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Ennesima operazione di sgombero in alcuni magazzini del Porto Vecchio di Trieste
Nella prima mattinata del 3 dicembre a Trieste è stato eseguito un nuovo sgombero nei magazzini del Porto Vecchio. Circa 150 persone migranti e richiedenti asilo, che da settimane dormivano in ripari di fortuna dopo essere state abbandonate in strada, sono state messe in fila, identificate e trasferite. La nuova operazione di sgombero e chiusura dei magazzini 2 e 2A del Porto Vecchio è stata disposta dal Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico dopo gli incendi delle scorse settimane. Notizie INCENDI AL PORTO VECCHIO DI TRIESTE, SOSPETTI SU AZIONI DOLOSE Associazioni, volontarә e attivistә solidali chiedono indagini approfondite Redazione 18 Novembre 2025 La misura, denunciata da ICS – Consorzio Italiano di Solidarietà, conferma l’assenza di una strategia seria e strutturale da parte delle istituzioni: «domani, le persone che arriveranno in città, si troveranno nella medesima condizione di chi è stato allontanato oggi. Semplicemente, il problema viene spostato, non affrontato». Lo sgombero è avvenuto senza alcun coinvolgimento delle organizzazioni che in città si occupano quotidianamente di accoglienza e supporto, né dell’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati). Per ICS questa esclusione rivela la cifra politica della gestione locale della mobilità migratoria: una gestione dettata da logiche securitarie ed emergenziali, spesso funzionali più a esigenze mediatiche che alla tutela dei diritti delle persone vulnerabili. Si produce così, ancora una volta, un’emergenza artificiale che si ripresenterà nei prossimi mesi, aggravando la responsabilità politica di chi governa. Ma ciò che l’organizzazione sottolinea come più grave è l’esclusione arbitraria di almeno quaranta persone che non si trovavano nei magazzini al momento dell’intervento e che non sono state trasferite né informate. Il fatto che nessuna istituzione abbia tentato di raggiungerle, proprio perché le realtà del territorio non sono state coinvolte, avrà conseguenze dirette e drammatiche sulla vita di persone già estremamente vulnerabili. Notizie TRIESTE, TRASFERITE LE PERSONE MIGRANTI DAL PORTO VECCHIO Critiche dalle associazioni: «Un’operazione tardiva e inefficace» Redazione 7 Ottobre 2025 A denunciare la situazione interviene anche Linea d’Ombra. “All’improvviso, come da copione, brusco trasferimento di migranti dagli unici ripari che hanno: i miserabili anfratti di Porto Vecchio, dove pur riescono a sopravvivere con la nostra solidarietà. Ma non solo trasferimenti – scrive l’associazione – a quanto pare anche espulsioni, talora con motivazioni grottesche. A molti altri è stato semplicemente intimato di andarsene dal Porto Vecchio”. Linea d’Ombra sottolinea come dopo mesi di accoglienza “scarsa e irregolare”, lo sgombero arrivi accompagnato dagli “echi soddisfatti dei politicanti che lucrano sulla paura e sulla sofferenza”. Nel pomeriggio nella stessa area interessata dal dispiegamento improvviso e massiccio degli apparati istituzionali è stato ritrovato il corpo senza vita di un uomo algerino di 32 anni 1. Un epilogo che mostra, una volta di più, l’assenza totale di cura e tutela per quelle vite che le istituzioni continuano a trattare come un problema da rimuovere agli occhi della città. Quello che accade a Porto Vecchio non è un evento straordinario: è il prodotto di una scelta politica. E come tale, può – e deve – essere cambiato. 1. Un migrante algerino trovato senza vita all’ex Locanda 116, RaiNews (3 dicembre 2025) ↩︎
Humanity 1 trattenuta a Ortona: l’ennesimo fermo contro il soccorso civile
Dopo lo sbarco di 85 persone, tra cui vari minori non accompagnati, avvenuto lunedì 1° dicembre, la nave di soccorso Humanity 1, dell’organizzazione SOS Humanity, è stata nuovamente trattenuta dalle autorità italiane. Il fermo provvisorio è scattato martedì 2 dicembre 2025 nel porto abruzzese, con l’accusa di non aver comunicato con il Centro di coordinamento libico, in base agli obblighi imposti dalla legge Piantedosi. L’ordine è stato firmato da Ministero dell’Interno, Guardia di Finanza e Ministero dei Trasporti, e resterà in vigore finché la Prefettura non avrà concluso l’indagine. Il fermo si basa sull’ipotesi di violazione della legge Piantedosi per non aver contattato il centro di coordinamento libico. Ma SOS Humanity respinge le accuse, spiegando che la mancata comunicazione è una scelta legittima, coerente con il diritto internazionale e condivisa da tutte le organizzazioni della Justice Fleet Alliance. Approfondimenti/In mare JUSTICE FLEET ALLIANCE: LE ONG DEL MEDITERRANEO INTERROMPONO I CONTATTI CON TRIPOLI «Non è solo moralmente giusto, ma anche giuridicamente necessario» Giulia Stella Ingallina 17 Novembre 2025 «Questo fermo provvisorio è incompatibile con il diritto internazionale» afferma Marie Michel, esperta politica di SOS Humanity. «La cosiddetta Guardia Costiera libica è responsabile di gravi violazioni dei diritti umani. Rifiutarsi di comunicare con attori coinvolti in questi crimini è l’unico modo per difendere il diritto marittimo e i diritti umani». E aggiunge: «Mentre questi attori continuano a essere sostenuti dall’Unione Europea, le navi che salvano vite vengono bloccate. La capacità di soccorso diminuisce e le morti in mare aumentano». La Humanity 1 è solo l’ultima di una lunga serie di navi della flotta di soccorso civile colpite da fermi amministrativi e procedure punitive. Un provvedimento del tutto illegittimo, come del resto hanno ribadito più volte le sentenze dei tribunali italiani ma che Piantedosi continua a non leggere, che blocca ancora una volta una nave umanitaria (è il terzo fermo subito da Humanity 1), e che arriva al termine di una missione complessa, segnata da condizioni meteo avverse, operazioni di salvataggio ravvicinate e un trasferimento prolungato verso un porto assegnato a oltre 1.300 chilometri di distanza. Ph: Sofia Bifulco – SOS Humanity LA RICOSTRUZIONE DELLA MISSIONE E DEI SOCCORSI1 Il 19 novembre la nave Humanity lascia Siracusa e raggiunge l’area SAR. Il 24 novembre il primo soccorso: 75 persone in pericolo. La segnalazione arriva da Alarm Phone: una barca di legno sovraccarica e senza motore, nella zona SAR tunisina. Le condizioni sono critiche: disidratazione, ipotermia, maltempo e mare grosso. Tutte le 75 persone vengono soccorse e, poche ore dopo, trasferite su una motovedetta della Guardia Costiera italiana e condotte a Lampedusa, permettendo alla Humanity 1 di rimettersi subito in navigazione verso nuove possibili emergenze. Il 24 novembre il secondo soccorso: 85 naufraghi in area SAR libica. A circa 100 km dalla costa libica, l’equipaggio individua una barca blu alla deriva, con tre motori spenti e oltre 80 persone a bordo. Le comunicazioni con MRCC Roma, JRCC Malta e il centro tedesco MRCC Bremen iniziano subito. Tra le 09:14 e le 11:15, si alternano valutazioni, soccorsi con le RHIB, distribuzione di giubbotti di salvataggio e mail ufficiali ai centri SAR. Alle 10:49, tutti gli 85 naufraghi sono al sicuro a bordo della Humanity 1. Alle 10:59, la nave comunica formalmente che non può coordinarsi con il MRCC libico, né trasferire i sopravvissuti in Libia, poiché non costituisce un porto sicuro, come stabilito dal diritto internazionale e ribadito dal Tribunale di Catanzaro. Il 1° dicembre l’arrivo a Ortona: dopo quasi una settimana in mare, attraversando il Golfo di Taranto per evitare il maltempo, le 85 persone sfiancate dal viaggio vengono finalmente sbarcate nel porto di Ortona. Ph: Marcel Beloqui Evardone – Alcuni scatti dall’operazione SAR di SOS Humanity «Una traversata inutile e pericolosa». Il maltempo e la distanza del porto assegnato hanno determinato un lungo e rischioso trasferimento che ha aggravato le condizioni fisiche e psicologiche delle persone soccorse. «Questa lunga traversata è stata inutile e pericolosa per la salute fisica e mentale delle persone che abbiamo avuto a bordo» ha denunciato Stefania, responsabile della protezione sanitaria. «Abbiamo registrato casi di scabbia, infezioni respiratorie, febbre alta, dolori muscolari, malattie parassitarie. Alcune persone erano sotto antibiotici. Molti ci hanno raccontato torture subite in Libia». SOS Humanity aveva chiesto più volte l’assegnazione di un porto vicino, ma MRCC Roma ha respinto ogni richiesta. «Il diritto internazionale prescrive lo sbarco senza indugio» ha ricordato Sofia Bifulco, coordinatrice della comunicazione. «Davanti a noi c’erano porti raggiungibili in poche ore. Invece sono state esposte persone vulnerabili a quasi una settimana di transito inutile». 1. Leggi la ricostruzione completa di Sos Humanity ↩︎
Cosenza e Crotone: prassi illegittime e diritti negati ai richiedenti asilo
Tempi d’attesa «biblici», dinieghi «copia e incolla», richieste arbitrarie di documenti, uffici inaccessibili persino agli avvocati. È il quadro che emerge dalle segnalazioni inviate il 14 novembre da una coalizione di oltre venti organizzazioni 1 – coordinate da ASGI Calabria – al Ministero dell’Interno, alla Prefettura e alla Questura di Cosenza, alla Commissione Nazionale Asilo e alla Commissione territoriale di Crotone. Lettere dettagliate che descrivono un sistema «cronico e in costante peggioramento», capace di negare diritti fondamentali ai richiedenti asilo e di gravare sul funzionamento della giustizia. L’iniziativa ha raccolto inoltre un’ampia adesione tra decine tra avvocati, operatori sociali, centri SAI. Nella lettera indirizzata alla Questura di Cosenza 2, le associazioni parlano di una situazione che «le persone sono costrette a subire da più di tre anni». L’Ufficio immigrazione «riceve quotidianamente un numero di persone molto inferiore al totale di quante vorrebbero accedervi», con la formazione di code interminabili e «persone costrette ad arrivare estremamente presto negli orari mattutini» per sperare di entrare. Le violazioni più gravi riguardano la fase iniziale della procedura di protezione internazionale. Le associazioni firmatarie denunciano l’«attuale sostanziale impossibilità di presentare domanda di protezione internazionale»: appuntamenti fissati per «marzo 2026», rinvii orali, settimane di tentativi a vuoto per accedere agli uffici. Tutto ciò lascia i richiedenti asilo «privi di un valido titolo di soggiorno», impossibilitati ad accedere a cure mediche, lavoro, alloggi e accoglienza, e potenzialmente esposti al rischio di espulsione. Non solo: l’amministrazione subordina la formalizzazione della domanda alla presentazione di documenti sull’ospitalità, richiesta non prevista dalla legge e in contraddizione con quanto la stessa Questura aveva dichiarato in un precedente accesso civico. Una prassi che il Tribunale di Catanzaro ha già più volte censurato, condannando l’Ufficio a provvedere entro 3–10 giorni. Le associazioni denunciano anche una totale incertezza sul rilascio e rinnovo dei permessi di soggiorno, con informazioni «contraddittorie» fornite oralmente e richieste di documentazione «non prevista da alcun disposto normativo». Le tempistiche superano «i previsti 60 giorni» e spesso perfino i 180 giorni massimi, arrivando «a svariati mesi, se non addirittura anni». Di particolare gravità, scrivono le organizzazioni, è il fatto che sia «sistematicamente impedito l’ingresso» agli avvocati e agli operatori legali che accompagnano i propri assistiti: una violazione palese del diritto di difesa all’interno di un ufficio «che è diretta espressione dell’amministrazione dello Stato sul territorio». Si segnalano inoltre «mancanza di mediatori» adeguati, rilascio ritardato dell’attestazione della domanda d’asilo, violazioni della legge 241/90 sul procedimento amministrativo e una serie di «comportamenti inurbani e aggressivi» da parte del personale di sportello. LA COMMISSIONE TERRITORIALE DI CROTONE: DINIEGHI STEREOTIPATI E TEMPI INTERMINABILI La seconda lettera, indirizzata alla Commissione territoriale di Crotone 3, descrive altrettante criticità. Viene riferito un «altissimo numero di provvedimenti di diniego» spesso formulati attraverso «mere formule di rito, dal contenuto stereotipato» e privi di qualunque ricerca COI (country of origin information). Questi rifiuti, si legge, vengono «nella grandissima maggioranza dei casi» ribaltati in Tribunale già in primo grado, con un aggravio inutile per la Sezione specializzata del Tribunale di Catanzaro. Allarmante anche quanto riferito su alcuni commissari di nuova nomina, che durante le audizioni avrebbero commentato: «tanto poi c’è il ricorso», mostrando «assoluta non consapevolezza del delicato ruolo ricoperto». I tempi di convocazione per le audizioni «arrivano anche a due anni dalla presentazione della domanda», mentre le decisioni possono richiedere 8-9 mesi. Ancora più critica la situazione dei pareri relativi alla protezione speciale: ritardi ingiustificati, pareri «nella stragrande maggioranza dei casi di senso negativo» e totale assenza della valutazione degli elementi previsti dalla legge. Nella lettera sono denunciate anche «ostilità verso la produzione documentale» da parte di legali e operatori durante le audizioni, trasferimenti immotivati di fascicoli ad altre Commissioni, e l’abbandono delle prassi virtuose di confronto con il territorio che in passato caratterizzavano l’ufficio. Le conseguenze, scrivono le associazioni, sono la «lesione dei diritti dei richiedenti asilo», l’aumento del contenzioso e un generale «svilimento» della procedura amministrativa. LE RICHIESTE DELLE ASSOCIAZIONI: VERIFICHE E MISURE CORRETTIVE Dinanzi a un quadro giudicato «cronico e strutturale», le organizzazioni firmatarie chiedono che le autorità competenti avviino «una verifica approfondita delle prassi contestate» e adottino misure urgenti per ristabilire legalità, trasparenza e il rispetto delle garanzie previste dalla legge italiana ed europea. Le associazioni si dichiarano inoltre disponibili a un incontro «con tutte le realtà operanti nel settore» per individuare soluzioni e ripristinare un dialogo con le istituzioni. 1. Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione – ASGI Associazione Don Vincenzo Matrangolo E.T.S. di Acquaformosa Agorà Kroton soc. coop. sociale onlus Ambulatorio medico “A. Grandinetti” e Auser Cosenza ArciRed Associazione Comunità Progetto Sud ETS Associazione Culturale “La Kasbah ETS” Carovane Migranti Centro Sai Cerchiara coop. soc. Medihospes Cidis Impresa sociale ETs CNCA Calabria Collettivo L’Altra Marea Equipe sociosanitaria-sopravvissuti a tortura Germinal APS La Base La Terra di Piero Lotta Senza Quartiere ODV Prendocasa Sabir Srl Sociale ETS Sportello legale “Stand-Up” Usb Cosenza Avvocati di strada di Cosenza. ↩︎ 2. Lettera indirizzata alla Questura di Cosenza ↩︎ 3. Segnalazione in merito all’attività della Commissione Territoriale di Crotone ↩︎
A Trento sabato 13 dicembre una manifestazione contro la costruzione del CPR
Sabato 13 dicembre il Coordinamento Trentino-Alto Adige/Südtirol No CPR chiama la cittadinanza a scendere in piazza alle ore 14.30 contro la costruzione del Centro di Permanenza per il Rimpatrio previsto in Destra Adige, vicino al quartiere di Piedicastello. La manifestazione arriva dopo una partecipata assemblea che si è svolta il 12 novembre al Centro sociale Bruno, che ha segnato una nuova tappa di un percorso condiviso tra oltre quaranta realtà sociali e politiche del territorio, la maggior parte delle quali sono impegnate quotidianamente nella solidarietà e nel sostegno alle persone migranti 1. Il progetto del CPR nasce dall’accordo firmato il 24 ottobre 2025 2 tra il presidente della Provincia Maurizio Fugatti e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e potrebbe essere il primo realizzato dal governo Meloni su suolo italiano, perché la Provincia di Trento si è impegnata a finanziare l’opera e ad andare in deroga a qualsiasi criterio urbanistico, economico e di trasparenza pur di accelerarne la costruzione. Per il Coordinamento si tratta di «una gigantesca gabbia stretta tra l’autostrada e la tangenziale di tremila metri quadrati, con container, filo spinato, barriere e telecamere, destinata a rinchiudere decine di persone che non hanno commesso alcun reato» e il risultato «di anni di retorica razzista che parla di “sicurezza” mentre crea esclusione sociale e paura del migrante». Nell’appello, le realtà promotrici ricordano che i CPR sono strutture detentive dove vengono trattenute persone che non hanno ottenuto «il documento giusto», cioè «uomini e donne colpevoli soltanto di un’irregolarità amministrativa, puniti con la privazione della libertà personale». È un sistema che da «ben ventisette anni […] produce solo violenza, soprusi e morte» e che continua a esistere grazie a politiche che creano irregolarità «discriminando in base al paese di origine, allo status giuridico e alla classe di appartenenza». I CPR, si legge, sono lo strumento di deterrenza per eccellenza: «perché se sei senza documenti, sei ricattabile e disposto ad accettare qualunque sopruso pur di evitare di finire inghiottito nel gorgo dei CPR». Oggi in Italia sono dieci i CPR attivi, a cui si aggiunge la struttura aperta in Albania, frutto di un accordo definito «neocoloniale» nell’appello, perché esternalizza la detenzione fuori dai confini mantenendone la gestione italiana. Il Coordinamento definisce i CPR «il simbolo di una violenza sistemica normalizzata, luoghi di tortura legalizzata», come vengono descritti dalle persone che vi sono rinchiuse e dalle organizzazioni che da anni ne documentano le condizioni. Sono anche definiti «i manicomi del presente», spazi che nascondono alla vista pubblica chi viene ritenuto indesiderato o non produttivo. Non esiste, sostengono, una forma “mite” di detenzione amministrativa: «Non c’è modo di renderli “più umani”, come non è possibile riformare questo sistema: i CPR sono lager di Stato, perché non esiste un modo giusto per fare una cosa ingiusta». Questo dispositivo, aggiunge l’appello, è incompatibile con i principi fondamentali dello Stato di diritto poiché «legittima la privazione della libertà senza reato e introduce un doppio binario razziale, di vera e propria apartheid, tra cittadini e cittadine appartenenti alla stessa comunità». La costruzione del CPR si colloca inoltre dentro un quadro più ampio che ricadute ben visibile anche a livello locale: «Lo smantellamento del sistema di accoglienza, l’aumento dell’esclusione e della povertà, la cancellazione di qualsiasi ipotesi di regolarizzazione e il progressivo restringimento dei diritti di chi vive e lavora in Italia». A Trento tra le 1.200 e le 1.500 persone richiedenti asilo che avrebbero diritto a un’accoglienza dignitosa sono già oggi «escluse da qualsiasi forma di assistenza, lasciate in strada, a serio rischio di irregolarità». L’accordo del 24 ottobre prevede inoltre un dimezzamento dei posti nel sistema di accoglienza per richiedenti asilo che passerebbero dagli attuali 700 a 350. Per queste ragioni le realtà del Coordinamento parlano di «un salto di crudeltà della giunta Fugatti e dell’ennesima falsa soluzione a problemi complessi». E invitano la popolazione a mobilitarsi: «È il momento di opporsi alla costruzione del CPR nel nostro territorio». E invitano alla partecipazione collettiva: «Scendiamo in piazza unit* per dire che la vera sicurezza non nasce dalla sofferenza, né dall’esclusione: nasce dal pieno riconoscimento dei diritti di cittadinanza e dalla giustizia sociale. È ora che le istituzioni smettano di eludere i propri doveri». Il documento si chiude con una piattaforma politica articolata, che non viene proposta come una lista di richieste ma come un orizzonte comune: «Per la chiusura di tutti i centri di detenzione amministrativa: questo sistema non è riformabile; per il ripristino e potenziamento del sistema di accoglienza diffusa come alternativa strutturale alla realizzazione dei CPR in Trentino-Alto Adige/Südtirol; per l’abolizione della legge Bossi-Fini e dei cosiddetti decreti “sicurezza”; vogliamo percorsi di regolarizzazione, diritti e inclusione, vogliamo allargare il diritto fondamentale alla libera circolazione anche ai cittadini e alle cittadine non comunitarie». Notizie/CPR, Hotspot, CPA TRENTO DICE NO AL CPR: UN’INTERA CITTÀ CONTRO L’ACCORDO FUGATTI-PIANTEDOSI Cresce la mobilitazione: “Né qui né altrove” Redazione 30 Ottobre 2025 1. Aderiscono al Coordinamento regionale: Assemblea Antirazzista Trento; Bozen Solidale, Centro Sociale Bruno; Spazio autogestito 77; Scuola di italiano Libera La parola Trento; Coordinamento Studentesco Trento; Collettivo Mamadou; Gruppo Trentino con Mimmo Lucano; CucinaCultura; SOS Bozen; Scioglilingua Bolzano; Alleanza Verdi e Sinistra del Trentino; Sinistra die Linke; Ambiente e Salute – Umwelt und Gesundheit; Unione Popolare Alto Adige; LINX; Rifondazione Comunista (Trentino e Alto Adige); Pace Terra Dignità Alto Adige; OMAS GEGEN RECHTS – Bozen; ANPI (Trentino e Alto Adige); Rete dei diritti dei senza voce; Mediterranea Trento; Centro Pace ecologia e diritti – Rovereto; Il Gioco degli Specchi APS; Associazione Oratorio S. Antonio; Comunità di S. Francesco Saverio; Donne per la Pace Trento; Arcigay del Trentino; GrIS Trentino; Associazione A scuola di Solidarietà; ATAS Onlus; Donne in nero di Rovereto; Arci del Trentino; Cortili di Pace di Pergine; Yaku onlus; Extinction Rebellion Trento; Associazione 46° Parallelo ETS / Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo; Onda Trentino (in aggiornamento…) ↩︎ 2. Scarica l’accordo di collaborazione ↩︎
Incendi al Porto Vecchio di Trieste, sospetti su azioni dolose
Trieste – Almeno cinque incendi in una settimana nei magazzini dismessi del Porto Vecchio di Trieste, dove decine di persone migranti trovano riparo. La zona è infatti nota per essere uno dei luoghi dove le persone sono costrette a vivere molti mesi prima di riuscire a fare richiesta di asilo e accedere al sistema di accoglienza. Notizie TRIESTE, TRASFERITE LE PERSONE MIGRANTI DAL PORTO VECCHIO Critiche dalle associazioni: «Un’operazione tardiva e inefficace» Redazione 7 Ottobre 2025 Le prime ricostruzioni della stampa locale hanno parlato di fuochi accesi per scaldarsi, lasciando intendere che la colpa fosse degli “abitanti”, ma le testimonianze raccolte da volontarә e attivistә solidali nell’area portuale raccontano una storia diversa, che punta verso possibili azioni dolose. Gli episodi più recenti risalgono al 10 e al 13 novembre, ma chi vive stabilmente negli edifici segnala altri tre casi: roghi appiccati sotto la pensilina del varco automobilistico, davanti agli ingressi del piano terra e al quarto piano del magazzino, dove sono bruciati indumenti, sacchi a pelo e scarpe di alcune persone che vi dormivano. Un ultimo tentativo sarebbe stato sventato sul retro del magazzino 2A da due cittadini afghani, che riferiscono di aver messo in fuga due individui mentre tentavano di incendiare materiale da costruzione. Nella notte tra il 15 e il 16 novembre si sono verificati altri tre tentativi, alle 20:00, all’1:00 e alle 3:00. Secondo quanto riportato da chi dorme nell’edificio, in queste occasioni sono state allontanate persone estranee che si aggiravano nei magazzini fino all’ultimo piano, cercando di appiccare fuochi in stanze vuote. Tutto ciò è stato ricostruito da volontarә e attivistә solidali insieme alle associazioni ICS – Ufficio Rifugiati Onlus, Linea d’Ombra Odv e No Name Kitchen che denunciano come gli elementi raccolti, perciò, mettono in discussione l’ipotesi dell’incidente. «In almeno due occasioni il fuoco è stato acceso al piano terra dei magazzini, in luoghi dove le persone migranti non dormono», spiegano in un comunicato congiunto. Inoltre, «le temperature attuali sono ancora miti e non richiedono l’accensione di fuochi per scaldarsi». Un dato significativo riguarda la frequenza degli episodi: «Lo scorso inverno si è verificato un solo incendio nei magazzini, mentre ora gli episodi registrati sono cinque in una sola settimana». A questo si aggiungono le testimonianze raccolte, «che raccontano di alcune presenze sospette nelle ore in cui sono divampati gli incendi». I vigili del fuoco sono intervenuti due volte, accompagnati dai carabinieri, ma non sono state raccolte dichiarazioni da chi vive nelle strutture. Nel frattempo, le persone che dormono nei magazzini hanno organizzato turni di sorveglianza notturna, affiancate da cittadini solidali che presidiano l’area per prevenire nuovi roghi. Nella nota stampa, si chiede di «accertare con urgenza se si tratti di incendi dolosi e, in tal caso, se possano essere prefigurati i reati di danneggiamento, incendio doloso nonché tentate lesioni o tentato omicidio». Il documento sottolinea che «la gravità dell’incendio ha – in almeno un caso – messo in pericolo l’incolumità e la vita delle persone che trovavano rifugio all’interno dei magazzini». Secondo associazioni, volontarә e attivistә, «appare infatti plausibile l’azione di individui che mirano a fomentare allarme sociale, alimentando narrazioni che criminalizzano le persone migranti». La richiesta è quella di un’indagine accurata che faccia chiarezza sulle dinamiche e sulle responsabilità degli episodi, in un contesto in cui le persone migranti sono «costrette a dormire nei magazzini del Porto Vecchio» a causa di quelle che vengono definite «inadempienze istituzionali».
Strage di Pylos: al via l’azione penale contro i vertici della Guardia Costiera greca
Un comunicato congiunto di sei importanti organizzazioni greche 1 ha annunciato una svolta decisiva nell’inchiesta sul naufragio di Pylos: la Procura d’appello ha accolto i ricorsi presentati dai sopravvissuti e ha aperto un procedimento penale contro quattro alti ufficiali della Hellenic Coast Guard, tra cui l’attuale comandante. Secondo le organizzazioni firmatarie, «la decisione della Procura d’appello ribalta l’archiviazione disposta dal procuratore del Tribunale Navale del Pireo e riconosce la gravità delle omissioni denunciate dai sopravvissuti che avevano presentato ricorso contro l’archiviazione». Gli indagati dovranno rispondere di omissione di soccorso, esposizione a pericolo e omicidio colposo. Il provvedimento stabilisce che saranno contestati «reati gravi e ripetuti» e nello specifico: «a) esposizione seriale per mancato adempimento dell’obbligo legale di soccorrere e assistere persone in pericolo, che ha causato la morte delle vittime; b) esposizione seriale di altre persone per mancato adempimento dell’obbligo legale di soccorrerle e lasciarle indifese; c) omicidio colposo per negligenza per mancato adempimento seriale degli obblighi legali». Le organizzazioni ricordano inoltre che il 16 maggio 2025 era già stato avviato un procedimento penale «contro 17 membri della Guardia Costiera, tra cui alti ufficiali del comando e l’ex capo», un’inchiesta che era stata trasmessa al giudice istruttore competente. Notizie STRAGE DI PYLOS: INDAGATI 17 MEMBRI DELLA GUARDIA COSTIERA GRECA «A due anni dal naufragio, un primo, sostanziale passo verso la giustizia» Redazione 19 Giugno 2025 La nuova decisione conferma molti dei punti sollevati sia nelle denunce sia nei ricorsi dei sopravvissuti, che hanno più volte affermato che «le autorità non solo non sono intervenute tempestivamente, ma hanno messo ulteriormente a rischio le persone a bordo». Secondo l’ordinanza del Procuratore della Corte d’Appello e come sottolineato dai sopravvissuti nelle loro denunce e ricorsi: “[…] è chiaro che le condizioni del peschereccio Adriana erano precarie fin dall’inizio […] la situazione è gradualmente peggiorata e, per quanto riguarda i passeggeri, questi fatti sono stati confermati e sono apparsi chiari fin dall’inizio dell’incidente a tutti coloro che prestavano servizio nel Centro di coordinamento congiunto delle operazioni di soccorso (JRCC) e a tutta la gerarchia (coinvolta nella sua gestione), tuttavia non è stata attivata alcuna operazione di soccorso o di prevenzione dei rischi (l’incidente non è stato nemmeno classificato come “allerta”, ovvero al secondo livello di rischio previsto dalla Convenzione internazionale SAR) durante la prima fase dell’incidente, ovvero dalle ore 11:00 del 13-06-2023 (quando il Centro di coordinamento del soccorso marittimo italiano ha segnalato per la prima volta l’esistenza della nave sovraccarica) fino all’arrivo della nave P.P.L.S.-920 nella zona […]“. Nel frattempo: “[…] si può dedurre che tra la nuova immobilizzazione del peschereccio e il suo capovolgimento, ci sia stato un intervallo di mezz’ora durante il quale il JRCC non ha emesso l’ordine di inviare un MAYDAY, attenendosi alla sua decisione, durante tutta la gestione dell’incidente, che non fosse necessaria un’operazione di soccorso immediata. In questo modo, si è perso tempo prezioso, compromettendo le possibilità di sopravvivenza dei naufraghi, in un momento in cui le azioni del Centro e della nave PPLS 920 rivelano la consapevolezza dell’imminente pericolo di capovolgimento […]”. “[…] i quattro (4) ufficiali […] hanno partecipato attivamente alla gestione dell’incidente, poiché sono stati costantemente e personalmente informati dei suoi sviluppi, hanno partecipato alle riunioni per valutare e pianificare le azioni necessarie e, infine, hanno approvato (come essi stessi ammettono) le decisioni che sono state prese, ciascuno di loro avendo [….] un obbligo giuridico indipendente di proteggere la vita in mare e, per estensione, un obbligo giuridico specifico di soccorso (dato che hanno concordato o almeno condiviso le decisioni specifiche che sono state prese), e qualsiasi deviazione o mancato adempimento di tale obbligo stabilisce la loro responsabilità penale indipendente […], mentre, in altre parole, “[…] avrebbero dovuto rendersi conto, sulla base della loro esperienza, del loro ruolo, delle loro conoscenze specialistiche e delle informazioni a loro disposizione, che si trattava di una nave in pericolo, ma non hanno intrapreso le azioni necessarie e prescritte per classificare la nave come nave in pericolo e attivare i piani operativi prescritti e appropriati [come, ad esempio, Memoranda/Schede operative n. 1 “Nave in pericolo (indipendentemente dalla bandiera) all’interno della SRR greca” e n. 13 “Incidente grave”, ecc.] per il salvataggio delle persone a bordo della nave [….]“. Le organizzazioni fanno notare la valutazione inclusa nella disposizione relativa alla causa del ribaltamento e dell’affondamento della nave, secondo la quale: ”[…] Questa versione del traino (in combinazione con l’ammissione da parte dei membri della nave P.P.L.S. 920 di aver utilizzato una fune – indipendentemente dal fatto che non ammettano che ciò sia stato fatto a scopo di traino o che non sia stato menzionato dai presenti al JRCC nella fatidica notte) è più convincente e plausibile, dato che, d’altra parte (la Guardia Costiera), non viene fornita alcuna spiegazione dettagliata e convincente per l’improvviso (altrimenti) capovolgimento e affondamento del peschereccio. [….] Dato che il mare era calmo, non c’erano navi commerciali di passaggio (che avrebbero potuto causare grandi onde), i movimenti improvvisi e massicci dei passeggeri all’interno del peschereccio (sia verso l’alto che orizzontalmente, a destra o a sinistra) erano quasi impossibili (a causa del sovraffollamento e del relativo divieto di movimento, come spiegato sopra) ma anche ingiustificati, l’improvviso e potente traino da parte della nave della Guardia Costiera sembra essere l’unica causa possibile e attiva che ha portato il peschereccio a compiere (in quel particolare momento) le due brusche virate (a sinistra e a destra), impedendogli di riprendersi e causandone il ribaltamento. […]”. Gli avvocati delle organizzazioni e dei collettivi che rappresentano i sopravvissuti e le famiglie delle vittime della strage hanno espresso «piena soddisfazione per l’accoglimento dei ricorsi e per l’estensione del procedimento penale nei confronti dei quattro alti ufficiali della Guardia Costiera, il cui caso era stato inizialmente archiviato». Infine, considerano «il rinvio a giudizio per reati gravi di 21 membri della Guardia Costiera, compresi i suoi attuali e precedenti capi e altri alti ufficiali, nonché le conclusioni della Procura della Corte d’Appello, uno sviluppo sostanziale e evidente nel processo di rivendicazione delle vittime e di giustizia». 1. Le organizzazioni: Network for the Social Support of Refugees and Migrants; Greek League for Human Rights; Greek Council for Refugees (GCR); Initiative of Lawyers and Jurists for the shipwreck of Pylos; Refugee Support Aegean (RSA); Legal Centre Lesvos ↩︎
Livorno, i ragazzi tunisini morti al porto sono vittime delle politiche di respingimento
Due giovani ancora senza nome sono morti nel porto industriale di Livorno. Era il 30 ottobre, intorno alle 13:30, quando i loro corpi sono stati risucchiati dalle eliche delle navi in manovra, nelle acque del canale tra la Darsena Toscana e il varco Zara.   I due ragazzi erano stati trovati poco prima dalla Polizia Marittima sulla nave Stena Shipper, battente bandiera danese, ma noleggiata dalla compagnia statale tunisina CoTuNav, proveniente dal porto di Radès. Erano arrivati a Livorno nascosti in uno dei container della nave.  Una volta scoperti, sarebbero stati reimbarcati sulla stessa nave e affidati alla custodia del comandante, in attesa di essere rimpatriati. Una riconsegna quindi “informale”, al di fuori di qualsiasi procedura operativa e prevista dalle normative, senza alcuna identificazione. Chiusi in una cabina a bordo, sarebbero riusciti a liberarsi e, nel tentativo disperato di evitare il ritorno in Tunisia, si sarebbero gettati in mare. Quel che è certo è che erano vivi, in Italia, quando la polizia di frontiera li ha fatti scendere dal cargo e poi risalire, per essere riconsegnati al comandante della nave. Nessun colloquio con un avvocato, nessun mediatore, nessuna informativa sui loro diritti. Nessuna possibilità di chiedere asilo, o anche solo di manifestare la volontà di farlo.  Le autorità parlano di una “procedura standard”, ma si tratta in realtà di un respingimento informale, una pratica che da anni si consuma silenziosamente nei porti italiani, probabilmente i più noti alle cronache sono quelli dell’Adriatico. Un’inchiesta di Lighthouse Reports, pubblicata nel gennaio 2023 1, grazie al lavoro del Network Porti Adriatici aveva infatti documentato decine di casi di rimpatri forzati – compresi minori non accompagnati – dai porti di Venezia, Ancona, Bari e Brindisi verso la Grecia, in violazione del diritto internazionale.  Anche a Livorno, il comportamento delle autorità sembra ricalcare lo stesso schema: quando i due giovani hanno capito che sarebbero stati rispediti indietro, hanno tentato di fuggire e si sono buttati in mare.  Appresa la notizia, i primi a chiedere di fare chiarezza sulla vicenda sono stati i sindacati e le associazioni. «Troppe cose ancora non tornano – hanno scritto Usb Livorno e la sezione locale di Asgi -: due ragazzi sono morti nel tentativo di conquistare una vita migliore. Non sappiamo niente di loro perché qualcuno ha deciso che non avevano diritto di parlare con un avvocato, un mediatore o un’associazione. Dopo averli fatti sbarcare e tenuti ore al varco portuale, li hanno rinchiusi in una cabina e, una volta tuffatisi in mare, sono morti affogati». Durante il partecipato presidio del 7 novembre al varco Zara, al quale ha preso parte anche il Sindaco della città, il rappresentante di Usb Livorno ha chiesto giustizia: «Vogliamo sapere chi ha deciso per il rimpatrio immediato, se c’è un decreto di espulsione, se davvero hanno chiesto, come alcuni testimoni affermano, di parlare con un avvocato. E perché, quando i loro corpi non erano ancora stati trovati, è stato autorizzato il passaggio di un’altra nave nel canale. Evidentemente, la vita di due persone vale meno dei traffici marittimi». Anche la Cgil Toscana e la Cgil Livorno hanno definito l’episodio l’ennesimo capitolo nero del fallimento delle politiche securitarie. «La criminalizzazione e l’etichetta di clandestino hanno sostituito l’umanità e le buone pratiche di accoglienza – si legge in una nota -. Occorre individuare le responsabilità di chi ha portato due ragazzi a gettarsi in mare piuttosto che affidarsi alle istituzioni». Il deputato Marco Grimaldi di AVS è intervenuto in Parlamento: «Lo Stato ha altri due morti sulla coscienza. Non gli è stato permesso di chiedere protezione internazionale, di vedere un medico, un avvocato. La polizia li ha caricati su una nave perché li riportasse in Tunisia. Si sono buttati in acqua e sono morti. Perché non hanno ricevuto cure e accoglienza? Perché non hanno avuto la possibilità di chiedere asilo?». Nel frattempo, la procura di Livorno ha aperto un fascicolo per omicidio colposo contro ignoti. Nessuno è al momento indagato. Il comandante della nave avrebbe dichiarato di aver “controllato i due migranti ogni venti minuti”. Asgi ha predisposto un esposto perché ci sia un’indagine accurata sulle procedure utilizzate e si chiariscano le responsabilità.  Secondo i dati pubblicati da Il Tirreno, nel porto di Livorno si registrano in media una ventina di respingimenti l’anno. Ma altre fonti parlano di più del doppio. Negli ultimi due anni – riferisce ancora il quotidiano – sono state rafforzate le barriere fisiche a chiusura della banchina destinata alle navi provenienti dal Nordafrica, per rendere più difficile l’accesso alle aree di sbarco. Dall’inizio del 2024, circa sessanta navi arrivate da Tunisi e Radès, molte delle quali appartenenti alla compagnia CoTuNav, hanno attraccato nello stesso punto. Il fenomeno strutturale dei respingimenti interessa sicuramente altri porti tirrenici, ma al momento non si hanno dati ufficiali.  Di sicuro il caso di Livorno non è isolato, ma un ulteriore tassello della pratica dei respingimenti informali che da anni si consuma nei porti italiani, tanto sull’Adriatico quanto sul Tirreno. Una pratica illegittima, che viola la Convenzione di Ginevra, l’articolo 10 della Costituzione e l’articolo 33 della Convenzione europea dei diritti umani, perché impedisce a chi arriva di esercitare il diritto di chiedere protezione internazionale.  Qualsiasi persona rintracciata in area portuale o prima dell’ingresso formale nel territorio nazionale deve essere informata dalle autorità della possibilità di presentare domanda d’asilo, ricevere assistenza legale e linguistica e non può essere rimandata in un Paese dove potrebbe rischiare persecuzioni o trattamenti inumani e degradanti.  La violazione è resa ancor più grave con due giovani che potevano essere ancora minorenni. Nulla di tutto ciò è accaduto e due ragazzi sono morti perché un sistema politico, culturale e amministrativo è strutturalmente razzista e seleziona chi può restare e chi deve essere respinto in base alla provenienza geografica, al colore e alla classe.  Chi parla di “incidente” o “fatalità” non vuole mettere in discussione questa nuda verità: le morti sono l’effetto diretto di un clima politico che favorisce delle scelte che riducono le persone a “irregolari” da espellere, senza alcuna valutazione ulteriore, senza il rispetto dei loro diritti. Scelte che ancora una volta hanno ucciso. 1. Respingimenti illegali dall’Italia alla Grecia: richiedenti asilo detenuti in prigioni segrete, Meltingpot.org ↩︎
Rifinanziati i “rimpatri umanitari” dalla Libia nonostante l’allarme dell’ONU
Nonostante i richiami delle Nazioni Unite, il governo italiano ha rifinanziato i programmi di “rimpatrio volontario umanitario” dalla Libia, strumenti che da anni sollevano gravi criticità sul rispetto dei diritti fondamentali delle persone migranti 1. Lo rende noto il progetto Sciabaca & Oruka di Asgi che promuove, in rete con organizzazioni della società civile europee e africane, azioni di contenzioso strategico per la libertà di circolazione e per contrastare le violazioni dei diritti umani causate dalle politiche di esternalizzazione delle frontiere. A luglio 2025 il Ministero degli Affari Esteri, scrive il progetto, ha disposto l’erogazione di 7 milioni di euro all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) per l’attuazione del progetto Multi-Sectoral Support for Migrants and Vulnerable Populations in Libya, della durata di due anni. Oltre 3 milioni saranno destinati al rimpatrio di 910 persone verso i paesi d’origine, attraverso il cosiddetto Voluntary Humanitarian Return (VHR), una forma di rimpatrio volontario assistito rivolta a migranti «bloccati o in situazioni di vulnerabilità, tra cui l’intercettazione in mare, la detenzione arbitraria e lo sfruttamento». Secondo i documenti ufficiali, tali operazioni mirano a «ridurre la vulnerabilità» delle persone e a «migliorare la loro situazione di protezione». Ma la realtà descritta da numerosi organismi internazionali è ben diversa. Già il 30 aprile 2025, la Relatrice Speciale sulla tratta di esseri umani, il Relatore Speciale sui diritti dei migranti e il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria delle Nazioni Unite avevano indirizzato una comunicazione formale al governo italiano per esprimere forte preoccupazione riguardo a un progetto simile, anch’esso finanziato dall’Italia, denominato “Multi-Sectoral Support for Vulnerable Migrants in Libya”. Nel documento, lə espertə Onu evidenziavano che il rimpatrio volontario, nelle condizioni esistenti in Libia, «funziona in pratica come l’ultima e l’unica soluzione alle intercettazioni e alla detenzione prolungata per periodi indeterminati». In queste circostanze, aggiungevano, «in assenza di alternative, migranti, rifugiati e richiedenti asilo possono essere costretti ad accettare di tornare in situazioni non sicure, dove rischiano di essere esposti alle medesime condizioni da cui fuggivano». Inoltre, sottolineavano come le persone coinvolte non possano esprimere un consenso libero e informato, poiché «la mancanza di assistenza adeguata le priva di fatto della possibilità di accedere alla protezione internazionale e alle garanzie giudiziarie». La comunicazione denunciava anche il rischio che i programmi VHR «possano aprire canali di mobilità forzata verso i paesi di origine e legittimare la cooperazione con la Libia in violazione del principio di non respingimento». Lə relatorə delle Nazioni Unite rilevavano inoltre la mancanza di trasparenza sull’impatto di questi progetti e l’assenza di «misure preventive e di mitigazione contro i rischi di tratta o di rimpatrio illegale». Un ulteriore elemento critico è il supporto tecnico e operativo previsto per le autorità libiche: il progetto include infatti attività di rafforzamento della capacità di gestione delle operazioni di ricerca e soccorso (SAR) e di intercettazione in mare. Secondo gli esperti, ciò rischia di tradursi in un aumento delle intercettazioni e dei respingimenti illegali verso la Libia, dove le persone migranti sono sistematicamente esposte a detenzioni arbitrarie, torture e violenze, in un contesto che la stessa giurisprudenza italiana riconosce come non sicuro. La comunicazione ONU si concludeva con una serie di richieste al governo italiano: informazioni sull’utilizzo dei fondi, sulle misure di prevenzione delle violazioni dei diritti umani e sulle alternative alla detenzione e al rimpatrio. Tuttavia, nella risposta fornita a luglio 2025, l’Italia non ha dato riscontri sostanziali alle criticità sollevate. La valutazione del monitoraggio è stata completamente delegata all’OIM, senza alcun controllo indipendente da parte del governo. UNA STRATEGIA DI ESTERNALIZZAZIONE SEMPRE PIÙ STRUTTURALE Nonostante le contestazioni, l’Italia ha proseguito nella strategia di esternalizzazione delle frontiere. Ad aprile 2025 è stato approvato un ulteriore stanziamento di 20 milioni di euro per il programma L.A.I.T. – Sviluppo dei meccanismi di rimpatrio volontario assistito e di reintegrazione (AVRR) e di rimpatrio volontario umanitario (VHR), in collaborazione con OIM e AICS. Il nuovo progetto prevede il rimpatrio di oltre 3.300 persone da Algeria, Libia e Tunisia e il rafforzamento delle capacità istituzionali dei governi di questi paesi nella gestione dei rimpatri. Si tratta di un tassello ulteriore in un processo ormai consolidato: il massiccio finanziamento dei rimpatri “volontari”, che consente di rimpatriare persone in assenza delle garanzie previste per i rimpatri forzati, contribuendo al contempo ad “alleggerire” la pressione migratoria sui paesi di transito e a consolidare la cooperazione con regimi autoritari o instabili. Questi programmi, presentati come strumenti di protezione umanitaria, finiscono invece per legittimare il blocco della mobilità e per violare il diritto d’asilo e il principio di non-refoulement. A fronte di queste pratiche, diverse organizzazioni italiane – tra cui ASGI, A Buon Diritto, ActionAid Italia, Lucha y Siesta, Differenza Donna, Spazi Circolari e Le Carbet – hanno promosso un contenzioso legale e lanciato la campagna di comunicazione «Voluntary Humanitarian Refusal – a choice you cannot refuse», per denunciare «l’uso distorto dei fondi pubblici destinati a programmi che, sotto la facciata di “umanitari”, contribuiscono in realtà a violare diritti fondamentali e limitare la libertà di movimento». > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da VHR: Voluntary Humanitarian Refusal > (@voluntary.humanitarian.refusal) 1. Nowhere but Back. Assisted return, reintegration and the human rights protection of migrants in Libya, by the OHCHR Migration Unit ↩︎
Quattro anni di ingiustizia: libertà per Abdulrahman Al Khalidi
Da oltre 4 anni Abdulrahman Al Khalidi 1 è rinchiuso nel centro di detenzione di Busmantsi, a Sofia, in Bulgaria. Anni di privazione, isolamento e ingiustizia: il caso di detenzione amministrativa più lungo nella storia dell’Unione Europea, simbolo di un sistema che calpesta il diritto e la dignità umana. Insieme ad altre venti organizzazioni internazionali, abbiamo rinnovato la nostra richiesta: rilascio immediato di Abdulrahman e trasferimento in un paese terzo sicuro. Abdulrahman è un prigioniero politico saudita, un padre di due bambini – una dei quali gravemente malata – che non vede da troppo tempo. Vive in un limbo giudiziario senza fine, minacciato ogni giorno dal rischio di deportazione verso l’Arabia Saudita, dove lo attende la pena di morte. Ma in questi anni, anche dietro le sbarre, Abdulrahman ha trasformato la sua prigionia in una lotta collettiva per la libertà di tutte e tutti. La sua voce, che resiste al silenzio, parla anche per noi. Non lo lasceremo solo. Di seguito, pubblichiamo il testo integrale dell’appello, tradotto in italiano, sottoscritto da oltre venti organizzazioni internazionali per chiedere giustizia e libertà per Abdulrahman Al Khalidi. APPELLO CONGIUNTO PER LA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI UN DIFENSORE DEI DIRITTI UMANI SAUDITA DETENUTO IN BULGARIA DA OLTRE QUATTRO ANNI Noi, le organizzazioni della società civile firmatarie, siamo profondamente preoccupate per l’imminente minaccia di espulsione dalla Bulgaria verso l’Arabia Saudita che grava sul difensore dei diritti umani saudita Abdulrahman AlBakr al-Khalidi, dopo oltre quattro anni di detenzione, dove correrebbe un rischio reale di gravi violazioni dei diritti umani a causa del suo attivismo pacifico. Esortiamo le autorità bulgare a sospendere immediatamente l’espulsione di al-Khalidi in conformità con i loro obblighi giuridici ai sensi del diritto internazionale, europeo e nazionale, a rilasciarlo dalla detenzione e a concedergli protezione internazionale attraverso un processo di asilo equo e imparziale. Al-Khalidi è intrappolato in un lungo processo di asilo in Bulgaria dal novembre 2021 e dal 2024 è soggetto a un ordine di espulsione. Il 15 luglio 2025 la Corte amministrativa suprema bulgara ha respinto il ricorso di al-Khalidi contro il suo ordine di detenzione, mettendolo in imminente pericolo. Al-Khalidi ha iniziato la sua attività pacifica durante la Primavera araba del 2011, aderendo all’Associazione saudita per i diritti civili e politici (ACPRA) e partecipando a proteste in favore delle riforme. A seguito di un’ondata di arresti di altri attivisti nel 2013, e dopo essere stato convocato per un interrogatorio, è fuggito dall’Arabia Saudita e ha continuato la sua attività di advocacy in esilio. In seguito ha aderito al progetto “Electronic Bees Army” del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, volto a contrastare la disinformazione di Stato. Nel 2021, di fronte alle crescenti minacce in Turchia, al-Khalidi ha deciso di chiedere asilo nell’Unione Europea. Tuttavia, è stato arrestato all’arrivo in Bulgaria poco dopo aver attraversato il confine turco-bulgaro il 23 ottobre 2021. Da allora ha trascorso oltre quattro anni in detenzione – che secondo i dati pubblici della Corte europea dei diritti dell’uomo è uno dei periodi più lunghi per qualsiasi richiedente asilo in Europa – la maggior parte dei quali in condizioni dure e degradanti nel centro di detenzione di Busmantsi a Sofia. Il 26 settembre 2025, la Direzione per l’immigrazione ha deciso di prorogare la detenzione di al-Khalidi per altri sei mesi. Il 16 novembre 2021 al-Khalidi ha presentato domanda di asilo in Bulgaria, citando il rischio di gravi violazioni dei diritti umani in caso di ritorno in Arabia Saudita. Tuttavia, l’Agenzia statale bulgara per i rifugiati ha respinto la sua domanda, sostenendo che l’Arabia Saudita avesse “adottato misure per democratizzare la società”. Il suo ricorso è ancora in corso. Nonostante diverse sentenze a suo favore, comprese sentenze definitive che ne ordinavano il rilascio, le autorità bulgare le hanno ignorate o aggirate. Nel febbraio 2024 l’Agenzia per la sicurezza nazionale ha emesso un ordine di espulsione nei confronti di al-Khalidi, definendolo, senza prove, una “minaccia alla sicurezza nazionale”. Questo ordine, successivamente confermato dal Tribunale amministrativo di Sofia, viola il principio internazionale di non respingimento, poiché esiste un rischio ben documentato che, se rimpatriato in Arabia Saudita, al-Khalidi subirebbe torture, un processo iniquo e forse la pena di morte. Durante la detenzione, al-Khalidi avrebbe subito ripetuti maltrattamenti, tra cui pressioni psicologiche e abusi fisici. Nel marzo 2024 il difensore dei diritti umani ha riferito di essere stato brutalmente picchiato da agenti di polizia. Ha tentato il suicidio, ha intrapreso uno sciopero della fame durato più di 100 giorni e gli è stato diagnosticato un disturbo da stress post-traumatico complesso (C-PTSD). Nonostante le preoccupazioni sollevate dai tribunali bulgari, dagli esperti delle Nazioni Unite, dalle ONG e dai membri del Parlamento europeo, le autorità bulgare continuano a detenerlo illegalmente e a minacciarlo di espulsione. Uno studio sulla repressione transnazionale dei difensori dei diritti umani 2, pubblicato il 12 giugno 2025 dalla sottocommissione per i diritti umani (DROI) del Parlamento europeo, ha evidenziato il caso di al-Khalidi come esempio chiave della tattica della detenzione utilizzata nella repressione fisica transnazionale. L’espulsione di al-Khalidi verso l’Arabia Saudita costituirebbe una grave violazione degli impegni assunti dalla Bulgaria ai sensi del diritto internazionale, dell’Unione europea (UE) e del diritto interno, compresa la sua stessa costituzione, che stabilisce che la Bulgaria deve concedere asilo agli stranieri perseguitati per le loro opinioni e attività in difesa dei diritti e delle libertà riconosciuti a livello internazionale. NOI, LE ORGANIZZAZIONI FIRMATARIE, CHIEDIAMO QUINDI ALLE AUTORITÀ BULGARE DI: 1. rilasciare immediatamente e incondizionatamente Abdulrahman al-Khalidi in conformità con le sentenze emesse dai tribunali bulgari; 2. garantire che non sarà espulso in Arabia Saudita o in qualsiasi altro paese in cui rischia di essere respinto; 3. facilitare il suo reinsediamento in un paese terzo sicuro, in coordinamento con i partner internazionali; 4. avviare un’indagine indipendente sui maltrattamenti subiti durante la detenzione, compreso il pestaggio del marzo 2024, e assicurare i responsabili alla giustizia; e 5. garantire che il sistema di asilo bulgaro sia conforme agli standard dell’UE e internazionali in materia di diritti umani, prevenendo future violazioni di questo tipo. PER QUANTO RIGUARDA L’UNIONE EUROPEA (UE), CHIEDIAMO: 1. alla Commissione europea di valutare la sospensione o la riprogrammazione di qualsiasi sostegno europeo legato ai centri di detenzione pre-espulsione in Bulgaria fino a quando non sarà garantita la piena conformità con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CFR); 2. alla Commissione europea di condurre una revisione di qualsiasi possibile sostegno della Commissione europea legato al centro di detenzione di Busmantsi per valutarne la conformità con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CFR); 3. al Parlamento europeo (commissioni LIBE/DROI) di tenere una sessione urgente e organizzare una missione di accertamento dei fatti presso il centro di detenzione di Busmantsi; e 4. al Consiglio (gruppo FREMP) di includere questo caso nell’ordine del giorno; Qui le organizzazioni firmatarie Comunicati stampa e appelli PETIZIONE PER ABDULRAHMAN AL-KHALIDI RINCHIUSO NEL CENTRO DI DETENZIONE DI BUSMANTSI (SOFIA) Firma e condividi l'appello per il riconoscimento della protezione internazionale al giornalista e attivista 24 Maggio 2025 1. La pagina autore su Melting Pot ↩︎ 2. Transnational repression of human rights defenders: The impacts on civic space and the responsibility of host states ↩︎
Nel Mediterraneo si continua a morire mentre chi salva vite è criminalizzato
Nel Mediterraneo si continua a morire, mentre chi salva vite continua a essere criminalizzato. È uno stesso tragico e odioso copione che ormai si ripete da tempo. Da una parte sempre più persone muoiono nell’indifferenza e nel silenzio istituzionale, dall’altra il governo italiano, nonostante le sentenze dei tribunali, non mostra segni di ravvedimento e prosegue nella sua opera di attacco alle organizzazioni di soccorso: l’ultima è Mediterranea Saving Humans, colpita da un nuovo blocco amministrativo dopo l’ultimo salvataggio e approdo a Porto Empedocle. Notizie/In mare «ABBIAMO AGITO PER SALVARE VITE»: SBARCATE LE 92 PERSONE SOCCORSE DA MEDITERRANEA Lo Stato minaccia nuove sanzioni per aver scelto Porto Empedocle Redazione 5 Novembre 2025 L’associazione, che rivendica giustamente di aver salvato la vita a 92 persone, ha replicato alle accuse del ministro dell’Interno Piantedosi, che sui social ha diffuso false informazioni sull’operato della nave.  «Siamo indignati dalle menzogne del ministro: da parte nostra c’è sempre stata la massima collaborazione con la Sanità marittima», ha dichiarato MSH. A bordo, ha raccontato il medico Gabriele Risica, «abbiamo accolto la medica dell’USMAF, le abbiamo messo a disposizione l’ospedale di bordo e visitato insieme le persone soccorse». Anche la capomissione Sheila Melosu ha denunciato «la vergogna di un ministro che parla di sicurezza delle persone mentre è indagato per aver protetto un torturatore di migranti, e che voleva far viaggiare fino a Livorno persone malate e bisognose di cure immediate». Un episodio che si inserisce nella costante strategia di criminalizzazione delle ONG, con la nave Mediterranea che subisce un altro fermo illegittimo nel porto siciliano per violazione del Decreto Piantedosi, mentre le autorità italiane continuano a ostacolare chi salva vite in mare e a finanziare chi le intercetta e le imprigiona. Il 2 novembre, infatti, si è rinnovato automaticamente il Memorandum tra Italia e Libia, che resterà in vigore fino al 2026, assicurando nuovi fondi e mezzi alla guardia costiera libica, la stessa che cattura e riporta nei lager migliaia di persone e che attacca le navi della flotta civile. Approfondimenti/In mare MEMORANDUM ITALIA-LIBIA, UN PATTO DI VIOLAZIONI E ABUSI Il 2 novembre l’accordo sarà rinnovato. Refugees in Libya: manifestiamo a Roma il 18 ottobre Carlotta Zaccarelli 29 Settembre 2025 Nel frattempo, solo negli ultimi 30 giorni, cinque naufragi hanno aggiornato il conto delle vittime e dei dispersi lungo le rotte del Mediterraneo. Il 18 ottobre, Sea-Watch ha denunciato un naufragio ignorato dalle autorità: un morto accertato e 22 persone disperse, mentre le navi umanitarie venivano tenute lontane dall’area dei soccorsi. “Abbiamo chiesto aiuto per ore, nessuno è intervenuto”, ha riferito l’Ong, accusando Roma e La Valletta di omissione di soccorso. Il 22 ottobre, al largo di Salakta, in Tunisia, almeno 40 persone migranti, tra cui diversi neonati, sono morte dopo che la loro imbarcazione si è capovolta. Solo 30 persone sono state salvate. Le vittime provenivano da Paesi dell’Africa subsahariana e cercavano di raggiungere l’Italia da una delle rotte più brevi e più letali del Mediterraneo. Diverse inchieste hanno evidenziato come la Tunisia sia un Paese non sicuro nel garantire i diritti fondamentali e come le persone nere siano sottoposte a violenze e tratta gestite dalle stesse autorità. Rapporti e dossier/In mare STATE TRAFFICKING SVELA LA TRATTA DI MIGRANTI TRA TUNISIA E LIBIA Un rapporto con 30 testimonianze da un confine esterno della UE Redazione 1 Marzo 2025 Il 24 ottobre, 14 persone migranti sono annegate nel mar Egeo, al largo di Bodrum, in Turchia. Solo due si sono salvate, tra cui un giovane afgano che ha nuotato per sei ore fino a riva. Tre giorni dopo, il 27 ottobre, quattro migranti sono morti al largo della Grecia, dopo l’affondamento di un gommone. E il 28 ottobre un altro barcone è affondato davanti a Surman, in Libia: 18 morti e oltre 60 sopravvissuti, secondo la Croce Rossa libica e l’OIM. Le vittime erano in gran parte uomini sudanesi, bengalesi e pakistani in fuga da guerre e povertà. Cinque naufragi in dieci giorni: più di 70 morti accertati, decine di dispersi e un mare che continua a inghiottire vite nell’indifferenza politica. Secondo l’ultimo aggiornamento dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), al 25 ottobre 2025 sono 472 le persone morte e 479 quelle disperse sulla rotta del Mediterraneo centrale dall’inizio dell’anno. A questo bollettino di guerra vanno aggiunti gli ultimi naufragi: nel 2025 si può stimare che circa 550 persone abbiano perso la vita, senza contare i naufragi cosiddetti “fantasma” che non finiscono nei conteggi ufficiali. Nello stesso periodo, 22.509 persone migranti – tra cui 832 minori – sono state intercettate e riportate in Libia, dove finiscono spesso in centri di detenzione, subendo torture, violenze sessuali, estorsioni, privazione di cibo e cure. Nemmeno l’arresto del generale libico Al Masri cambia la sostanza: la Libia rimane un Paese diviso e controllato da milizie e trafficanti che si arricchiscono sulla pelle dei migranti. Nonostante la situazione sia nota e denunciata da anni, resta un alleato politico e operativo dell’Europa, che continua a esternalizzare il controllo delle proprie frontiere. Come ha rivelato un’inchiesta di Irpimedia, la Commissione europea e Frontex hanno ospitato a metà ottobre una delegazione tecnica libica, con esponenti provenienti sia dall’est sia dall’ovest del Paese: per la prima volta anche funzionari della Cirenaica, sotto il controllo del generale Khalifa Haftar, sono stati invitati presso la sede di Frontex a Varsavia e a Bruxelles. Il Mediterraneo centrale continua a essere la rotta migratoria più mortale del mondo. Ma ogni nuovo naufragio rimane a sé stante, invisibilizzato e velocemente archiviato come un fatto di cronaca. I media fanno sempre più fatica ad andare oltre la notizia flash e a costruire una narrazione diversa, e così queste stragi scompaiono in fretta. Dove sono le storie che danno dignità ai numeri, ai volti, alle famiglie, ai sogni interrotti, al dolore? Cosa serve perché si trovi finalmente una risposta a quella domanda che da anni viene ripetuta e mai ascoltata: quante morti ancora serviranno prima che l’Europa apra vie legali e sicure di accesso, affinché si affronti il tema politico e sociale della libertà di movimento? Finché la risposta sarà il rinnovo di accordi come quello con la Libia e il blocco delle navi umanitarie, il Mediterraneo continuerà a essere una tomba. E l’Italia, insieme all’Unione Europea, continuerà a chiamare “cooperazione” ciò che è in realtà complicità nelle stragi. Fonti: InfoMigrants, OIM, UNHCR, ANSA, Reuters, Sea-Watch, Mediterranea Saving Humans, Mosaique FM. Interviste/In mare «RIPRISTINARE LA LIBERTÀ DI MOVIMENTO È L’UNICA RISPOSTA POLITICA ALLE MIGRAZIONI» Intervista a Gabriele Del Grande, giornalista e documentarista Laura Pauletto 3 Novembre 2025