“Che fatica conciliare l’inconciliabile…”. Una risposta a “Sulle care vecchie – amate – questioni”Riprendiamo da lanemesi.noblogs.org questa risposta all’articolo su
Comunismo-e-individualismo, pubblicato anche su questo sito:
Qui il testo in pdf: Conciliare
“Che fatica, conciliare l’inconciliabile…”. Una risposta al contributo “Sulle
solite vecchie – amate – questioni. A proposito di comunismo e individualismo
(con disimpegno a vista sul nichilismo)”
Che fatica, conciliare l’inconciliabile…
Recentemente è stato fatto circolare, sia su Il rovescio che su La Nemesi, un
contributo intitolato Sulle solite vecchie amate questioni. A proposito di
comunismo e individualismo
(https://ilrovescio.info/2025/10/22/sulle-solite-vecchie-amate-questioni-a-proposito-di-comunismo-e-individualismo/),
contenente alcune risposte a quattro scritti critici – di cui due riconducibili
a Juan Sorroche, prigioniero anarchico, uno ad un autore anonimo e l’altro
ancora al gruppo anarchico Panopticon – aventi per oggetto gli articoli La fase
nichilista e L‘anarchismo rivoluzionario contro la desistenza, entrambi
pubblicati sul settimo numero del giornale anarchico Vetriolo.
I quattro scritti menzionati non sono affatto sovrapponibili, né per quanto
riguarda il loro contenuto, che nell’approccio metodologico, piaccia o meno il
termine, adottato nello sviluppo delle critiche.
Poco importa che dietro alle righe che avete sotto gli occhi vi sia l’autore di
uno di questi quattro testi; anonimato sia, tanto per quello (Alcune
considerazioni critiche su “La fase nichilista“), quanto per questo. Tuttavia,
non posso fare a meno di rilevare che emmeffe, l’autore della risposta, o meglio
dell’insieme di risposte, evidentemente meno avvezzo alla scelta dell’anonimato,
ha replicato in maniera piuttosto autoreferenziale e, mi verrebbe da dire
egocentrata, al mio contributo, ignorando di fatto una serie di punti critici
ben più rilevanti, ai fini di un dibattito tra rivoluzionari, di mal
interpretate accuse di scarsa originalità nella teorizzazione della cosiddetta
fase nichilista. Piuttosto che tornarci sopra – l’autoreferenzialità è
terribilmente noiosa – trovo maggiormente interessante collegarmi solo ad alcuni
punti sviluppati nel suo scritto, al di là del loro specifico riferimento alle
critiche mosse nei quattro diversi scritti, tentando di alimentare il dibattito.
A questo scopo, può essere utile avvalersi di alcune citazioni testuali. Faccio
solo presente che nell’opuscolo Bussole impazzite
https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/09/25/bussole-impazzite-note-critiche-su-teoria-radicale-classe
coscienza-individuo-comunita-e-possibilita-di-rottura-rivoluzionaria/) – sono
state trattate alcune questioni – su cui non mi posso dilungare in questa sede –
attorno a cui si è sviluppato anche il dibattito in corso: l’individuo, la
comunità, il contenuto del comunismo e le recenti rivolte e sommosse
verificatesi in tutto il mondo.
* * *
«L’espressione «frontismo» indica la strategia messa in atto a partire dagli
anni Trenta dello scorso secolo di costituire, dinnanzi all’avanzare del
pericolo fascista e nazista, ampi fronti popolari, ovvero alleanze fra partiti,
sindacati e altri grandi organizzatori collettivi appartenenti a classi sociali
diverse. Con la strategia del frontismo, quindi, si postula che il fascismo è il
male assoluto e che contro questa maledizione la lotta di classe va messa in
secondo piano. A teorizzare e mettere in pratica il frontismo sono stati
innanzitutto partiti marxisti di varie colorazioni, stalinisti e
socialdemocratici in origine, seguiti nel dopoguerra dal frontismo straccione
del maoismo e del guevarismo che recuperava le lotte di liberazione nazionale
originariamente espressione delle borghesie dei Paesi oppressi (giusto per
ricordare all’ignorante di turno che i primi ad abbandonare la lotta di classe a
favore delle alleanze politiche siano stati i marxisti e che talune categorie
postcoloniali sono molto più staliniste-maoiste che libertarie)»
Il nostro autore la fa un po’ troppo facile. Il frontismo antifascista è
certamente una delle massime espressioni dell’assunzione ottimistica e della
partecipazione attiva a lotte sociali interclassiste. In questo senso, la
formula, abusata e raramente praticata nelle sue conseguenze pratiche,
«l’antifascismo è il peggior prodotto del fascismo», conserva integralmente la
sua validità, e non solo perché, al termine della Seconda guerra mondiale, il
fascismo ha perso militarmente e ha vinto politicamente, in quanto modo di
essere del capitalismo (e quindi dello Stato). Il fatto è che, volendo essere
onesti, la tattica del frontismo antifascista non può essere ricondotta
esclusivamente ai partiti marxisti fedeli alle direttive della Terza
Internazionale, dominata dai bolscevichi. Tra l’altro, in seno ad essa non tutti
i partiti aderirono alla tattica del fronte unico; il caso del Partito comunista
d’Italia, da poco fondato e diretto dalla cosiddetta Sinistra comunista
italiana, e dal più volte evocato – poco coerentemente essendo il nostro autore
anarchico – Amadeo Bordiga, è emblematico, ma non esaurisce le posizioni
scettiche e di netto rifiuto del frontismo, più diffuse di quanto si immagini in
campo marxista, non solo al principio degli anni 20′.
Il frontismo è un fenomeno che ha coinvolto storicamente anche gli anarchici,
molti ma non tutti, tanto in Italia, ad inizio anni Venti con gli Arditi del
popolo, tra il 1943 e il 1945 con la Resistenza partigiana, che, ancora più
evidentemente, in Spagna, e precisamente nella misura in cui il fascismo veniva
visto come il nemico numero uno da combattere. La lotta di classe e lo scontro
ultimativo rivoluzionario venivano così rimandati a democrazia restaurata. È lo
stesso autore de La fase nichilista a farcelo presente più avanti: in Spagna
alcuni anarchici accettarono addirittura dei ministeri, per non parlare poi dei
tentativi di sabotaggio degli scioperi spontanei che si produssero più volte già
durante le prime fasi della guerra civile, del maggio 1937 a Barcellona, del
discorso pronunciato da Durruti a Radio Barcelona (e riportato sul bollettino
Solidaridad Obrera, il 5 novembre 1936), in cui il leader anarchico – si
sprecano gli esempi di veri e propri capi libertari nella storia dell’anarchismo
– esortava le organizzazioni operaie a non dimenticare che il dovere principale
a cui erano chiamate era combattere il fascismo, motivo per cui dovevano
lasciare perdere «i rancori e la politica, e pensare alla guerra». Tornando al
nostro autore, non è chiaro perché l’esempio del tradimento della CNT debba
costituire un’eccezione, tale da permettere di ricondurre il tatticismo
frontista ai marxisti, deresponsabilizzando storicamente gli anarchici.
La questione conserva una certa attualità. Infatti, ancora oggi l’antifascismo
militante classico, con tutto il suo squallido corollario da politicanti –
codismo, carrozzoni, logiche racketistiche, compromessi col ”meno peggio”, ecc –
viene volentieri abbracciato da molti/e attivisti/e; a monte c’è lo stesso
principio: prima si fanno i conti col pericolo fascista sempre dietro l’angolo –
evitando di fare un bilancio di cosa sia stato il fascismo oltre allo
squadrismo, alle camicie nere, all’olio di ricino, alla brutalità repressiva,
quindi ignorando il suo più profondo contenuto, circoscritto ad una fase
capitalistica e di scontro di classe che non esiste più nella forma in cui si
pose un secolo fa – poi, ammesso e concesso che ne venga riconosciuta
l’esistenza, c’è lo scontro di classe.
Ogni fronte antifascista è fronte democratico, ogni fronte interclassista è
fronte contro l’autonomia proletaria.
«Il filone principale di queste ultime analisi, che solo impropriamente e molto
riduttivamente possiamo definire di attualità politica, è quello che ci porta ai
due scritti contro i quali hanno polemizzato i nostri ultimi interlocutori. In
occasione della prima elezione di Trump abbiamo abbozzato un’ipotesi di massima,
ancora oggi a mio avviso piuttosto buona per descrivere il presente: siamo di
fronte a una fase che definiamo «crisi della globalizzazione», la cosiddetta
ondata reazionaria che tanto spaventa i benpensanti di sinistra (Trump, Putin,
Orban, i dazi, l’irrigidimento dei mercati, il razzismo e la chiusura delle
frontiere) è espressione fenomenica di questa crisi; questa crisi è resa
possibile dalle nuove tecnologie, le quali rendono relativamente più agile la
produzione nelle economie sviluppate invertendo la dinamica creatasi durante la
lunga stagione delle delocalizzazioni (nel frattempo anche i Paesi un tempo
poveri sono diventati a capitalismo maturo, gli operai asiatici hanno cominciato
a pretendere stipendi un po’ più decenti, ecc.); una parte del capitalismo
occidentale dunque ha optato per il ritorno a casa propria degli investimenti,
dandosi degli involucri politici (come il trumpismo) che facessero delle
politiche (i dazi, per fare un esempio di recentissima attualità) atte allo
scopo, mentre la vecchia élite politica liberale è inorridita e ha chiamato alla
resistenza».
Da tempo ci troviamo di fronte ad una crisi della globalizzazione, ma bisogna
fare delle precisazioni utili non a trastullarsi il cervello con menate
accademiche, come molti attivisti ostinatamente continuano a sostenere, ma a
comprendere dove sta andando il modo di produzione capitalistico. Innanzitutto,
il processo di globalizzazione, risposta alla crisi di accumulazione emersa sul
finire della Golden Age, sin dal principio aveva fornito solo risposte parziali
e niente affatto risolutive per il precario stato di salute del capitalismo. La
globalizzazione inizialmente si configura come una vera e propria piattaforma di
rilancio dell’accumulazione mondiale sostenuta dall’imperialismo finanziario del
dollaro e dalla dilatazione della sua sfera d’influenza – resa possibile dalla
fine degli accordi di Bretton Woods – all’intero globo. Contemporaneamente, si
assiste al rapido sviluppo cinese, frutto del rapprochement sino-americano,
accompagnato da un sostanziale calo della produttività industriale negli USA e
dalla progressiva formazione di enormi bolle di capitale fittizio pronte a
scoppiare, ecc; contraddizioni che sono andate inasprendosi, nonostante gli
innumerevoli tentativi di arginarle, e che sono parzialmente deflagrate nella
grande crisi finanziaria dei titoli subprime del 2008.
Dire che la crisi in corso è resa possibile delle nuove tecnologie – una
formuletta meccanicista che un buon anarchico dovrebbe sbattere in faccia ai
suoi storici avversari, i ”socialisti scientifici” – è un’affermazione fumosa,
se non si prende in causa il fenomeno della caduta tendenziale del saggio di
profitto, quindi – essendo il capitale costretto a rivoluzionare continuamente i
propri mezzi di produzione per fronteggiare la concorrenza in termini di
produttività e costi – l’insieme di contraddizioni connesse al fenomeno della
sostituzione macchinica della forza lavoro viva, per cui, riducendo all’osso:
più capitale fisso = meno forza lavoro viva impiegata = meno estrazione di
plusvalore = popolazione eccedente crescente = quantità crescenti di merci
invendute, con tutto quello che ne consegue dal punto di vista dei mercati, del
sistema monetario, del credito, della finanza, ecc. Se poi ce ne sbattiamo
altamente dei più recenti, ormai ricorrenti e sistematici, tentativi di
decoupling selettivo tra USA e Cina, del debito mondiale e, in particolar modo,
di quello yankee; del fatto che gli stessi Stati Uniti fanno sempre più fatica,
economicamente e militarmente, a sostenere la propria posizione di sbirro
mondiale, della messa in discussione dell’egemonia del dollaro come valuta di
riferimento per gli scambi internazionali, e tante altre cosette non da poco,
allora la confusione è più che garantita. La crisi della globalizzazione non può
quindi essere ridotta all’affermazione di nuove tecnologie nella sfera della
produzione e della logistica.
Sulla spaccatura politica interna ai grandi amministratori del capitale poi ci
sarebbe molto altro da aggiungere, per esempio che il reshoring e i già citati
tentativi di disaccoppiamento delle due più grandi economie – anche considerando
la sola Cina, che non è poco, senza di essa gli USA non starebbero in piedi –
stanno dando pochi risultati. Persino Biden e ”l’élite politica liberale” hanno
dovuto raccogliere il lascito trumpiano rappresentato dall’inasprimento della
guerra commerciale contro la Cina: un processo avviato formalmente nel 2018 con
le tariffe su acciaio e alluminio, arrivate a colpire le importazioni cinesi per
370 miliardi di dollari, nonché su merci e componenti ad elevato contenuto
tecnologico. Che vogliamo dire poi della reciproca dipendenza tecnologica tra le
due potenze, che vede la Cina detenere quasi il monopolio delle terre rare,
essenziali allo sviluppo delle moderne tecnologie e dei sistemi d’arma, con
particolare riferimento all’IA – su cui si sta già giocando la partita decisiva,
in vista dello scontro aperto tra i due colossi che va preparandosi, e che per
ora è solo rimandato – e gli Stati Uniti la supremazia (ancora per quanto?) in
materia di produzione di microprocessori e software più all’avanguardia?
Insomma, il nodo delle tecnologie e delle materie prime rende evidente
l’impossibilità di un disaccoppiamento totale delle due più grandi economie
mondiali. Alle restrizioni statunitensi nell’esportazione di tecnologie avanzate
la Cina risponde con restrizioni sull’esportazione di terre rare. Per il momento
non è possibile parlare di un’inversione della globalizzazione, anche e
soprattutto perché i tre processi fondamentali che la caratterizzano: catene
globali del valore, logistica e apertura dei mercati mondiali persistono…
scricchiolano, ma persistono.
«La fase nichilista è la condizione in cui si trova la lotta di classe in questo
momento. La lotta di classe non sparisce, ma viene rimossa, essa è
inconsapevole, non cosciente, spesso derisa e maledetta, rinnegata dai suoi
stessi attori. Ma non per questo scompare. La lotta di classe, per fare un
parallelismo con la psicanalisi, viene rimossa, ma questo rimosso ritorna come
una rimozione traumatica, continua a perturbare il sonno della pace sociale.
Torna come sintomo, come nevrosi, come irrazionalismo di massa. La sua
espressione principale per anni è stata nella forma sintomatica della resistenza
di massa contro lo sviluppo scientifico»
Per un panoramica, tutt’altro che esauriente, sulle determinazioni della lotta
di classe internazionale contemporanea rimando al già citato Bussole impazzite.
Mi limito a sottolineare alcune contraddizioni individuate nel testo.
Inizialmente l’autore ci invita a diffidare delle lotte interclassiste, per poi
sostenere che la resistenza di massa contro lo sviluppo scientifico coincide con
la lotta di classe. Quest’ultima presuppone un certo grado di autonomia del polo
proletario nello scontro col capitale e, stando a quanto si è verificato
globalmente negli ultimi cinque anni durante le manifestazioni di opposizione
allo sviluppo scientifico, come per esempio le lotte contro il green-pass e
l’obbligo vaccinale anti-Covid in Europa, sarebbe del tutto falso, al di là
delle valutazioni che possono essere fatte in merito a quelle stesse lotte,
affermare che in esse la componente proletaria sia stata dominante e, men che
meno, dotata di una propria autonomia sia in termini di obiettivi, se non in
sparuti casi, che di organizzazione, ecc. Non a caso si trattava di classici
esempi di lotte interclassiste.
È vero, la lotta di classe non è mai pura, ma non la si può cercare nemmeno dove
non è effettivamente presente. Rintracciare manifestazioni delle lotta di classe
in tutto il mondo è, data l’autoevidenza di fenomeni difficilmente analizzabili
nel dettaglio in questa sede, chiaramente possibile e necessario. Tuttavia, ciò
che risulta essenziale evidenziare è che esse, oggi più che mai, sono
direttamente legate alla crisi della riproduzione del proletariato e delle
classi medie impoverite, quindi alla crisi della riproduzione del rapporto
capitale-lavoro-popolazione eccedente. Il green-pass, per alcuni settori di
proletariato europeo, come di classe media, ha costituito motivo di
mobilitazione in primo luogo perché molto frequentemente il rifiuto della
vaccinazione comportava immediate difficoltà nel mantenere un’occupazione
relativamente stabile e portare a casa un salario che consentisse di
sopravvivere in tempi di pandemia. Principi, etica, passione per la libertà,
ecc, declinati in maniera più o meno democratoide, borghese o bottegaia – non si
può negare che l’influsso ideologico delle mezze classi sia stato evidente – e
molto più raramente libertaria, sono motivazioni secondarie. Un altro modo per
dire che sotto il capitalismo, se sei un senza riserve, con le dichiarazioni di
principio non ci fai uno stracazzo di niente, non ci paghi l’affitto, la spesa,
le bollette, le rette per i tuoi figli, se puoi permetterti di averne, ecc.
Bordiga, per cui emmeffe sembra avere un’incomprensibile passione, era solito
ripetere che dai bei principi, dall’etica, dalle pure volontà individuali e
dalla loro somma non può derivare quel fenomeno di ionizzazione sociale delle
molecole proletarie, fattore necessario perché possa prodursi un violento
scontro di classe generalizzato. Per il comunista partenopeo, la rivoluzione
sociale non è un fatto tanto diverso dall’evoluzione della specie umana: prima
la pancia, poi la mano, infine il cervello; una visione che poco si adatta al
volontarismo anarchico, e che deve molto al metodo scientifico, pur essendo
assai critica della scienza e delle teorie della conoscenza proprie della
civiltà borghese. Per Bordiga l’ortodosso, non esisteva una mezza misura: il
marxismo, concezione monistica del mondo e della realtà materiale, o si
accettava in toto o non si era altro che dei ciarlatani. Inoltre, e qui concludo
la parentesi sul primo segretario del PCd’I – difensore dell’anonimato e
acerrimo nemico di quella che definiva la peste individualista, nettamente
contrapposta al comunismo, che a sua volta non ha niente a che vedere col
comunismo anarchico, non movimento reale ma ideale da realizzare, di cui parla
il nostro autore – egli nutriva un sincero disprezzo per certo anarchismo, e per
qualsiasi forma di ”proudhonismo”e idealismo. Avversario della bolscevizzazione
e critico della cosiddetta degenerazione della Terza Internazionale, era
fermamente convinto che il processo di autorganizzazione del proletariato in
soviet dovesse essere comunque subordinato all’azione del partito di classe.
Alla difesa dei meccanismi democratici opponeva la dittatura proletaria e il
centralismo organico. Emmeffe, hai voglia a parlare di anarco-bordighismo!
Tornando a noi, le lotte portate avanti tra il 2020 e il 2021 in una serie di
fabbriche e magazzini in Italia per la chiusura degli stabilimenti, la tutela
della propria salute, per imporre un’immediata diminuzione dei ritmi di lavoro e
dei rischi di contagio, più pause per uscire all’aperto e respirare senza
mascherina, ecc (cfr. AA.VV, Loco19, Colibrì), non si sono certo verificate a
causa di un diffuso, consapevole o meno, sentimento di ribellione verso la
scienza e la civiltà industriale. Se fosse stato così, la messa in questione
della società industriale, della medicina, dei dispositivi di tracciamento,
difficilmente sarebbe tornata in maniera repentina sui propri passi ad emergenza
sanitaria rientrata. Fa specie allora che il nostro autore inviti i lettori a
non cadere nel tranello che porta chi si fa eccessivamente condizionare dalle
proprie convinzioni a cercare nelle manifestazioni di opposizione sociale e
nelle lotte ciò che desidera ardentemente scorgervi.
Negli USA l’assassinio di Floyd da parte degli sbirri – con gli effetti della
pandemia che premevano duramente sul proletariato, soprattutto su quello
razzializzato, sotto attacco da decenni, uniti alla disastrosa situazione
sanitaria e sociale – ha fatto da detonatore ad un accumulo di fattori pronti a
deflagrare nello scontro diretto con lo Stato. I risultati sono noti: prolungati
disordini, sommosse, blocchi, attacchi a commissariati, stazione e mezzi di
polizia, espropri, occupazioni di aree urbane sottratte al controllo delle
autorità, saccheggi e rivolte tendenti a superare i confini etnici per acquisire
contorni chiaramente classisti. Infatti, inizialmente il movimento aveva
incontrato la solidarietà e la partecipazione attiva di consistenti fette di
proletariato bianco – deluso e arrabbiato per le disattese aspettative di
aumento dell’occupazione e reindustrializzazione delle aree depresse del Paese
promosse da Trump nel 2016 – e latinos; solo in un secondo momento, con il
recupero operato dal variegato monnezzaio post-moderno, ha acquisito tratti
identitari, democratoidi ed infine elettorali. La rabbia della popolazione
ghettizzata, delle lavoratrici e dei lavoratori essenziali, spesso occupati in
occupazioni e mansioni richiedenti livelli minimi di specializzazione, ha fatto
da catalizzatore e ha trascinato altre fette di proletariato, anche quelle con
qualche ”garanzia” in più, fino alle classi medie proletarizzate e in via di
rapida proletarizzazione. Sarebbe impossibile poi elencare e riassumere le
caratteristiche delle rivolte, definite dai media, piuttosto superficialmente
(ma che vuoi mai), della GenZ, avvenute in tutto il mondo nel 2025, figuriamoci
durante gli ultimi cinque anni. La scienza e la tecnologia però non sembrano
essere stati affatto al centro di tutti questi episodi. Toccherà forse tirare
fuori l’inconscio freudiano?
«La fase nichilista di cui parliamo noi avviene in un contesto storico nel quale
il dibattito pubblico è scisso fra la corrente sovranista e quella liberista del
capitale, e oltretutto dove la scienza ha fatto passi giganteschi in termini di
espulsione di forza lavoro, di controllo, di rimbecillimento. Il nostro anonimo
interlocutore continua a ripetere che in quel che accade non c’è nessuna svolta,
«ma è frutto di quella ristrutturazione permanente […] iniziata negli anni
Settanta»; mi sembra una puntualizzazione sterile, perché di ogni fenomeno
storico è dimostrabile la provenienza da un altro fenomeno storico del passato
(peraltro contiene almeno un equivoco, dato che il compagno parla di
«delocalizzazioni» mentre la fase nichilista di cui parliamo noi inizia appunto
con la crisi della globalizzazione). Eppure negli anni Settanta – per favore
compagni non prendiamoci per i fondelli – per quanto vi raccontavate di essere
brutti, sporchi e cattivi, vi era comunque una geografia politica dentro la
quale il partito comunista era meno peggio della democrazia cristiana e la
democrazia cristiana era meno peggio dei neofascisti. Nella fase nichilista,
viceversa, non esistono più i partiti riformisti di classe».
Partendo da una brevissima sintesi dello stato attuale della globalizzazione, si
è visto come essa abbia subito un rallentamento, di cui le politiche
protezioniste, il ristagno degli accordi commerciali multilaterali, la
restrizione degli investimenti diretti esteri a livello produttivo rappresentano
solo alcune manifestazioni. Il contesto storico presente non è fondamentalmente
caratterizzato dallo scontro politico tra sovranismo e liberismo, come sostiene
il nostro autore. Tale contrapposizione, al massimo, è riflesso delle
contraddizioni, brevemente presentate sopra e realmente centrali, di un modo di
produzione capitalistico che, in alcune aree del pianeta più di altre,
soprattutto in Occidente, versa in condizioni particolarmente difficili; tali da
far pensare, nel medio-lungo termine, ad una disarticolazione parziale
dell’attuale assetto geoeconomico e ad un’inevitabile riarticolazione del
capitalismo mondiale. Il termine disarticolazione richiama senza dubbio
l’emersione di fenomeni come le guerre commerciali e guerreggiate, simmetriche o
meno, ma anche sconquassi sociali generalizzati, ovvero una ripresa della lotta
di classe a varie latitudini passibile di sfuggire al controllo degli stati e
delle classi dominanti. Bisogna però tenere presente che la globalizzazione non
è una politica che si possa scegliere di abbracciare o abbandonare
volontaristicamente – quelle che l’autore chiama élite sovraniste e liberali, i
singoli amministratori del capitale, non dispongono delle forze per incidere
politicamente su processi globali altamente complessi, sedimentati e ramificati
– ma uno stadio del mercato mondiale come unità di produzione e circolazione di
merci. Questo stadio, si è cercato di mostrarlo in poche righe, se certamente ha
generato contraddizioni gigantesche tendenti a metterlo in questione nella sua
totalità, non ha esaurito tutte le sue carte. Lo scontro politico tra élite di
cui parla l’autore non va quindi assolutizzato.
Le delocalizzazioni, contrariamente a quanto viene affermato in questo passaggio
del testo, non sono affatto venute meno; anzi la tendenza degli ultimi decenni è
riassumibile in un ulteriore processo di concentrazione e differenziazione di
gerarchie e funzioni all’interno delle catene globali del valore, con paesi
basati sull’esportazione di materie prime, paesi manifatturieri con larga
disponibilità di forza lavoro a basso costo, paesi a manifattura avanzata, ma
estremamente settorializzata e, infine, paesi caratterizzati da attività
economica volta allo sviluppo di tecnologie e servizi all’avanguardia e ad alto
contenuto tecnologico, perciò al vertice della gerarchia, ma comunque dipendenti
dalle altre economie su più piani. Dunque, Emmeffe dà la globalizzazione per
spacciata troppo presto.
Per quanto riguarda la sua parentesi sugli anni Settanta, beh, non so di chi
stia parlando, sono nato a PCI definitivamente morto da qualche anno. Ma
l’anagrafe è noiosa tanto quanto l’autoreferenzialità, meglio concludere.
«Quando dico che bisogna prestare attenzione ai movimenti populisti, se mi si
consente un parallelismo storico tanto forzato quanto grandioso, io intendo che
dovremmo spingere l’attuale populismo verso i suoi fallimenti, per aiutare la
nascita di un nuovo movimento nichilista, prodromo del socialismo rivoluzionario
del ventunesimo secolo. Sempre mia nonna diceva che il pane si fa con la farina
che si ha, se vogliamo rivoluzionare la realtà dobbiamo partire, appunto, dalla
realtà. In questo momento il populismo/nichilismo è l’espressione irrazionale e
non cosciente (ovvero, incosciente!) della lotta di classe. L’unico modo in cui
essa si esprime a livello di massa in Occidente»
L’autore vorrebbe far risorgere un cadavere, quello del nichilismo russo della
seconda metà dell’Ottocento, putrescente tanto quanto lo zarismo. Non è
possibile sorvolare sul parallelismo con la situazione di un impero alla cui
morte convivevano ancora almeno tre modi di produzione: feudale, asiatico e
capitalistico, oltre a vestige di antichissimo comunismo, rilevabili nella
comunità di villaggio o Obscina. La lotta di classe è una dinamica, invarianza
storica all’interno delle società di classe, non una ricetta, una formula o un
modello organizzativo trasponibile a piacimento, al di fuori del tempo e dello
spazio, sulla base dei gusti personali, delle aspettative e dei principi etici.
Le forme della lotta classe, le modalità di autorganizzazione degli sfruttati
mutano perché è il modo di produzione a trasformarsi nel tempo e la classe dei
senza riserve a scomporsi e ricomporsi in funzione di quelle. In questo senso,
ciò che più conta è la spontaneità del proletariato: l’unica forza capace di
dare corpo agli organismi dell’autonomia proletaria. La teoria rivoluzionaria ha
il dovere di sintonizzarsi con questa spontaneità, laddove e quando emerga,
senza illudersi di sostituirsi ad essa, pensando di bruciare tappe che non
possono essere bruciate da individui singoli o gruppi, imboccando presunte
scorciatoie che portano solo all’autoreferenzialità, all’autocompiacimento e
all’autocelebrazione delle proprie gesta militanti, che si fa beffa della
vigliaccheria e dell’attendismo degli schiavi sonnolenti. Che tale
sintonizzazione sia finalizzata a prendere il controllo del movimento
rivoluzionario onde dirigerlo, piuttosto che assecondarne l’autonoma spinta
verso la trasformazione dei rapporti sociali che incatenano l’umanità intera è
altra faccenda da affrontare necessariamente, quella dell’organizzazione
rivoluzionaria.