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Visti negati, diritti calpestati: l’inerzia del Governo nei confronti dei palestinesi di Gaza
Dal 6 agosto al 10 settembre 2025, il Tribunale di Roma ha emesso una serie di provvedimenti 1 che obbligavano lo Stato italiano a rilasciare visti d’ingresso a famiglie palestinesi intrappolate nella Striscia di Gaza 2. Si tratta, in gran parte, di nuclei con bambini e bambine, riconosciuti come titolari di un diritto all’ingresso in Italia. Nonostante ordini espliciti che imponevano al Ministero degli Affari Esteri e al Consolato italiano a Gerusalemme di agire “entro e non oltre sette giorni”, ad oggi nessun visto è stato materialmente rilasciato. Non sono valsi a nulla i numerosi solleciti inviati dalle avvocate e dagli avvocati ASGI: lo Stato italiano resta inerte 3. L’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), che ha seguito i ricorsi, denuncia una «grave e colpevole mancata esecuzione dei provvedimenti giudiziari». Con un nuovo comunicato, ASGI sottolinea come «il silenzio dello Stato italiano non trovi alcuna giustificazione ed è evidente la responsabilità che si assume per l’inerzia sin qui dimostrata». L’associazione evidenzia che tale inadempienza «appare tanto più grave alla luce della drammatica situazione in corso nella Striscia di Gaza, documentata e resa evidente all’intera comunità internazionale». «Sappiamo che la situazione è estremamente complessa e che tutto deve passare anche dalle autorità israeliane. Al momento, però» – spiega l’avvocato Dario Belluccio di ASGI – «non abbiamo ricevuto nessuna comunicazione sulle eventuali attività svolte dall’Italia per dare seguito alla decisione del Tribunale. I nostri assistiti non ce la fanno più, sono allo stremo. E qualsiasi ritardo può costare loro la vita». Un’ordinanza del Tribunale sostiene: «Lo Stato italiano non solo non può legittimamente ostacolare l’ingresso sul territorio dei ricorrenti in fuga da Gaza, ma anzi ha un obbligo rafforzato a consentirne l’accesso, quale misura di protezione minima e necessaria per prevenire la violazione irreparabile del diritto alla vita, all’incolumità personale e alla dignità umana». Le ordinanze riguardano cinque nuclei familiari, per un totale di circa una quarantina di persone, molte delle quali sono minori, anziani, persone malate, oppure familiari di cittadini italiani. Il tribunale ha fatto espresso riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio, sottolineando che l’Italia ha obblighi giuridici non solo di cooperazione ma di prevenzione. Le autorità italiane, secondo ASGI, non hanno fornito risposte concrete: nessuna motivazione ufficiale per il ritardo, nessuna conferma che siano stati compiuti atti per ottenere le autorizzazioni necessarie dalle autorità israeliane. La situazione nella Striscia di Gaza è documentata come genocidaria: bombardamenti indiscriminati, fame e difficoltà nell’accesso a beni di prima necessità, rischio costante per i civili, specie per i più vulnerabili. ASGI ribadisce: «Lo Stato italiano deve agire immediatamente, nessun ulteriore ritardo è giustificabile. Tutti i palestinesi devono avere gli stessi diritti. Riterremo responsabile lo Stato italiano della colpevole inerzia se qualcuno dei nostri assistiti dovesse morire o subire ulteriori gravissimi danni». Quanto emerso mostra che non è più possibile considerare questo un difetto amministrativo: è una questione politica, giuridica e morale. Lo Stato italiano è chiamato non solo a rispettare la legge nazionale, ma anche gli obblighi internazionali – inclusi quelli derivanti da trattati che ha sottoscritto. ASGI chiede: il rilascio immediato dei visti ordinati, l’avvio concreto delle operazioni di fuoriuscita dalla Striscia, la trasparenza sulle richieste e i contatti con le autorità israeliane, e che ogni ritardo venga riconosciuto come aggravante. «Ogni ulteriore ritardo – conclude l’associazione – costituirà un’aggravante della già grave responsabilità politica, giuridica e morale assunta dal Governo. Ogni limite è superato ed è chiara la colpevole responsabilità dello Stato italiano, di cui si chiederà soddisfazione in ogni sede». 1. La sintesi delle pronunce del Tribunale di Roma emesse tra il 6 e il 13 agosto, ASGI (26 agosto 2025) ↩︎ 2. Gaza, il tribunale di Roma ordina l’ingresso di famiglie palestinesi. Asgi: “Ma il governo ancora non agisce”, Il Fatto Quotidiano (23 agosto 2025) ↩︎ 3. Il comunicato di ASGI del 23 agosto 2025 ↩︎
Rimpatri, la nuova stretta dell’UE: «Un regolamento disumano che va respinto»
L’11 marzo 2025 la Commissione Europea ha presentato una nuova proposta di Regolamento sui Rimpatri che, dietro la veste burocratica e il linguaggio tecnico, punta a definire un’Europa più oppressiva e punitiva. Questo regolamento è destinato a sostituire l’attuale Direttiva Rimpatri e per impianto ideologico strizza l’occhio ai promotori del Remigration Summit e alle politiche trumpiane, rafforzando un modello che non ha nulla a che vedere con la tutela dei diritti, ma si allinea alla propaganda securitaria e la normalizzazione di pratiche autoritarie. La logica dichiarata è quella di aumentare i tassi di espulsione, la sostanza è un sistema che poggia i suoi pilastri su detenzione, deportazioni e sorveglianza. Non un testo amministrativo, bensì un manifesto politico che considera la mobilità umana una minaccia e la trasforma in un problema di ordine pubblico. Oltre duecento organizzazioni europee hanno deciso di denunciare il Regolamento con un documento congiunto che smaschera la natura reale della proposta: “Il regolamento sull’espulsione fa parte di un cambiamento nella politica migratoria dell’UE che caratterizza il movimento umano come una minaccia per giustificare deroghe alle garanzie dei diritti fondamentali”, si legge nell’introduzione. Lo statement entra nel dettaglio punto per punto, mostrando la portata devastante delle misure. La prima “novità” riguarda la possibilità di espellere persone considerate irregolari verso paesi terzi in cui non hanno mai vissuto e con cui non hanno alcun legame personale, una pratica che distruggerebbe famiglie e comunità e che aprirebbe la strada a veri e propri centri di rimpatrio offshore, luoghi di detenzione al di fuori dell’UE in cui la tutela dei diritti diventerebbe un miraggio. In pratica, un’estensione e normalizzazione del cosiddetto “modello Albania”. Un altro punto riguarda la sorveglianza generalizzata: gli Stati membri sarebbero obbligati a mettere in atto sistemi di individuazione delle persone irregolari, alimentando così profilazioni razziali, retate di polizia, paura nelle comunità migranti. Un ulteriore elemento è l’estensione della detenzione amministrativa fino a 24 mesi, che colpirebbe indiscriminatamente minori, soggetti vulnerabili e persone che non possono essere espulse: una gravissima violazione del diritto internazionale e della dignità umana.  Il testo denuncia poi l’introduzione di misure punitive e coercitive sproporzionate: multe, restrizioni, divieti di ingresso e accesso ai servizi, fino alla negazione di prestazioni essenziali, con il paradosso di penalizzare chi non può adempiere a obblighi materiali impossibili, come l’ottenimento di documenti in caso di apolidia. Si colpisce anche il diritto di ricorso, eliminando la sospensione automatica delle espulsioni: in questo modo diventa quasi impossibile difendersi da un rimpatrio forzato. Infine, critica l’uso massiccio della sorveglianza digitale, con tracciamenti GPS, raccolta e condivisione di dati sensibili – inclusi quelli sanitari – anche con paesi terzi privi di tutele adeguate, creando un mercato redditizio per le multinazionali della sicurezza e della tecnologia. Le organizzazioni rigettano l’intero regolamento in modo netto: “Non risolverà nulla, ma produrrà solo più irregolarità, più marginalità, più esclusione sociale”.  «Questo regolamento aprirà la strada a un regime distopico di detenzione e deportazione, con decine di migliaia di persone rinchiuse nei centri di detenzione per migranti in tutta Europa, famiglie separate e persone inviate in paesi che non conoscono nemmeno – denuncia Silvia Carta, Advocacy Officer del PICUM – i legislatori dell’UE devono respingerla e lavorare invece su misure che promuovano l’inclusione sociale e la regolarizzazione delle persone costrette a vivere in un limbo legale». Le realtà associative e i movimenti accusano le istituzioni europee di alimentare sentimenti razzisti e xenofobi, di favorire gli interessi economici di chi lucra sui centri di detenzione e sui sistemi di sorveglianza, di sacrificare i diritti sull’altare della propaganda securitaria. Lo statement sottolinea l’assenza di una valutazione di impatto sui diritti fondamentali, evidenziando che si tratta di una proposta costruita senza consultazioni, senza trasparenza, senza rispetto delle stesse regole procedurali che la Commissione dice di voler applicare. “È la conferma di una scelta politica precisa: continuare a investire nella paura e nella punizione invece che nella protezione e nell’inclusione”. Le alternative esistono. Le organizzazioni chiedono di rafforzare i canali regolari di ingresso, di ampliare i permessi di soggiorno basati sui diritti, di garantire accesso alla salute, alla casa, al lavoro dignitoso, di costruire comunità forti e inclusive. «In un momento in cui le politiche di esclusione avanzano, chiediamo un rinnovato impegno verso la solidarietà e i diritti umani la sicurezza non può fondarsi sulla paura e sulla discriminazione, ma solo sull’inclusione, il rispetto e pari opportunità”, afferma Giovanna Cavallo, coordinatrice del Forum per Cambiare l’ordine delle cose e della Road Map per il Diritto d’Asilo e la Libertà di Movimento.  Il documento si chiude con una richiesta inequivocabile: il ritiro immediato della proposta e un’inversione di rotta radicale. Perché un’Europa che si definisce democratica e fondata sul rispetto dei diritti non può scegliere la strada della detenzione di massa e della deportazione. Perché la vera sicurezza non nasce dai muri, ma dalla giustizia sociale. Perché le vite delle persone non sono numeri da espellere, ma priorità da difendere. Lo scenario prossimo è quindi stretto tra questo Regolamento il nuovo e criminale Patto europeo su migrazione e asilo. Segnali inequivocabili di una trasformazione profonda: i governi europei, seppur in modo contradditorio, non parlano più di accoglienza, integrazione o protezione internazionale, ma di rimpatri di massa, detenzione e deportazioni. Un evidente spostamento a destra che occorre contrastare in tutti i modi possibili, attraverso l’attivazione sociale e politica, alleanze transnazionali tra movimenti e soprattutto momenti comuni di mobilitazione. Serve organizzarsi e lottare insieme, in Europa e oltre i suoi confini. Un primo appuntamento di rilievo è già stata lanciata dal Network Against Migrant Detention (NAMD) per l’1 e 2 novembre in Albania: “A due anni dalla firma del memorandum Rama-Meloni torneremo a Tirana, Gjadër e Shëngjin per contestare le deportazioni fasciste e per chiedere la chiusura definitiva dei CPR e le politiche di deportazione”. > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da Network Against Migrant Detention > (@networkagainstmigrantdetention)
12 e 13 settembre: «Da Tripoli a Ginevra 2»
“UNHCR = UNFAIR!”, “IOM = NASTY!”: con questi slogan Refugees in Libya annuncia due nuove giornate di mobilitazione a Ginevra, il 12 e 13 settembre 2025, contro le «violazioni dei diritti umani» da parte delle principali agenzie internazionali coinvolte nella gestione delle migrazioni. Venerdì 12 settembre, alle 11, davanti alla sede dell’UNHCR in Rue de Montbrillant 94, è prevista una conferenza stampa con la presentazione del “Book of Shame”, che raccoglie «dozzine di denunce e accuse da parte di rifugiati e migranti in Libia, Tunisia e Niger». Secondo gli organizzatori, «anziché adempiere al proprio mandato di protezione, l’UNHCR sta proteggendo le frontiere europee ed è diventato uno strumento delle politiche di esternalizzazione». Per il collettivo si tratta di un ritorno a Ginevra, dopo la due giorni del 9 e 10 dicembre 2022 – in occasione della Giornata internazionale dei diritti umani – che era stata promossa per denunciare l’operato dell’Agenzia dell’ONU. In questo nuovo appuntamento nella città svizzera, il giorno successivo, sabato 13 settembre, la manifestazione partirà alle 14 dalla sede dell’IOM, in Route des Morillons 17. Al centro delle accuse verso l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni sono le pratiche di “ritorno volontario”, considerate una forma di pressione e ricatto: «In Libia conosciamo da molti anni il loro concetto di ricatto – affermano gli attivisti -. Persone detenute e tenute in condizioni insopportabili ricevono come unica proposta quella di tornare nel Paese di origine. In Tunisia abbiamo visto lo stesso sistema, accanto a sgomberi e attacchi contro insediamenti informali». La protesta attraverserà la città, passando anche davanti alla sede delle agenzie governative, con interventi e testimonianze di rifugiati che hanno raggiunto l’Europa. «Non sono disposti a dimenticare le proprie ferite, né i compagni che ancora soffrono in Libia, Tunisia o Niger», sottolineano. Nel comunicato di lancio della due giorni viene denunciata anche l’apertura di un nuovo grande campo per richiedenti asilo a Ginevra, descritto come «una semi-prigione tra la pista dell’aeroporto e un’autostrada, dove le persone sono trattenute per mesi». L’iniziativa fa parte della “chain of action 2025”, una catena di azioni transnazionali che ricorda il decennale dell’estate delle migrazioni del 2015 e rilancia la lotta per la libertà di movimento e i diritti per tutte e tutti.
Poggioreale, privacy violata e diritto d’asilo negato
Il 19 agosto 2025 il deputato Francesco Emilio Borrelli pubblicava su Facebook e Instagram le foto dell’arresto di Elokla Mohmed Kazem. L’immagine ritraeva il ragazzo, richiedente asilo, apparentemente ammanettato, inconsapevole dello scatto e con il volto non oscurato. Il post, commentato con la frase “preso uno dei due evasi da Poggioreale”, ha avuto migliaia di interazioni, alimentando una gogna mediatica di tenore xenofobo e fortemente violento. Successivamente, il deputato pubblicava altri due post con altre immagini del sig. Elokla e del sig. Mahrez Souki, non opportunamente oscurate, ritratti nell’immediatezza dell’arresto. È a partire da questo episodio che diverse associazioni hanno inviato un esposto, redatto dall’avvocata Martina Stefanile di ASGI 1, al Garante nazionale e regionale delle persone private della libertà, al Garante della privacy e all’UNHCR per denunciare due questioni: la diffusione illecita delle immagini dei detenuti Elokla Mohmed Kazem e Mahrez Souki, e la violazione dei diritti fondamentali all’interno della Casa Circondariale “Giuseppe Salvia” di Napoli – Poggioreale, in particolare la sospensione di fatto del diritto d’asilo per i cittadini stranieri detenuti. A firmarlo sono la Clinica Legale per l’Immigrazione dell’Università Roma 3, l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione – ASGI, Antigone Campania, Melting Pot Europa, Spazi Circolari, Le Carbet, Attiva Diritti, Chi Rom e…chi no, La Kumpania, Mem.Med – Memoria Mediterranea per LasciateCIEntrare e Gridas. La pubblicazione delle foto, riporta il documento, viola diverse norme nazionali e internazionali, dal diritto alla privacy sancito dalla CEDU al divieto previsto dall’articolo 114 del codice di procedura penale di diffondere immagini di persone private della libertà in stato di coercizione. Ma è tutta la vicenda che, tra esposizione mediatica sensazionalistica e ostacoli burocratici, porta alla luce la condizione fragile e spesso invisibile dei detenuti stranieri in Italia, il cui diritto a chiedere protezione internazionale rischia di restare impossibile da dietro le sbarre. A rendere ancora più evidente la vulnerabilità di Elokla sono le parole del giornalista e volontario della Comunità di Sant’Egidio Antonio Mattone, che lo aveva incontrato di persona: «A chi lo ha conosciuto il ragazzo siriano di 23 anni fuggito da Poggioreale etichettato dalla cronaca come un rapinatore, è sembrato essenzialmente un ragazzo di estrema fragilità». Il giovane, ricostruisce Mattone, «viveva in un paese ai confini con la Turchia ed è scappato a piedi fino a giungere in Italia. Quando gli è stato chiesto della sua famiglia gli sono scesi due lacrimoni: erano tutti morti, uccisi in quell’infinita guerra civile che insanguina la Siria dal 2011. Arrivato nel nostro Paese, senza riferimenti e legami, ha vissuto per strada dove ha iniziato a drogarsi e a compiere gesti di autolesionismo, quasi a volersi lasciare andare. Poi una rapina per avere qualche soldo ed è così finito in carcere». Un quadro che per le associazioni firmatarie avrebbe dovuto imporre maggiore cautela nella tutela della dignità del ragazzo, piuttosto che un’esposizione pubblica capace di aggravare ulteriormente la sua condizione. L’altra denuncia contenuta nell’esposto riguarda il diritto d’asilo, che all’interno di Poggioreale risulta di fatto sospeso. «Su queste premesse, si apre uno scenario gravissimo che vede sistematicamente lesi i diritti dei rifugiati e richiedenti asilo all’interno del penitenziario napoletano», scrivono le associazioni. Secondo le segnalazioni raccolte, i detenuti stranieri possono esprimere la volontà di chiedere protezione internazionale soltanto tramite i loro avvocati, che trasmettono le istanze via PEC all’Ufficio Matricola e alla Questura di Napoli. Se un detenuto tenta di presentare la richiesta autonomamente, ciò è consentito solo a ridosso del fine pena. Ma anche in questi casi le domande rimangono “congelate” per tutta la durata della detenzione. È accaduto anche a Elokla, che nell’aprile 2025 aveva presentato tramite la propria legale una formale richiesta di protezione internazionale. A distanza di mesi, non ha ancora ricevuto un appuntamento né sostenuto l’audizione davanti alla Commissione territoriale, in palese violazione dell’articolo 26 del decreto legislativo 25/2008, che prevede tempi stringenti per la formalizzazione delle domande. Gli esempi citati nell’esposto sono numerosi: cittadini sudanesi e ciadiani che hanno protocollato le loro istanze tra il 2024 e il 2025, senza alcun seguito. Tutti profughi di guerre civili e situazioni drammatiche che avrebbero dovuto garantire loro almeno un rapido accesso alla procedura. Per le associazioni firmatarie, siamo davanti a «violazioni intollerabili dell’impianto normativo posto a tutela dei migranti, rifugiati e richiedenti asilo». L’appello è rivolto ai Garanti, alla Questura e alle Commissioni territoriali: serve «un urgente superamento effettivo delle violazioni di diritto rappresentate, anche previo esercizio dei poteri ispettivi propri dell’Ufficio del Garante». L’invito è a stabilire un coordinamento stabile tra amministrazione penitenziaria e autorità competenti per «assicurare ai detenuti stranieri l’esercizio di tali diritti e facoltà, che possono essere limitati solo con un provvedimento espresso». Infine, le associazioni chiedono all’UNHCR un parere tecnico e un monitoraggio costante della vicenda, mentre al Garante della privacy sollecitano «l’immediata cessazione, mediante rimozione delle immagini diffuse sulle pagine social del deputato, delle condotte lesive dei diritti fondamentali dei ritratti». 1. Leggi l’esposto inviato ↩︎
Discorsi Mediterranei approda a Patù il 6 e 7 settembre
Il 6 e 7 settembre Palazzo Romano a Patù ospiterà Discorsi Mediterranei, un festival itinerante – e giunto quest’anno alla sua 11a edizione – che adotta un approccio intersezionale attento ai legami tra diritti, identità sociali, questioni di genere, contesto ambientale e fenomeni migratori e si concentra sulle nuove narrazioni delle migrazioni. Dopo le tappe di Specchia e Santa Maria di Leuca, l’iniziativa – promossa da Arci Cassandra Aps, Narrazioni Ets e dall’Istituto di Culture Mediterranee – arriva all’estremo lembo del Capo di Leuca con un programma fitto di incontri, laboratori, mostre e musica. Consulta il programma dettagliato Le conversazioni saranno il fulcro della due giorni. Nella due giorni di Patù il focus è maggiormente centrato sul cambiamento delle narrazioni, sulla decolonizzazione dello sguardo, del pensiero e della produzione di sapere, sui concetti di discriminazione multipla e intersezionalità. Tra gli ospiti figurano studiosi e attivisti di primo piano: lo storico Donato Di Sanzo, l’attivista e ricercatrice Ndack Mbaye, la docente Eliana Augusti, la sociologa Irene Strazzeri, la scrittrice e artista Wissal Houbabi, Annalisa Camilli (Internazionale), Luca Rondi (Altreconomia) e il cantautore e intellettuale Nabil Bey. Accanto ai discorsi, il festival propone una mostra multimediale con illustrazioni, fotografie, webserie e podcast che raccontano i confini e le frontiere del Mediterraneo e del Sahel. Tra le opere, le illustrazioni dell’artista tunisina Zainab Fasiki e i reportage di Annalisa Camilli e Michele Cattani. Non mancano le presentazioni di libri: da Controverse. Scrivere in diaspora, poetiche del divenire (Capovolte edizioni) al classico del femminismo hip hop Chickenheads di Joan Morgan, fino a Il giro del mondo alle frontiere della stessa Camilli. Spazio anche ai laboratori, tra cui quello esperienziale condotto dall’attivista Marie Moïse, e alle attività per ragazzi e ragazze, con la presentazione dell’albo illustrato Oltre l’orizzonte dell’umanità. La prima giornata si chiuderà con Bar Med, concerto che unisce le sonorità di Antonio Castrignanò e Ziad Trabelsi, mentre la serata finale sarà affidata al dj set di La Pam. Tutti gli appuntamenti sono a ingresso libero e gratuito. Il festival è realizzato nell’ambito del progetto Storie Meridiane dei Comuni di Patù e Morciano di Leuca, con il sostegno dell’Unione europea – NextGenerationEU, del Ministero della Cultura e della Regione Puglia.
Mediterranea in catene per due mesi e 10mila euro di multa
La nuova nave di Mediterranea Saving Humans resterà ferma in porto per 60 giorni e i suoi responsabili dovranno pagare una sanzione di 10mila euro. È la decisione notificata dal Prefetto di Trapani, per conto del Ministero dell’Interno, nell’ambito dell’applicazione del cosiddetto Decreto Legge Piantedosi. Si tratta, spiegano dall’organizzazione, di «uno dei più pesanti provvedimenti in questi tre anni contro le imbarcazioni della flotta civile di soccorso». Alla base della contestazione c’è la «grave, premeditata e reiterata disobbedienza» all’ordine del Viminale di raggiungere il porto di Genova, distante oltre 690 miglia, con a bordo dieci naufraghi soccorsi il 21 agosto in acque internazionali davanti alla Libia. Notizie/In mare MEDITERRANEA: «NAUFRAGHI GETTATI IN MARE DAI LIBICI» Il grave episodio durante la prima missione della nuova nave Redazione 22 Agosto 2025 L’Ong respinge le accuse e rivendica la scelta di approdare e a Trapani il 23 agosto, per garantire cure mediche e psicologiche immediate ai sopravvissuti. «E dunque quale sarebbe il grave reato che abbiamo commesso? – si chiede l’equipaggio -. Abbiamo forse fatto del male a qualcuno, abbiamo distrutto qualcosa, abbiamo sparato addosso a qualcuno come fanno i “guardacoste” libici?». La colpa di Mediterranea, sostengono, sarebbe soltanto quella di aver detto «SignorNO!» a un ordine giudicato «assurdo e disumano». Secondo l’organizzazione, comandante ed equipaggio hanno agito «secondo il diritto marittimo, nazionale e internazionale, e secondo i principi di umanità e giustizia». L’accusa rivolta al governo è di utilizzare i poteri istituzionali per «una continua e odiosa propaganda elettorale permanente». «Disobbedire a un ordine illegittimo ed illegale è questione di dignità», si legge ancora nel comunicato, dove si sottolinea come la scelta abbia permesso «qui ed ora» lo sbarco in un porto sicuro dei dieci naufraghi. «A Piantedosi, alle sue catene, continueremo a rispondere “SignorNO!” perché non siamo sudditi». L’associazione annuncia un ricorso urgente all’autorità giudiziaria per chiedere l’annullamento del fermo, definito «un provvedimento di vendetta, abnorme e illegittimo sotto ogni punto di vista». I tribunali, più volte in questi anni, hanno già giudicato illegittimi fermi e multe operate dal governo contro le navi della flotta civile. Tutta la vicenda che ha colpito Mediterranea si inserisce in un contesto già teso, in cui il governo, nonostante l’apparente rigore, si trova in difficoltà di fronte a ciò che accade nel Mediterraneo e al sostegno, mai messo in discussione, del lavoro sporco della cosiddetta Guardia costiera libica, e che si è evidenziato anche con la liberazione del torturatore libico Almasri. «Collaborano con quelle milizie che in Libia sono responsabili di ogni genere di abuso e violenza nei campi di detenzione e, in mare, sparano addosso alle navi umanitarie come avvenuto contro la Ocean Viking. E in Italia sanzionano chi soccorre», denuncia l’organizzazione. Notizie/In mare OCEAN VIKING SOTTO ATTACCO DELLA GUARDIA COSTIERA LIBICA Spari per 20 minuti contro la nave di SOS Méditerranée con 87 naufraghi a bordo Redazione 27 Agosto 2025 «Non ci fermeranno con questi mezzi – conclude l’Ong – siamo convinti che, mentre il criminale “sistema Libia” costruito in questi anni sta mostrando il suo volto più feroce, saranno invece le ragioni della vita e dell’umanità ad affermarsi». Un messaggio che risuona ancora più forte in questi giorni, a dieci anni dalla morte del piccolo Alan Kurdi, il bambino siriano di tre anni la cui immagine sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, divenne un simbolo della mancanza di vie sicure per arrivare in Europa. A distanza di un decennio, tutta l’architettura delle politiche di contrasto alla libertà di movimento continua a costringere le persone a rischiare la vita in mare.
Marco Cavallo torna a camminare per i diritti
Marco Cavallo, simbolo della lotta per la libertà e i diritti, il cavallo azzurro, nato nel 1973 dai pazienti e operatori del manicomio di San Giovanni a Trieste durante l’esperienza di Franco Basaglia, attraverserà i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) italiani, in cui vengono trattenute persone straniere in attesa di rimpatrio. «Strutture che,» – spiegano i promotori – «per molti versi, ricordano gli OPG, ma che forse sono ancor più crudeli dal punto di vista umano». Notizie/CPR, Hotspot, CPA MARCO CAVALLO SCENDE IN PIAZZA: UN VIAGGIO CONTRO I CPR, LAGER DEL PRESENTE Si parte con una manifestazione a Gradisca d'Isonzo - Gorizia il 6 settembre 29 Luglio 2025 Il progetto, lanciato a febbraio dal Forum Salute Mentale ha raccolto decine di adesioni da associazioni, gruppi, operatori, comitati, attivisti 1. Il viaggio partirà ufficialmente il 6 settembre da Gradisca d’Isonzo 2, da uno dei CPR più duri dove le violenze sistematiche e le condizioni degradanti sono state documentate più volte. Una scelta tutt’altro che casuale quindi: questo centro è da sempre teatro di violenze, malattie lasciate senza cura e abusi quotidiani. Denunce recenti della rete Mai più lager – No CPR hanno raccontato l’estate di chi è rinchiuso lì: celle roventi, scabbia che si diffonde senza che le autorità intervengano, ragazzi che tentano il suicidio, autolesionismi ripetuti. E ancora le denunce di pestaggi notturni con manganelli, come quello che a maggio ha colpito un giovane con problemi psichici e fisici, o la violenza contro S., ventenne che a fine agosto si è procurato tagli profondi e, dopo aver chiesto aiuto e filmato la risposta sprezzante degli agenti, è stato picchiato per strappargli il cellulare dalle mani. «Agosto è il mese peggiore,» – sottolineano le attiviste nella sintesi di quanto accaduto in questo mese – «in cui emarginazione ed abbandono si fanno più vivi e i già scarsi servizi del gestore (presidio della salute compreso) che diventano inconsistenti quando non si estinguono del tutto». Tutto questo avviene in un contesto in cui l’uso degli smartphone, consentito a Gradisca e a Milano (ma non negli altri CPR, compreso quello in Albania), permette di far filtrare qualche prova. Negli altri centri regna invece il buio, con un telefono a sezione e nessuna possibilità di documentare, lasciando campo libero a insabbiamenti e violenze impunite. Un viaggio di solidarietà e testimonianza Il viaggio – frutto di un lavoro collettivo che sta coinvolgendo associazioni, gruppi e cittadini – prevede diverse tappe. Marco Cavallo consegnerà alle persone trattenute nei CPR lettere scritte dai sostenitori, portando un messaggio di vicinanza e speranza. Sarà accompagnato da bandiere realizzate con tessuti di scarto, simbolo poetico di legami e vite intrecciate. Il regista Giovanni Cioni documenterà l’intero percorso per realizzare un film che custodisca e diffonda le voci raccolte lungo la strada. Il 5 settembre, alle 17, al cinema Ariston di Trieste, amici, sostenitori, cittadini e associazioni potranno salutare Marco Cavallo prima della partenza, con la presentazione del progetto da parte dello psichiatra Peppe Dell’Acqua e la proiezione del film Noi siamo gli errori che permettono la vostra intelligenza della regista Erika Rossi. Il viaggio toccherà poi Milano, Roma, Palazzo San Gervasio, Brindisi e Bari, con iniziative pubbliche e momenti di confronto documentati sul Forum Salute Mentale. Questo viaggio si intreccia con la campagna “180 Bene Comune. L’arte per restare umani”, promossa dal Forum Salute Mentale. La legge 180 non è soltanto quella che ha chiuso i manicomi, ma un presidio di civiltà che riguarda tutti: parla di diritti, di riconoscimento dell’altro, della capacità di convivere tra diversità – dentro e fuori di noi. Oggi, mentre si tenta di dimenticare quella legge, i CPR rischiano di diventare le nuove istituzioni della segregazione e della violenza sociale. È per questo che Marco Cavallo ha deciso di rimettersi in viaggio. Ha nitrito di rabbia nell’apprendere cosa accade dentro questi luoghi, con il desiderio di abbatterne i muri; poi, parlando con Peppe Dell’Acqua, ha riconosciuto che questo è ancora una volta il suo momento: trasformare la collera in cammino, in testimonianza, in denuncia. «Sono vecchio e stanco» – confida – «ma ogni volta che mi chiamano in questi luoghi di dolore non posso che rimettermi in movimento» 3. 1. Adesioni a questo link ↩︎ 2. Per sostenere il progetto clicca qui ↩︎ 3. Leggi: Sono una bandiera di libertà: per questo viaggerò nei Cpr italiani. Veronica Rossi intervista Marco Cavallo ↩︎
Nessuno Stato può negare i bisogni essenziali dei richiedenti, neanche in caso di afflusso imprevisto
Non ci sono emergenze che tengano: gli Stati membri dell’Unione europea devono sempre garantire ai/alle richiedenti asilo condizioni di vita dignitose, anche quando le strutture di accoglienza risultano sature a causa di un arrivo imprevisto di persone in cerca di protezione. Lo ha stabilito la Corte di Giustizia dell’Ue con la sentenza nella causa C-97/24, riguardante due richiedenti asilo – un cittadino afghano e uno indiano – che in Irlanda si erano trovati a vivere in strada, senza alloggio né mezzi di sostentamento. Le autorità irlandesi avevano consegnato a ciascuno solo un buono da 25 euro, rifiutandosi di assegnare loro un posto nei centri di accoglienza e negando quindi anche l’accesso al piccolo sussidio giornaliero previsto dalla normativa nazionale. I due richiedenti asilo hanno denunciato di aver vissuto per settimane all’aperto o in alloggi di fortuna, senza cibo né possibilità di mantenere l’igiene, e di essere stati esposti a violenze e pericoli. Davanti all’Alta Corte irlandese, hanno chiesto il risarcimento del danno subito. Il governo di Dublino ha riconosciuto la violazione del diritto dell’Unione, ma ha invocato la “forza maggiore”, attribuendo la saturazione delle strutture all’ondata di arrivi seguita alla guerra in Ucraina. La Corte di giustizia ha però respinto questa linea di difesa. Secondo i giudici di Lussemburgo, la direttiva 2013/33/UE (cosiddetta direttiva accoglienza 1) impone agli Stati membri di garantire “condizioni materiali di accoglienza che assicurino un tenore di vita adeguato” (art. 17), attraverso alloggio, sostegno economico o buoni. Tali condizioni devono coprire i “bisogni essenziali” dei richiedenti e tutelarne la salute fisica e mentale. La mancata erogazione di queste misure – anche solo temporaneamente – costituisce una violazione “manifestamente e gravemente” contraria al margine di discrezionalità lasciato agli Stati. Ciò che ha stabilito la Corte vale per tutti gli Stati membri, Italia compresa, dove il tema dell’accoglienza resta al centro del dibattito politico quotidiano. Nel nostro Paese, infatti, le autorità spesso non garantiscono condizioni adeguate ai/alle richiedenti asilo, che possono rimanere per mesi – talvolta per oltre un anno – esclusi/e dal sistema di accoglienza, in attesa di un posto. La Corte ha inoltre ricordato che la direttiva prevede un regime derogatorio (art. 20, par. 9), applicabile solo in circostanze eccezionali e per un periodo limitato, quando un afflusso improvviso di richiedenti esaurisce temporaneamente la capacità ricettiva degli Stati. Va però sottolineato che negli ultimi anni i numeri delle richieste d’asilo non hanno registrato aumenti tali da configurare un’emergenza. E comunque, anche in uno scenario del genere, ha precisato il collegio, resta fermo l’obbligo di rispettare la Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, in particolare l’articolo 1, che tutela la dignità umana, e l’articolo 4, che vieta trattamenti inumani o degradanti. “Nessuno Stato membro – scrive la Corte – può invocare l’esaurimento delle strutture di accoglienza per sottrarsi all’obbligo di soddisfare le esigenze essenziali dei richiedenti protezione internazionale”. L’Irlanda, nel caso di specie, non ha dimostrato alcuna impossibilità oggettiva di adempiere ai propri obblighi, ad esempio attraverso il ricorso ad alloggi temporanei alternativi o a sussidi economici. La sentenza stabilisce dunque che un simile comportamento può configurare una “violazione sufficientemente qualificata” del diritto dell’Unione, aprendo la strada alla responsabilità dello Stato e al diritto dei richiedenti di ottenere un risarcimento. Una decisione chiara e netta, che nessuno Stato dell’Unione europea può fingere di non conoscere. Corte di Giustizia UE, sentenza dell’1 agosto 2025 1. Direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale. ↩︎
Ocean Viking sotto attacco della Guardia Costiera libica
Una motovedetta donata dall’Italia apre il fuoco su una nave di ricerca e soccorso con 87 sopravvissuti a bordo. SOS Mediterranee: «Chiediamo la fine immediata della collaborazione con la Libia». «Oggi la Ocean Viking è stata deliberatamente e violentemente attaccata in acque internazionali dalla Guardia Costiera libica che ha sparato centinaia di colpi contro la nostra nave. Gli 87 sopravvissuti e l’equipaggio stanno bene. Stiamo lavorando a ricostruire gli eventi». Con queste parole, intorno alle 20 del 24 agosto, SOS Mediterranee denunciava sui propri canali social uno degli episodi più gravi mai avvenuti contro una nave di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale. Secondo quanto riportato dall’organizzazione, la MV Ocean Viking si trovava in acque internazionali, a circa 40 miglia nautiche a nord della costa libica. L’attacco è iniziato alle 15:03 ora locale di domenica 24 agosto, quando una motovedetta di classe Corrubia della Guardia Costiera libica ha aperto il fuoco sulla nave di soccorso per almeno 20 minuti ininterrotti. «Due uomini a bordo della motovedetta hanno aperto il fuoco sulla nostra nave umanitaria, iniziando un assalto durato almeno 20 minuti ininterrotti direttamente contro di noi», scrive SOS Méditerranée. «Con già a bordo 87 sopravvissuti» – per lo più cittadini sudanesi in fuga da guerra e persecuzioni – «soccorsi tra la notte di sabato 23 agosto e la mattina di domenica 24 agosto – la nave era stata autorizzata dal Centro di coordinamento italiano a sospendere la rotta verso il porto assegnato e cercare un’altra imbarcazione in difficoltà in acque internazionali. Mentre i team erano impegnati nella ricerca, la motovedetta libica ha illecitamente ordinato alla Ocean Viking di abbandonare la zona e dirigersi verso nord. L’ordine è stato comunicato prima in inglese e poi in arabo tramite il mediatore culturale a bordo, che ha confermato dal ponte che la nave stava già lasciando l’area. Tuttavia, senza alcun preavviso o ultimatum, due uomini a bordo della motovedetta hanno aperto il fuoco. La motovedetta ha circondato la Ocean Viking, prendendo deliberatamente di mira i membri dell’equipaggio sul ponte – la parte della nave dove si svolgono le operazioni di navigazione e governo». Durante quei minuti drammatici, i team di SOS Mediterranee e dell’IFRC hanno messo in sicurezza gli 87 sopravvissuti prima di rifugiarsi all’interno della nave. Fortunatamente, nessuno è rimasto ferito. I colpi, dozzine dei quali sono stati rinvenuti a bordo, hanno perforato oblò ad altezza uomo e danneggiato radar, antenne, gommoni di soccorso e raft di salvataggio. «L’attacco ha causato fori di proiettile all’altezza della testa, la distruzione di diverse antenne, quattro finestre rotte sul ponte e diversi proiettili che hanno colpito e danneggiato i tre RHIBS (motoscafi di soccorso veloci), insieme ad altre attrezzature di soccorso», denuncia ancora l’organizzazione. PH: SOS Méditerranée Il giornalista Sergio Scandura, di Radio Radicale, ha condiviso immagini impressionanti dalla nave: oblò crivellati, interni danneggiati, mezzi di soccorso distrutti. > 🔴 Le immagini dalla nave Ocean Viking. > L'aggressione. Dozzine i proiettili rinvenuti a bordo, sparati dalla c.d. > guardia costiera libica. Oblò forati ad altezza uomo, interni, antenne, > radaristica, RHIB di soccorso, raft di salvataggio: aggressione e danni senza > precedenti. https://t.co/pIAU4qtO65 pic.twitter.com/Vqv3o4FtCJ > > — Sergio Scandura (@scandura) August 25, 2025 Dopo lo sbarco avvenuto ad Augusta la sera del 25 agosto, SOS Méditerranée ha ricordato: «Dopo tutto quello che hanno passato, hanno dovuto affrontare gli attacchi armati alla nostra nave di salvataggio da parte della Guardia Costiera libica. Anche la nostra nave umanitaria non è più un luogo sicuro». Il comunicato sottolinea un aspetto cruciale: la motovedetta che ha sparato era stata donata dall’Italia nel 2023 nell’ambito del programma europeo “Support to Integrated Border and Migration Management in Libya (SIBMMIL)”. PH: Sergio Scandura «Ieri, i nostri team e i sopravvissuti della Ocean Viking sono stati colpiti dalla Guardia Costiera libica, su una nave donata dall’Italia. Chiediamo un’indagine completa su questi orribili eventi e la fine immediata di ogni collaborazione con la Libia», scrive SOS Mediterranee. Valeria Taurino, direttrice generale di SOS Méditerranée Italia, ha ribadito: «Chiediamo che venga condotta un’indagine approfondita sugli eventi e che i responsabili di questi atti che mettono a repentaglio la vita delle persone siano assicurati alla giustizia. Chiediamo inoltre la cessazione immediata di ogni collaborazione europea con la Libia. Non possiamo accettare che una guardia costiera riconosciuta a livello internazionale compia aggressioni illegali». Non è la prima volta che la cosiddetta Guardia Costiera libica ostacola i soccorsi. Già nel 2023 una motovedetta aveva sparato nei pressi dei gommoni della Ocean Viking. Allora non seguì nessuna inchiesta. Questa volta però la portata dell’aggressione è senza precedenti: un assalto mirato, con colpi sparati all’altezza della testa e attrezzature di soccorso distrutte. Durante l’assalto la Ocean Viking ha lanciato un mayday alla NATO. La nave più vicina era un’unità della Marina italiana, che tuttavia non ha risposto. La Procura di Siracusa ha aperto un’inchiesta con l’ipotesi di tentato omicidio a carico di ignoti, disponendo rilievi scientifici a bordo della nave e la raccolta di testimonianze. Si dovrà accertare se l’attacco della Guardia costiera libica sia avvenuto in acque internazionali: in tal caso la competenza passerebbe alla Procura di Roma. Sul fronte europeo, la Commissione UE ha dichiarato di aver chiesto chiarimenti alle autorità libiche, ribadendo che spetta a Tripoli fare luce sull’accaduto. Bruxelles, al momento, si concentra sulla ricostruzione dei fatti senza annunciare conseguenze immediate.
«Accoglienza sotto assedio»: la denuncia del collettivo L’AltraMarea a Camigliatello Silano (CS)
«Accogliere con dignità non è una scelta, è un obbligo morale». Con queste parole il collettivo L’AltraMarea di Cosenza ha annunciato la sua nascita e la finalità di denunciare le condizioni dei cittadini e delle cittadine migranti all’interno dei centri di accoglienza governativi e dei centri di detenzione.  Il collettivo si impegna a monitorare, informare e sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sulle criticità e le ingiustizie che «ancora oggi angosciano i migranti in questi contesti». Inoltre, si propone di far conoscere le reali condizioni di vita all’interno dei centri di accoglienza, fare pressione sulle autorità e promuovere un cambiamento dell’attuale ordinamento giuridico in materia di immigrazione. A fine luglio L’AltraMarea ha diffuso il suo primo report di un monitoraggio dal titolo eloquente: Accoglienza sotto assedio. Sceriffi, minacce e degrado a Camigliatello. Il documento di denuncia, ripreso e confermato dall’articolo della stampa locale 1 , raccoglie testimonianze e fotografie dall’ex hotel La Fenice, trasformato da tempo in Centro di Accoglienza Straordinaria (CAS) gestito dalla società locale Alprex S.a.s. «È singolare – scrive il collettivo – che l’ex Hotel La Fenice – simbolo mitologico di rinascita – si trasformi invece nell’antitesi della vita dignitosa. Qui, dove persone già segnate da violenze e traumi dovrebbero ricominciare, si trovano invece abbandono e maltrattamenti». Già nel 2016 erano state segnalate «violazioni quotidiane dei diritti essenziali dei migranti, parcheggiati come pacchi» sotto la gestione dell’associazione A.N.I.MED. «Siamo tornati a distanza di nove anni», spiega il gruppo di attivistə, «e constatiamo purtroppo un’involuzione del sistema di accoglienza». Tra le testimonianze raccolte spicca quella di T., giovane ospite del centro. Mostrando foto dei pasti, racconta di cibo servito «in piatti di plastica sigillati, gonfi per fermentazione batterica» e «maleodoranti». «Alle nostre proteste – denuncia – la risposta è stata: o mangiate questo o null’altro». Le condizioni igieniche vengono descritte come «un girone infernale»: docce incrostate, rubinetteria assente, muri segnati da calcare e ruggine. Agli ospiti viene consegnato «un solo cambio di vestiti all’arrivo e più nulla», con la lavatrice riservata «esclusivamente alla direzione». I materassi sarebbero «lerci, bucati, macchiati di aloni gialli e marroni», le stanze «umide e ammuffite». Gli ospiti parlano anche di «assenza totale di attività»: niente corsi di lingua, nessuna formazione, nessun percorso di inserimento. «I ragazzi passano le giornate nell’inerzia, vagando lungo la statale o seduti sulle panchine dei bar». Sul piano sanitario, il racconto è analogo: «Viene somministrato sempre e solo lo stesso farmaco, l’Oki. Nessun medico, nessun avvocato, nessuno psicologo». Il punto più inquietante riguarda la gestione interna. «Un membro della direzione, identificato come Alessandro, si atteggia a sceriffo – prosegue L’AltraMarea –. Diversi migranti ci raccontano che avrebbe mostrato una pistola per intimorire gli ospiti. In un caso, documentato da video, avrebbe addirittura aggredito fisicamente un minore». Chi protesta rischia ritorsioni. È lo stesso T. a raccontarlo: dopo aver contattato i carabinieri per denunciare le condizioni del centro, si sarebbe visto decurtare il pocket money di 25 euro al mese. «Un sopruso senza alcuna giustificazione», denuncia il collettivo. «Cambiano i padroni, ma rimane la stessa disumanità», constata il collettivo L’AltraMarea. «Ci chiediamo come sia possibile che le istituzioni non intervengano davanti a episodi tanto gravi, che riguardano anche minori. Queste persone sopravvissute a tragedie immense vengono ridotte a sgualcite banconote ambulanti, utili solo ad alimentare il business di gestori». E conclude: «Non si può continuare a ignorare che dietro ogni numero ci sono vite, ferite e speranze di rinascita». 1.  Il buio ai piedi della candela: viaggio in Sila nell’ex hotel La Fenice, tra degrado e paura, di Alessia Principe – CosenzaChannel ↩︎