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Rifinanziati i “rimpatri umanitari” dalla Libia nonostante l’allarme dell’ONU
Nonostante i richiami delle Nazioni Unite, il governo italiano ha rifinanziato i programmi di “rimpatrio volontario umanitario” dalla Libia, strumenti che da anni sollevano gravi criticità sul rispetto dei diritti fondamentali delle persone migranti 1. Lo rende noto il progetto Sciabaca & Oruka di Asgi che promuove, in rete con organizzazioni della società civile europee e africane, azioni di contenzioso strategico per la libertà di circolazione e per contrastare le violazioni dei diritti umani causate dalle politiche di esternalizzazione delle frontiere. A luglio 2025 il Ministero degli Affari Esteri, scrive il progetto, ha disposto l’erogazione di 7 milioni di euro all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) per l’attuazione del progetto Multi-Sectoral Support for Migrants and Vulnerable Populations in Libya, della durata di due anni. Oltre 3 milioni saranno destinati al rimpatrio di 910 persone verso i paesi d’origine, attraverso il cosiddetto Voluntary Humanitarian Return (VHR), una forma di rimpatrio volontario assistito rivolta a migranti «bloccati o in situazioni di vulnerabilità, tra cui l’intercettazione in mare, la detenzione arbitraria e lo sfruttamento». Secondo i documenti ufficiali, tali operazioni mirano a «ridurre la vulnerabilità» delle persone e a «migliorare la loro situazione di protezione». Ma la realtà descritta da numerosi organismi internazionali è ben diversa. Già il 30 aprile 2025, la Relatrice Speciale sulla tratta di esseri umani, il Relatore Speciale sui diritti dei migranti e il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria delle Nazioni Unite avevano indirizzato una comunicazione formale al governo italiano per esprimere forte preoccupazione riguardo a un progetto simile, anch’esso finanziato dall’Italia, denominato “Multi-Sectoral Support for Vulnerable Migrants in Libya”. Nel documento, lə espertə Onu evidenziavano che il rimpatrio volontario, nelle condizioni esistenti in Libia, «funziona in pratica come l’ultima e l’unica soluzione alle intercettazioni e alla detenzione prolungata per periodi indeterminati». In queste circostanze, aggiungevano, «in assenza di alternative, migranti, rifugiati e richiedenti asilo possono essere costretti ad accettare di tornare in situazioni non sicure, dove rischiano di essere esposti alle medesime condizioni da cui fuggivano». Inoltre, sottolineavano come le persone coinvolte non possano esprimere un consenso libero e informato, poiché «la mancanza di assistenza adeguata le priva di fatto della possibilità di accedere alla protezione internazionale e alle garanzie giudiziarie». La comunicazione denunciava anche il rischio che i programmi VHR «possano aprire canali di mobilità forzata verso i paesi di origine e legittimare la cooperazione con la Libia in violazione del principio di non respingimento». Lə relatorə delle Nazioni Unite rilevavano inoltre la mancanza di trasparenza sull’impatto di questi progetti e l’assenza di «misure preventive e di mitigazione contro i rischi di tratta o di rimpatrio illegale». Un ulteriore elemento critico è il supporto tecnico e operativo previsto per le autorità libiche: il progetto include infatti attività di rafforzamento della capacità di gestione delle operazioni di ricerca e soccorso (SAR) e di intercettazione in mare. Secondo gli esperti, ciò rischia di tradursi in un aumento delle intercettazioni e dei respingimenti illegali verso la Libia, dove le persone migranti sono sistematicamente esposte a detenzioni arbitrarie, torture e violenze, in un contesto che la stessa giurisprudenza italiana riconosce come non sicuro. La comunicazione ONU si concludeva con una serie di richieste al governo italiano: informazioni sull’utilizzo dei fondi, sulle misure di prevenzione delle violazioni dei diritti umani e sulle alternative alla detenzione e al rimpatrio. Tuttavia, nella risposta fornita a luglio 2025, l’Italia non ha dato riscontri sostanziali alle criticità sollevate. La valutazione del monitoraggio è stata completamente delegata all’OIM, senza alcun controllo indipendente da parte del governo. UNA STRATEGIA DI ESTERNALIZZAZIONE SEMPRE PIÙ STRUTTURALE Nonostante le contestazioni, l’Italia ha proseguito nella strategia di esternalizzazione delle frontiere. Ad aprile 2025 è stato approvato un ulteriore stanziamento di 20 milioni di euro per il programma L.A.I.T. – Sviluppo dei meccanismi di rimpatrio volontario assistito e di reintegrazione (AVRR) e di rimpatrio volontario umanitario (VHR), in collaborazione con OIM e AICS. Il nuovo progetto prevede il rimpatrio di oltre 3.300 persone da Algeria, Libia e Tunisia e il rafforzamento delle capacità istituzionali dei governi di questi paesi nella gestione dei rimpatri. Si tratta di un tassello ulteriore in un processo ormai consolidato: il massiccio finanziamento dei rimpatri “volontari”, che consente di rimpatriare persone in assenza delle garanzie previste per i rimpatri forzati, contribuendo al contempo ad “alleggerire” la pressione migratoria sui paesi di transito e a consolidare la cooperazione con regimi autoritari o instabili. Questi programmi, presentati come strumenti di protezione umanitaria, finiscono invece per legittimare il blocco della mobilità e per violare il diritto d’asilo e il principio di non-refoulement. A fronte di queste pratiche, diverse organizzazioni italiane – tra cui ASGI, A Buon Diritto, ActionAid Italia, Lucha y Siesta, Differenza Donna, Spazi Circolari e Le Carbet – hanno promosso un contenzioso legale e lanciato la campagna di comunicazione «Voluntary Humanitarian Refusal – a choice you cannot refuse», per denunciare «l’uso distorto dei fondi pubblici destinati a programmi che, sotto la facciata di “umanitari”, contribuiscono in realtà a violare diritti fondamentali e limitare la libertà di movimento». > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da VHR: Voluntary Humanitarian Refusal > (@voluntary.humanitarian.refusal) 1. Nowhere but Back. Assisted return, reintegration and the human rights protection of migrants in Libya, by the OHCHR Migration Unit ↩︎
L’accordo Italia-Albania non è una questione italo-albanese
L’1 e il 2 Novembre 2025 si è tenuta in Albania la mobilitazione del Network Against Migrant Detention, una rete di realtà italiane e albanesi unite nell’obiettivo di contrastare l’accordo Rama-Meloni, che ha permesso la creazione di due centri detentivi per persone migranti in Albania sotto giurisdizione italiana. È la seconda protesta organizzata nel paese delle aquile, dopo quella dell’1 dicembre 2024, quando i centri erano ancora vuoti. Quest’anno il Network ha lanciato la manifestazione sotto lo slogan “From Albania to Europe: Abolish Migrant Detention Centers”, raccogliendo adesioni da una decina di paesi membri dell’Unione Europea e non solo. Rappresentanti di organizzazioni da Nantes, Bruxelles, Bilbao, Dresda, Berlino, Vienna, Pristina e Messico hanno raggiunto i gruppi albanesi e italiani per apprendere di più sull’accordo, sulle sue prospettive future e ragionare su possibili iniziative comuni.  “Ovunque, da Gjäder a Roma, da Bruxelles a Nantes, dagli USA al Messico, fino alla Libia, la Tunisia e oltre ancora, vogliamo la stessa cosa: libertà di movimento e dignità per tutti”. > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da STRIA (@spazio.stria) La mobilitazione si è svolta nella modalità ormai consolidata della due giorni: una dedicata alle azioni pubbliche, l’altra dedicata alla discussione politica attraverso panel e assemblee.  Sabato 1 novembre, più di 150 persone hanno sfilato per le vie di Tirana con interventi e denunce sotto l’ufficio del Primo ministro albanese, l’Ambasciata italiana e l’ufficio dell’Unione Europea in Albania. Un cartellone con le sagome di Meloni, Rama, Trump e Von Der Leyen vestiti da gerarchi e militari ha accompagnato i manifestanti lungo tutto il percorso, insieme a un cartellone con scritto “L’Europa predica democrazia ma abbraccia gli autocrati”.  Ph: Alessandro Muras «Rama mantiene il suo potere interno attraverso accordi stretti con queste figure, facendo un accordo illegale con la Meloni, che nel silenzio è stato approvato dall’Unione Europea. È proprio il silenzio dell’Unione Europea che non possiamo perdonare», ha dichiarato Edison Lika del collettivo Mesdhe, che ha organizzato e ospitato la mobilitazione.  Rama è fortemente contestato dalle realtà albanesi che si sentono in una democrazia solo su carta. I flussi di denaro e di affari pubblici sono opachi e la partecipazione politica è fortemente inibita dalla repressione, sia storica subita negli anni di Hoxha, ma anche per quella attuale spesso inflitta in forme subdole, come ad esempio i licenziamenti e le sospensioni delle già misere pensioni ai familiari di attivistə scomodə.  La manifestazione ha poi raggiunto le porte del CPR di Gjader, dove hanno commemorato le quarantasette vittime dei CPR italiani, portato solidarietà alle 24 persone attualmente trattenute nel centro al grido «You are not alone» ed esposto il grande striscione indirizzato ai leader ritratti in vesti militari: “You Remigration Prisons are Criminal. Stop funding wars and deporting people!”. Photo credit: Alessandro Murtas Domenica l’Università di Tirana ha ospitato l’assemblea transnazionale che ha visto attivistə di tutta Europa, e non solo, confrontarsi sul tema del razzismo, del colonialismo e sul significato che questo accordo ha all’interno delle politiche migratorie europee. L’evento, dal titolo “L’Europa è ancora il nostro sogno?”, ha messo in luce come di fatto l’adesione all’Unione Europea è stata sistematicamente condizionata allo spargimento di sangue ai suoi confini.  Questo è stato il caso anche dell’Italia, entrata a far parte dell’UE non prima di aver dimostrato il pugno duro sui confini proprio sulla pelle degli albanesi.  «Giorgio Napolitano nel ’98 ha detto che se non avessero istituito i CPT e non ci fosse stato il naufragio della Kater i Rades, non avrebbero saputo dimostrare all’UE di saper difendere i loro confini», ha affermato Clara Osma, attivista di Mesdhe e Italiani senza Cittadinanza, sotto l’imponente cancello di Gjäder. Oltre a una delegazione presente alla mobilitazione in Albania, i gruppi della rete Anti-CRA francese hanno organizzato un’azione comunicativa a Nantes in sostegno alla mobilitazione a Tirana.  Da segnalare che alcune attiviste che dovevano raggiungere la mobilitazione sono invece scese dal volo Bologna-Tirana per aver protestato alla vista di agenti delle forze dell’ordine impegnate in un’operazione di rimpatrio proprio di due cittadini albanesi presenti sul loro volo Ryanair. > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da Mediterranea Bologna (@mediterranea_bologna) UN PROGETTO FALLIMENTARE CHE PROSEGUE Che i centri in Albania non stiano funzionando come il governo Meloni aveva previsto è sotto gli occhi di tutti. L’hotspot di Shengjin è vuoto e il CPR di Gjader detiene in media una ventina di persone alla volta (a fronte di 880 posti disponibili in totale), ma le realtà del Network evidenziano che l’accordo ha già prodotto effetti inaccettabili, coinvolgendo più di 220 persone e portando alla morte del giovane Hamid Badoui, morto a soli 42 anni.  Questo è il quadro a fronte del quale il governo Meloni ha deciso di stanziare 670 milioni di euro dei contribuenti italiani per la realizzazione e mantenimento dei centri. Di questi, più di 127 milioni sarebbero ricavati da tagli a ministeri pubblici come quello dell’Economia e della Finanza, degli Affari Esteri e dell’Università e della Ricerca 1. Photo credit: Alessandro Murtas Milioni che al contempo non vanno a stimolare l’economia locale, ma principalmente a coprire i costi di costruzione, manutenzione e del personale, di cui gli albanesi sono circa una cinquantina in qualità di operatori e operatrici di Medihospes, ente gestore del CPR di Gjader e colosso del complesso industriale dell’accoglienza in Italia, che impiega con contratti precari e ridimensiona l’organico a fisarmonica in base alle evoluzioni discontinue dei centri. «Questi centri non sono solo incostituzionali: rappresentano un progetto coloniale che, con la complicità del governo albanese, segna un pericoloso precedente che l’Europa intende replicare attraverso il Nuovo Patto su Migrazione e Asilo”, ha denunciato il Network. Anche in questo senso l’accordo Italia-Albania non riguarda solo italiani e albanesi. Il timore è che il governo Meloni voglia preservarli in vista dell’implementazione del Nuovo Patto su Migrazione e Asilo prevista per giugno 2026 ed eventualmente trasformarli nei Return Hubs di cui si sta discutendo a livello europeo. “Dobbiamo rafforzare una prospettiva transnazionale ed europea che vada oltre le mobilitazioni locali e nazionali: una prospettiva capace di condividere pratiche, costruire reti, coordinare strategie per abolire il regime europeo e globale di apartheid e confinamento”. La mobilitazione si chiude con la speranza che questo appello venga raccolto dalle realtà coinvolte e con la volontà di organizzare dimostrazioni anche in altri paesi, europei e non, andando a rafforzare la transnazionalità di questa lotta e lo smantellamento del sistema detentivo di tutta Europa e altrove. 1. I centri per i migranti in Albania sono un flop: da dove arrivano i soldi per pagarli? Ecco il «conto», voce per voce, di Milena Gabanelli e Simona Ravizza – Dataroom, Corriere della Sera ↩︎
La CEDU condanna nuovamente la Croazia per le espulsioni illegali
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha nuovamente condannato la Croazia (caso Y.K. contro Croazia) per aver espulso un cittadino turco di etnia curda senza garantirgli l’accesso effettivo alla procedura d’asilo e senza dare la possibilità di ricorrere a un rimedio giuridico in grado di sospendere automaticamente la sua espulsione. La Corte ha riconosciuto la violazione dell’articolo 3 della Convenzione, che vieta trattamenti inumani o degradanti, e dell’articolo 13, che tutela il diritto a un ricorso effettivo, e ha disposto un risarcimento di 8.500 euro per danno morale e 3.300 euro per spese legali. Y.K., nato nel 1984, aveva raccontato di essere stato perseguitato e torturato in Turchia per il suo attivismo politico. Dopo essere fuggito dal Paese, nel febbraio 2021 era entrato irregolarmente in Croazia dalla Serbia. Arrestato a Zagabria e trasferito nel centro di detenzione per stranieri di Ježevo, si era trovato di fronte a diverse barriere burocratiche. Nonostante avesse espresso più volte la volontà di chiedere asilo (anche in presenza dei rappresentanti della Difensora civica croata e tramite il proprio avvocato), le autorità non avevano registrato la richiesta e avevano continuato a trattarlo come una persone migrante da espellere. Secondo la Corte, la polizia croata approfittò della vulnerabilità del richiedente – privato della libertà, senza contatti con il suo legale e sottoposto a isolamento con il pretesto della quarantena Covid – per indurlo a firmare documenti di “rimpatrio volontario” verso la Macedonia del Nord. Quel consenso, osservano i giudici di Strasburgo, non fu affatto libero: Y.K. era stato dissuaso dal presentare domanda d’asilo con la minaccia di restare a lungo detenuto e con la promessa di una partenza “tranquilla” se avesse accettato di lasciare il Paese. La Corte ha sottolineato che le autorità croate erano perfettamente consapevoli del rischio di persecuzione che l’uomo avrebbe corso in caso di ritorno in Turchia e che, in ogni caso, prima di allontanarlo, avrebbero dovuto valutare se la Macedonia del Nord fosse davvero un Paese sicuro, verificando l’effettivo accesso alla procedura d’asilo. Nulla di tutto ciò è stato fatto. Inoltre, il legale di Y.K. non aveva ricevuto copia dei provvedimenti di espulsione e non aveva potuto presentare ricorso, perché nessuno dei rimedi giuridici disponibili in Croazia prevedeva la sospensione automatica della misura di allontanamento. Per la Corte di Strasburgo, la partenza di Y.K. non fu quindi volontaria ma il risultato di una pressione esercitata dalle autorità con l’obiettivo di evitare che potesse formalizzare la richiesta di protezione internazionale. In questo modo, la Croazia ha violato i suoi obblighi derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, privando un richiedente asilo del diritto a essere ascoltato e a ottenere una valutazione reale del rischio di persecuzione. «La Corte europea condanna nuovamente la Croazia per violazioni dei diritti dei richiedenti asilo – commenta il Consorzio Italiano di Solidarietà (ICS) – Ufficio Rifugiati -. La sentenza, ormai definitiva, riconosce che la Croazia ha violato il diritto d’asilo nei confronti di Y. K., cittadino turco di origine curda, che cercava protezione dopo essere fuggito da persecuzioni politiche e torture. Invece di garantirgli accesso alla procedura d’asilo, le autorità croate lo hanno detenuto e poi espulso, esponendolo al rischio di nuove violenze». L’ICS sottolinea che la decisione «conferma quanto denunciato da anni dal Centro per gli Studi sulla Pace di Zagabria e da numerose organizzazioni per i diritti umani: la Croazia espelle sistematicamente e illegalmente i rifugiati, negando loro il diritto di asilo, la rappresentanza legale e l’accesso alla giustizia». Il Consorzio accoglie la sentenza come «una vittoria della giustizia e un riconoscimento delle gravi violazioni in atto alle frontiere europee» e rinnova l’appello alle istituzioni «a porre fine ai respingimenti, garantire accesso all’asilo, assistenza legale e rimedi effettivi a tutte le persone in cerca di protezione». La sentenza, effettivamente, ribadisce un principio già affermato in precedenti decisioni come M.H. e altri c. Croazia 1: uno Stato non può eludere il principio di non refoulement fingendo che un richiedente asilo abbia “scelto” di partire, se quella scelta è stata estorta in un contesto di detenzione e isolamento. Si richiama così ancora una volta i Paesi europei al rispetto sostanziale, e non solo formale, del diritto d’asilo e delle garanzie procedurali che ne sono parte integrante. 1. Il capolinea dello stato di diritto: la Croazia e la rotta balcanica, tra Schengen, l’Unione europea e violazioni sistematiche dei diritti umani alle frontiere, Francesco Luigi Gatta – Diritto, Immigrazione e Cittadinanza. ↩︎
Dentro e fuori i confini: la campagna contro i rimpatri mascherati e il memorandum Italia-Libia
Un ritorno non è mai davvero “volontario” se la scelta nasce dietro le sbarre di una prigione dopo minacce, violenze o torture, in un Paese dove non esiste tutela dei diritti e ogni giorno si rischia la vita. È con questa consapevolezza che decine di associazioni hanno dato vita nel marzo scorso alla campagna Voluntary Humanitarian Refusal e che lunedì 27 settembre è stata presentata presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati Camera dei Deputati da ActionAid, A Buon Diritto, ASGI, Differenza Donna, Le Carbet, Lucha y Siesta e Spazi Circolari.  In pochi mesi, la campagna ha raccolto 64 adesioni collettive e oltre 300 individuali, trasformandosi in un osservatorio e in una denuncia pubblica contro i cosiddetti programmi di “rimpatrio volontario” dalla Libia e dalla Tunisia. «Molto spesso – ha spiegato Adelaide Massimi di ASGI – i programmi di rimpatrio volontario assistito vengono realizzati in condizioni che non permettono una scelta realmente libera. Non si può parlare di volontarietà quando la decisione avviene in un centro di detenzione, senza alternative e sotto la minaccia di violenze. Il ritorno dovrebbe essere una possibilità tra altre vie di protezione, non l’unica opzione dopo mesi o anni di privazioni. Eppure questo è ciò che accade: una scelta fatta in condizioni di estrema vulnerabilità viene presentata come libera, quando in realtà non lo è affatto». La campagna non si limita a denunciare. Ha individuato tre priorità: interrompere i finanziamenti italiani ai rimpatri dai Paesi di transito, fermare gli accordi di esternalizzazione delle frontiere – a cominciare dal memorandum Italia-Libia, in scadenza a febbraio 2026 – e pretendere trasparenza nell’uso dei fondi pubblici. Dietro la parola “volontario” ci sono cifre che raccontano altro. Roberto Sensi di ActionAid ha ricostruito i contorni di un sistema consolidato: «Dal 2019 ad oggi il Fondo Africa, poi ribattezzato Fondo Migrazione, ha finanziato con 468 milioni di euro programmi di esternalizzazione. Sono risorse ingenti, che dovrebbero andare a protezione, a inclusione, a garantire percorsi di accoglienza degni. Invece vengono utilizzate per il controllo delle frontiere, per rafforzare governi o milizie nei Paesi di transito. Non solo: questi strumenti mancano di trasparenza, non hanno un reale scrutinio parlamentare e vengono gestiti in maniera opaca. È come se il Parlamento fosse tenuto all’oscuro, mentre milioni scorrono verso progetti che incidono sulla vita di migliaia di persone». Sensi ha sottolineato che «quando parliamo di questi fondi, non dobbiamo pensare a un dettaglio tecnico. Parliamo di scelte politiche che toccano la vita quotidiana di chi fugge da guerre, persecuzioni o povertà estrema. Se un Paese democratico decide di investire quasi mezzo miliardo non per salvare vite ma per allontanarle, allora dobbiamo avere il coraggio di dirlo chiaramente. Questi non sono rimpatri volontari, sono espulsioni mascherate da umanitarie». Dal lato giuridico, ASGI ha chiarito che «i rimpatri cosiddetti volontari dalla Libia e dalla Tunisia sono in realtà espulsioni coatte. È importante ribadirlo: la nozione di volontarietà non può esistere in un contesto di detenzione arbitraria, violenza diffusa, assenza totale di protezione. La scelta del ritorno non è libera, ma obbligata. Ed è l’Italia, finanziando e sostenendo queste pratiche, a rendersi corresponsabile delle violazioni». Le esperte legali hanno spiegato che questi programmi violano principi internazionali fondamentali: «Il consenso deve essere informato, libero, consapevole. Non lo è quando viene estorto con la minaccia di torture o con l’assenza di alternative reali. La persona non sceglie di tornare, sceglie di sopravvivere. Ma sopravvivere non può essere scambiato per una decisione autonoma. Qui la legge è calpestata due volte: una prima volta nei centri di detenzione, una seconda volta quando l’Italia legittima quelle pratiche chiamandole cooperazione». La forza della conferenza stampa è arrivata soprattutto dalla testimonianza diretta. Salahdine Juma, attivista del collettivo Refugees in Libya, ha raccontato la sua esperienza: «Dopo mesi nei centri di detenzione, le persone non hanno alcuna possibilità di decidere. Le opzioni sono solo due: accettare di tornare indietro o continuare a soffrire. Ho visto uomini e donne costretti a firmare moduli che non capivano, sotto la minaccia delle guardie. Ho visto famiglie divise, amici scomparsi. Questo non è un ritorno volontario, è un ritorno forzato». Poi ha aggiunto: «Quando sei in prigione, non hai il tempo di riflettere, non hai la possibilità di informarti, non hai nemmeno la forza fisica e psicologica per resistere. La firma diventa una resa: non al tuo destino, ma al sistema che ti schiaccia. E questo sistema ha una responsabilità precisa, perché è sostenuto da governi che parlano di cooperazione ma che in realtà finanziano la detenzione. Io ho visto con i miei occhi torture, persone vendute a gruppi armati, giovani donne costrette a subire violenze. Non si può pensare di costruire politiche migratorie sulla pelle di queste vite». Il suo appello conclusivo alle istituzioni ha toccato il famigerato accordo tra Italia e Libia: «Tra pochi mesi il governo dovrà decidere se rinnovare il Memorandum con la Libia. Io vi chiedo di dire no. È un accordo che ha rafforzato trafficanti e milizie, che ha reso le carceri libiche ancora più piene, che ha trasformato i corpi delle persone migranti in merce di scambio. Ho vissuto sulla mia pelle torture e violenze. La vita umana non è negoziabile. Ogni volta che un Paese europeo rinnova un patto con la Libia, rinnova la condanna di migliaia di persone a nuove sofferenze. Non possiamo più permetterlo». Il Memorandum Italia-Libia, firmato nel 2017 e già rinnovato una volta, ha istituzionalizzato i respingimenti in mare e legittimato l’intervento della Guardia costiera libica, composta in larga parte da milizie. «È un patto che viola il diritto internazionale – hanno ricordato le associazioni -. Non esiste una versione umanitaria di un respingimento. Non possiamo continuare a chiamare cooperazione quello che, nella realtà, è complicità in violazioni sistematiche». La parlamentare Rachele Scarpa del Partito Democratico ha ringraziato le associazioni «per aver fatto luce su un sistema che si nasconde dietro l’etichetta dell’umanitario». Ha poi detto: «Oggi vediamo con chiarezza come l’esternalizzazione delle frontiere e la criminalizzazione del soccorso in mare abbiano prodotto violazioni, morti e sofferenze. Non esiste una versione buona di un respingimento. Serve cambiare rotta, costruire vie legali e politiche di protezione. Perché la storia recente ci dice che chiudere i porti non ha mai fermato le partenze, ha solo moltiplicato le tragedie». Scarpa ha insistito anche sul tema della trasparenza: «Il Parlamento non può restare spettatore. Non possiamo accettare che milioni di euro vengano spesi senza alcun controllo democratico. Le politiche migratorie devono essere discusse, valutate e condivise. Altrimenti rischiamo di ritrovarci in un paradosso: difendere la democrazia in casa nostra violandola nei rapporti internazionali. La vera sicurezza nasce da diritti rispettati, non da accordi opachi firmati con regimi o milizie». «Se l’Italia continuerà a finanziare questi programmi – ha ribadito Roberto Sensi – sarà complice delle violazioni. Ma esiste un’alternativa: investire in accoglienza, inclusione, corridoi umanitari, vie legali di ingresso. Questa è la vera protezione, questa è la via che può restituire dignità e sicurezza alle persone». La campagna Voluntary Humanitarian Refusal non si fermerà qui: «Vogliamo allargare ancora di più la mobilitazione. Perché smontare la retorica del ritorno volontario è fondamentale: dietro una falsa etichetta umanitaria si nascondono violenza e respingimenti. Più voci si uniranno, più sarà difficile ignorarci». Il tempo stringe e solo un vero dibattito pubblico e una forte mobilitazione della società civile potrebbero, entro novembre, cambiare le sorti di un rinnovo dell’accordo con Tripoli che appare scontato. Una mobilitazione è stata fissata per sabato 18 ottobre a Roma alle ore 14 a Piazza Santi Apostoli. «Se non si agirà entro il 2 novembre – si legge nell’appello promosso da Refugees in Libya – questo accordo criminale e sanguinoso sarà automaticamente prorogato per altri tre anni, e gli abusi continueranno. L’esternalizzazione e la brutalizzazione del regime di frontiera dell’UE devono cessare. Per questo chiamiamo a una mobilitazione comune in ottobre a Roma». L’appello è sostenuto da una coalizione internazionale che include Refugees in Tunisia, Refugees in Niger, Abolish Frontex, Amnesty International Italia, ASGI, EMERGENCY, Borderline-Europe e molte altre realtà impegnate nella difesa dei diritti.
Dall’Albania all’Europa: aboliamo i centri di detenzione
Il Network Against Migrant Detention rilancia la mobilitazione in Albania contro i CPR e la detenzione amministrativa. Dal 31 ottobre al 2 novembre, tra Tirana e Shëngjin, si terranno diverse iniziative pubbliche tra cui una marcia verso il CPR di Gjadër e un’assemblea transnazionale per rafforzare la lotta comune contro le politiche di confinamento e deportazione. “Per questo chiamiamo a mobilitarsi insieme, oltre i confini, per il suo completo smantellamento”, scrive nell’appello il Network. Martedì 30 settembre ad ore 18.30 si terrà un’assemblea transnazionale online per costruire la mobilitazione. Per informazioni e ricevere il link della call si può scrivere a: againstmigrantdetention@gmail.com o al profilo Instagram. > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da Network Against Migrant Detention > (@networkagainstmigrantdetention) L’APPELLO Il 1° e 2 novembre come Network Against Migrant Detention torneremo in Albania durante l’anniversario dell’accordo Rama–Meloni, che permette all’Italia di costruire e gestire CPR in territorio albanese. Questi centri non sono solo incostituzionali: rappresentano un progetto coloniale che, con la complicità del governo albanese, segna un pericoloso precedente che l’Europa intende replicare attraverso il Nuovo Patto su Migrazione e Asilo. L’Albania diventa così un laboratorio di esternalizzazione, in cui sperimentare pratiche carcerarie e politiche di deportazione che vediamo emergere un po’ ovunque.  In queste settimane, manifestazioni di massa e scioperi sociali stanno bloccando diverse città in Europa, in particolare in Italia, per opporsi al genocidio in Palestina. La lotta per la libertà della Palestina è infatti diventata un simbolo politico capace di esprimere un rifiuto più ampio di tutte quelle politiche fasciste e securitarie che legittimano l’uso sistematico della violenza contro alcuni soggetti e reprimono ogni forma di dissenso. Israele, infatti, è il regime coloniale che in maniera più sistematica ha fatto ricorso alla detenzione amministrativa per imporre un controllo sulla popolazione palestinese. Lo stesso tipo di violenza lo ritroviamo esercitato in molti altri contesti contro le persone in movimento attraverso i confini globali. Dagli Stati Uniti all’Europa, dal Nord Africa al Rwanda, le immagini di deportazioni, respingimenti e detenzioni illegali si moltiplicano, mentre governi di estrema destra in tutto il mondo alimentano la retorica securitaria basata su confini chiusi, rimpatri forzati e deportazioni di massa. La detenzione amministrativa si consolida così come pilastro centrale di questo modello repressivo, fondato sulla reclusione, l’espulsione e la negazione dei diritti. In tutta Europa, il regime delle frontiere sta subendo una profonda ristrutturazione. Spinto da agende politiche sempre più autoritarie, il sistema migratorio dell’UE si sta orientando verso una gestione rapida, esternalizzata e fortemente militarizzata. Il quadro giuridico che rende possibile questa trasformazione è il Nuovo Patto su Migrazione e Asilo, che accelera pericolosamente le procedure di frontiera e normalizza la detenzione come strumento ordinario di gestione della mobilità. Accanto a questo, l’UE e i singoli stati membri stanno sperimentando le cosiddette “soluzioni innovative”. La proposta di modifica da parte della Commissione Europea della Direttiva Rimpatri, che introdurrebbe i Return Hubs e le liste dei Paesi Sicuri, segue e amplifica in termini concreti la logica introdotta dal Patto: rendere le persone sempre più deportabili, invisibili e detenibili. Insieme, questi strumenti contribuiscono a smantellare un diritto d’asilo già fragile, costringendo le persone migranti a una precarietà ancora più profonda, escluse dal welfare e dai servizi pubblici, ed esposte a uno sfruttamento più feroce da parte di mercati che continuano a richiedere manodopera a basso costo. Questa tendenza è riaffermata dal progressivo rafforzamento di Frontex, simboleggiato dall’apertura della nuova Frontex Academy a Varsavia, che mira ad aumentare il controllo securitario dei confini esterni, senza creare canali legali di accesso, costringendo così le persone migranti a intraprendere viaggi sempre più pericolosi. Eppure, nonostante la repressione, ogni giorno emergono forme di resistenza nei centri di detenzione in tutta Europa: scioperi della fame, rifiuto delle identificazioni, solidarietà reciproca, denunce pubbliche della violenza sistemica. Queste lotte dimostrano che i CPR non sono spazi di controllo totale, ma luoghi di conflitto. La lotta per la libertà di movimento e per l’autodeterminazione delle persone migranti rappresenta un’importante barriera contro la crescente militarizzazione di un regime di guerra globale che si manifesta oggi in genocidi, bombardamenti aerei indiscriminati, frontiere militarizzate, retate di massa e deportazioni su larga scala.  In questo contesto, segnato dal tramonto della democrazia liberale, abbiamo bisogno di connettere le lotte territoriali contro la detenzione amministrativa e dare vita a forme di resistenza conflittuale capaci di produrre una nuova idea di democrazia. Dobbiamo rafforzare una prospettiva transnazionale ed europea che vada oltre le mobilitazioni locali e nazionali: una prospettiva capace di condividere pratiche, costruire reti, coordinare strategie per abolire il regime europeo e globale di apartheid e confinamento. Abbiamo quindi scelto di unirci, insieme a compagnx albanesi,  italianx, europex  e transnazionalx, in una lotta decoloniale e solidale: per dire al popolo albanese che non è solo, che resistere è possibile, che la protesta deve crescere anche dove la cultura della resistenza è stata sistematicamente repressa. In gioco non c’è solo l’Albania o l’Italia, ma il futuro dell’Europa tutta. Da qui deve partire un processo di radicale democratizzazione dello spazio europeo e mediterraneo in cui viviamo.
Rimpatri, la nuova stretta dell’UE: «Un regolamento disumano che va respinto»
L’11 marzo 2025 la Commissione Europea ha presentato una nuova proposta di Regolamento sui Rimpatri che, dietro la veste burocratica e il linguaggio tecnico, punta a definire un’Europa più oppressiva e punitiva. Questo regolamento è destinato a sostituire l’attuale Direttiva Rimpatri e per impianto ideologico strizza l’occhio ai promotori del Remigration Summit e alle politiche trumpiane, rafforzando un modello che non ha nulla a che vedere con la tutela dei diritti, ma si allinea alla propaganda securitaria e la normalizzazione di pratiche autoritarie. La logica dichiarata è quella di aumentare i tassi di espulsione, la sostanza è un sistema che poggia i suoi pilastri su detenzione, deportazioni e sorveglianza. Non un testo amministrativo, bensì un manifesto politico che considera la mobilità umana una minaccia e la trasforma in un problema di ordine pubblico. Oltre duecento organizzazioni europee hanno deciso di denunciare il Regolamento con un documento congiunto che smaschera la natura reale della proposta: “Il regolamento sull’espulsione fa parte di un cambiamento nella politica migratoria dell’UE che caratterizza il movimento umano come una minaccia per giustificare deroghe alle garanzie dei diritti fondamentali”, si legge nell’introduzione. Lo statement entra nel dettaglio punto per punto, mostrando la portata devastante delle misure. La prima “novità” riguarda la possibilità di espellere persone considerate irregolari verso paesi terzi in cui non hanno mai vissuto e con cui non hanno alcun legame personale, una pratica che distruggerebbe famiglie e comunità e che aprirebbe la strada a veri e propri centri di rimpatrio offshore, luoghi di detenzione al di fuori dell’UE in cui la tutela dei diritti diventerebbe un miraggio. In pratica, un’estensione e normalizzazione del cosiddetto “modello Albania”. Un altro punto riguarda la sorveglianza generalizzata: gli Stati membri sarebbero obbligati a mettere in atto sistemi di individuazione delle persone irregolari, alimentando così profilazioni razziali, retate di polizia, paura nelle comunità migranti. Un ulteriore elemento è l’estensione della detenzione amministrativa fino a 24 mesi, che colpirebbe indiscriminatamente minori, soggetti vulnerabili e persone che non possono essere espulse: una gravissima violazione del diritto internazionale e della dignità umana.  Il testo denuncia poi l’introduzione di misure punitive e coercitive sproporzionate: multe, restrizioni, divieti di ingresso e accesso ai servizi, fino alla negazione di prestazioni essenziali, con il paradosso di penalizzare chi non può adempiere a obblighi materiali impossibili, come l’ottenimento di documenti in caso di apolidia. Si colpisce anche il diritto di ricorso, eliminando la sospensione automatica delle espulsioni: in questo modo diventa quasi impossibile difendersi da un rimpatrio forzato. Infine, critica l’uso massiccio della sorveglianza digitale, con tracciamenti GPS, raccolta e condivisione di dati sensibili – inclusi quelli sanitari – anche con paesi terzi privi di tutele adeguate, creando un mercato redditizio per le multinazionali della sicurezza e della tecnologia. Le organizzazioni rigettano l’intero regolamento in modo netto: “Non risolverà nulla, ma produrrà solo più irregolarità, più marginalità, più esclusione sociale”.  «Questo regolamento aprirà la strada a un regime distopico di detenzione e deportazione, con decine di migliaia di persone rinchiuse nei centri di detenzione per migranti in tutta Europa, famiglie separate e persone inviate in paesi che non conoscono nemmeno – denuncia Silvia Carta, Advocacy Officer del PICUM – i legislatori dell’UE devono respingerla e lavorare invece su misure che promuovano l’inclusione sociale e la regolarizzazione delle persone costrette a vivere in un limbo legale». Le realtà associative e i movimenti accusano le istituzioni europee di alimentare sentimenti razzisti e xenofobi, di favorire gli interessi economici di chi lucra sui centri di detenzione e sui sistemi di sorveglianza, di sacrificare i diritti sull’altare della propaganda securitaria. Lo statement sottolinea l’assenza di una valutazione di impatto sui diritti fondamentali, evidenziando che si tratta di una proposta costruita senza consultazioni, senza trasparenza, senza rispetto delle stesse regole procedurali che la Commissione dice di voler applicare. “È la conferma di una scelta politica precisa: continuare a investire nella paura e nella punizione invece che nella protezione e nell’inclusione”. Le alternative esistono. Le organizzazioni chiedono di rafforzare i canali regolari di ingresso, di ampliare i permessi di soggiorno basati sui diritti, di garantire accesso alla salute, alla casa, al lavoro dignitoso, di costruire comunità forti e inclusive. «In un momento in cui le politiche di esclusione avanzano, chiediamo un rinnovato impegno verso la solidarietà e i diritti umani la sicurezza non può fondarsi sulla paura e sulla discriminazione, ma solo sull’inclusione, il rispetto e pari opportunità”, afferma Giovanna Cavallo, coordinatrice del Forum per Cambiare l’ordine delle cose e della Road Map per il Diritto d’Asilo e la Libertà di Movimento.  Il documento si chiude con una richiesta inequivocabile: il ritiro immediato della proposta e un’inversione di rotta radicale. Perché un’Europa che si definisce democratica e fondata sul rispetto dei diritti non può scegliere la strada della detenzione di massa e della deportazione. Perché la vera sicurezza non nasce dai muri, ma dalla giustizia sociale. Perché le vite delle persone non sono numeri da espellere, ma priorità da difendere. Lo scenario prossimo è quindi stretto tra questo Regolamento il nuovo e criminale Patto europeo su migrazione e asilo. Segnali inequivocabili di una trasformazione profonda: i governi europei, seppur in modo contradditorio, non parlano più di accoglienza, integrazione o protezione internazionale, ma di rimpatri di massa, detenzione e deportazioni. Un evidente spostamento a destra che occorre contrastare in tutti i modi possibili, attraverso l’attivazione sociale e politica, alleanze transnazionali tra movimenti e soprattutto momenti comuni di mobilitazione. Serve organizzarsi e lottare insieme, in Europa e oltre i suoi confini. Un primo appuntamento di rilievo è già stata lanciata dal Network Against Migrant Detention (NAMD) per l’1 e 2 novembre in Albania: “A due anni dalla firma del memorandum Rama-Meloni torneremo a Tirana, Gjadër e Shëngjin per contestare le deportazioni fasciste e per chiedere la chiusura definitiva dei CPR e le politiche di deportazione”. > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da Network Against Migrant Detention > (@networkagainstmigrantdetention)
12 e 13 settembre: «Da Tripoli a Ginevra 2»
“UNHCR = UNFAIR!”, “IOM = NASTY!”: con questi slogan Refugees in Libya annuncia due nuove giornate di mobilitazione a Ginevra, il 12 e 13 settembre 2025, contro le «violazioni dei diritti umani» da parte delle principali agenzie internazionali coinvolte nella gestione delle migrazioni. Venerdì 12 settembre, alle 11, davanti alla sede dell’UNHCR in Rue de Montbrillant 94, è prevista una conferenza stampa con la presentazione del “Book of Shame”, che raccoglie «dozzine di denunce e accuse da parte di rifugiati e migranti in Libia, Tunisia e Niger». Secondo gli organizzatori, «anziché adempiere al proprio mandato di protezione, l’UNHCR sta proteggendo le frontiere europee ed è diventato uno strumento delle politiche di esternalizzazione». Per il collettivo si tratta di un ritorno a Ginevra, dopo la due giorni del 9 e 10 dicembre 2022 – in occasione della Giornata internazionale dei diritti umani – che era stata promossa per denunciare l’operato dell’Agenzia dell’ONU. In questo nuovo appuntamento nella città svizzera, il giorno successivo, sabato 13 settembre, la manifestazione partirà alle 14 dalla sede dell’IOM, in Route des Morillons 17. Al centro delle accuse verso l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni sono le pratiche di “ritorno volontario”, considerate una forma di pressione e ricatto: «In Libia conosciamo da molti anni il loro concetto di ricatto – affermano gli attivisti -. Persone detenute e tenute in condizioni insopportabili ricevono come unica proposta quella di tornare nel Paese di origine. In Tunisia abbiamo visto lo stesso sistema, accanto a sgomberi e attacchi contro insediamenti informali». La protesta attraverserà la città, passando anche davanti alla sede delle agenzie governative, con interventi e testimonianze di rifugiati che hanno raggiunto l’Europa. «Non sono disposti a dimenticare le proprie ferite, né i compagni che ancora soffrono in Libia, Tunisia o Niger», sottolineano. Nel comunicato di lancio della due giorni viene denunciata anche l’apertura di un nuovo grande campo per richiedenti asilo a Ginevra, descritto come «una semi-prigione tra la pista dell’aeroporto e un’autostrada, dove le persone sono trattenute per mesi». L’iniziativa fa parte della “chain of action 2025”, una catena di azioni transnazionali che ricorda il decennale dell’estate delle migrazioni del 2015 e rilancia la lotta per la libertà di movimento e i diritti per tutte e tutti.
Grecia, sospensione dell’asilo e nuova riforma razzista del governo Mitsotakis
Con il pretesto dell’aumento degli arrivi sulle isole meridionali, il governo di Kyriakos Mitsotakis ha sospeso per tre mesi l’accesso all’asilo per le persone che arrivano via mare da paesi del Nord Africa, ordinandone l’espulsione immediata senza registrazione. Parallelamente, prosegue in Parlamento l’iter della “Riforma del quadro e delle procedure per i rimpatri di cittadini di Paesi terzi”, che amplia la detenzione, introduce pene detentive per chi resta senza documenti e limita le possibilità di regolarizzazione. La norma radicalizza le linee guida del nuovo Patto UE su migrazione e asilo, anticipandone la traduzione più repressiva. ONG e movimenti denunciano gravi violazioni del diritto internazionale, mentre cresce il coordinamento per una risposta sociale e politica. UNO STATO DI EMERGENZA COSTRUITO AD ARTE L’aumento degli arrivi di persone in movimento sulle isole meridionali greche è diventato il nuovo pretesto del governo di centro-destra guidato da Kyriakos Mitsotakis per giustificare l’ennesima offensiva contro il diritto di asilo. Dall’inizio dell’estate, in particolare, Creta e Gavdos hanno registrato un incremento 1 di approdi di persone in fuga da Libia, Tunisia e Algeria. Una dinamica nota da tempo, trasformata oggi in “minaccia nazionale” per invocare misure straordinarie. SOSPENSIONE DELL’ASILO E DEPORTAZIONI IMMEDIATE L’11 luglio con l’emendamento n. 71 della legge 5218, il Parlamento ha imposto un divieto di tre mesi alla presentazione di domande di asilo per le persone che arrivano via mare, prevedendo la loro immediata espulsione verso il Paese di transito o di origine, senza alcuna registrazione. La misura colpirà soprattutto i nuovi arrivi provenienti da Libia, Tunisia e Algeria. «Una situazione tanto grave quanto prevedibile», osserva l’avvocato Minos Mouzourakis di Refugee Support Aegean 2. «L’aumento degli arrivi dalla Libia è una realtà da almeno due anni, come dimostra anche il recente procedimento penale 3 contro alti funzionari della guardia costiera greca per il naufragio di Pylos del 14 giugno 2023, che ha causato oltre 600 morti. Né Creta né Gavdos dispongono di strutture di accoglienza o registrazione, e i piani per crearle sono stati respinti solo tre mesi fa dal Ministero della Migrazione». Il nuovo ministro della Migrazione e dell’Asilo, Thanos Plevris – subentrato il 28 giugno a Makis Voridis, dimessosi in seguito allo scandalo sui fondi agricoli dell’UE – ha già dichiarato che la sospensione dell’asilo potrebbe essere estesa in caso di una “nuova crisi” 4. Chi è Makis Voridis La nomina a marzo di Makis Voridis 5 a ministro della Migrazione ha visto un’intensificazione della retorica e delle politiche anti-migranti. Voridis, con una lunga storia di affiliazioni di estrema destra, tra cui la leadership nell’ala giovanile del partito greco neofascista Epen (Unione Politica Nazionale), ha confermato le aspettative di un programma aggressivamente razzista, illegale e xenofobo. Fonte: Legal Centre Lesvos ONG E SOCIETÀ CIVILE: “PROVVEDIMENTO ILLEGALE” La risposta delle organizzazioni è stata immediata. Più di 100 ONG e associazioni hanno firmato una dichiarazione congiunta per chiederne l’annullamento. «Il diritto di chiedere asilo e la protezione dal respingimento sono principi fondamentali che non possono mai essere limitati. Entrambi sono sanciti da strumenti di diritto internazionale e dell’UE che prevalgono su qualsiasi disposizione legislativa nazionale, come già sottolineato da autorevoli istituzioni a livello greco e internazionale. Questa sospensione è illegale – scrivono le organizzazioni – e deve essere revocata». 🔗 JOINT STATEMENT: THE UNLAWFUL SUSPENSION OF ACCESS TO ASYLUM IN GREECE MUST BE IMMEDIATELY WITHDRAWN Adriana Tidona, ricercatrice di Amnesty International per le migrazioni, aggiunge: «Le autorità greche hanno inoltre annunciato l’intenzione di istituire un centro di detenzione a Creta, per trattenere le persone che arrivano in modo irregolare. Se attuata, questa proposta rischia di generare situazioni di detenzione automatica e quindi arbitraria delle persone migranti, in violazione del diritto dell’Unione europea e del diritto internazionale». LA NUOVA RIFORMA SUI RIMPATRI: CONTINUITÀ E RADICALIZZAZIONE «Chiunque sia illegale in Grecia non sarà mai legalizzato», dichiarava a fine maggio l’ex ministro dell’Immigrazione e dell’Asilo Makis Voridis, riferendosi alle modifiche legislative che stava promuovendo per rafforzare il sistema di rimpatrio. Il disegno di legge preparato da Voridis e, messo in consultazione il 17 luglio dal nuovo ministro dell’Immigrazione Thanos Plevris 6, nei primi giorni di agosto, è stato presentato in Parlamento l’8 agosto scorso 7. Chi è Thanos Plevris Ministro della Migrazione dal 28 giugno 2025, è noto per posizioni estremiste e dichiarazioni apertamente razziste. Celebre, e inquietante, la frase: «La sicurezza delle frontiere non può esistere senza vittime, per essere chiari, se non ci sono morti». La sua nomina segna la continuità e, per certi versi, la radicalizzazione della linea di Voridis La “Riforma del quadro e delle procedure per il rimpatrio dei cittadini di paesi terzi” aggiorna il quadro normativo per espulsioni e rimpatri. L’obiettivo dichiarato dal governo è rafforzare la gestione delle espulsioni, prevenire abusi delle procedure d’asilo e ridurre le falle amministrative. In realtà, la norma amplia la detenzione, inasprisce pene e restrizioni, limitando drasticamente le possibilità di regolarizzazione. I punti principali sono:Paesi di rimpatrio ampliati: inclusi residenza abituale, “paese terzo sicuro” e primo paese di asilo.Pene per soggiorno illegale: carcere (minimo 2 anni) o multa fino a 10.000€, senza possibilità di sospensione salvo rimpatrio volontarioMulte e pene aumentate per chi entra o rientra illegalmenteDefinizioni più severe di “rischio di fuga”, come mancanza di residenza fissa o rifiuto di identificazionePartenza volontaria ridotta: da 25 a 14 giorni, con controlli elettroniciDivieti di ingresso più duri: fino a 10 anni, estendibiliPene per soggiorno illegale: carcere (minimo 2 anni) o multa fino a 10.000€, senza possibilità di sospensione salvo rimpatrio volontarioMeno possibilità di richiedere asilo più volte e abolizione del permesso di soggiorno dopo 7 anni di presenza irregolare Un disegno di legge marcatamente razzista, i cui punti salienti Plevris ha illustrato in una recente intervista 8. «Il piano, che sarà votato all’inizio di settembre, prevede che chiunque arrivi in Grecia e veda respinta la propria domanda di asilo sarà condannato a una pena detentiva da due a cinque anni. L’unica possibilità di evitare il carcere sarà quella di collaborare al proprio rimpatrio. Nel frattempo, durante l’esame della richiesta di asilo, la persona potrà essere posta in detenzione amministrativa. Stiamo investendo nella detenzione e nel rimpatrio – ha dichiarato Plevris – e questo può essere ottenuto solo con una politica di disincentivi: chi entra illegalmente nel Paese deve sapere che, se il suo asilo viene respinto, le conseguenze saranno tali da non avere alcun motivo per rimanere». La propaganda governativa Il 7 agosto, Plevris ha visitato 5 strutture. In una foto osserva sorridente il segretario generale per l’accoglienza mangiare il cibo distribuito. “Il nostro ministero non è un hotel”, ha commentato, chiedendo di rivedere il menù “in stile alberghiero” fornito nei campi. Fonte: Efsyn SUL CAMPO: VIOLENZE E NUOVE INFRASTRUTTURE Il Legal Centre Lesvos (LCL) ha pubblicato un rapporto che copre i primi sei mesi del 2025 sull’isola di Lesvos 9, offrendo un quadro complessivo della stretta repressiva in atto. Il LCL denuncia la persistenza di pratiche illegali: perdurare di violenze di frontiera, respingimenti violenti, condizioni degradanti nei campi, espulsioni collettive e ritardi arbitrari. Nuove infrastrutture, come il Centro di Accesso Controllato di Vastria (finanziato dall’UE), sono progettate per aumentare detenzione ed espulsioni. 🔗 NEW REPORT UNPACKS THE CONSTRUCTION OF A MIGRANT DETENTION CENTRE. A REPORT BY CPT AEGEAN MIGRANT SOLIDARITY Eppure la risposta legale non si ferma: assoluzioni in processi per “traffico di migranti“, liberazione di imputati nel caso “Moria 6” 10, incriminazione di 17 ufficiali della Guardia Costiera per il naufragio di Pylos 11. A Creta cresce la solidarietà verso uomini e ragazzi sudanesi criminalizzati, migliorando l’accesso alla difesa legale. Il naufragio di Pylos Il 14 giugno 2023, un peschereccio partito dalla Libia con centinaia di persone si è capovolto e affondato al largo di Pylos, causando oltre 600 morti. L’inchiesta ha portato all’incriminazione di 17 ufficiali della Guardia Costiera greca. È il naufragio più letale della storia recente I MOVIMENTI: «DOBBIAMO RESISTERE» Il 27 luglio, il Coordinamento Antirazzista di Atene – formato da Open Assembly Against Pushbacks and Border Violence, Solidarity with migrants, Mataris Sudan Solidarity Committee e Assembly Against Detention Centers 12 – ha convocato un incontro nel quartiere di Exarchia 13. > «Dobbiamo affrontare tutto questo come un attacco e organizzare la nostra > resistenza, le nostre alleanze e le nostre azioni», hanno affermato. Tra repressione e resistenza, la Grecia si conferma uno dei laboratori più estremi della politica migratoria europea: norme e pratiche securitarie si sperimentano sulle vite delle persone. Ma la mobilitazione, dentro e fuori i tribunali, dimostra che l’opposizione sociale è viva – e pronta a rilanciare. 1. Leggi: Crete – Gavdos: 7,336 refugee arrivals in the first half of 2025, lack of management plan, Refugee Support Aegean (RSA) (9 luglio 2025) ↩︎ 2. Leggi l’editoriale pubblicato su ECRE il 17 luglio 2025 ↩︎ 3. Pylos Shipwreck: Criminal prosecution for felonies against 17 members of the Coast Guard, RSA (23 maggio 2025) ↩︎ 4. Greece may extend North Africa asylum ban if migrant flow resurges, Reuters (7 agosto 2025) ↩︎ 5. Greek PM seeks ‘reset’ with former far-right activist as migration minister, The Guardian (Marzo 2025) ↩︎ 6. Nel suo discorso inaugurale come ministro, Plevris ha dichiarato apertamente che le persone che entrano in Grecia senza autorizzazione avranno solo due opzioni: tornare indietro o essere mandate in prigione, e ha dichiarato – in violazione del diritto greco e internazionale – che a nessuno che entri irregolarmente sarà permesso di richiedere asilo Fonte: Legal centre Lesvos ↩︎ 7. Leggi il comunicato stampa governativo ↩︎ 8. L’intervista a Plevris su MonoNews (10 agosto 2025) ↩︎ 9. Lesvos Situation Report January – June 2025, LCL (24 luglio 2025) ↩︎ 10. Il 4 aprile 2025, 3 dei “6 di Moria” sono stati assolti! Erano stati condannati per incendio doloso insieme ad altri 3 adolescenti. Questi 6 adolescenti afghani sono stati assurdamente accusati degli incendi che hanno distrutto il catastrofico campo di Moria a Lesbo nel settembre 2020. Fonte: Solidarity Campaign FreetheMoria6 ↩︎ 11. Leggi anche l’articolo su Efsyn (7 agosto 2025) ↩︎ 12. Detenzione amministrativa: sistemi carcerari e apartheid in Palestina e Grecia. Un podcast di Against Detention Centers Athens ↩︎ 13. La notizia e il testo di convocazione su Efsyn (23 luglio 2025) Efsyn (Εφημερίδα των Συντακτών, Efimerida ton Syntakton) è un quotidiano cooperativo greco. Il suo nome significa “Il giornale dei redattori”. È stato fondato nel 2012 da ex dipendenti del quotidiano Eleftherotypia, che aveva cessato le pubblicazioni. È una cooperativa gestita interamente dai suoi dipendenti ↩︎
Controfuoco. Per una critica all’ordine delle cose (N° 2, giugno 2025)
> con·tro·fuò·co/ > Incendio, appiccato volontariamente, > per eliminare il materiale > combustibile e quindi contrastare > l’avanzata di un incendio di grandi > proporzioni, spec. nei boschi. ARCHITETTURE DEL CONFINAMENTO: IL TRATTENIMENTO COME INFRASTRUTTURA L’editoriale di Francesco Ferri e Omid Firouzi Tabar Sono passati oramai dieci anni dalla cosiddetta “crisi dei rifugiati” e appare sempre più chiaro come il regime complessivo di regolamentazione, filtraggio e selezione della mobilità delle persone migranti sia vivendo una preoccupante virata autoritaria e repressiva, una recrudescenza che vede nella privazione della libertà un fattore sempre più diffuso, strutturale e normalizzato. Questa “sicuritarizzazione” dell’apparato sicuritario-umanitario, che vediamo da alcuni anni intrecciare e ibridare dinamiche di controllo e segregazione con quelle dell’assistenzialismo compassionevole e infantilizzante, si sta progressivamente infiltrando gran parte dei contesti legati alle migrazioni. Lo vediamo nelle narrazioni mediatiche sempre più stigmatizzanti, nel piano normativo che restringe progressivamente diritti e garanzie e nelle prassi istituzionali sempre più segnate da dinamiche di abbandono socio-economico e dalla moltiplicazione degli ostacoli amministrativi e burocratici. Stiamo assistendo in primo luogo a un vero e proprio attacco frontale al diritto di asilo per come lo abbiamo conosciuto, che si materializza attraverso la progressiva centralità di concetti come “paesi sicuro” e alle conseguenti procedure “accelerate” o di “frontiera”. In questo senso la richiesta di protezione internazionale non è più soltanto preludio a una vera e propria trappola sociale, ma è sempre più un’opzione che viene semplicemente negata, soprattutto per sottrarre le persone al pacchetto di diritti che tutt’ora implicherebbe. In tale direzione vanno legislazioni nazionali e il nuovo Patto europeo su migrazioni e asilo, punto di svolta decisivo delle politiche migratorie continentali. A questa erosione del diritto di asilo si accompagna una sorta di “Hotspotizzazione” della regolamentazione delle persone anche oltre alle fasi successive all’approdo. Al netto della resistenza, talvolta anche ostinata, di alcuni tribunali, la prospettiva politica sembra essere quella di dare una progressiva centralità (non soltanto simbolica) a strutture classicamente detentive come i Cpr, ma anche a strutture ibride di trattenimento come i centri albanesi (e altri che fioriranno sul perimetro europeo per le “procedure di frontiera”), e quelli di Pozzallo e Porto Empedocle adibiti per le “procedure veloci”. In parallelo, la costante minaccia di “deportabilità” in questi luoghi, ben agevolata dalla diffusione di misure di militarizzazione urbana come le “Zone Rosse”, diventa ingrediente ricattatorio di estrema violenza. Senza scordarci, per completare questo cupo quadro, di una certa intensificazione della criminalizzazione delle pratiche solidali, soprattutto in mare, e di quella, statisticamente preoccupante, dello smuggling e dei cosiddetti “capitani”, che sta allargando la stretta penale su un numero sempre più vasto di migranti. Tutto ciò non sembra proiettarsi nella direzione di un rafforzamento di forme di mera esclusione ed estromissione delle persone dalla cosiddetta “Fortezza Europa”, concetto che ci appare oggi anche poco funzionale, talvolta del tutto fuorviante, per leggere in profondità i processi in corso e le razionalità che li sottendono. In campo sembra invece persistere un’economia politica del modello confinario imperniata su dinamiche di selettività e di violenta (im)mobilizzazione, orientate a garantire nuove linee di inclusione subalterna e di produzione di soggettività, più che a materializzare una rigida (e improduttiva) impermeabilizzazione del perimetro europeo. Più che alla tensione tra rigide linee che separano estromissione da e inclusione nello spazio europeo, dobbiamo in sintesi sforzarci a cogliere tensioni e conflittualità sempre più molecolari e interstiziali tra espressione di mobilità indisciplinata e tentativo di produzione di soggettività esposte a forme sempre più intensive di sfruttamento lavorativo e di stigmatizzazione utile a nutrire le retoriche sicuritarie. Questi nuovi sviluppi si materializzano dentro una congiuntura di guerra che, oltre alle uccisioni, ai massacri, ai genocidi e alle devastazioni che produce nelle zone di conflitto dove è materialmente in atto, si espande in quanto regime complessivo di produzione di linee di comando, ispirando drammaticamente molte politiche europee tra cui quelle che riguardano migrazioni e confini. In questo scenario bellico la costruzione dei blocchi e delle polarizzazioni, strutturati intorno a un ritorno di costruzioni identitarie come popolo, stato e nazione, produce inevitabili e considerevoli ripercussioni nei regimi di  “bordering” e di “othering”, ponendosi come frame perfettamente coerente con la stretta sicuritaria vissuta in questa fase storica in molti territori europei. Scendendo su un piano più concreto, l’analisi del “modello Albania” fornisce indicazioni utili per cogliere le tendenze che attraversano il regime confinario. Il funzionamento del centro di Gjader ha evidentemente caratteristiche peculiari ma non è, dal punto di vista della logica che lo informa, un’eccezione. Questo progetto, infatti, rende visibile e leggibile una delle traiettorie più rilevanti del governo della mobilità: l’estensione selettiva del trattenimento come pratica ordinaria. In Italia, la detenzione amministrativa si presenta come diffusa ma non generalizzata: uno scarto importante, da cogliere per darne preciso rilievo politico. Infatti, la gran parte delle persone rimpatriate non passa dai Cpr. Ma questo dato non ridimensiona il ruolo politico di quei centri. Al contrario, lo chiarisce: i Cpr non funzionano per volumi, ma per effetto. Producono una pedagogia della minaccia, inscrivono nella vita migrante una moltiforme precarietà costitutiva, alimentano una condizione permanente di esponibilità alla violenza e al rimpatrio. Il modello Albania riproduce questa stessa logica: poche persone effettivamente trattenute bastano a produrre un salto, simbolico e materiale, nell’architettura del confinamento. È per questo che l’analisi non può fermarsi ai numeri. Serve uno sguardo qualitativo e politico sulla detenzione, che è poi quello che questo numero di Controfuoco tenta di portare. Le molteplici forme del trattenimento non vanno valutate unicamente sulla base della capienza o del tasso di rimpatri che producono, ma interrogati come dispositivi: macchine selettive di produzione della soggettività e della forza-lavoro migrante. Le loro funzioni travalicano i corpi che rinchiudono. La violenza concreta che esercitano non va dunque ridimensionata, ma compresa nella sua estensione. La lista dei diritti violati – libertà personale, difesa, salute, unità familiare – è solo la soglia di un impatto più ampio: una violenza sistemica, che agisce al di là delle griglie giuridiche. È una violenza strutturale, fatta di trattamento differenziale, segregazione materiale e simbolica, disciplinamento sociale. Il trattenimento va allora letto come infrastruttura, non come eccezione. Non è una parentesi nella vita migrante, ma una condizione che incide sui tempi, gli spazi, le possibilità di movimento e di relazione. La deportabilità – più che la deportazione effettiva – è oggi la condizione generalizzata che definisce la collocazione sociale di ampi settori di soggettività migrante. Il rischio permanente della detenzione orienta le traiettorie, comprime le aspettative, spezza le reti, contribuisce alla collocazione nel mercato del lavoro, nei modelli dell’abitare. È in questo scenario che si colloca il presente numero di Controfuoco, dedicato alle molteplici forme del trattenimento. Le attraversa, le connette, le storicizza. Non per restituirne un’immagine unitaria, ma per mapparne le articolazioni, le ricadute, le resistenze. Il trattenimento non è ai margini: è un asse portante delle politiche migratorie. È dentro la società, ne riflette le gerarchie, ne rafforza i confini. L’ambizione di questo numero è chiara: contribuire, con strumenti agili e accessibili, alla politicizzazione del dibattito sul trattenimento. Passando in rassegna i vari contributi, Chiara Denaro presenta delle riflessioni che riguardano i nuovi piani di sperimentazione della detenzione migrante. Si parla dei centri di Pozzallo e Porto Empedocle, pensati per trattenere migranti giunti dai “paesi sicuri”, mentre viene esaminata la loro richiesta di protezione internazionale. L’autrice si sofferma in particolare sulla privazione della libertà vista come ingrediente sempre più diffuso del controllo delle migrazioni e sul ruolo svolto dai giudici e dal diritto in questo campo di tensioni. Francesco Ferri presenta una riflessione critica rispetto a un tema che ha avuto recentemente molta amplificazione mediatica, quello dei centri di detenzione in Albania. Ferri si sofferma nello specifico sulla funzione latente di questi luoghi, interpretati come strumenti punitivi che incarnano, anche in prospettiva delle nuove politiche europee, uno specifico modello di controllo della mobilità indisciplinata. In particolare emerge l’idea che tali luoghi rappresentino un confine interno esternalizzato, dove la dislocazione della detenzione pone, tra i vari, seri problemi dal punto di vista del controllo giurisdizionale e della tutela legale. Il tema della detenzione amministrativa è stato approfondito da Rocco Sapienza, in relazione alla struttura collocata a Palazzo San Gervasio, in Provincia di Potenza. Le riflessioni intorno a questo Cpr si soffermano non soltanto sulla violenza istituzionale agita con le forme del trattenimento all’interno di questo luogo, ma si sviluppano anche in riferimento alla sua collocazione nel territorio e in particolar modo nelle reti e infrastrutture dello sfruttamento lavorativo. La progressiva recrudescenza delle politiche di controllo delle migrazioni e la crescente centralità di strumenti necropolitici e repressivi è la cornice di riferimento del contributo di Francesca Esposito. L’autrice, focalizzandosi sul tema della detenzione amministrativa in Italia e in Europa, propone una riflessione critica di orientamento transfemminista e abolizionista indicando la necessità di guardare alle molteplici interconnessioni tra la violenza confinaria e violenza di genere, con particolare riferimento allo sguardo portato nel dibattito attuale dal femminismo anticarcerario. Anche il contributo di Luca Ceraolo affronta il tema della detenzione delle persone migranti all’interno del Cpr. Tenendo la salute mentale come cornice generale di riferimento, in questo contributo viene messa a fuoco la relazione tra diversi campi del sapere – con particolare attenzione a quello medico – nelle pratiche detentive e la materializzazione di un “continuum coloniale” nei processi di stigmatizzazione che riguardano le soggettività migranti. Luca Daminelli e Andrea Contenta si focalizzano sulla Grecia e sul borderscape rappresentato da quella particolare porta d’ingresso verso l’Europa, segnata fortemente dagli accordi con la Turchia che continuano ad avere molteplici conseguenze. In questo contributo l’attenzione è rivolta ai dispositivi di privazione della libertà, che fungono in modo sempre più diffuso e normalizzato come strategie di regolamentazione, esclusione ed inclusione subalterna dei migranti irregolarizzati, ma anche dei richiedenti asilo. Infine troviamo le riflessioni presentate da Giovanni Marenda, che volge lo sguardo verso la Bulgaria, di nuovo imperniate sull’analisi della centralità assunta dalla pratica della detenzione nel governo delle migrazioni indisciplinate. Secondo l’autore le prassi osservabili in quel territorio, segnate da diffusi soprusi e violenze discrezionali degli attori istituzionali, possono essere interpretate come una sorta di anticipazione del recente Patto europeo sulle migrazioni che tende ad incorporarle, legalizzandole. Quest’ultimo infatti viene immaginato non tanto come cambio di paradigma, ma come normalizzazione di un sistema che prevede lo strapotere di polizia e la generalizzazione della detenzione come fulcri operativi. CONTROFUOCO N° 2 GIUGNO 2025 SOMMARIO I nuovi centri di detenzione per i richiedenti asilo. Genealogia di un fallimento governativo Chiara Denaro Da dove viene la singolare pretesa di trasportare i migranti in Albania per aumentare i rimpatri? Francesco Ferri Geografia del controllo: note da Palazzo San Gervasio Rocco Sapienza Per una critica transfemminista abolizionista della detenzione amministrativa in Italia Francesca Esposito Politiche della diagnosi e continuum della colonia. Riflessioni sulla salute nella detenzione amministrativa Luca Ceraolo La Grecia scudo d’Europa. Di razzismo istituzionale, condizioni di vita inumane e politiche di morte Andrea Contenta e Luca Daminelli Reclusi alla periferia d’Europa. Uno sguardo sulla detenzione dei migranti in Bulgaria Giovanni Marenda Clicca sull’immagine di copertina per scaricare gratuitamente la rivista o qui sotto Download in pdf Acquista una copia cartacea Fotografie: Silvia Di Meo, Rami Sole, Luca Greco, Marios Lolos, Francesco Cibati, Rocco Sapienza, Stop CPR Roma e Mel Progetto grafico: Giacomo Bertorelle Gruppo redazionale: Jacopo Anderlini, Emilio Caja, Francesco Della Puppa, Francesco Ferri, Enrico Gargiulo, Barbara Barbieri, Stefano Bleggi, Giovanni Marenda, Omid Firouzi Tabar, Martina Lo Cascio La foto di copertina è stata scattata durante la mobilitazione del Network Against Migrant Detention in Albania l’1 e 2 dicembre 2024. NAMD è una rete di attivist* transnazionale che chiede l’abolizione della detenzione amministrativa. Cooperativa editrice Tele Radio City s.c.s., Vicolo Pontecorvo, 1/A – 35121 Padova, Italy, Iscr. Albo Soc. Coop. n. A121522 Melting Pot è una testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Padova in data 15/06/2015 n. 2359 del Registro Stampa. Controfuoco è un processo aperto e collettivo che vuole coinvolgere saperi e conoscenze composite e crescere a partire dalle diverse esperienze e biografie che intreccerà. Per contribuire scrivi a collaborazioni@meltingpot.org.