioni diverse, che, pur con linguaggio e strumenti diversi, hanno un comune fondamentale denominatore: considerano le migrazioni come fenomeni che attraversano confini – geografici, culturali, giuridici – e implicano memorie, diritti e immaginari condivisi. A bordo una fotografa e una filmaker, due professori di sociologia dei processi culturali e migrazioni a Genova e Parma, un mediatore culturale per The Routes Journal, volontari attivisti legati a OnBorders e Mem.Med. E poi il Progetto Melting Pot che ha una storia comune con Tanimar e ne ha già amplificato la voce che questa volta affida a me questa il racconto. Avremo un equipaggio di terra, con gli studenti delle radio universitarie, ma soprattutto coi testimoni del rapporto RRx che aspettano, nascosti negli uliveti e in qualche hangar tra Tunisia e Libia, di poter partire.  In questa prospettiva Tanimar ha deciso di aderire alla campagna lanciata da f.Lotta, organizzazione dal basso che promuove “un’occupazione massiccia del Mediterraneo Centrale, con un’iniziativa orizzontale, dal basso, spontanea”. Le ragioni di questa scelta sono evidenti per l’equipaggio che sale a bordo durante l’iniziativa, dal 14 al 16 settembre. Innanzitutto, perché il discorso politico e mediatico in Italia descrive il Mediterraneo come una barriera naturale tra mondi distanti, una frontiera liquida da controllare, setacciare, luogo in cui si scontrano le politiche europee di sorveglianza e repressione della mobilità e la volontà delle persone migranti di continuare a muoversi. Ma il Central Med non è solo questo. Questo mare, il cui confine che separa non si vede all’orizzonte ma su radar a bordo di barche, ha una storia che racconta di incontri, attraversamenti, scambi. PH: Roberta Derosas Nelle sue acque fatte di incroci si intrecciano persone migranti, pescatori, marinai, guardacoste, funzionari europei e statali, operatori umanitari e solidali, ciascuno portatore di interessi e prospettive diverse. Politiche migratorie europee basate sulla militarizzazione delle frontiere marittime e terrestri hanno contribuito, come conseguenza diretta, a trasformare il Mediterraneo in un confine mortale. Da una sponda all’altra, viene criminalizzato chi offre sostegno e solidarietà a chi è in transito, ma anche chi migra nel tentativo di raggiungere l’Europa: l’assenza di vie legali di accesso all’Europa lascia alle persone che partono l’unica possibilità di intraprendere viaggi rischiosi, su imbarcazioni di fortuna. Eppure, lo spazio mediterraneo continua a generare relazioni e pratiche che superano le dicotomie sociali, intrecciando storie e vissuti in un tessuto complesso. Luogo di incontro e campo di battaglia, spazio cruciale della contemporaneità in cui si riproducono processi di razzializzazione legati alla governance migratoria, il Mediterraneo è ugualmente orizzonte di desiderio e possibilità. Viverlo, percorrerlo, osservarlo è l’unico modo per comprenderlo davvero. Questo Mediterraneo, che si tenta di chiudere con blocchi navali, fermi amministrativi alle navi dei soccorritori civili, respingimenti operati dalle cd. guardie costiere libiche e tunisine e accordi bilaterali che lasciano dietro di sé una scia di sangue e morti, resta comunque aperto e poroso: continua ad essere attraversato con ogni mezzo da chi esercita il proprio diritto alla fuga. Ci sono molti modi di “stare” nel  Mediterraneo: pattugliare, controllare, soccorrere, osservare, accogliere, respingere, affondare, tessere, raccontare sono tutte azioni possibili. Tanimar, ancora una volta, vuole essere testimone civile di ciò che altrove viene nascosto o ridotto a spettacolo.  Per l’azione proposta da f.lotta, con il suo invito a “occupare in modo massiccio il Mediterraneo”, l’equipaggio di Tanimar sarà composto da cittadini provenienti da Africa ed Europa, filmaker, artist3, lavoratori sociali, rifugiat3,  ricercatrici e ricercatori, navigatrici e navigatori: al di là del background, delle funzioni e delle professioni, li unisce credere alle leggi del mare, all’obbligo di rendere soccorso, al doveroso diritto  di ogni singolo essere umano di poter scegliere dove vivere e di non essere respinto, violato, mercificato, soggiogato, torturato. Accanto al suo equipaggio di mare, ne avrà anche a terra: in Tunisia e in Libia, grazie al contributo dei corrispondenti del Giornale delle Rotte (un progetto di comunicazione alternativa sul tema della mobilità impedita animato da persone in viaggio o bloccate in attesa di partire) e ai testimoni del rapporto RR[X]  sul fenomeno della  tratta di Stato, ma anche grazie agli studenti delle radio universitarie di Parma e Bologna e ai volontari che agiscono in altre frontiere, di terra, che arrivano dopo l’approdo a Lampedusa.  Intrecciando attivismo, arte, nautica ed etnografia, Tanimar e i suoi equipaggi vogliono continuare a raccontare l’incontro con il Mediterraneo attraverso parole e immagini, suoni e visioni, in una tessitura che sia insieme politica e poetica. Il desiderio e la volontà dell’equipaggio sono di amplificare le voci di chi è privato del diritto al movimento sulla sponda sud del Mediterraneo, partendo dalle loro stesse parole, per non sostituirsi ad esse, ma condividere con chi vive l’attraversamento, il diritto al racconto, costruendo narrazioni che devono e possono essere incrocio di sguardi, parole, fili tessuti, patchwork a colori che formano una sola coperta. Ed è anche per questo che a bordo sarà portata quella di Yousuf, che è nata e continua a crescere per creare un legame tra le storie dei singoli, primo passo verso la nascita di una comunità. Partecipare a f.Lotta nella navigazione dello spazio mediterraneo significa anche diventare portabandiera e testimone di una specifica campagna nel contesto globale della lotta per la libertà di movimento. La Tanimar Anche Tanimar ne porta una: Stop State trafficking of human beings between Tunisia and Libya. Fermare la tratta di stato di esseri umani tra Tunisia e Libia.  Come rivelato dal Rapporto 2 di RR[X] (un gruppo di ricerca  internazionale che ha deciso di anonimizzarsi sotto uno pseudonimo collettivo per proteggere le proprie fonti), presentato al Parlamento europeo il 25 febbraio, il progressivo inasprimento delle politiche di frontiera dell’UE ha generato una conseguenza inquietante: la vendita e lo riduzione in schiavitù delle persone migranti subsahariani ad opera degli apparati militari e di polizia tunisini. Rapporti e dossier STATE TRAFFICKING SVELA LA TRATTA DI MIGRANTI TRA TUNISIA E LIBIA Un rapporto con 30 testimonianze da un confine esterno della UE Redazione 1 Marzo 2025 Il rapporto Tratta di Stato, accompagnato da un accurato sommario delle violazioni dei diritti umani nel corso delle operazioni di espulsione e deportazione curato da ASGI, intende riaprire il dibattito sulla responsabilità dell’Unione e dei singoli stati nell’esposizione alla morte e alla schiavitù delle persone in viaggio, così come sullo statuto di “paese sicuro” assegnato alla Tunisia, al suo ruolo di partner e beneficiario economico nella gestione della frontiera esterna della UE.  L’equipaggio di Tanimar è potuto entrare in relazione con i testimoni del rapporto RR[X]  sulla Tratta di Stato fra Tunisia e Libia e ha deciso di contribuire ad amplificare le loro storie e le loro richieste.   I testimoni di RR[X] dopo la presentazione del rapporto al parlamento europeo, e in Italia al Senato e alla Camera dei deputati, hanno presentato numerose interrogazioni parlamentari  senza ricevere risposta alcuna dalle istituzioni a cui si sono rivolti. La richiesta principale di questo collettivo che l’equipaggio di Tanimar vuole veicolare è l’apertura di un corridoio legale-umanitario affinché le voci delle vittime della tratta di Stato possano arrivare di fronte a un tribunale europeo. Durante i giorni dell’imbarco, testimoni e corrispondenti ancora in Libia e Tunisia racconteranno non solo la loro esperienza di vendita e deportazione alla frontiera, ma anche la loro lotta per il diritto alla mobilità e per avere giustizia e riparazione.   Attraverso diversi canali – la pagina Instagram del Giornale delle Rotte, una rete di radio universitarie studentesche, il progetto Melting Pot – l’equipaggio di Tanimar intende così contribuire ad amplificare la consapevolezza su un fenomeno recente e ancora poco conosciuto.  Nonostante la retorica europea della lotta ai trafficanti, le politiche di esternalizzazione della frontiera hanno generato un effetto paradossale: alla frontiera tunisino-libica, il trafficante di esseri umani indossa ora un’uniforme. In questo mare che è insieme luogo di transito, crocevia di esistenze, spazio di azione e di resistenza, gli equipaggi di Tanimar navigheranno ascoltando, osservando, raccogliendo, raccontando. Portare a bordo la coperta di Yousuf, amplificare la voce dei testimoni della Tratta di Stato, intrecciare saperi e pratiche dal mare e dalla terra, significa parlare di un altro Mediterraneo: aperto, solidale, plurale, fondato non sul possesso o sul controllo, ma sull’incontro, sulla cura e sulla responsabilità collettiva e condivisa. 1. Tutte le informazioni sulle campagne ↩︎ 2. Consulta il sito del rapporto ↩︎
Anatomia di un approdo qualsiasi
Lampedusa, agosto. Il giorno dopo l’ennesimo naufragio. Attraverso la descrizione delle pratiche di sbarco al molo Favaloro, spazio liminale e metonimia del confine europeo, il testo mette in luce la tensione costante tra accoglienza e controllo, tra salvataggio e classificazione. Il molo appare come luogo fisico di approdo, ma anche come dispositivo politico e simbolico, in cui il “naufrago” diventa “migrante ufficiale” e i corpi, ridotti a numeri, vengono gestiti secondo logiche amministrative e securitarie. Al tempo stesso, negli interstizi di questo limine, si collocano forme di riconoscimento reciproco: gesti minimi che aprono spazi di relazione volti a restituire dignità e soggettività. In un contesto dominato dall’urgenza e dalle cifre, è possibile interrompere la “circolarità della violenza”: questo accade quando si trasforma il molo da luogo di pura gestione a spazio di resistenza e un corpo migrante da numero torna ad essere persona. PH: Tanja Boukal È agosto, l’indomani dell’ennesima strage evitabile, e quello che si compie stasera è un normalissimo arrivo, il secondo della giornata. Ci sono stati tempi, sull’isola, in cui gli approdi si susseguivano senza sosta, ma le politiche europee e gli accordi con Libia e Tunisia stanno ottenendo il loro effetto nella riduzione dei numeri di persone migranti che approdano qui. Anche la tipologia degli arrivi pare diversa: ai grandi gruppi paiono stranamente sostituirsi i piccoli. Se non fosse per la presenza dei giornalisti, passerebbe inosservato ciò sta accadendo in questa calda serata d’estate, accanto ad una delle spiagge più turistiche dell’isola, la Guitgia: vacanzieri spensierati alla ricerca di mare e divertimento e cittadini stranieri non autorizzati, i primi attesi con impazienza, i secondi fermati, schedati, soccorsi, respinti, salvati e, in qualche modo, comunque accolti. Stasera partecipo come volontaria a uno sbarco, per usare un termine poco amato da chi interviene al molo per il suo richiamo al linguaggio militare. Evento marittimo numero 2 (EV. 2), lo definiscono le forze dell’ordine o la Croce Rossa (CRI). Tuttavia, molti, nelle conversazioni informali, ritornano all’uso della parola militare. Già: un Mediterraneo in assetto di guerra, eserciti e flotte civili che dispiegano i propri equipaggi in questa frontiera liquida. E poi quella terrestre, coi moli: due a Lampedusa, il Favaloro – più noto – e il Commerciale. PH: Tanja Boukal Spazio liminale, soglia giuridica, emotiva e politica. Non luogo, primo spazio di relazione e di accoglienza a terra, ma anche di trasformazione perché qui il “naufrago” diventa “migrante ufficiale”. Spazio di osservazione, di azione, ma anche di potere delle diverse agenzie i cui operatori (sia istituzionali e governativi che non) occupano un territorio che definisce anche la loro importanza in ordine di intervento e di decisione 1. Mai accesso libero, il molo diventa metonimia del confine: geografico, cronologico, politico, esistenziale. Rappresenta il trait d’union di tutte le contraddizioni: luogo di soccorso e accoglienza, ma anche spazio di cesura in cui si definisce chi può restare e chi deve essere respinto, chi è potenzialmente legale e chi non lo è, chi deve essere protetto e chi no, chi è vulnerabile e chi appare ancora dotato di forze e capacità, chi è vittima e chi è carnefice. La funzione del molo, come luogo di transito e di organizzazione delle operazioni di sbarco, non può essere separata dalla sua carica simbolica e neppure dalla violenza che lo abita, perché qui le politiche migratorie si concretizzano e si traducono nella classificazione e gestione delle persone che fanno parte di un evento. Al molo, le dinamiche di intervento ed azione sono continuamente ridisegnate, discusse e ristabilite durante il tempo dello sbarco, in una sorta di danza fluttuante, a seconda del momento in cui le persone migranti arrivano, le loro condizioni fisiche, il loro numero, la presenza di donne o minori non accompagnati, i tempi di trasferimento, ma anche a seconda delle competenze e del saper essere degli operatori e della loro disponibilità emotiva al tempo X dell’approdo. È un giorno d’agosto.  Al molo, stanotte, tutti i presenti sono in attesa: medico e infermiere per effettuare una prima verifica delle condizioni fisiche delle persone, due agenti di Frontex accompagnati da un mediatore linguistico dell’OIM, una persona di Save the Children, un’operatrice di International Rescue Committee (IRC), quattro operatori della CRI e poi noi volontari del Forum solidale di Lampedusa. Le forze dell’ordine sono dispiegate ai nostri lati. Ognuno al suo posto. PH: Tanja Boukal La nave della Guardia Costiera entra in porto poco dopo le 21.00, con a bordo il suo carico di naufraghi. Partiti da Tripoli due giorni fa, sono quarantuno persone a sbarcare: uomini provenienti da Bangladesh ed Egitto, cinque bambini, tre donne, almeno tre minori – o forse di più – ma solo questi confermati. Dal ponte della CP le persone scendono e cominciano a camminare lungo la striscia di cemento che li separa dal cancello, dove li attende il furgone della Croce Rossa, pronto a trasportarli all’hotspot. Il personale medico provvede subito a mettere una fascetta attorno al polso, a indicare se un qualunque tipo di patologia affligga queste persone. In genere, si tratta di scabbia. Stanotte una persona viene trasportata al poliambulatorio in barella: si è sentita male poco prima dell’arrivo a terra. Nulla di grave: è “solo” l’effetto di un viaggio estenuante in mare, senza acque, sotto il sole, in balia della corrente e delle preghiere che forse stavolta sono state ascoltate. Durante i primi scambi, il corpo si impone: ferite, piedi nudi, sguardi, movimenti raccontano in silenzio. L’odore arriva prima delle parole: un miscuglio acre di urina, sale marino e vomito. I vestiti sono zuppi, impregnati d’acqua e di viaggio. I piedi scalzi, bianchi di macerazione per le ore trascorse in acqua, raccontano di chilometri camminati e di ore immobili. Sfilano, timidi, esitanti. Stanotte, come sempre, mi sembrano vergognarsi dei nostri sguardi, dei vestiti bagnati, della miseria dei loro corpi. Noi volontari del forum lampedusano siamo in ultima postazione sul molo. PH: Tanja Boukal Siamo in quattro: proviamo ad accogliere in questo spazio ristretto, in un tempo che anche lui è di limite- limine, queste persone sfiancate dal viaggio, da quello che le ha precedute, dal deserto che hanno attraversato, dalle prigioni in cui sono stati forse detenute, dalle connection house che hanno incontrato nel percorso, e così a ritroso, fino ad arrivare al paese che li ha visti nascere. Distribuiamo the, acqua e ciabatte: il gesto si ripete, meccanico, ma ogni volta diverso perché tentiamo di lasciare loro spazio, di incontrarle, una per una. Un giovane egiziano fa da interprete improvvisato: non un mediatore ufficiale, ma un membro del gruppo che, per istinto, si mette a fare da ponte linguistico e culturale. Questa mediazione spontanea mostra come, anche in un contesto di vulnerabilità estrema come questo, possano emergere forme di auto-organizzazione e solidarietà interna. C’è una donna con un bambino piccolo portata subito al punto medico per accertamenti; sembra stare bene. I minori non accompagnati, egiziani, attendono in silenzio, scalzi come la maggior parte del gruppo. Sorridono, di risposta a un sorriso, dicono “grazie” a un semplice “Benvenuto. Sei al sicuro”. Una sicurezza momentanea, ma consolazione al viaggio appena lasciato alle spalle, in attesa di un altro che ricomincia. Parlo con un uomo. Dice di venire dall’Egitto. Alla domanda da dove sia partito, la risposta è secca: “Tripoli”. Poi il silenzio. Gli chiedo se sa dove si trovi. “Lapadusa”, pronuncia. Gli spiego il percorso che lo attende: da quest’isola alla Sicilia, poi un centro in Italia. Anche lui, come molti altri, non sa se vuole restare, parla di un altrove in Europa, dove ci sono familiari, connazionali, o solo un futuro immaginato che qui, sul molo, stanotte non si può spiegare. Un ragazzo chiede di sedersi. Fa segno che sta male e prima di poterlo allontanare dal gruppo, vomita bile. Il corpo si piega su se stesso. Cerchiamo di portarlo in un angolo protetto, lontano dagli sguardi perché la vergogna, in questi momenti, è quasi tangibile. Osservo altri che massaggiano le gambe. So che le traversate avvengono in posizioni forzate, con corpi incastrati tra loro, spesso dai trafficanti stessi. Muoversi durante il tragitto in mare è pericoloso: basta alterare l’equilibrio della barca per rischiarne il capovolgimento. Così le persone restano immobili per ore: l’assenza di movimento diventa dolore. Molti hanno lo sguardo perso, un’assenza che sembra protezione. Ma basta cercare i loro occhi perché, quasi sempre, succeda qualcosa: lo sguardo ritorna e spesso si allarga in un sorriso. Nel primo luogo di procedure e controlli, il contatto visivo agisce come atto di riconoscimento reciproco, interrompe la logica amministrativa dello sbarco, apre uno spazio di relazione tra chi arriva e chi accoglie. Stanotte, in risposta al freddo di questi uomini e in mancanza di vere coperte, tiriamo fuori quelle termiche: mantelline ripiegate con cui li copriamo. Lo facciamo per scelta: le apriamo, li avvolgiamo. Uno per uno: perché si mantenga un contatto autentico, perché sentano che sono persone e non numeri, perché la cura dell’altro questo prevede. In attesa di salire sul bus della Croce Rossa per il trasporto all’hotspot, alcune chiedono di andare in bagno. Non possono andarci sole, devono essere accompagnate per questioni di sicurezza, di controllo e gestione e per questo andiamo noi volontari del forum: per interrompere la circolarità di una violenza che ci è imposta e che obbliga uomini a tornare bambini, privati persino dell’autonomia di un gesto elementare come andare in bagno. Stanotte non ci autorizzano, perché le persone stanno per essere trasportate all’hotspot. “Possono aspettare. Avrebbero dovuto chiedere prima”. Corpi obbligati a un’attesa che un altro decide per loro. PH: Tanja Boukal Quando le persone sono in attesa di essere caricate sul pulmino della CRI per il trasferimento all’hotspot, le fila si rompono e l’ordine è meno evidente. Lo spazio è occupato in modo meno armonico e ordinato, nonostante la sorveglianza della polizia non si abbassi mai. Gli operatori, invece, si muovono in questo spazio. Il clima, generalmente si distende. Sono molte le persone in attesa che chiedono “Wi- Fi”: il bisogno evidente è quello di comunicare a chi è rimasto a casa di essere arrivato a destinazione ed essere sopravvissuto. Un uomo ci chiede di chiamare la famiglia: non ha il telefono. Parla un inglese stentato. Racconta in lacrime che ha lasciato sua figlia in Bangladesh, appena nata e che non ha potuto chiamare in questi mesi. Vuole avvisare per dire che ce l’ha fatta a bruciare queste frontiere, ad arrivare. La conversazione si chiude: il trasferimento all’hotspot non aspetta i tempi di una conversazione, di un bagno, una preghiera, di una confessione. Uno sbarco ha il tempo di cifre e urgenze vitali. Tutto il resto deve attendere. Solo negli interstizi di questo limine la relazione ha spazio per fiorire. Ed è lì, nella frontiera fragile tra controllo e accoglienza, che un operatore agisce perché un corpo migrante da numero diventi persona, perché uno sbarco si trasformi in approdo e la relazione, anche solo per un istante di confine, interrompa la catena della violenza. 1. In M. MARCHETTI, Il fondamento territoriale del potere di fronte alle trasformazioni spaziali globali, pubblicato sulla rivista Diritti fondamentali il territorio è condizione di esistenza delle strutture di potere; è forma spaziale ove l’uomo orienta i propri sensi, colloca, individua ed organizza le strutture della vita comune; esso ha un’intima essenza antropologica, essendo l’uomo stesso “un essere terrestre, un essere che calca la terra”, avvinto ad essa da un legame simbiotico che imprime unità ed identità al gruppo stesso. Gli antropologi definiscono tale legame ricorrendo all’espressione “imperativo territoriale”, per intendere quell’istinto o quella pulsione primordiale che spinge gli uomini (come anche gli animali) a difendere il territorio in forza di un sentimento possessivo, esclusivo ed escludente ↩︎