
Dentro e fuori i confini: la campagna contro i rimpatri mascherati e il memorandum Italia-Libia
Progetto Melting Pot Europa - Thursday, October 2, 2025Un ritorno non è mai davvero “volontario” se la scelta nasce dietro le sbarre di una prigione dopo minacce, violenze o torture, in un Paese dove non esiste tutela dei diritti e ogni giorno si rischia la vita. È con questa consapevolezza che decine di associazioni hanno dato vita nel marzo scorso alla campagna Voluntary Humanitarian Refusal e che lunedì 27 settembre è stata presentata presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati Camera dei Deputati da ActionAid, A Buon Diritto, ASGI, Differenza Donna, Le Carbet, Lucha y Siesta e Spazi Circolari.
In pochi mesi, la campagna ha raccolto 64 adesioni collettive e oltre 300 individuali, trasformandosi in un osservatorio e in una denuncia pubblica contro i cosiddetti programmi di “rimpatrio volontario” dalla Libia e dalla Tunisia.
«Molto spesso – ha spiegato Adelaide Massimi di ASGI – i programmi di rimpatrio volontario assistito vengono realizzati in condizioni che non permettono una scelta realmente libera. Non si può parlare di volontarietà quando la decisione avviene in un centro di detenzione, senza alternative e sotto la minaccia di violenze. Il ritorno dovrebbe essere una possibilità tra altre vie di protezione, non l’unica opzione dopo mesi o anni di privazioni. Eppure questo è ciò che accade: una scelta fatta in condizioni di estrema vulnerabilità viene presentata come libera, quando in realtà non lo è affatto».
La campagna non si limita a denunciare. Ha individuato tre priorità: interrompere i finanziamenti italiani ai rimpatri dai Paesi di transito, fermare gli accordi di esternalizzazione delle frontiere – a cominciare dal memorandum Italia-Libia, in scadenza a febbraio 2026 – e pretendere trasparenza nell’uso dei fondi pubblici.
Dietro la parola “volontario” ci sono cifre che raccontano altro. Roberto Sensi di ActionAid ha ricostruito i contorni di un sistema consolidato: «Dal 2019 ad oggi il Fondo Africa, poi ribattezzato Fondo Migrazione, ha finanziato con 468 milioni di euro programmi di esternalizzazione. Sono risorse ingenti, che dovrebbero andare a protezione, a inclusione, a garantire percorsi di accoglienza degni. Invece vengono utilizzate per il controllo delle frontiere, per rafforzare governi o milizie nei Paesi di transito. Non solo: questi strumenti mancano di trasparenza, non hanno un reale scrutinio parlamentare e vengono gestiti in maniera opaca. È come se il Parlamento fosse tenuto all’oscuro, mentre milioni scorrono verso progetti che incidono sulla vita di migliaia di persone».
Sensi ha sottolineato che «quando parliamo di questi fondi, non dobbiamo pensare a un dettaglio tecnico. Parliamo di scelte politiche che toccano la vita quotidiana di chi fugge da guerre, persecuzioni o povertà estrema. Se un Paese democratico decide di investire quasi mezzo miliardo non per salvare vite ma per allontanarle, allora dobbiamo avere il coraggio di dirlo chiaramente. Questi non sono rimpatri volontari, sono espulsioni mascherate da umanitarie».
Dal lato giuridico, ASGI ha chiarito che «i rimpatri cosiddetti volontari dalla Libia e dalla Tunisia sono in realtà espulsioni coatte. È importante ribadirlo: la nozione di volontarietà non può esistere in un contesto di detenzione arbitraria, violenza diffusa, assenza totale di protezione. La scelta del ritorno non è libera, ma obbligata. Ed è l’Italia, finanziando e sostenendo queste pratiche, a rendersi corresponsabile delle violazioni».
Le esperte legali hanno spiegato che questi programmi violano principi internazionali fondamentali: «Il consenso deve essere informato, libero, consapevole. Non lo è quando viene estorto con la minaccia di torture o con l’assenza di alternative reali. La persona non sceglie di tornare, sceglie di sopravvivere. Ma sopravvivere non può essere scambiato per una decisione autonoma. Qui la legge è calpestata due volte: una prima volta nei centri di detenzione, una seconda volta quando l’Italia legittima quelle pratiche chiamandole cooperazione».
La forza della conferenza stampa è arrivata soprattutto dalla testimonianza diretta. Salahdine Juma, attivista del collettivo Refugees in Libya, ha raccontato la sua esperienza: «Dopo mesi nei centri di detenzione, le persone non hanno alcuna possibilità di decidere. Le opzioni sono solo due: accettare di tornare indietro o continuare a soffrire. Ho visto uomini e donne costretti a firmare moduli che non capivano, sotto la minaccia delle guardie. Ho visto famiglie divise, amici scomparsi. Questo non è un ritorno volontario, è un ritorno forzato».
Poi ha aggiunto: «Quando sei in prigione, non hai il tempo di riflettere, non hai la possibilità di informarti, non hai nemmeno la forza fisica e psicologica per resistere. La firma diventa una resa: non al tuo destino, ma al sistema che ti schiaccia. E questo sistema ha una responsabilità precisa, perché è sostenuto da governi che parlano di cooperazione ma che in realtà finanziano la detenzione. Io ho visto con i miei occhi torture, persone vendute a gruppi armati, giovani donne costrette a subire violenze. Non si può pensare di costruire politiche migratorie sulla pelle di queste vite».
Il suo appello conclusivo alle istituzioni ha toccato il famigerato accordo tra Italia e Libia: «Tra pochi mesi il governo dovrà decidere se rinnovare il Memorandum con la Libia. Io vi chiedo di dire no. È un accordo che ha rafforzato trafficanti e milizie, che ha reso le carceri libiche ancora più piene, che ha trasformato i corpi delle persone migranti in merce di scambio. Ho vissuto sulla mia pelle torture e violenze. La vita umana non è negoziabile. Ogni volta che un Paese europeo rinnova un patto con la Libia, rinnova la condanna di migliaia di persone a nuove sofferenze. Non possiamo più permetterlo».
Il Memorandum Italia-Libia, firmato nel 2017 e già rinnovato una volta, ha istituzionalizzato i respingimenti in mare e legittimato l’intervento della Guardia costiera libica, composta in larga parte da milizie. «È un patto che viola il diritto internazionale – hanno ricordato le associazioni -. Non esiste una versione umanitaria di un respingimento. Non possiamo continuare a chiamare cooperazione quello che, nella realtà, è complicità in violazioni sistematiche».
La parlamentare Rachele Scarpa del Partito Democratico ha ringraziato le associazioni «per aver fatto luce su un sistema che si nasconde dietro l’etichetta dell’umanitario». Ha poi detto: «Oggi vediamo con chiarezza come l’esternalizzazione delle frontiere e la criminalizzazione del soccorso in mare abbiano prodotto violazioni, morti e sofferenze. Non esiste una versione buona di un respingimento. Serve cambiare rotta, costruire vie legali e politiche di protezione. Perché la storia recente ci dice che chiudere i porti non ha mai fermato le partenze, ha solo moltiplicato le tragedie».
Scarpa ha insistito anche sul tema della trasparenza: «Il Parlamento non può restare spettatore. Non possiamo accettare che milioni di euro vengano spesi senza alcun controllo democratico. Le politiche migratorie devono essere discusse, valutate e condivise. Altrimenti rischiamo di ritrovarci in un paradosso: difendere la democrazia in casa nostra violandola nei rapporti internazionali. La vera sicurezza nasce da diritti rispettati, non da accordi opachi firmati con regimi o milizie».
«Se l’Italia continuerà a finanziare questi programmi – ha ribadito Roberto Sensi – sarà complice delle violazioni. Ma esiste un’alternativa: investire in accoglienza, inclusione, corridoi umanitari, vie legali di ingresso. Questa è la vera protezione, questa è la via che può restituire dignità e sicurezza alle persone».
La campagna Voluntary Humanitarian Refusal non si fermerà qui: «Vogliamo allargare ancora di più la mobilitazione. Perché smontare la retorica del ritorno volontario è fondamentale: dietro una falsa etichetta umanitaria si nascondono violenza e respingimenti. Più voci si uniranno, più sarà difficile ignorarci».
Il tempo stringe e solo un vero dibattito pubblico e una forte mobilitazione della società civile potrebbero, entro novembre, cambiare le sorti di un rinnovo dell’accordo con Tripoli che appare scontato.

Una mobilitazione è stata fissata per sabato 18 ottobre a Roma alle ore 14 a Piazza Santi Apostoli. «Se non si agirà entro il 2 novembre – si legge nell’appello promosso da Refugees in Libya – questo accordo criminale e sanguinoso sarà automaticamente prorogato per altri tre anni, e gli abusi continueranno. L’esternalizzazione e la brutalizzazione del regime di frontiera dell’UE devono cessare. Per questo chiamiamo a una mobilitazione comune in ottobre a Roma».
L’appello è sostenuto da una coalizione internazionale che include Refugees in Tunisia, Refugees in Niger, Abolish Frontex, Amnesty International Italia, ASGI, EMERGENCY, Borderline-Europe e molte altre realtà impegnate nella difesa dei diritti.