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Il governo spagnolo apre due centri di detenzione per migranti in Mauritania
PABLO FERNÁNDEZ, JOSÉ BAUTISTA, FUNDACIÓN PORCAUSA Questa inchiesta, pubblicata da El Salto, ricostruisce la recente apertura di due centri di detenzione per persone migranti in Mauritania da parte del governo spagnolo, analizzando gli accordi, i finanziamenti e le implicazioni delle politiche migratorie esternalizzate. Ringraziamo la redazione di El Salto 1 e gli autori dell’inchiesta per averci concesso l’autorizzazione a tradurre e pubblicare il loro lavoro in italiano. La traduzione è stata curata da Juan Torregrosa. Entrambi i centri di detenzione sono stati costruiti dall’agenzia di cooperazione spagnola FIAP, del Ministero degli Affari Esteri, e riservano spazi e persino culle per privare della libertà anche i migranti minorenni. Dizionario della RAE: Carcere: 1.f. Luogo destinato alla detenzione dei prigionieri. Dal 17 ottobre scorso la Mauritania dispone di due nuovi centri di detenzione per migranti, uno situato a Nouakchott, capitale del Paese, e l’altro a Nouadhibou, al confine con il Sahara occidentale occupato illegalmente dal Marocco. Entrambi i centri sono stati avviati dalla Fondazione per l’Internazionalizzazione delle Amministrazioni Pubbliche (FIAP), un’agenzia di cooperazione del governo spagnolo che dipende dal Ministero degli Affari Esteri. Le autorità spagnole affermano che questi spazi sono ispirati ai Centri di Assistenza Temporanea per Stranieri (CATE) delle Isole Canarie e ammettono che, a differenza della Spagna, priveranno della libertà anche i minori, compresi i neonati in fase di allattamento, cosa che la legislazione spagnola proibisce. Una fonte spagnola coinvolta nella creazione di questi centri afferma che, nonostante il loro nome ufficiale, “si tratta ovviamente di centri di detenzione” e precisa che i bambini saranno trattenuti lì solo se accompagnati da un familiare. Due fonti mauritane confermano questa affermazione. La FIAP, il governo mauritano e la Delegazione dell’Unione Europea in Mauritania non rispondono a nessuna delle domande formulate per questo articolo. Il centro di detenzione costruito dal governo spagnolo a Nouakchott dispone di almeno 107 posti, comprese due culle per neonati, secondo i documenti della FIAP a cui ha avuto accesso questa indagine, mentre quello di Nouadhibou avrà almeno 76 posti, oltre ad altre due culle. I lavori e le forniture per la realizzazione di questi edifici sono stati finanziati con fondi spagnoli e del Fondo fiduciario di emergenza dell’Unione Europea, attraverso il progetto di polizia Associazione Operativa Congiunta (POC, acronimo francese), guidato dalla FIAP. Il presidente della Repubblica Islamica di Mauritania, Mohamed Ould El Ghazouani, accoglie il presidente Pedro Sánchez all’aeroporto di Nouakchott. Fernando Calvo MONCLOA LA SPAGNA ESTERNALIZZA I PROPRI CONFINI IN MAURITANIA Per comprendere la storia dietro le carceri per migranti che la Spagna ha aperto in Mauritania, bisogna risalire al 15 maggio 2024, quando 15 governi dell’Unione Europea hanno inviato una lettera alla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, chiedendo di seguire l’esempio di Giorgia Meloni, presidente del governo italiano, che ha avviato un centro di detenzione per migranti in Albania. Il governo spagnolo non ha firmato quella missiva, ma una settimana prima, l’8 maggio 2024, aveva assegnato all’impresa edile CADG i lavori per allestire due centri di detenzione per migranti in Mauritania. Tre mesi dopo, nell’agosto 2024, il presidente spagnolo e la presidente europea si sono recati in Mauritania e hanno promesso di inviare oltre 500 milioni di euro al governo militare del generale Mohamed Ould El Ghazouani. > La FIAP non specifica se abbia messo in atto alcun meccanismo o protocollo per > impedire alle autorità mauritane di maltrattare e torturare i detenuti. Negli ultimi anni, l’esecutivo presieduto da Pedro Sánchez ha anche aumentato il trasferimento di intelligence e attrezzature di polizia al regime mauritano con l’obiettivo di reprimere la partenza di imbarcazioni dirette alle Isole Canarie. Questo subappalto del controllo migratorio a paesi terzi, noto come “esternalizzazione delle frontiere” e attuato attraverso la FIAP, ha portato la Mauritania a raddoppiare i raid per arrestare i migranti. Agenti della Guardia Civil e della Polizia Nazionale Spagnola dispiegati nel paese partecipano a queste operazioni, che includono perquisizioni domiciliari senza autorizzazione giudiziaria e arresti arbitrari per motivi razziali. L’apertura di due centri di detenzione per migranti ha comportato una spesa totale di almeno 1.080.625 euro di fondi europei, secondo i documenti ufficiali a cui ha avuto accesso questa indagine. Tutti i contratti sono stati assegnati senza gara pubblica da parte della FIAP e hanno beneficiato di finanziamenti europei. La Mauritania è diventata una delle priorità finanziarie della FIAP in coincidenza con l’aumento del flusso migratorio sulla “rotta delle Canarie”. Senza andare oltre, il 1° novembre questa agenzia ha erogato 160.000 euro (senza gara d’appalto) per acquistare un numero indeterminato di veicoli 4×4 e droni con visori notturni per la polizia mauritana. In una comunicazione della FIAP successiva alla pubblicazione di questo articolo, l’agenzia nega categoricamente che l’appalto sia stato aggiudicato senza gara pubblica e sostiene che i contratti sono stati aggiudicati con “procedura pubblica” in base alla prima disposizione aggiuntiva della legge sugli appalti pubblici che regola i contratti all’estero. Questa agenzia di cooperazione del Ministero degli Affari Esteri, coinvolta nello scandalo di corruzione noto come “caso Mediador” o “caso Tito Berni”, non specifica se abbia messo in atto alcun meccanismo o protocollo per impedire alle autorità mauritane di maltrattare e torturare i detenuti, né fornisce il regolamento che ne disciplinerà il funzionamento. Sul suo sito web, la FIAP riconosce che questi centri contribuiranno a “determinare se [i migranti detenuti] sono vittime di tratta, minori non accompagnati, persone vulnerabili o richiedenti protezione internazionale” e assicura che i detenuti rimarranno in custodia per un massimo di 72 ore. Questa agenzia di cooperazione spagnola non ha risposto a nessuna delle domande poste, sostenendo che porCausa non è un mezzo di comunicazione. Inaugurazione del centro di detenzione per migranti a Nouakchott (Mauritania) – Foto Delegazione dell’UE in Mauritania L’inaugurazione di entrambi gli spazi ha avuto luogo lo scorso 17 ottobre alla presenza di agenti della Polizia Nazionale spagnola, rappresentanti dell’Unione Europea e del ministro dell’Interno mauritano. La Spagna conta più di 80 funzionari e agenti della Guardia Civil, della Polizia Nazionale e del CNI dispiegati in modo permanente in Mauritania. Tre fonti con accesso a questi centri di detenzione affermano che le carceri per migranti della FIAP in Mauritania sono già pronte ma non sono ancora entrate in fase operativa, quindi nessun migrante detenuto avrebbe pernottato in esse per il momento. Inizialmente era prevista anche la partecipazione all’inaugurazione del commissario Abdel Fattah, capo dell’Ufficio per la lotta contro l’immigrazione clandestina e la tratta di esseri umani della polizia mauritana. Fattah, incaricato di ricevere e gestire i dispositivi per il controllo dei flussi migratori che la Spagna fornisce alla Mauritania attraverso la FIAP, alla fine non ha partecipato alla cerimonia perché è stato sollevato dal suo incarico dopo che si è scoperto che riceveva tangenti dai trafficanti di esseri umani che organizzano i cayucos dirette alle Canarie, in cambio di informazioni errate fornite alla Guardia Civil, come rivelato da un’indagine di porCausa e dai quotidiani El País e Le Monde. Nel 2022 Fattah è stato insignito della medaglia al merito di polizia dal ministro dell’Interno, Fernando Grande-Marlaska. Questo ufficiale della polizia mauritana, cugino dell’ex presidente Mohamed Ould Abdel Aziz, è libero e non ha accuse a suo carico. Il commissario mauritano destituito, Abdel Fattah, riceve la medaglia al merito di polizia dalle mani del ministro dell’Interno, Fernando Grande-Marlaska, nel 2022. PH: Agenzia Mauritana di Informazione LE AZIENDE COINVOLTE Falcon Consultores, la società che ha redatto lo studio tecnico di queste carceri, non ha risposto alle domande poste per questo articolo. CADG, che ha realizzato i lavori e fornito anche arredi e attrezzature, sottolinea di avere “regole severe” per evitare pratiche corrotte e conflitti di interesse in conformità con le “norme etiche internazionali” e chiede di risolvere le questioni relative a queste carceri per migranti con la FIAP. In Mauritania entrambe le società sono anche aggiudicatrici di diversi contratti di TRAGSA, un’azienda di proprietà dello Stato spagnolo. Da quando Pedro Sánchez è arrivato alla Moncloa, TRAGSA è responsabile di diversi contratti relativi al controllo dell’immigrazione, come i lavori di ammodernamento delle recinzioni di confine di Ceuta e Melilla. Essendo costituita come società privata, i giornalisti non possono richiedere informazioni sui suoi contratti e sulle sue attività ai sensi della legge sulla trasparenza. In risposta alle domande poste, TRAGSA riconosce di aver ricevuto «un incarico dalla FIAP per la realizzazione del progetto costruttivo e l’esecuzione dei lavori dei centri di detenzione temporanea a Nouakchott e Nouadhibou» e chiarisce che successivamente, su richiesta della FIAP, «è stato deciso» e alla fine non ha eseguito tali lavori. FIAP sostiene che la risoluzione del contratto sia avvenuta in termini amichevoli e ha inviato il fascicolo che lo dimostra successivamente alla pubblicazione dell’articolo su El Salto. Il team di giornalisti che ha redatto questa informazione ha inviato alcune domande anche alle autorità della Mauritania, tramite il Ministero dell’Interno e l’ambasciata a Madrid. Il governo mauritano non ha risposto a nessuna delle domande poste né ha chiarito cosa intende fare con i migranti privati della libertà nelle due prigioni costruite dalla Spagna. ABBANDONI NEL DESERTO SPONSORIZZATI DALLA SPAGNA E DALL’UE Il regime mauritano effettua retate – con il sostegno e le informazioni fornite dalla Guardia Civil, dalla Polizia Nazionale e dal CNI – per arrestare arbitrariamente persone di colore, compresi bambini in età lattante. Le autorità mauritane utilizzano quad, veicoli 4×4, droni e dispositivi tecnologici forniti dalla FIAP per effettuare questi arresti. I migranti arrestati vengono privati di tutti i loro effetti personali (compresi documenti d’identità e telefoni), condotti in carcere e sottoposti a soggiorni di diversi giorni in condizioni disumane, senza cibo, acqua né accesso ai servizi igienici. Almeno due agenti della Polizia Nazionale spagnola si recano settimanalmente in questi centri, a Nouakchott e Nouadhibou, per rilevare le impronte digitali e scattare fotografie ai detenuti. L’ottenimento di questi dati non è banale: dal 2003 la Spagna e la Mauritania hanno un accordo in base al quale le autorità spagnole possono espellere cittadini di paesi terzi verso la Mauritania. > Ogni settimana la Polizia Nazionale spagnola di stanza in Mauritania riceve > liste con i nomi e cognomi delle persone che gli agenti mauritani abbandonano > in zone remote. Infine, i detenuti vengono abbandonati in zone remote come Gogui, al confine desertico con il Mali, un territorio con un’alta presenza dell’organizzazione jihadista JNIM, affiliata ad Al Qaeda nel Sahel. Tra i migranti che subiscono questi abbandoni nel deserto spiccano persone con profilo di richiedenti asilo in fuga dalla guerra in paesi come il Mali o il Niger e dalla violenza politica in nazioni come la Guinea Conakry. Ogni settimana la Polizia Nazionale spagnola di stanza in Mauritania riceve liste con i nomi e cognomi delle persone che gli agenti mauritani abbandonano in zone remote. Le prove a sostegno di queste informazioni sono contenute in un’inchiesta giornalistica coordinata da Lighthouse Reports, con la partecipazione di porCausa, e in un ampio rapporto dell’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch. L’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni sono a conoscenza di questi abusi, secondo documenti interni a cui porCausa ha avuto accesso. Tra queste vittime ci sono giovani come Sady Traoré, un giovane musicista maliano fuggito da Bamako (Mali) dopo aver ricevuto minacce per aver organizzato concerti contro il colpo di Stato militare nel suo Paese. Traoré ha deciso di stabilirsi temporaneamente in Mauritania, ma dopo essere stato abbandonato due volte nel deserto dalle forze mauritane, ha deciso di emigrare in Spagna. Questo giovane è arrivato alle Canarie nel gennaio 2024 e da allora non ha potuto esercitare il suo diritto di chiedere asilo. Traoré attualmente dorme sotto un ponte in una località vicino a Valencia e sopravvive svolgendo lavori occasionali come bracciante nel settore agricolo. Il Comitato spagnolo di aiuto ai rifugiati (CEAR) sta cercando di aiutarlo a ottenere un appuntamento per richiedere l’asilo. -------------------------------------------------------------------------------- Fundación porCausa Il giornalismo è una professione rischiosa in Mauritania. Un professionista dell’informazione che ha collaborato a questo reportage ha deciso di non firmare per paura di ritorsioni. Per motivi di sicurezza, questa informazione omette anche il nome e i dettagli di diverse fonti umane, tra cui diversi migranti vittime di questo schema e una mezza dozzina di funzionari delle forze di sicurezza spagnole e mauritane. Questa indagine è stata condotta con il sostegno del Pulitzer Center. La Fondazione porCausa è un’organizzazione indipendente di giornalismo e ricerca sulle migrazioni. Il lavoro di porCausa è reso possibile dalla sua comunità di soci. Anche tu puoi unirti a noi tramite questo link. 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Rifinanziati i “rimpatri umanitari” dalla Libia nonostante l’allarme dell’ONU
Nonostante i richiami delle Nazioni Unite, il governo italiano ha rifinanziato i programmi di “rimpatrio volontario umanitario” dalla Libia, strumenti che da anni sollevano gravi criticità sul rispetto dei diritti fondamentali delle persone migranti 1. Lo rende noto il progetto Sciabaca & Oruka di Asgi che promuove, in rete con organizzazioni della società civile europee e africane, azioni di contenzioso strategico per la libertà di circolazione e per contrastare le violazioni dei diritti umani causate dalle politiche di esternalizzazione delle frontiere. A luglio 2025 il Ministero degli Affari Esteri, scrive il progetto, ha disposto l’erogazione di 7 milioni di euro all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) per l’attuazione del progetto Multi-Sectoral Support for Migrants and Vulnerable Populations in Libya, della durata di due anni. Oltre 3 milioni saranno destinati al rimpatrio di 910 persone verso i paesi d’origine, attraverso il cosiddetto Voluntary Humanitarian Return (VHR), una forma di rimpatrio volontario assistito rivolta a migranti «bloccati o in situazioni di vulnerabilità, tra cui l’intercettazione in mare, la detenzione arbitraria e lo sfruttamento». Secondo i documenti ufficiali, tali operazioni mirano a «ridurre la vulnerabilità» delle persone e a «migliorare la loro situazione di protezione». Ma la realtà descritta da numerosi organismi internazionali è ben diversa. Già il 30 aprile 2025, la Relatrice Speciale sulla tratta di esseri umani, il Relatore Speciale sui diritti dei migranti e il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria delle Nazioni Unite avevano indirizzato una comunicazione formale al governo italiano per esprimere forte preoccupazione riguardo a un progetto simile, anch’esso finanziato dall’Italia, denominato “Multi-Sectoral Support for Vulnerable Migrants in Libya”. Nel documento, lə espertə Onu evidenziavano che il rimpatrio volontario, nelle condizioni esistenti in Libia, «funziona in pratica come l’ultima e l’unica soluzione alle intercettazioni e alla detenzione prolungata per periodi indeterminati». In queste circostanze, aggiungevano, «in assenza di alternative, migranti, rifugiati e richiedenti asilo possono essere costretti ad accettare di tornare in situazioni non sicure, dove rischiano di essere esposti alle medesime condizioni da cui fuggivano». Inoltre, sottolineavano come le persone coinvolte non possano esprimere un consenso libero e informato, poiché «la mancanza di assistenza adeguata le priva di fatto della possibilità di accedere alla protezione internazionale e alle garanzie giudiziarie». La comunicazione denunciava anche il rischio che i programmi VHR «possano aprire canali di mobilità forzata verso i paesi di origine e legittimare la cooperazione con la Libia in violazione del principio di non respingimento». Lə relatorə delle Nazioni Unite rilevavano inoltre la mancanza di trasparenza sull’impatto di questi progetti e l’assenza di «misure preventive e di mitigazione contro i rischi di tratta o di rimpatrio illegale». Un ulteriore elemento critico è il supporto tecnico e operativo previsto per le autorità libiche: il progetto include infatti attività di rafforzamento della capacità di gestione delle operazioni di ricerca e soccorso (SAR) e di intercettazione in mare. Secondo gli esperti, ciò rischia di tradursi in un aumento delle intercettazioni e dei respingimenti illegali verso la Libia, dove le persone migranti sono sistematicamente esposte a detenzioni arbitrarie, torture e violenze, in un contesto che la stessa giurisprudenza italiana riconosce come non sicuro. La comunicazione ONU si concludeva con una serie di richieste al governo italiano: informazioni sull’utilizzo dei fondi, sulle misure di prevenzione delle violazioni dei diritti umani e sulle alternative alla detenzione e al rimpatrio. Tuttavia, nella risposta fornita a luglio 2025, l’Italia non ha dato riscontri sostanziali alle criticità sollevate. La valutazione del monitoraggio è stata completamente delegata all’OIM, senza alcun controllo indipendente da parte del governo. UNA STRATEGIA DI ESTERNALIZZAZIONE SEMPRE PIÙ STRUTTURALE Nonostante le contestazioni, l’Italia ha proseguito nella strategia di esternalizzazione delle frontiere. Ad aprile 2025 è stato approvato un ulteriore stanziamento di 20 milioni di euro per il programma L.A.I.T. – Sviluppo dei meccanismi di rimpatrio volontario assistito e di reintegrazione (AVRR) e di rimpatrio volontario umanitario (VHR), in collaborazione con OIM e AICS. Il nuovo progetto prevede il rimpatrio di oltre 3.300 persone da Algeria, Libia e Tunisia e il rafforzamento delle capacità istituzionali dei governi di questi paesi nella gestione dei rimpatri. Si tratta di un tassello ulteriore in un processo ormai consolidato: il massiccio finanziamento dei rimpatri “volontari”, che consente di rimpatriare persone in assenza delle garanzie previste per i rimpatri forzati, contribuendo al contempo ad “alleggerire” la pressione migratoria sui paesi di transito e a consolidare la cooperazione con regimi autoritari o instabili. Questi programmi, presentati come strumenti di protezione umanitaria, finiscono invece per legittimare il blocco della mobilità e per violare il diritto d’asilo e il principio di non-refoulement. A fronte di queste pratiche, diverse organizzazioni italiane – tra cui ASGI, A Buon Diritto, ActionAid Italia, Lucha y Siesta, Differenza Donna, Spazi Circolari e Le Carbet – hanno promosso un contenzioso legale e lanciato la campagna di comunicazione «Voluntary Humanitarian Refusal – a choice you cannot refuse», per denunciare «l’uso distorto dei fondi pubblici destinati a programmi che, sotto la facciata di “umanitari”, contribuiscono in realtà a violare diritti fondamentali e limitare la libertà di movimento». > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da VHR: Voluntary Humanitarian Refusal > (@voluntary.humanitarian.refusal) 1. Nowhere but Back. Assisted return, reintegration and the human rights protection of migrants in Libya, by the OHCHR Migration Unit ↩︎
Dentro e fuori i confini: la campagna contro i rimpatri mascherati e il memorandum Italia-Libia
Un ritorno non è mai davvero “volontario” se la scelta nasce dietro le sbarre di una prigione dopo minacce, violenze o torture, in un Paese dove non esiste tutela dei diritti e ogni giorno si rischia la vita. È con questa consapevolezza che decine di associazioni hanno dato vita nel marzo scorso alla campagna Voluntary Humanitarian Refusal e che lunedì 27 settembre è stata presentata presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati Camera dei Deputati da ActionAid, A Buon Diritto, ASGI, Differenza Donna, Le Carbet, Lucha y Siesta e Spazi Circolari.  In pochi mesi, la campagna ha raccolto 64 adesioni collettive e oltre 300 individuali, trasformandosi in un osservatorio e in una denuncia pubblica contro i cosiddetti programmi di “rimpatrio volontario” dalla Libia e dalla Tunisia. «Molto spesso – ha spiegato Adelaide Massimi di ASGI – i programmi di rimpatrio volontario assistito vengono realizzati in condizioni che non permettono una scelta realmente libera. Non si può parlare di volontarietà quando la decisione avviene in un centro di detenzione, senza alternative e sotto la minaccia di violenze. Il ritorno dovrebbe essere una possibilità tra altre vie di protezione, non l’unica opzione dopo mesi o anni di privazioni. Eppure questo è ciò che accade: una scelta fatta in condizioni di estrema vulnerabilità viene presentata come libera, quando in realtà non lo è affatto». La campagna non si limita a denunciare. Ha individuato tre priorità: interrompere i finanziamenti italiani ai rimpatri dai Paesi di transito, fermare gli accordi di esternalizzazione delle frontiere – a cominciare dal memorandum Italia-Libia, in scadenza a febbraio 2026 – e pretendere trasparenza nell’uso dei fondi pubblici. Dietro la parola “volontario” ci sono cifre che raccontano altro. Roberto Sensi di ActionAid ha ricostruito i contorni di un sistema consolidato: «Dal 2019 ad oggi il Fondo Africa, poi ribattezzato Fondo Migrazione, ha finanziato con 468 milioni di euro programmi di esternalizzazione. Sono risorse ingenti, che dovrebbero andare a protezione, a inclusione, a garantire percorsi di accoglienza degni. Invece vengono utilizzate per il controllo delle frontiere, per rafforzare governi o milizie nei Paesi di transito. Non solo: questi strumenti mancano di trasparenza, non hanno un reale scrutinio parlamentare e vengono gestiti in maniera opaca. È come se il Parlamento fosse tenuto all’oscuro, mentre milioni scorrono verso progetti che incidono sulla vita di migliaia di persone». Sensi ha sottolineato che «quando parliamo di questi fondi, non dobbiamo pensare a un dettaglio tecnico. Parliamo di scelte politiche che toccano la vita quotidiana di chi fugge da guerre, persecuzioni o povertà estrema. Se un Paese democratico decide di investire quasi mezzo miliardo non per salvare vite ma per allontanarle, allora dobbiamo avere il coraggio di dirlo chiaramente. Questi non sono rimpatri volontari, sono espulsioni mascherate da umanitarie». Dal lato giuridico, ASGI ha chiarito che «i rimpatri cosiddetti volontari dalla Libia e dalla Tunisia sono in realtà espulsioni coatte. È importante ribadirlo: la nozione di volontarietà non può esistere in un contesto di detenzione arbitraria, violenza diffusa, assenza totale di protezione. La scelta del ritorno non è libera, ma obbligata. Ed è l’Italia, finanziando e sostenendo queste pratiche, a rendersi corresponsabile delle violazioni». Le esperte legali hanno spiegato che questi programmi violano principi internazionali fondamentali: «Il consenso deve essere informato, libero, consapevole. Non lo è quando viene estorto con la minaccia di torture o con l’assenza di alternative reali. La persona non sceglie di tornare, sceglie di sopravvivere. Ma sopravvivere non può essere scambiato per una decisione autonoma. Qui la legge è calpestata due volte: una prima volta nei centri di detenzione, una seconda volta quando l’Italia legittima quelle pratiche chiamandole cooperazione». La forza della conferenza stampa è arrivata soprattutto dalla testimonianza diretta. Salahdine Juma, attivista del collettivo Refugees in Libya, ha raccontato la sua esperienza: «Dopo mesi nei centri di detenzione, le persone non hanno alcuna possibilità di decidere. Le opzioni sono solo due: accettare di tornare indietro o continuare a soffrire. Ho visto uomini e donne costretti a firmare moduli che non capivano, sotto la minaccia delle guardie. Ho visto famiglie divise, amici scomparsi. Questo non è un ritorno volontario, è un ritorno forzato». Poi ha aggiunto: «Quando sei in prigione, non hai il tempo di riflettere, non hai la possibilità di informarti, non hai nemmeno la forza fisica e psicologica per resistere. La firma diventa una resa: non al tuo destino, ma al sistema che ti schiaccia. E questo sistema ha una responsabilità precisa, perché è sostenuto da governi che parlano di cooperazione ma che in realtà finanziano la detenzione. Io ho visto con i miei occhi torture, persone vendute a gruppi armati, giovani donne costrette a subire violenze. Non si può pensare di costruire politiche migratorie sulla pelle di queste vite». Il suo appello conclusivo alle istituzioni ha toccato il famigerato accordo tra Italia e Libia: «Tra pochi mesi il governo dovrà decidere se rinnovare il Memorandum con la Libia. Io vi chiedo di dire no. È un accordo che ha rafforzato trafficanti e milizie, che ha reso le carceri libiche ancora più piene, che ha trasformato i corpi delle persone migranti in merce di scambio. Ho vissuto sulla mia pelle torture e violenze. La vita umana non è negoziabile. Ogni volta che un Paese europeo rinnova un patto con la Libia, rinnova la condanna di migliaia di persone a nuove sofferenze. Non possiamo più permetterlo». Il Memorandum Italia-Libia, firmato nel 2017 e già rinnovato una volta, ha istituzionalizzato i respingimenti in mare e legittimato l’intervento della Guardia costiera libica, composta in larga parte da milizie. «È un patto che viola il diritto internazionale – hanno ricordato le associazioni -. Non esiste una versione umanitaria di un respingimento. Non possiamo continuare a chiamare cooperazione quello che, nella realtà, è complicità in violazioni sistematiche». La parlamentare Rachele Scarpa del Partito Democratico ha ringraziato le associazioni «per aver fatto luce su un sistema che si nasconde dietro l’etichetta dell’umanitario». Ha poi detto: «Oggi vediamo con chiarezza come l’esternalizzazione delle frontiere e la criminalizzazione del soccorso in mare abbiano prodotto violazioni, morti e sofferenze. Non esiste una versione buona di un respingimento. Serve cambiare rotta, costruire vie legali e politiche di protezione. Perché la storia recente ci dice che chiudere i porti non ha mai fermato le partenze, ha solo moltiplicato le tragedie». Scarpa ha insistito anche sul tema della trasparenza: «Il Parlamento non può restare spettatore. Non possiamo accettare che milioni di euro vengano spesi senza alcun controllo democratico. Le politiche migratorie devono essere discusse, valutate e condivise. Altrimenti rischiamo di ritrovarci in un paradosso: difendere la democrazia in casa nostra violandola nei rapporti internazionali. La vera sicurezza nasce da diritti rispettati, non da accordi opachi firmati con regimi o milizie». «Se l’Italia continuerà a finanziare questi programmi – ha ribadito Roberto Sensi – sarà complice delle violazioni. Ma esiste un’alternativa: investire in accoglienza, inclusione, corridoi umanitari, vie legali di ingresso. Questa è la vera protezione, questa è la via che può restituire dignità e sicurezza alle persone». La campagna Voluntary Humanitarian Refusal non si fermerà qui: «Vogliamo allargare ancora di più la mobilitazione. Perché smontare la retorica del ritorno volontario è fondamentale: dietro una falsa etichetta umanitaria si nascondono violenza e respingimenti. Più voci si uniranno, più sarà difficile ignorarci». Il tempo stringe e solo un vero dibattito pubblico e una forte mobilitazione della società civile potrebbero, entro novembre, cambiare le sorti di un rinnovo dell’accordo con Tripoli che appare scontato. Una mobilitazione è stata fissata per sabato 18 ottobre a Roma alle ore 14 a Piazza Santi Apostoli. «Se non si agirà entro il 2 novembre – si legge nell’appello promosso da Refugees in Libya – questo accordo criminale e sanguinoso sarà automaticamente prorogato per altri tre anni, e gli abusi continueranno. L’esternalizzazione e la brutalizzazione del regime di frontiera dell’UE devono cessare. Per questo chiamiamo a una mobilitazione comune in ottobre a Roma». L’appello è sostenuto da una coalizione internazionale che include Refugees in Tunisia, Refugees in Niger, Abolish Frontex, Amnesty International Italia, ASGI, EMERGENCY, Borderline-Europe e molte altre realtà impegnate nella difesa dei diritti.
12 e 13 settembre: «Da Tripoli a Ginevra 2»
“UNHCR = UNFAIR!”, “IOM = NASTY!”: con questi slogan Refugees in Libya annuncia due nuove giornate di mobilitazione a Ginevra, il 12 e 13 settembre 2025, contro le «violazioni dei diritti umani» da parte delle principali agenzie internazionali coinvolte nella gestione delle migrazioni. Venerdì 12 settembre, alle 11, davanti alla sede dell’UNHCR in Rue de Montbrillant 94, è prevista una conferenza stampa con la presentazione del “Book of Shame”, che raccoglie «dozzine di denunce e accuse da parte di rifugiati e migranti in Libia, Tunisia e Niger». Secondo gli organizzatori, «anziché adempiere al proprio mandato di protezione, l’UNHCR sta proteggendo le frontiere europee ed è diventato uno strumento delle politiche di esternalizzazione». Per il collettivo si tratta di un ritorno a Ginevra, dopo la due giorni del 9 e 10 dicembre 2022 – in occasione della Giornata internazionale dei diritti umani – che era stata promossa per denunciare l’operato dell’Agenzia dell’ONU. In questo nuovo appuntamento nella città svizzera, il giorno successivo, sabato 13 settembre, la manifestazione partirà alle 14 dalla sede dell’IOM, in Route des Morillons 17. Al centro delle accuse verso l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni sono le pratiche di “ritorno volontario”, considerate una forma di pressione e ricatto: «In Libia conosciamo da molti anni il loro concetto di ricatto – affermano gli attivisti -. Persone detenute e tenute in condizioni insopportabili ricevono come unica proposta quella di tornare nel Paese di origine. In Tunisia abbiamo visto lo stesso sistema, accanto a sgomberi e attacchi contro insediamenti informali». La protesta attraverserà la città, passando anche davanti alla sede delle agenzie governative, con interventi e testimonianze di rifugiati che hanno raggiunto l’Europa. «Non sono disposti a dimenticare le proprie ferite, né i compagni che ancora soffrono in Libia, Tunisia o Niger», sottolineano. Nel comunicato di lancio della due giorni viene denunciata anche l’apertura di un nuovo grande campo per richiedenti asilo a Ginevra, descritto come «una semi-prigione tra la pista dell’aeroporto e un’autostrada, dove le persone sono trattenute per mesi». L’iniziativa fa parte della “chain of action 2025”, una catena di azioni transnazionali che ricorda il decennale dell’estate delle migrazioni del 2015 e rilancia la lotta per la libertà di movimento e i diritti per tutte e tutti.