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Somayeh Rostampour: «Internazionalismo è ascoltare l’eco delle proprie lotte nelle lotte altrui»
Somayeh Rostampour è una militante curda iraniana, impegnata nella lotta curda e nel femminismo rivoluzionario. Fa parte di Roja, un collettivo femminista internazionalista indipendente e diasporico, costituito a seguito dell’assassinio di Jina (Mahsa) Amini e del movimento «Jin, Jiyan, Azadî» («Donna, Vita, Libertà») in Iran nel settembre 2022. Dall’implicazione politica appassionata, Somayeh ha scritto Femmes en armes, savoirs en révolte. Du Militantisme Kurde à la Jineolojî [Donne in armi, saperi in rivolta. Dal militantismo curdo alla Jinealogia], pubblicato da Éditions Agone nel 2025. Si prende così sul serio il lavoro teorico quanto il paziente lavoro di collegamento con cui ella contribuisce a un internazionalismo dal basso in alleanza con il collettivo Los Pueblos Quieren. Nel giugno 2025, abbiamo potuto conversare a lungo con lei a Parigi, dove vive in esilio dal 2016. L’impegno teorico radicale e il desiderio urgente di cambiare tutto si sono intrecciati con l’ospitalità e il cibo, l’umiltà e l’umorismo, in un’intervista di quasi quattro ore di cui pubblichiamo una versione editata. Verónica Gago e Marta Malo: Vogliamo cominciare chiedendo come stai leggendo la congiuntura attuale, a partire dal genocidio a Gaza, e che ogni giorno impegna nuovi fronti bellici, come con i recenti attacchi di Israele e Stati Uniti contro l’Iran. Per il momento, risulta molto difficile da un punto di vista femminista anti-imperialista capire e seguire ciò che sta succedendo. Ci piacerebbe che ci spiegassi cosa significa la posizione “campista” (che divide tutto lo scenario geopolitico in unicamente due campi e posizioni possibili) con la quale vi confrontate. Ora che, con molteplici regimi di guerra simultaneamente, sentiamo tutti questi dibattiti come più urgenti, ma i loro termini cambiano ogni giorno. Somayeh Rostampour: La nostra lettura si costruisce a partire da due punti: il punto di vista femminista e l’esperienza della rivoluzione in Iran nel 1979, che fu una rivoluzione anti-imperialista, un esempio molto importante per molti intellettuali e militanti, da Foucault a Sartre. Fu una rivoluzione contro lo Shah, ma poiché lo Shah era una figura affine agli Stati Uniti, fu anche una rivoluzione contro l’imperialismo, contro la politica e i valori occidentali imposti, il cui spirito risale al colpo di stato orchestrato dagli Stati Uniti due decenni prima contro Mohammad Mosaddeq. Tra i curdi, c’è una coscienza antiimperialista molto chiara collegata alla spartizione del Kurdistan tra Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna dopo la Prima Guerra Mondiale. Ma la rivoluzione anti-imperialista in Iran ebbe conseguenze tragiche per molte persone, in particolare per le donne e per le minoranze nazionali che vivono in Iran (anche baluchi, arabi, ecc.) a partire da un’interpretazione oppressiva dei valori persiani e islamici, come simbolo di resistenza contro i valori occidentali. Nella mia esperienza come curda, la memoria collettiva della rivoluzione in Iran è inseparabile dalla jihad di Khomeini contro il Kurdistan, appena pochi mesi dopo la rivoluzione. E nella mia esperienza come donna, è legata a ciò che alcune femministe chiamano apartheid di genere: uno Stato e una società ipermaschilisti, che ci pongono in disuguaglianza ovunque, nell’educazione, nel lavoro, davanti alla legge, nello spazio politico o pubblico. Per noi, Stati Uniti, Israele, Europa sono imperialisti, non abbiamo alcun dubbio al riguardo. Ma la domanda è se non siano imperialisti anche altri paesi come Cina e Russia, che stanno aiutando Iran, Siria e tutti questi paesi postcoloniali, costruiti all’inizio del XX secolo, molto diversi dalle socialdemocrazie occidentali. La mia riflessione punta anche alla costruzione degli Stati-nazione, dove il nazionalismo e le identità nazionali hanno un peso molto importante e sono uno strumento di cancellazione delle minoranze. Nel caso dell’Iran, la nazione si collega all’identità persiana, con riferimenti glorificanti a una presunta età dell’oro dell’Impero persiano, quando il 40% della popolazione dell’Iran non è persiana. Dopo la rivoluzione, a questo racconto nazionalista si aggiunse uno strato islamista. In entrambe le ottiche, i curdi e altre minoranze sono completamente assenti, come se non esistessero. Nel caso delle donne, in paesi come Turchia, Egitto o Iran negli anni Sessanta, il racconto nazionalista era più ambivalente, perché includeva un femminismo liberale, con quell’idea occidentalista della donna istruita, che è anche madre della nazione. Ma in Iran, con la Repubblica costituita dalla rivoluzione, la donna cessò di esistere. Quando parliamo della fascistizzazione della società, la prima cosa che visualizzo è questa violenza prodotta in questi regimi postcoloniali, che sono sostenuti dall’Occidente o da altre potenze che sono anch’esse imperialistiche, come Russia o Cina, o dalla stessa Repubblica dell’Iran. Non bisogna dimenticare l’intervento dell’Iran in Siria, nello Yemen, ecc., per non vederlo solo come una vittima dell’imperialismo. In particolare ora che l’immagine di vittima si intensifica con l’attacco di Israele e Stati Uniti. L’Iran ha partecipato a massacri, a crimini in molti paesi. Per i curdi tutto ciò è molto chiaro. Durante i primi dieci anni della costruzione della Repubblica dell’Iran, ci fu molta violenza, molti prigionieri politici, è una storia molto conosciuta, ma c’è un’altra violenza continua, che si è mantenuta fino a oggi, di cui si parla meno. Per noi, questa fascistizzazione è collegata alla violenza dello Stato, quindi non possiamo separare la violenza statale dal nostro analisi anti-imperialistica. Dal nostro esilio, come diaspora, cerchiamo di cambiare il racconto in cui ci sono solo due campi contrapposti e bisogna schierarsi da una parte o dall’altra. Dal nostro punto di vista, non c’è solo la violenza imperialistica di Stati Uniti e Israele, innegabile, ma anche di altri imperi che intervengono nella regione, come Cina e Russia, o di Stati come Iran o Turchia, che sono espansionisti o semi-imperialisti. Possiamo definire la loro posizione come vogliamo, ma l’importante è che, pur essendo vittime di grandi imperialismi nella storia, partecipano anch’essi e contribuiscono a una dinamica globale imperiale e ella loro competizione per ritagliarsi un posto nell’ordine globale, opprimono altre popolazioni nella loro regione, rubando territori e compiendo pulizie etniche. Senza l’intervento dell’Iran in Siria, Assad sarebbe caduto con la Primavera araba. La conseguenza di questo aiuto fu lo spostamento di migliaia di persone e l’uccisione tragica di altre migliaia. Questo impulso espansionistico è accompagnato dalla violenza dello Stato contro i propri cittadini e dalla militarizzazione dei confini del paese, in particolare dei confini curdi. Quando ora parlo con compagne curde, quasi tutte mi dicono: «Siamo in stato di guerra da quaranta anni, non è qualcosa di nuovo». La vita quotidiana sotto il regime della Repubblica dell’Iran è stata segnata da questa militarizzazione. Per chi è cresciuto in questa cultura politica, è ridicolo dire che il nemico sono solo gli Stati Uniti e che la Repubblica dell’Iran sia solo una vittima. Come parte della diaspora, era fondamentale spiegare questo. L’Iran è stato molto isolato e la resistenza ha poche risorse, la maggior parte dei materiali non è tradotta, ecc. Io stessa non ho abbastanza informazioni su molti paesi africani, quindi cerco compagne fidate che possano informarmi. Per questo stiamo cercando di costruire reti, per avere un discorso internazionalista radicato nei territori. Ma le persone con posizioni più campiste nemmeno ci interrogano: hanno già l’analisi fatta e non vogliono che mettiamo in discussione il loro discorso. L’anti-imperialismo campista, che ammette solo una dualità di aggressore e aggredito, a volte serve a sciacquare regimi profondamente autoritari: è una specie di antiimperialist-washing che funziona come il pink o il green-washing, come operazione politica e cognitiva che appiattisce la nostra lettura degli ordini geopolitici. Questo antiimperialist-washing ha contribuito a ricostruire la legittimità internazionale che la Repubblica Islamica aveva perso con la sollevazione nazionale del 2022 e la ribellione di Jina, in particolare tra la sinistra e i femminismi. Agisce cioè in direzione contraria a tutti gli sforzi dei/lle combattenti all’interno del paese. Le donne in Iran hanno un trauma legato a questo. L’8 marzo successivo all’instaurazione della Repubblica dell’Iran, fu convocata una grande mobilitazione contro l’obbligo dell’hijab. Migliaia di donne scesero in strada a Teheran e in molte città del Kurdistan. Molte organizzazioni di sinistra non solo rifiutarono di unirsi alla manifestazione, ma attaccarono le donne che avevano convocato la manifestazione, dicendo che non si poteva mettere in discussione in quel modo una rivoluzione anti-imperialistica. Alcune delle figure più visibili del movimento femminista in Iran di quel periodo registrarono video dichiarando che erano disposte ad accettare l’hijab come simbolo di identità e resistenza contro l’imperialismo. Lo difendevano come un prezzo da pagare per la rivoluzione. Ora ci rendiamo conto che fu un grande errore, che non vogliamo ripetere. Nessuna rivoluzione può chiedere di accettare la propria oppressione. VG/MM: Quali sono oggi le posizioni dei femminismi rispetto a queste dinamiche? SR: Tra le femministe di sinistra, penso ci siano tre posizioni differenti. Non parlo delle femministe liberali, perché la maggior parte è pro-occidentale, applaude l’imperialismo e la guerra alimentando l’islamofobia. Penso, ad esempio, a Masih Alinejad, che la Repubblica dell’Iran ha cercato di uccidere, vive negli Stati Uniti ed è invitata costantemente dai media europei, con un discorso che nemmeno menziona il genocidio in Palestina, che crede nella guerra per portare la democrazia in Medio Oriente, ecc. Ridicolo. Queste figure non ci rappresentano affatto. Come femministe di sinistra sappiamo che non possiamo ignorare il potere militare di Israele, sostenuto da quasi tutti i paesi, e le dinamiche della regione, dove gli Stati Uniti possono attaccare dove e quando vogliono. Non possiamo nemmeno ignorare l’effetto delle sanzioni, che non colpiscono il governo o l’oligarchia iraniana, che si è arricchita, ma la popolazione che vive nel paese. Tenendo conto di questa dinamica e, in particolare, del genocidio in Palestina, alcune compagne pensano che ora non sia il momento di parlare della violenza della Repubblica dell’Iran o del colonialismo interno subito dai curdi, per esempio per l’asimmetria di potere tra Israele e Repubblica dell’Iran. C’è un’altra posizione, sempre di sinistra, molto centrata sulla Repubblica dell’Iran, che dice: «Siamo contro il genocidio, riconosciamo il potere coloniale di Israele, ma la nostra prima causa, il nostro primo nemico, è la Repubblica dell’Iran, perché è ciò che affrontiamo nella vita quotidiana, la repressione e la violenza della Repubblica dell’Iran». Questa posizione non è solo di persone politicizzate di sinistra, ma è la più comune tra chi non è molto politicizzato. Noi sosteniamo una terza posizione, che intreccia la dinamica globale, la denuncia del genocidio a Gaza, con la militarizzazione regionale, dove l’Iran ha un ruolo, perché questa militarizzazione serve anche a mantenere la dittatura. Abbiamo memoria dell’alto prezzo pagato per aver trascurato la questione curda e quella delle donne nella rivoluzione anti-mperialistica in Iran. Non possiamo ignorare o dimenticare le migliaia di persone uccise nelle carceri nei primi dieci anni della costruzione rivoluzionaria. Molte erano donne marxiste: più di duemila furono assassinate in prigione senza processo, con torture severe. Non possiamo nemmeno dimenticare la jihad di Khomeini contro i valori curdi e delle minoranze in generale, che continua da 40 anni. Non possiamo dimenticare ciò che viviamo ogni giorno come iraniane nella Repubblica dell’Iran, come donne, persone queer, curde, ecc. Non possiamo rimandare tutto questo finché la Palestina non sarà liberata o la guerra non sarà finita. A dire il vero, pensiamo che sia il contrario: dopo la guerra, tutte queste persone saranno il primo obiettivo del regime e questa è la realtà che viviamo la maggior parte del tempo. Così è stato ora: il giorno dopo il cessate il fuoco tra Israele e Iran, in Iran sono state giustiziate tre persone afghane, accusate di lavorare per il nemico, senza processo o prove. Poi furono giustiziati tre portatori curdi. Quindi, quando scendiamo in strada, chiediamo il cessate il fuoco, denunciamo Stati Uniti e Israele, ma denunciamo anche l’oppressione della Repubblica dell’Iran e nominiamo questi arresti ed esecuzioni arbitrarie, che aumentano in momenti di maggiore militarizzazione. Siamo contro la guerra, ma anche per l’autodeterminazione dei popoli e contro i confini imposti colonialmente dal regime iraniano. VG/MM: Questo mi ricorda la guerra delle Malvinas, che permise alla dittatura argentina di mobilitare e manipolare un sentimento anti-imperialistico, nazionalista, contro l’Inghilterra, mentre continuava la repressione contro i militanti rivoluzionari e gestiva campi di concentramento. L’idea di combattere contro l’Inghilterra e il suo potere coloniale cercava di “legittimare” le proprie azioni all’interno del paese, e allo stesso tempo fu una strage di giovani soldati, sottoposti a condizioni proprie della dittatura sul campo di battaglia. Come vedi il legame tra la mobilitazione nazionalista in Iran e questo tipo di strumentalizzazione del nazionalismo in altri contesti, specialmente considerando il movimento «Jin, Jiyan, Azadî» e la partecipazione della diaspora? SR: All’interno della popolazione curda esiste anche una lotta per l’autodeterminazione territoriale che la Repubblica Islamica dell’Iran ha cercato di presentare come retrograda, separatista, terroristica, contrapponendo il nazionalismo iraniano, supposto rivoluzionario, a un presunto nazionalismo curdo arretrato. Ma nel 2022, con il movimento «Jin, Jiyan, Azadî», si verificò una svolta. Per la prima volta in 100 anni si creava un’unità popolare contro il regime. Per esempio, a Teheran si cantava: «Il Kurdistan è la luce e gli occhi dell’Iran». Ci furono molti slogan in turco per i curdi e slogan curdi per i turchi. Fu molto bello. Ho scritto un articolo sul perché il Kurdistan fosse stato il centro del movimento «Jin, Jiyan, Azadî» nel 2022: senza il Kurdistan, senza la sua memoria politica, senza le sue reti organizzative, un movimento del genere in Iran non sarebbe stato possibile. Purtroppo, a partire dalla guerra dei dodici giorni, siamo di nuovo in piena reazione, con molto nazionalismo anti-curdo. VG/MM. La tua lettura della situazione è costituita dalla tua stessa condizione di diasporica. Insieme a Los Pueblos Quieren, hai concettualizzato l’esperienza diasporica come base di un nuovo internazionalismo. Puoi sviluppare questa idea e raccontarci il tuo percorso? SR. Io sono stata in esilio, sono tornata in Iran e poi non mi è più stato possibile rientrare. Non torno dal 2016. Quando ti sposti, le tue esperienze rivoluzionarie viaggiano con te e c’è la sfida di come mantenerle vive ovunque tu arrivi, ma anche la questione di come impegnarti nel nuovo luogo, nel mio caso la Francia, un paese coloniale e profondamente razzista, in cui voglio impegnarmi e lottare. In questo senso, credo che l’esperienza come femminista curda iraniana mi abbia aiutata molto, perché sono sempre stata costretta a essere un po’ “polipo” per unire diverse lotte, cosa che tocca fare in esilio e in immigrazione. Ovviamente è difficile, perché quando arrivi in un paese come questo sei solo una lavoratrice, affronti molti problemi amministrativi e sei vittima del razzismo strutturale, non solo del razzismo quotidiano. Vivi un declassamento sociale e improvvisamente non c’è spazio per politica e militanza. Devi inoltre imparare un sacco di nuovi codici per integrarti, senza le risorse individuali e collettive che avevi nel tuo paese. È vero che gli scoppi rivoluzionari nei nostri paesi cambiano anche la situazione nella diaspora, e così è stato con il movimento «Jin, Jiyan, Azadî», che ha preso piede in tutta la diaspora iraniana. Mi ha dato l’opportunità di incontrare persone che avevano vissuto il 1979 iraniano e che fanno parte di un’altra tradizione rivoluzionaria che in Iran è stata sterminata: non le incontri nel paese, perché tutti sono morti o si sono zittiti per sempre dopo la prigionia e la tortura. Il mio stesso esilio e la nuova rivolta mi hanno permesso di conoscere chi allora riuscì a fuggire e di accedere attraverso di loro a un racconto completamente nuovo di quanto accadde in Iran nel ’79. Ricordo un giorno, tornando dalla biblioteca, che scoprii una libreria con libri in persiano e francese. Entrai e incontrai l’uomo che la gestiva, che aveva vissuto la rivoluzione in Iran. Cominciai ad andarci tre o quattro volte a settimana, a prendere il tè con lui e a conversare. Grazie a lui scoprii un altro mondo, un’altra storia dell’Iran. Scoprii, ad esempio, il ruolo della Confederazione degli Studenti dell’Iran nella lotta contro lo Shah, come organizzarono l’intera diaspora iraniana per rovesciare la monarchia. Tutti tornarono in Iran alla caduta dello Shah, ma della loro memoria non resta nulla. Il regime di Khomeini non solo uccise persone, ma anche i racconti e tutti i portatori dell’aspirazione rivoluzionaria di sinistra. La diaspora mi ha anche permesso di conoscere e parlare con siriani che avevano partecipato al movimento contro Assad; di capire il ruolo dell’intervento iraniano nel soffocare la rivolta, non solo intellettualmente, ma anche costruendo insieme un racconto alternativo dei movimenti nella nostra regione, basato sui riflessi tra un contesto e l’altro e sullo sforzo di mantenere vive tutte le nostre aspirazioni. La seconda ondata della primavera araba, quella dopo il 2018-2019, con rivolgimenti dal Sudan al Libano, dall’Iraq all’Iran, segna un punto di svolta che ci permette di intensificare le conversazioni. E, a partire dal 2022 e dal movimento «Jin, Jiyan, Azadî», si verifica tutta l’unità di cui vi parlavo anche nella diaspora iraniana. Tuttavia, a partire dal 7 ottobre, la divisione è tornata a sostituire la solidarietà, perché l’Iran sta strumentalizzando la questione palestinese. L’ha trasformata in una questione del regime e già dal primo anno di scuola i bambini sono obbligati a partecipare alle manifestazioni per la Palestina. È un rituale nazionale. Lo stesso accadeva nella Siria di Assad. Molte persone applicano la logica del “il nemico del mio nemico è mio amico”, per cui chi è contro il regime oppressivo iraniano, che è la maggioranza della popolazione del paese, è riluttante a sostenere la causa palestinese. Per noi, come persone di sinistra che sostengono la Palestina ma che sono anche contro il regime iraniano, la posizione è molto difficile. Abbiamo messo grande impegno nel costruire narrazioni e pratiche autonome, che permettessero di dare senso a entrambe le posizioni insieme e di contribuire al dibattito traducendo e favorendo una circolazione reciproca. Ma è vero che le cose si sono complicate dal 7 ottobre. Come diaspora, abbiamo una posizione vulnerabile, subiamo razzismo quotidiano e istituzionale e non siamo sufficientemente organizzate, quindi è stato facile dividerci. Ho la sensazione che viviamo due guerre: una guerra estesa, imposta sui nostri territori da Stati Uniti e Israele, e un’altra guerra tra di noi. I cambiamenti geopolitici sono così rapidi che non riusciamo a seguirli alla velocità con cui accadono. Ti senti sotto pressione costante, esausta di lottare ovunque: contro la Repubblica Islamica come femminista e curda, contro il razzismo, l’islamofobia e le narrative coloniali sui paesi musulmani qui in Europa come immigrata ed esiliata, per la Palestina e per la liberazione delle donne e del popolo curdo come persona internazionalista e di sinistra, ecc. E allo stesso tempo, la confusione: rendersi conto che la nostra lotta viene strumentalizzata, che Trump, ad esempio, ha approfittato della gioia per la caduta della dittatura in Siria dopo l’uscita di Assad; che Israele, con il supporto degli Stati Uniti, beneficia della repressione storica delle minoranze nazionali ed etniche nella regione; che alcune femministe islamofobe (spesso con inclinazioni coloniali e imperialiste) si sono appropriate delle lotte pionieristiche e radicali delle donne curde in Rojava o delle donne in Iran, mettendole al servizio di narrazioni eurocentriche, islamofobe, orientaliste e talvolta belliciste; e persino quelle che nel 2022 hanno difeso con forza il movimento «Jin, Jiyan, Azadî», oggi tacciono di fronte agli attacchi di Israele contro le stesse donne in Iran, perché condannare Israele significherebbe esprimere solidarietà alla Palestina, e non possono o non vogliono posizionarsi contro il genocidio in corso contro il popolo palestinese. VG/MM. Quali sarebbero le chiavi o gli strumenti fondamentali per produrre queste narrazioni e pratiche autonome che, al tempo stesso, sono impegnate e posizionate in lotte concrete ma non sempre note o facili da conoscere? SR. L’esperienza diasporica è senza dubbio una chiave, perché da qui è più facile capire come si articolano capitalismo, colonialismo e razzismo proveniente dagli Stati-nazione. Allo stesso tempo, arrivi con il bagaglio del tuo paese: hai vissuto sotto una dittatura, sotto leggi islamiche, in società patriarcali come tutte e porti con te una memoria politica. Il crocevia di tutto questo ti permette di ricostruire un nuovo mosaico della tua esperienza e, allo stesso tempo, di avere una visione più globale e inclusiva. Amiche femministe iraniane ci chiedevano: «Perché vi preoccupa tanto l’islamofobia? Noi viviamo sotto le leggi islamiche e ne siamo stanche». Capisco la loro posizione, ma dall’Europa la prospettiva è diversa: veniamo identificate come immigrate provenienti da paesi musulmani e poco importa se la mia interpretazione dell’Islam è diversa o se non sono praticante. Sono due facce della stessa medaglia: in Iran siamo obbligate a portare il velo, qui in Francia siamo obbligate a scoprirci. Questo sarebbe un primo strumento: il confronto di prospettive, che si arricchisce anche con la possibilità di incontrare movimenti femministi, queer, trans e altre diaspore. Abbiamo già parlato dell’incontro con le compagne siriane. Un altro incontro molto ispiratore per me è stato con le compagne sudanesi. Credo che, dopo Rojava, sia stata la rivoluzione che più mi ha ispirato. Non si tratta solo di incontrarsi e imparare da altre esperienze, ma anche di costruire fiducia reciproca, ascoltare l’eco delle proprie lotte nelle lotte altrui, constatare che non siamo una minoranza, che siamo molte a vivere eventi rivoluzionari, a essere femministe, a essere contro la dittatura nei nostri paesi, ma anche contro Stati Uniti e Israele. Da lì nasce uno sforzo cosciente di convocarsi e costruire insieme, nonostante le poche risorse disponibili. Così ci siamo incontrate con compagne di Algeria, Palestina, Afghanistan… Nella diaspora comprendiamo meglio anche le dinamiche di riappropriazione delle nostre narrazioni. Ad esempio, ci sono stati due momenti cruciali in cui la narrativa femminista rivoluzionaria di Rojava è stata strumentalizzata dal femminismo liberale, imperiale e coloniale. Il primo nel 2014-2015, quando le combattenti curde di Rojava combattevano contro l’ISIS. Il movimento curdo è stato presentato come puramente militare, ignorando che si tratta di un’organizzazione rivoluzionaria con milioni di persone e dimensioni sociali e politiche molto più rilevanti di quelle militari. Inoltre, la lotta delle donne curde per la sopravvivenza, contro l’ISIS e contro le forze di Assad, è stata utilizzata per alimentare narrazioni islamofobe, come se fossero le uniche donne liberate della regione. Il coraggio delle donne curde si costruiva casa per casa, strada per strada, dalle prigioni alle montagne, attraverso un’attivismo femminista della vita quotidiana, non elitario, molto politicizzato e al contempo popolare. Vedere tutto questo strumentalizzato per alimentare islamofobia e giustificare interventi di potenze coloniali in Medio Oriente è stato orribile. Il secondo momento di strumentalizzazione è stato nel 2022, con «Jin, Jiyan, Azadî», un movimento femminista rivoluzionario. Lo slogan, proveniente dal movimento curdo, ha un chiaro contenuto anti-imperialistico e anti-coloniale. Noi lo portavamo alle manifestazioni a Parigi dal 2014, anche se molte delle mie compagne femministe iraniane lo hanno sentito per la prima volta nel 2022, a causa della distanza tra curde e altre iraniane. La narrativa curda fino al 2022 era periferica, non aveva spazio nella narrativa femminista generale in Iran. È difficile portare proposte politiche periferiche al centro; di solito accade il contrario: le proposte arrivano dal centro e noi ci limitiamo a consumarle. L’autonomia significa anche rompere questa dinamica di consumo e produrre la propria narrativa. Allora, a partire dal 2022, lo slogan «Jin, Jiyan, Azadî» trova un suo spazio, nel paese e ovunque, e mantiene quel potenziale femminista e rivoluzionario. Ma, per la seconda volta, assistiamo alla sua strumentalizzazione qui in Europa. Donne liberali a cui non importa nulla della vita di nessuna donna nei paesi musulmani, che non si erano mai preoccupate delle nostre lotte o dei nostri problemi, all’improvviso si interessano perché vedono la questione dell’hijab al centro. Ma il movimento del 2022 non riguardava solo l’hijab: era un movimento intersezionale contro un intero sistema. Queste persone “solidarizzano” con il nostro movimento perché è utile a legittimare la loro islamofobia e attaccare le donne musulmane che vivono in Europa, umiliandole per il loro hijab, e ora sostengono o restano silenziose davanti al genocidio di Israele contro la Palestina. C’è una televisione persiana con sede nel Regno Unito, molto seguita nelle case in Iran. È un canale molto reazionario, filo-israeliano. Bene: giornaliste di questo canale sono andate a Gaza e hanno scritto sulle rovine «Mujer, Vida, Libertad». È stato terribile. Queste sono cose che forse, se vivi in Iran o Siria, non noti con tanta chiarezza, perché non subisci il razzismo come lo viviamo qui, sei immersa nella tua lotta, nella tua causa, nella tua sopravvivenza. Nella diaspora tutto questo si chiarisce. Vedi che la strumentalizzazione delle nostre lotte non ha nulla a che fare con la solidarietà, ma è piuttosto un altro tipo di estrattivismo: fanno estrattivismo delle nostre lotte come fanno estrattivismo delle nostre terre, rubano e svuotano i nostri slogan nello stesso modo in cui rubano e svuotano i pozzi di petrolio. Questo, naturalmente, non deve portarci ad abbandonare le nostre lotte e i nostri slogan, perché sarebbe cedere alla controrivoluzione in corso. Come diaspora resistiamo a questa banalizzazione dei nostri discorsi, restiamo femministe e queer, combattiamo per ricaricare i nostri slogan di tutto il loro significato. Sono slogan pieni di storia e memoria rivoluzionaria, che ci hanno richiesto decenni per costruire insieme: non possiamo buttarli via così, sarebbe cedere al saccheggio. Ma l’appropriazione occidentale dei movimenti radicali del Sud Globale costringe quegli stessi popoli a lottare anche per dimostrare la legittimità delle loro lotte. Nel caso di «Jin, Jiyan, Azadî», dopo gli usi strumentali, la legittimità del movimento si è indebolita tra le correnti di sinistra e decoloniali esterne e oggi il suo recupero non è solo una necessità urgente, ma richiede da parte nostra uno sforzo raddoppiato. VG/MM. Parlaci un po’ di più della genealogia dello slogan “Donna, Vita, Libertà”. SR. La storia risale al movimento politico curdo creato nel 1978 in Turchia. I Curdi rappresentano circa il 20% della popolazione turca, ma per anni sono stati chiamati “turchi delle montagne”, negando la loro esistenza e identità. La prima donna a entrare nel Parlamento turco fu Leyla Zana, una donna curda condannata a dieci anni di carcere per aver invocato l’unità tra Curdi e Turchi in Parlamento, parlandone in curdo. La sua storia è molto interessante. Suo marito era coinvolto nel PKK ed è stato incarcerato, così lei si è trovata sola con i figli, molto giovane, quasi senza istruzione, senza parlare né scrivere turco, dovendo occuparsi della difesa del marito, delle visite in carcere, ecc. Lì, davanti alle porte del carcere, incontrò altre donne curde e poco a poco iniziò a politicizzarsi, fino a diventare la prima donna parlamentare nella storia del movimento curdo. Questo è il nucleo del movimento curdo: molto popolare e per lo più contadino. Il PKK era marxista fino al 1995, quando, con il crollo dell’Unione Sovietica e della situazione globale, cambiò paradigma e discorsi, orientandosi verso un comunalismo con tre basi principali: donne, ecologia, beni comuni. «Jin, Jiyan, Azadî» nasce in questo contesto, come slogan contro il femminicidio all’interno del movimento curdo e non parla solo di violenza contro le donne da parte dei partner o di altri uomini, ma anche della violenza statale contro le donne curde e contro la vita in generale. C’è inoltre una particolarità del movimento delle donne curde. In molte rivoluzioni ci sono state donne combattenti, ma ci sono pochissimi movimenti in cui la causa rivoluzionaria e quella delle donne vanno insieme. Nella maggior parte delle rivoluzioni storiche si dice che la lotta femminista deve aspettare, perché la contraddizione principale è un’altra. Ma “dopo” significa “mai”. Nel movimento curdo non è così: la rivoluzione femminista è prioritaria ed è bellissimo. La prima generazione dovette lottare duramente per ottenerlo, ma furono tenaci: dissero che la rivoluzione è rivoluzione, significa ribaltare tutto. Oggi il movimento delle donne curde è autonomo. Tutte le decisioni sul genere, sia nelle organizzazioni miste sia in quelle femminili, sia per strada sia tra le montagne, dipendono dalle donne. Esiste un tessuto organizzativo molto ricco, casa per casa, con spazi di formazione femminile in ogni quartiere, dove puoi vedere una studentessa con un master in sociologia a Istanbul parlare con una donna con cinque figli che non ha mai frequentato la scuola, discutendo insieme sulla violenza contro le donne e organizzandosi insieme. La danza, le canzoni, le storie hanno un ruolo molto importante. È un movimento non elitario, molto popolare, molto potente. Ovviamente, quando lo racconti, sembra bellissimo, ma non bisogna dimenticare che dietro c’è una violenza terribile. Nella mia regione abbiamo vissuto molta violenza, ma non ho mai conosciuto una violenza così spietata come quella dell’esercito turco contro i Curdi. Non sono solo i massacri, ma anche i tanti sfollamenti forzati, le vite distrutte dalla guerra, giovani che a quattordici o quindici anni si politicizzano e a diciotto si uniscono alla lotta armata – la maggior parte muore assassinata prima dei trent’anni. La morte è sempre in agguato. È raro conoscere qualcuno che non abbia 2-4 persone care martirizzate dal governo, alcune fino a dieci persone. Di fronte a questa morte onnipresente, imposta dallo Stato turco, vivere diventa una parte fondamentale della lotta e il ruolo delle donne, come portatrici della memoria dei martiri, è cruciale. Credo ci siano risonanze con le Madri di Plaza de Mayo in Argentina, che sono state un’ispirazione per le donne curde. In molte manifestazioni, in prima fila, ci sono le madri curde con le immagini dei loro figli assassinati. Lo slogan «Jin, Jiyan, Azadî» è nato in maniera più o meno spontanea a partire dal 2008 in queste manifestazioni. Poi si è consolidato, fino a quando le combattenti di Rojava lo hanno adottato come slogan. Se le chiedi, dicono che è uno slogan contro il potere misogino, contro la disciplina del corpo, contro i sistemi patriarcali, familiari e religiosi, ma anche contro il potere imperialistico che vuole annientarle. Ricordo una donna che incontrai al confine di Kobani nel 2014, quando Kobani era assediata dall’ISIS. Vedemmo con i nostri occhi le bandiere dello Stato Islamico. Questa madre mi disse: «Meritiamo, come esseri umani, la libertà di vivere, non è questo un diritto fondamentale?». La libertà in quel contesto non ha nulla a che fare con il liberalismo. Lì, ogni notte, salutavamo giovani che partivano all’alba per non tornare mai, quindi la libertà di cui parlava quella madre era legata alla sopravvivenza, alla riproduzione della vita, che era in crisi. VG/MM. Nel tuo libro racconti come le donne si armano e il conseguente spostamento soggettivo. Come si trasforma lì la virilità bellica? SR. Il femminismo che incontriamo nella tradizione curda è un femminismo decoloniale molto militante, che politicizza la vita quotidiana ed è intimamente legato al movimento sociale e alla lotta di liberazione. In effetti, possiamo dire che non è un femminismo figlio delle ondate globali del femminismo, ma figlio del movimento di liberazione curdo stesso, che impatta ogni aspetto della vita. In Kurdistan non si usa la parola “femminismo”, ma preferiscono dire “movimento di liberazione delle donne curde” e usano il termine “jinealogía”, scienza delle donne. Ritengono che il femminismo sia stato recuperato e strumentalizzato dall’imperialismo coloniale in Turchia, quindi preferiscono distinguersi con un’altra terminologia. Questo ha a che fare con la storia del movimento femminista in Turchia, specialmente negli anni ’80: fu un femminismo costruito intorno a una definizione universale di donna, che non si interessava della violenza dello Stato contro i Curdi, né contro le donne curde. Il movimento curdo, nei suoi inizi, era un movimento di liberazione come tanti altri, con molta centralità di figure maschili, l’eroe che prende le armi e salva la nazione, rappresentata come madre. Conosciamo questa narrativa nazionalista-maschilista dei movimenti di liberazione. Ma ciò che è interessante nel movimento curdo è che, a partire dal 1992, di fronte a una violenza statale sempre più brutale, si opta per mobilitare tutti, anche le donne. Per la prima volta, migliaia di donne si uniscono alla lotta armata e le cose iniziano a cambiare. C’è una prima generazione che entra nella logica di incorporare le idee maschiliste per dimostrare di poter combattere come un uomo, o anche meglio. Si instaura un paradigma sacrificale, dove le donne danno tutto in famiglia e tutto in politica. Ma il fatto di essere così numerose permette loro poco a poco di prendere coscienza e distanziarsi da questo paradigma. Al tempo stesso, iniziano a creare un’organizzazione non mista nella guerriglia, tra le montagne, e poi replicano questa organizzazione nella struttura politica. Tra il 1992 e il 1995, si passa dal primo battaglione solo donne al primo esercito di sole donne. I media occidentali furono impressionati quando, nel 2014, furono le donne a guidare la liberazione di Kobane, a Rojava, ma per noi era qualcosa di logico, la conseguenza di tutto il processo precedente. Questo ha cambiato completamente i significati di mascolinità e femminilità nell’immaginario collettivo curdo. Credo ci siano due elementi chiave per capire questa trasformazione. Da un lato, c’è l’idea di un’organizzazione molto di base, che porta la lotta in ogni ambito della vita quotidiana, nei quartieri, nei luoghi di lavoro, casa per casa, con molto sostegno reciproco e formazione politica. Questo fa sì che le combattenti siano sempre in contatto con altre donne, con conversazioni aperte su violenza, politica, economia. L’altro elemento decisivo è aver creato strutture proprie e mantenuto costantemente una doppia militanza, in spazi di sole donne e in spazi misti. Questo equilibra le relazioni di potere. Ovviamente ci sono molte contraddizioni. La lotta armata resta ancorata a valori maschilisti. Dall’altra, la potente organizzazione non mista riflette anche la grande segregazione tra uomini e donne nella società. Come sostenere una senza rafforzare l’altra? La terza contraddizione è il femminismo. Quando ho conosciuto il movimento delle donne curde, la prima cosa che ho pensato è stata: «che movimento femminista potente!», ma loro, per le ragioni già spiegate, non si identificano come femministe, pur avendo pratiche femministe e legami con tutti i movimenti femministi rivoluzionari, dall’India all’America Latina, passando per l’Europa. I loro motivi per non chiamarsi femministe sono legittimi, ma come sostenere questa posizione senza alimentare la nuova ondata antifemminista, sia di Trump sia di Erdogan? Quella stessa ondata che legittima l’incarceramento in Iran delle mie compagne femministe in nome dell’anti-imperialismo e della sovranità nazionale? In alcuni discorsi di sinistra, ho l’impressione che si parli come se Hillary Clinton fosse il principale riferimento del femminismo. Non so se lo sia negli Stati Uniti, in altri contesti sicuramente no. A volte ascoltiamo questi discorsi, che non hanno nulla a che fare con il femminismo nel Sud Globale. D’altra parte, chiamarsi “movimento delle donne” comporta anche il rischio di essenzialismo del femminile, che esclude la questione queer. Per questo è così interessante quando collettivi e movimenti indigeni di Abya Yala dichiarano che il binarismo è un dispositivo coloniale, che non esisteva prima della colonizzazione. VG/MM. Fai riferimento alla jinealogía come a una ricostruzione, a partire della rivolta, di saperi strappati, e colleghi questo al ruolo che i saperi hanno nel nutrire la resistenza. Puoi sviluppare questa idea? SR. Jine significa donna, logía significa scienza, quindi jinealogía è letteralmente “scienza della donna”. Nel movimento popolare curdo c’è una forte scommessa sul sapere e sull’educazione popolare, rispetto al sapere accademico elitista, completamente preso dal capitalismo coloniale, ma anche rispetto all’educazione nazionalista oppressiva imposta dallo Stato. La lingua è il simbolo estremo di questo colonialismo educativo. Con tutte le proibizioni e restrizioni, oggi buona parte della mia generazione ha perso il curdo. Non si poteva parlare neanche in casa. Le famiglie non lo trasmettevano per proteggere i figli. C’è una storia famosa di un prigioniero politico incarcerato per dieci anni: sua madre parlava solo curdo e, quando lo visitava in carcere, dovevano incontrarsi in silenzio perché era proibito parlare curdo. Questa realtà ha portato a prendere molto seriamente l’educazione: non solo l’insegnamento del curdo con corsi in montagna, nei villaggi, nelle città, per resistere all’annientamento della lingua, ma anche la formazione politica a tutti i livelli, come in Algeria durante la colonizzazione francese: la formazione politica come compito fondamentale nella resistenza contro il colonialismo. L’idea viene dalla tradizione marxista classica, ma con un approccio molto popolare. Se stiamo creando una nuova società, serve una nuova formazione, non elitista, che non separi teoria e pratica, come fa l’istituzione accademica, dove puoi avere un discorso democratico ma nella vita quotidiana non importarti nulla di nessuno. Nel movimento curdo pensiamo: se dici qualcosa, devi praticarla; ciò in cui credi deve riflettersi nella tua retorica e nel tuo agire. Perwerdeya significa educazione. Ed è alternativa all’educazione statale, ma anche uno strumento di resistenza. È anche uno strumento per diffondere sapere ovunque, per discutere con tutti e integrare le esperienze collettive, integrare le nuove generazioni, permettere loro di politicizzarsi. La jinealogía fa parte di questa perwerdeya. Non è solo per militanti, non è solo per femministe, non è solo per persone colte. È legata all’educazione sociale, è un modo per cambiare la vita quotidiana e uno strumento di autodifesa, per essere capaci di difendersi dal padre, dal marito o da un’autorità, in casa, in strada o tra le montagne. Niente di tutto questo esclude la formazione ideologica. Se questo movimento vive da quarant’anni, nonostante la repressione enorme, è perché ha un nucleo ideologico molto solido e una memoria collettiva che si trasmette di generazione in generazione. In questo quadro, la jinealogía produce una nuova lettura della storia delle donne in Medio Oriente, in particolare delle donne curde; partendo dalla Mesopotamia, che resistono alla storia eurocentrica, al mito dell’origine greca della civiltà, che è un mito maschilista. All’interno della jinealogía ha un ruolo molto interessante il mito di Sahmaran, metà donna metà serpente. Sahmaran ha un grande palazzo ed è guardiana della saggezza e di tutti i segreti. Si innamora di un uomo, completamente umano, e gli consegna tutto il suo sapere. Lui la tradisce, rivelandone i segreti e facendo in modo che venga uccisa. Noi Curdi siamo cresciuti con questo mito, ma dalla jinealogía viene rivisitato per presentarlo come una storia di femminicidio e di furto del sapere femminile da parte di narrazioni maschiliste. Ovviamente, l’integrazione della mitologia tradizionale ha i suoi limiti, ma è interessante come dal movimento di liberazione curdo, dal movimento delle donne, si tenti continuamente di collegare questi miti alla realtà e ai saperi quotidiani. Non si tratta solo di parlare di Sahmaran, ma di riviverla, per recuperare il sapere che ci è stato rubato, un sapere che è esistito e che è possibile riprendere. Così, a Rojava, ci sono molti luoghi dove si lavora su questo sapere femminile, soprattutto medico e di guarigione, ma esiste anche Jinwa, un villaggio solo per donne vittime di violenza, organizzato interamente da donne. VG/MM. Per concludere, ci piacerebbe chiederti: come immagini un internazionalismo femminista in un contesto di guerra globale, dove si scontrano diversi patriarcati e il patriarcato occidentale gioca la carta dei diritti delle donne? SR. Certamente, abbiamo visto l’Occidente giocare questa carta in molti contesti, con quell’atteggiamento “civilizzatore”, dicendo alle donne: «vi salveremo e vi libereremo dai vostri modi arcaici di vivere». Lo abbiamo visto nelle guerre in Iraq e in Afghanistan e nei discorsi di Netanyahu durante gli attacchi contro l’Iran. Questa è un’altra delle ragioni per cui il movimento delle donne curde è reticente a definirsi femminista. In ogni caso, l’internazionalismo non è un’opzione. Forse lo è per persone bianche, che possono scegliere se supportare o meno Assad, se supportare o meno l’Iran, ma per noi non c’è scelta possibile. Non possiamo sostenere la Repubblica Islamica dell’Iran, il prezzo è la vita, così come non possiamo sostenere il genocidio in Palestina. L’internazionalismo è ciò che ci permette di comprendere e mantenere insieme le nostre militanze come Curde, come femministe e come persone di una sinistra rivoluzionaria. Non mi piace la parola intersezionale, perché a volte è molto superficiale, ma la questione è come possiamo collegare nella pratica la lotta curda con la lotta femminista, con la lotta contro l’estrattivismo, con la lotta ecologica; lotte che in realtà sono intrecciate. E la Realpolitik, con il suo presunto pragmatismo, non ci serve, perché alla fine ci lascia affidare tutta la speranza agli Stati e alla loro geopolitica, facendoci credere che per la liberazione della Palestina dobbiamo sostenere Stati misogini e maschilisti come quello della Repubblica Islamica dell’Iran. Al contrario, un internazionalismo dal basso sì, perché nel dialogo concreto è molto chiaro perché non posso sostenere uno Stato che incarceri me e le mie compagne, una volta per essere Curde e un’altra per essere femministe. Penso a questo internazionalismo come a una pratica di collegamento, un modo per connettersi, ascoltarsi e impegnarsi tra contesti diversi. A volte è molto difficile. Come collegare, ad esempio, la rivoluzione siriana con il movimento di liberazione curdo? Ci siamo riuscite, ma è stato duro, doloroso. Nell’internazionalismo stiamo cambiando continuamente il territorio della lotta e a volte è difficile orientarsi, capire cosa sia più importante, dove concentrarsi. Impariamo l’una dall’altra. È anche difficile capire come parlare della propria lotta locale con gli altri. Come quando ho scritto il libro sul movimento delle donne curde: sono arrivata a riscrivere frasi 25 o 30 volte. Riflettevo mille volte su come formularle per evitare che fossero strumentalizzate. Volevo essere giusta, perché la gente rischia molto, ma volevo anche permettermi di essere critica. A volte vedo femministe bianche francesi così appassionate al movimento delle donne curde, senza alcuna critica o riflessione. Per me quell’atteggiamento è il rovescio della visione coloniale, dove non prendi davvero sul serio la lotta delle altre. Capisco che dalla loro posizione sia diverso, ma nel mio caso si tratta della mia lotta, e per me era importante permettermi uno sguardo critico. Questo mi ha provocato un conflitto interno: come trovare le parole giuste? Devo parlarne o no, in che modo, consapevole che è un conflitto molto violento, una situazione di guerra? È stato un dolore durato dieci anni. Non è stato un libro che ho scritto “da intellettuale”, ma da militante, perché la mia militanza è più forte del mio lato intellettuale. Immagine di copertina di Matt Hrkac (da wikimedia) Articolo pubblicato in spagnolo sul sito della collettiva femminista transnazionale La Laboratoria. Traduzione in italiano a cura di Alessia Arecco per DinamoPress SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Somayeh Rostampour: «Internazionalismo è ascoltare l’eco delle proprie lotte nelle lotte altrui» proviene da DINAMOpress.
Bulgaria. Detenzione senza fine: 47 mesi a Busmantsi
Prima che Sofia si svegli, noi rifugiati nel campo di detenzione di Busmantsi ci svegliamo al rumore delle chiavi e al tonfo degli stivali della polizia sul pavimento di cemento, accompagnati da risate fugaci durante i cambi di turno. I nomi vengono chiamati con freddezza, ci alziamo dai letti di ferro infestati da insetti che si nutrono di noi, proprio come la nostra pazienza si nutre di speranza, poi le porte vengono sigillate ancora una volta. Sofia Busmantsi Detention Centre. PH: Global Detention Project Sono Abdulrahman Al-Bakr (Al-Khalidi), giornalista e difensore dei diritti umani dell’Arabia Saudita. Non ho commesso alcun crimine, eppure vivo dietro porte chiuse qui dall’ottobre 2021, quarantasette mesi, quasi quattro anni, affrontando sempre la stessa scena. Quello che sta accadendo non è una storia lontana dall’Europa. In questi campi, uomini, donne e bambini sono detenuti in uno stato liminale senza processo, o nonostante le sentenze dei tribunali che vengono ignorate; senza un orizzonte temporale e con la speranza che svanisce. La detenzione a tempo indeterminato non è protezione delle frontiere; è la silenziosa erosione dell’idea di giustizia, una violazione dei diritti umani e un indebolimento dei principi per cui sono stati creati i sistemi giuridici. Il diritto internazionale è chiaro: garantisce ai rifugiati il diritto di chiedere asilo e vieta la detenzione arbitraria di chiunque. La Dichiarazione universale dei diritti umani e la Convenzione sui rifugiati affermano questa protezione. Eppure qui, persone spaventate, plasmate dai loro regimi autoritari originari, vengono trattate come terroristi e criminali, costrette a una detenzione a tempo indeterminato e a una speranza che va scemando. Non riesco a trovare una descrizione più accurata per Busmantsi che “campo di detenzione”: un territorio al di fuori della giurisdizione del diritto bulgaro e internazionale, dove il potere esecutivo invade quello giudiziario semplicemente perché siamo rifugiati stranieri, trasformando l’identità e l’origine in un “reato” in Bulgaria e in Europa. Nel corso di 47 mesi, e nonostante due sentenze definitive e inappellabili del Tribunale amministrativo di Sofia – il 18 gennaio 2024 e il 26 marzo 2025 – che ordinavano il mio immediato rilascio, l’Agenzia statale per la sicurezza nazionale (DANS) ha emesso delle “contro-decisioni” per annullare le sentenze o aggirarle. Notizie QUANDO LA “SICUREZZA” DIVENTA ABUSO Gli aggiornamenti sulla vicenda di Abdulrahman Al-Khalidi Abdulrahman Al-Khalidi 4 Agosto 2025 Ho presentato ricorso e ho vinto tre volte le cause di asilo davanti alla Corte amministrativa suprema, una delle quali ha condannato l’ingerenza della DANS nel mio fascicolo e ha invalidato le loro decisioni di rigetto. I tribunali continuano a confermare gravi violazioni nel mio caso. Eppure io rimango qui, perché un percorso parallelo per il potere esecutivo attraverso decisioni amministrative impedisce l’applicazione giudiziaria. Gli amici mi chiedono: cosa significano le “contro-decisioni”? In realtà, la DANS, erede diretta degli apparati di sicurezza segreti dell’era comunista (DS), ha sostituito l’astratto “nemico del popolo” con la frase “minaccia alla sicurezza nazionale”. Inoltre, le rigide regole del centro si scontrano assurdamente con l’innocenza al 100% dei suoi abitanti, facendo svanire l’equilibrio della giustizia e l’uguaglianza davanti alla legge. Il DANS appare “al di là del controllo giudiziario”, trattando le sentenze definitive come “linee guida non vincolanti”. Una persona può essere detenuta amministrativamente per 46 mesi con accuse per le quali un cittadino non sarebbe trattenuto nemmeno per 24 ore. Come ogni detenzione, la detenzione a tempo indeterminato priva le persone della libertà in condizioni difficili, ma in questo caso ci priva anche di qualsiasi possibilità di ottenerla. L’impatto psicologico è devastante: ansia, depressione e traumi che si accumulano giorno dopo giorno. E io non sono un caso eccezionale al di fuori del diritto europeo e internazionale dei diritti umani; ci sono altri casi, come quello di Nidal Hassan di Gaza, che è stato espulso immediatamente dopo una sentenza che ne ordinava il rilascio, e anche quello di M.N., in cui sono state utilizzate procedure volte a eludere la legge e a modificare lo status di detenzione per garantirne la continuazione. A questo punto, i “casi individuali” non sono più una spiegazione ragionevole, ma un modello istituzionale che richiede di essere esaminato. Tutto ciò solleva una questione sulla giustizia delle misure coercitive e sui loro costi etici e sociali. La giustizia spesso contraddice la legge; a volte appartengono a mondi paralleli. Ciò è evidente nei campi di detenzione. Questa vasta disparità nel trattare le persone in base alla loro identità mi riporta alla storia dell’Europa gravata da crisi di “sé e dell’altro” – dai campi per ebrei e rom ai campi per gli stessi europei dopo la “La Retirada” spagnola. Oggi non fa eccezione: le necessità della vita e i principi umani, come la libertà, sono oggetto di dibattito solo nel nostro caso come rifugiati. C’è una somiglianza dinamica tra il destino dei rom il 2 agosto 1944 e il nostro destino oggi; in entrambi i casi vengono promulgate leggi discriminatorie, le leggi internazionali e i principi di giustizia vengono calpestati nel modo più duro e informale, e le leggi vengono ignorate con un atteggiamento arrogante: “Violeremo tutte le leggi e vedremo chi ci fermerà”. È un crimine che deriva dal razzismo e dalla disumanizzazione, e assistiamo al silenzio scioccante di politici, diplomatici e intellettuali in risposta. E anche se gli amici cercano di darmi “dosi di speranza”, vedo un filo sottile, affilato come una spada, come una corda tesa sopra le porte dell’inferno, che separa l’incredulità nella speranza dalla resa alla realtà. La mia incredulità nella speranza non contraddice la mia fede assoluta nella libertà. Come dice Cioran: “La speranza è il peggiore dei mali, perché prolunga i tormenti dell’uomo”. Non è necessario leggere “Il conte di Montecristo” per entrare nella mente di qualcuno che non solo è stato accusato ingiustamente, ma anche punito con estrema crudeltà. Ricordo con i miei amici la mia ‘sfortuna’: la mia fuga dall’Arabia Saudita alla Bulgaria è stata ironica e sfortunata come la “fuga” dell’abate Faria dalla sua cella, solo per finire – in una tragica ironia – in un’altra cella con Edmond Dantès nel Château d’If. È stata una fuga da uno Stato senza legge a un altro Stato senza legge, un’ironia che mi fa sorridere amaramente, ma che riflette una realtà che mi mette in contrasto con il concetto di speranza. Sia la prigione saudita che quella bulgara uccidono lo spirito, ma qui sento un tradimento ancora più grande, poiché la mia libertà mi viene confiscata definitivamente in nome dell’Unione Europea, in netto contrasto con i suoi principi. Cosa si prova a distaccarsi dalla speranza? È ciò che gli psicologi chiamano “dissociazione”: una separazione dalle emozioni e l’incapacità di provarle insieme: nessun dolore mescolato alla gioia, nessuna disperazione mescolata alla speranza; un’emozione pura senza diluizione. E tu, mio lettore, sei testimone, come Dio e le persone sono testimoni: sono triste, un dolore puro e profondo, impotente senza forza. Un dolore che nessuna lingua può domare o abitare; perché la lingua abita il dolore come una madre che consola il proprio figlio. Se la nostra vita è una “Divina Commedia”, allora l’inferno è alle mie spalle, il paradiso davanti a me, e io cammino nel “Purgatorio”, il cui tormento e l’attesa della sua fine possono essere più duri dell’inferno stesso. Eppure questo dolore non mi impedisce di andare avanti. I casi dei rifugiati nei campi di detenzione bulgari saranno un giorno studiati nelle facoltà di giurisprudenza come esempio di quante leggi e accordi possano essere violati in un unico fascicolo. E sono certo, come dice Omar El Akkad, che «un giorno saremo tutti contro tutto questo». Ma rimane l’amara domanda: perché siamo stati in grado di provare empatia per il passato, ma non siamo in grado di farlo ora, in un momento in cui questa compassione potrebbe salvare delle vite? Ripetiamo “Non succederà più” riguardo ai crimini di ieri, ma non riusciamo a dire lo stesso di fronte ai crimini di oggi. Siamo stati puniti nei nostri paesi per aver insistito sulla giustizia, e ci aggrapperemo ostinatamente ad essa nonostante la nostra realtà. Nel nostro caso, ci impegniamo a chiedere la fine della detenzione amministrativa aperta, un vero controllo giudiziario sui materiali segreti e garanzie che non saremo rimandati in luoghi dove temiamo la tortura o l’arresto arbitrario. I nostri problemi non sono una questione di sicurezza, ma di sottoporre un fascicolo complesso al massimo grado di trasparenza e responsabilità giudiziaria. Ciò è nell’interesse della Bulgaria, poiché limita i vecchi sospetti sulla mancata applicazione delle sentenze dei tribunali o sull’espansione delle agenzie di sicurezza nell’uso di fascicoli segreti non soggetti a un controllo efficace, come nell’era precedente. E nonostante l’assenza di speranza, continuo a lottare e a fare tutto il possibile per perseguire la libertà, ed è questa l’essenza della mia incredulità nella speranza: aggrapparmi alla libertà nonostante la mancanza di speranza. O rifugiati e sostenitori dei rifugiati, resistiamo per la giustizia, lecchiamoci le nostre ferite e andiamo avanti. Condividiamo il nostro pane e ridiamo, mentre il pane ride nelle nostre mani. Non abbiamo lobby o miliardari, ma abbiamo l’un l’altro, e questo è sufficiente per muovere la storia. Alla fine, il mio carceriere non è solo il mio più grande nemico, ma quella “speranza” che continua a bussare alla mia testa affinché io non muoia e non mi apre alcuna porta se non quelle della pazienza.
Terrorizzare e reprimere (da disfare 2)
Diffondiamo un articolo pubblicato sul secondo numero di disfare. Ricordiamo che è possibile ordinare copie del secondo numero scrivendo a disfare@autistici.org (al prezzo di 4 euro a copia, 3 euro per i distributori dalle 3 copie in su). Scarica l’articolo in formato pdf: disfare_2_terrorizzare_e_reprimere Terrorizzare e reprimere Per dispiegarsi compiutamente e senza remore di sorta, la forza coercitiva dello Stato democratico necessita di argomentazioni almeno parzialmente plausibili e condivisibili da parte della cosiddetta “opinione pubblica”. Queste si basano spesso sul rovesciamento semantico di determinati concetti, affinché la carica negativa scaturente dal rovesciamento di tali elementi ricada interamente sull’individuo o sul gruppo da reprimere. È il caso, ad esempio, del concetto di “terrorismo”. A dispetto della sua origine, ancora oggi pietrificata nella stessa radice della parola (terror), esso oggi ha poco a che vedere con l’imposizione del terrore sulla popolazione, ma sembra piuttosto riguardare il terrore che gli Stati hanno delle popolazioni e degli individui. Rovesciamenti semantici Il termine “terrorismo” venne coniato a partire dall’esperienza del Regime del Terrore, instauratosi nella Francia del 1793, a forza di teste ghigliottinate secondo le decisioni del Comitato di Salute Pubblica, organo del governo giacobino allora in carica. I neologismi francesi terrorisme e terroriser, creati a partire dal latino terror, iniziano a circolare in Europa proprio col significato – tuttora attestato nei vocabolari – di «azione del potere politico di incutere terrore nei confronti dei cittadini, attraverso la costrizione e l’uso illegittimo, indiscriminato e imprevedibile della forza»[1].   Formalmente ristretto a un periodo di emergenza, il terrore per sua natura tende ad eternarsi e a divenire definitivo, senza possibilità di mutamento, con una crescita esponenziale di eccessi e di atti di barbarie. Si tratta in sostanza di un sistema tirannico che agisce contro il popolo, spargendo trappole per insidiare ogni passo del cittadino, introducendo una spia in ogni casa, un traditore in ogni famiglia, un assassino in ogni tribunale. Questo sistema è perciò un’arte, «l’arte del terrore», praticata da un potere arbitrario e fortemente concentrato nelle mani di poche persone. Per questa ragione, il terrore si attaglia meglio a una monarchia, ma in verità può essere praticato anche da una repubblica: in questo secondo caso, tuttavia, esso si dimostra ben peggiore, perché rende il popolo indifferente alla libertà e anzi la fa odiare. Il risultato consiste comunque ineluttabilmente nel dividere l’intera società in due classi distinte: una minoranza persecutrice che fa paura e una maggioranza perseguitata che ha paura. Si delineava così, per la prima volta, una fondamentale presa d’atto: l’esistenza di una divaricazione tra il fine dichiarato del terrore, ossia punire talune persone o certi gruppi ritenuti colpevoli di attentare al regime o alla vita sociale, e il fine vero, scientemente attuato, quello di controllare, mediante la paura, l’intera società[2]. L’origine del concetto di terrore e terrorismo, dunque, tradisce chiaramente il fatto di riferirsi ad un metodo di governo, adottato da un regime politico costituito, rivolto alla repressione del dissenso e al controllo sociale. È quindi connaturato allo Stato stesso. Col passare degli anni, un capovolgimento semantico avvenne con il colonialismo europeo. Le potenze europee si servirono dello stigma legato all’impiego del termine terrorismo contro quelle popolazioni asiatiche e africane che provavano a ribellarsi alle politiche coloniali di sterminio e depredazione delle risorse. In alcuni casi l’accusa di terrorismo aprì la strada a veri e propri genocidi, come avvenne in Namibia per la popolazione Herero trucidata dall’esercito tedesco[3]. Dietro a simili azioni, in cui l’intera popolazione, senza alcuna distinzione tra, ad esempio, combattenti e civili, veniva colpita, stava la concezione e teorizzazione di una modalità di conflitto integrale ed assoluto. Una modalità che con la prima guerra mondiale diventerà prassi. Nel 1914, il generale e teorico militare tedesco Colmar von der Goltz (all’epoca più letto di Clausewitz), nominato governatore del Belgio, sostenne con chiarezza la necessità di punire esemplarmente gli atti ostili «non solo per la colpa ma anche per l’innocenza», inaugurando la consuetudine di colpire per chilometri i villaggi e i luoghi abitati attorno alla zona di un attentato. Sorte analoga spettò ai Mau Mau in Kenya, massacrati dagli inglesi durante gli anni ’50 del secolo scorso. Col pretesto della lotta al terrorismo divenne possibile anche in questo caso legittimare metodi terroristici come i campi di concentramento e l’uso sistematico dell’elettrochoc. Anche il colonialismo italiano non fu da meno nel dispensare campi di concentramento, stupri di massa e gas nervino in Africa come nei Balcani. A tal riguardo, possiamo di sfuggita segnalare il processo del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato tenutosi nel 1940 contro 60 sloveni. Essi erano significativamente accusati di un reato associativo con finalità terroristiche in quanto partecipanti «ad associazioni tendenti a commettere attentati contro l’integrità e unità dello stato». Col trascorrere del tempo, dunque, i diversi Stati europei operarono un progressivo rovesciamento semantico del concetto di terrorismo, che da metodo di governo utilizzato verso i governati si trasformava in metodo di lotta adottato dai governati stessi contro le istituzioni e i suoi funzionari. Ne rappresenta un emblematico esempio la definizione adottata dalla Convenzione per la prevenzione e repressione del terrorismo, elaborata a Ginevra nel 1937, secondo cui sono terroristici: «i fatti criminali diretti contro uno Stato e i cui fini o la cui natura è atta a provocare il terrore presso determinate personalità, gruppi di persone o il pubblico». Dal terrore generalizzato della popolazione, sotteso alla nozione primigenia di terrorismo, allo spavento di qualche personaggio c’è evidentemente un abisso, eppure in questa definizione il terrore di determinate personalità e quello del pubblico sono considerati equivalenti. È poi particolarmente significativo che tale definizione sia stata coniata proprio nel medesimo anno in cui la cittadina basca di Guernica fu sottoposta a un bombardamento a tappeto a opera dello squadrone volontario Condor della Luftwaffe (l’aviazione tedesca), supportato dall’aviazione legionaria italiana. La stampa mondiale diede da subito grande risalto all’accaduto, sottolineando il carattere terroristico dell’azione bellica condotta a sostegno delle forze franchiste in lotta contro i repubblicani, in piena guerra civile spagnola. Il corrispondente del New York Times, George Steer, mise l’accento proprio sull’intento deliberato di colpire la popolazione inerme. Scopo dell’azione era «la demoralizzazione della popolazione civile e la distruzione della culla del popolo basco». Con una simile azione, preceduta da un analogo raid distruttivo contro la vicina cittadina di Durango ad opera dell’aviazione legionaria italiana, si inaugurava l’epoca dei bombardamenti a tappeto contro la popolazione civile, una manifestazione di quella che lo stesso Steer aveva chiamato la «guerra moderna»: un modo di pensare l’attività bellica come evento totale. Una volta superata una concezione limitata della guerra come combattimento regolato fra opposte forze armate e una volta annullata la distinzione classica fra militari e civili – inevitabile corollario del graduale imporsi, a partire dagli inizi dell’Ottocento, dell’idea di Nazione – si faceva del nemico un’entità unica, da colpire in modo indiscriminato, con tutti i mezzi possibili[4]. Nonostante il progressivo rovesciamento semantico operato a livello istituzionale, l’originaria concezione del termine terrorismo riusciva comunque a mantenere talvolta una certa persistenza, senza dubbio in conseguenza del succedersi di determinati eventi e processi storici, come ad esempio il fenomeno della decolonizzazione sviluppatosi in Africa durante gli anni ’60 del Novecento[5]. Tutelare la tranquillità dei pubblici poteri Nei paesi dell’Europa Occidentale, ed in Italia in particolare, sarà nel corso degli anni ’70 ed ’80 del Novecento che si compirà il deciso e definitivo rovesciamento semantico del concetto di terrorismo, con lo scopo di contrastare, da parte dell’ordine statale, l’insorgenza politica e sociale interna sviluppatasi in quel medesimo periodo. A partire da tale data, terrorista sarà sempre e solo chi svolge un’attività finalizzata ad un cambiamento radicale dell’ordine costituito, cioè tende all’eversione dello Stato. Inoltre, sarà sempre durante gli anni ’80 che il ribaltato concetto di terrorismo assurgerà come nuovo termine chiave del lessico politico statale. Infatti, con l’elezione nel 1981 alla presidenza degli Stati Uniti di Ronald Reagan, riprese decisamente vigore, proseguendo nel solco già tracciato da precedenti amministrazioni, l’iniziativa politico-ideologica antisovietica, sostenuta dalla tendenza ad accrescere fortemente il budget militare e ad attaccare ideologicamente l’URSS proprio mediante la denuncia del terrorismo come merce sovietica, strumento d’aggressione ai danni del «mondo libero»[6]. La sottocommissione del Senato sui problemi del terrorismo e della sicurezza fu un organo fondamentale nel processo di reificazione del terrorismo, e cioè nella produzione di discorsi finalizzati alla costruzione di un oggetto a sé stante, ridotto a essenza, dotato di una propria peculiare autonomia dalla politica e dalla guerra. Nella retorica di quella sottocommissione, e più in generale della nuova amministrazione, il terrorismo andava concepito come un fenomeno guidato dall’alto, che promanava da Stati sponsor che lo stesso Reagan, con un termine destinato ad essere più volte ripreso in seguito, chiamò Stati canaglia. Nell’alimentare il processo di autonomia discorsiva della tematica del terrorismo, un ulteriore punto di svolta sul piano concettuale si ebbe nel 1986 con la pubblicazione del libro Il Terrorismo. Come l’Occidente può vincere, edito da Benjamin Netanyahu e contenente gli atti di una seconda conferenza organizzata dal Jonathan Institute di Gerusalemme, cinque anni dopo la prima. Nella sua introduzione Netanyahu descriveva la situazione politica mondiale come una lotta in corso tra civiltà e barbarie: nella comunità internazionale – osservava – c’è un sufficiente consenso circa il ruolo di URSS e OLP nel supporto al terrorismo internazionale e anche una discreta sensibilità rispetto al pericolo incarnato dalla Repubblica islamica dell’Iran, ma ciò che manca è una risposta comune ai terroristi e ai loro sponsor, a causa di un’insufficiente concettualizzazione del fenomeno. È assurdo – egli affermava – paragonare un atto terroristico con le perdite di civili in guerra: queste ultime sono prodotte da atti casuali e involontari, laddove invece nel caso dei terroristi si tratta di «scelte volute e calcolate». I terroristi di conseguenza non sono guerriglieri, soldati irregolari che combattono contro forze nemiche molto superiori, ma impuniti che attaccano obiettivi indifesi. Fu Edward Said a intuire immediatamente la portata del mutamento concettuale e d’impostazione contenuto in quelle tesi. Per Said, la definizione di Netanyahu dipendeva da un assioma a priori: «Noi non siamo mai terroristi; sono loro, i mussulmani e i comunisti che lo sono […] non importa che cosa abbiano fatto; loro lo sono e lo saranno sempre». Questa nuova visione tendeva ad obliterare la storia e la stessa temporalità, nel tentativo di «creare un nemico essenzializzato, isolato dal tempo, dalla causalità, dalle azioni compiute in precedenza e quindi a disegnarlo come ontologicamente e gratuitamente interessato a scatenare il caos». Netanyahu – osservava Said – combatte una battaglia basata su una visione del mondo che stabilisce che certi fini ideologici e religiosi richiedano determinati mezzi, tali da comportare lo sgretolamento di ogni inibizione morale. La giustificazione spuria di combattere il terrorismo legittima cioè ogni atto di violenza commesso in suo nome. Non si trattava di un mero dibattito fra intellettuali: nel 1984, al momento della rielezione di Reagan, il segretario di Stato George Shultz aveva tenuto un discorso alla sinagoga newyorkese di Park Avenue, incentrato sulla lotta al terrorismo, in cui aveva proclamato che il tempo della difesa passiva era finito. Quello che occorreva adesso era un’attiva capacità di colpire per primi e anche di esercitare pronte ritorsioni, rispondendo agli attacchi terroristici con la flessibilità necessaria, in una varietà di modalità belliche, scegliendo luoghi e tempi in cui attaccare. Forte di questa tesi, la seconda amministrazione Reagan adottò il terrorismo così inteso come nuovo nemico globale e lo considerò un incentivo per giustificare il terrore come arma di reazione. Sul piano istituzionale e formale, sarà poi la risoluzione del parlamento europeo del 30 gennaio 1997 ad adottare ufficialmente una definizione di terrorismo in linea con il già menzionato rovesciamento semantico[7].  Inoltre, nell’indeterminatezza di quali atti concreti siano terroristici, è il movente ideologico che diventa fondamentale. Non è un caso che l’elenco delle motivazioni terroristiche segua un ordine crescente di psicologizzazione: aspirazioni separatistiche, concezioni ideologiche estremiste, fanatismo, moventi irrazionali e soggettivi. In un crescendo esponenziale, all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001, l’Unione Europea ha avvertito l’esigenza di elaborare una disciplina sul terrorismo che imponesse maggiori obblighi agli Stati membri. Veniva così adottata la decisione quadro 2002/475/GAI (Consiglio Giustizia e Affari Interni dell’UE). Tale decisione quadro verrà recepita, ed anzi aggravata nella sua valenza repressiva, dal codice penale italiano con l’introduzione, avvenuta nel 2005, all’indomani degli attentati alla metropolitana di Londra, dell’art. 270 sexies. Anche questa definizione si orienta verso la sostanziale tutela dei pubblici poteri. Per la prima volta però essi sono tutelati non solo da un loro potenziale rovesciamento rivoluzionario, ma addirittura da possibili influenze e controversie temporanee su questioni specifiche. In ultima analisi, anche una vertenza sindacale, uno sciopero, potrebbe essere considerato come un atto terroristico contro l’ordine costituito. Il diritto internazionale, svalutando progressivamente l’elemento del terrore, ha oggi due pesi e due misure per il terrorismo non statale e per quello statale. Nel primo caso si può essere considerati terroristi persino a prescindere dall’elemento del terrore, poiché si valorizza la finalità di destabilizzazione del sistema politico statale o di contrasto di una sua specifica decisione. Nel secondo caso, il terrore ingenerato manu militari nella popolazione, attraverso ad esempio un bombardamento aereo di una città, non basta da solo a qualificare come terrorista uno Stato, perché bisogna dimostrare che tale stato di terrore fosse il movente principale dell’azione militare[8], e non un semplice effetto collaterale di tale azione, ancorché previsto e voluto. Al di fuori dello Stato, il nulla Il rovesciamento semantico del concetto di terrorismo ha quindi provocato anche il concomitante rovesciamento del termine indiscriminato. Se infatti originariamente era lo Stato che terrorizzava l’intera popolazione di un territorio attraverso atti violenti indiscriminati in vista di un fine politico o ideologico, ora questi atti vengono addossati ad una parte, grande o piccola, della popolazione stessa nei riguardi dello Stato. In tal modo, lo Stato prende il posto della popolazione, sicché gli atti violenti indiscriminati risulteranno quelli diretti contro gli apparati istituzionali. Dietro ad un tale rovesciamento emerge l’assunto che la società sia un tutto organico e monolitico, ed essa coincida necessariamente con lo Stato. Si va ben oltre l’assolutezza del potere statale rispetto al corpo sociale, giungendo fino all’assorbimento ed all’assimilazione del corpo sociale nello Stato. In base a questo assunto, lo Stato diviene principio di intelligibilità di ciò che è, ma anche di ciò che deve essere. Lo Stato diviene fondamentalmente l’idea regolatrice di quella forma di pensiero, di riflessione, di calcolo e di intervento che prende il nome di politica: la politica come mathesis, come forma razionale dell’arte di governo. Per edificare e rendere evidente la razionalità e necessità dello Stato, gli si crea un mito fondante, gli si inventa una tradizione. Sarà il giusnaturalismo a fornirgliela, nel corso del XVII secolo, proprio in quello stesso arco di tempo in cui si andava sviluppando ed imponendo nelle scienze una filosofia meccanicistica[9]. Poco importa che una simile teorizzazione non abbia alcunché di reale, relativamente alla ipotizzata condizione dello stato di natura, e che un tale mito fondante non si sia mai verificato in alcun luogo ed in alcun tempo. La sua rilevanza sta nel fatto che ha avuto – ed ha – la forza di modificare e modellare la realtà stessa, imprimendo e trasmettendo valori e costumi funzionali a concetti asimmetrici quali quelli di obbedienza e dipendenza, su cui lo Stato basa la sua ragion d’essere. In tal modo, un regicidio, o una qualsiasi azione contro delle personalità o delle strutture istituzionali, non sarà più diretta a terrorizzare unicamente i regnanti e le classi dominanti, come sarebbe nelle intenzioni di chi auspica un cambiamento radicale dell’ordine sociale, bensì potrà essere ascritta quale atto terroristico indiscriminato, in quanto regnanti e classi dominanti rappresentano e coincidono con l’intera società. Addirittura, come abbiamo già avuto modo di vedere, anche una controversia su una questione specifica, tendente ad esprimere dissenso verso particolari atti riguardanti la sfera economica, politica, sociale e ambientale, come ad esempio una vertenza sindacale o l’opposizione ad un progetto infrastrutturale, potranno essere considerati come atti terroristici, perché tendenti a modificare l’ordine costituito intrinsecamente immodificabile.   D’altro canto, quale logica conseguenza dell’idea della necessità ed immutabilità dell’ordinamento statale, un bombardamento a tappeto su un territorio densamente popolato attuato da uno Stato (ogni riferimento al genocidio che si sta realizzando nella striscia di Gaza non è per niente casuale), non sarà considerato un atto terroristico indiscriminato, bensì una legittima e mirata azione di guerra. Un’azione chirurgica, come da alcuni decenni va tanto di moda designare i bombardamenti aerei sulle città, terminologia e concetto che tende a celare e porre in secondo piano i cosiddetti effetti collaterali, ossia i previsti e voluti massacri di civili, senza i quali non sarebbe possibile pervenire al reale e principale obiettivo desiderato: abbattere il morale della popolazione, ossia, ancora una volta, seminare il terrore. Nonostante tutti i rovesciamenti semantici descritti, in definitiva quella statale è la forma archetipica di terrorismo. Il terrorismo è insomma prevalentemente una pratica di governo. E ciò è sostanzialmente dovuto al fatto – come efficacemente dimostra il politologo tedesco Ekkehart Krippendorff nell’opera Lo Stato e la guerra – che lo Stato, soprattutto a partire da quello formatosi nell’era moderna (XVII secolo) e nelle sue successive declinazioni quali lo Stato di diritto, lo Stato costituzionale, ecc., è intrinsecamente legato alla guerra, è essenzialmente uno Stato militare, e le guerre che esso ha continuamente condotto non sono un fatto secondario, bensì fanno parte della sua vera essenza. L’apparato militare e coercitivo, strumento di guerra sia esterna che interna, è la quintessenza dello Stato. Senza tale apparato, lo Stato perderebbe la sua ragion d’essere. Non è un caso che nel 1919 il sociologo Max Weber, nel saggio La politica come vocazione, abbia descritto lo Stato come il detentore del monopolio della violenza. E questa violenza può e deve essere esercitata sia all’esterno che all’interno del territorio posto sotto il suo controllo, quindi anche – e aggiungerei soprattutto – contro i propri governati, siano essi definiti come cittadini, sudditi, schiavi, prigionieri, ecc. Per garantire la propria sicurezza, lo Stato ha bisogno di effettuare ed organizzare una sempre più capillare opera di disciplinamento dei propri cittadini al suo volere, per giungere a quell’acritico consenso generale essenziale ad ogni ordine costituito. Sorvegliare e punire, come direbbe Michel Foucault, attualmente declinato nel più consono ed effettivo terrorizzare e reprimere. Tiravento [1] Fu il deputato montagnardo Jean-Lambert Tallien, protagonista della caduta di Robespierre, nonostante fosse stato un suo funzionario incaricato dal governo giacobino della repressione a Bordeaux, in un importante discorso tenuto alla Convenzione l’11 Fruttidoro (28 agosto 1794), un mese dopo il 9 Termidoro (26 luglio 1794), a svolgere una prima analisi critica del terrore inteso non come espressione di un’unica volontà individuale, malefica e mostruosa, ma come un vero e proprio sistema di governo. Nel suo intervento Tallien (il cui discorso era stato scritto per lui da Pierre-Louis Roederer, un giurista, economista e politico moderato) asseriva che il terrore non era il prodotto dell’azione violenta di una folla in preda alle emozioni, bensì il calcolo deliberato di un governo assoluto, autocratico, che non rende conto a nessuno dei suoi atti e che minaccia sistematicamente il popolo. [2] La spirale di violenza e di paura, una volta innescata, diviene dunque pervasiva e non risparmia nessuno, neppure i membri dell’apparato repressivo, i quali diventano essi stessi prigionieri del meccanismo, consapevoli che la paura che instillano può in ogni momento rivolgersi contro di loro, e raggiungerli. [3] Il Generale Lothar von Trotha, responsabile del genocidio, commesso fra il 1904 e il 1907, scrisse: «Io credo che la nazione come tale (gli Herero) debba essere annientata, o, se questo non è possibile con misure tattiche, debba essere espulsa dalla regione con mezzi operativi ed un ulteriore trattamento specifico.[…] L’esercizio della violenza fracasserà il terrorismo e, anche se con raccapriccio, fu ed è la mia politica. Distruggo le tribù africane con spargimento di sangue e di soldi. Solo seguendo questa pulizia può emergere qualcosa di nuovo, che resterà». [4] Il terreno di coltura di una tale concezione era stata la prima guerra mondiale, ma senza dubbio essa affondava le sue radici in periodi antecedenti, soprattutto nell’esperienza coloniale tardo ottocentesca, come si è già avuto modo di accennare. Durante la guerra civile americana, in particolare, si era realizzata una sorta di circolarità fra i metodi usati dall’esercito statunitense per sconfiggere il blocco degli Stati confederati e quelli adottati per piegare la resistenza delle popolazioni “indiane” all’occupazione delle proprie terre da parte dei coloni. [5] In una risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 18 dicembre 1972 si ribadiva solennemente «la legittimità dei movimenti di liberazione nazionale», condannando «gli atti di terrorismo statale, compiuti dai regimi coloniali, razzisti e stranieri». Ed il Comitato speciale per il terrorismo internazionale, costituito con la suddetta risoluzione, affermava poi che «il terrorismo individuale è effetto di quello statale, costituendo una risposta violenta della popolazione civile alla politica statale di oppressione». [6] Tesi condivisa dal circolo più stretto dei consiglieri del presidente statunitense, tra cui vi erano esponenti di punta di una nuova generazione di politici conservatori, come Donald Rumsfeld, Dick Cheney e Paul Wolfowitz, capace di orientare la politica estera americana nell’epoca di Reagan e che poi sarebbe divenuta egemone al tempo delle presidenze dei Bush. [7] Questi rappresentanti dei governi occidentali, sentendosi in fondo autorizzati dal crollo dell’Unione Sovietica a teorizzare la fine delle ideologie non capitalistiche e il conseguente esaurirsi della possibilità e legittimità di qualsivoglia prospettiva rivoluzionaria di cambiamento, in tale risoluzione affermavano che «costituisce atto di terrorismo ogni delitto commesso da singoli individui o gruppi attraverso la violenza o la minaccia della stessa e rivolto contro un paese, le sue istituzioni, la sua popolazione in generale o contro specifici individui, il quale, motivato da aspirazioni separatistiche, da concezioni ideologiche estremiste o dal fanatismo, o ispirato a moventi irrazionali e soggettivi, mira a sottomettere i poteri pubblici, alcuni individui o gruppi sociali o, più in generale, l’opinione pubblica ad un clima di terrore». In ultima analisi, in una simile risoluzione, grazie ad un intenzionale mescolamento di elementi originari ed attuali della nozione di terrorismo, la tranquillità tutelata è unicamente quella dei poteri pubblici. [8] Infatti, secondo i Protocolli Aggiuntivi del 1977 alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 relative alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali e non, sono vietati soltanto «gli atti di violenza o le minacce di violenza il cui fine principale sia di diffondere il terrore tra la popolazione civile». [9] In particolare, ciò si attuerà attraverso le riflessioni di Thomas Hobbes, lo Stato diviene fonte del diritto e della morale, il suo potere è indivisibile e congloba in sé anche l’autorità religiosa. Lo Stato è quindi il migliore dei mondi possibili, anzi è l’unico mondo possibile, è la ratio unica ed assoluta della civiltà, senza di esso gli esseri umani vivrebbero nell’insicurezza continua, in una situazione di guerra permanente.  
Emergenza imprese recuperate, in Argentina il decimo incontro internazionale
La rete internazionale “Economia dei lavoratori e delle lavoratrici” è nata a partire dall’esperienza del programma di ricerca ed estensione universitaria “Facultad Abierta” dell’Università di Buenos Aires, che da oltre quindici anni si occupa di imprese recuperate, autogestione del lavoro in Argentina e a livello internazionale, coordinato dall’antropologo Andrés Ruggeri. Il meeting è concepito come parte integrante di più «ampi processi sociali volti a un cambiamento della società, sulle basi dell’eguaglianza, della solidarietà, della libertà e dell’autogestione». L’Incontro Internazionale, che si svolge ogni due anni, alternato con incontri regionali in America del Sud, del Centro e del Nord, e in Europa, (si è tenuto un incontro a Marsiglia, nel 2014 presso la fabbrica recuperata Fralib, poi un incontro nel 2016 in Grecia presso la Viome di Salonicco e un incontro nel 2019 in Italia, presso la RiMaflow di Trezzano sul Naviglio) rappresenta un progetto comune di tante realtà, movimenti ed esperienze a livello internazionale, con l’obiettivo di articolare dibattito e costruzione politica coinvolgendo ricercator*, lavoratori e lavoratrici di imprese recuperate, cooperative, sindacati e movimenti a livello internazionale, dall’America Latina all’Europa, con partecipazioni e interlocuzioni da America del Nord, Africa e Asia. Con un appello alla solidarietà internazionale, pubblicato in italiano su Jacobin Italia, l’antropologo e coordinatore dell’Incontro Internazionale Andrés Ruggeri denuncia la grave crisi delle imprese recuperate e del movimento dell’autogestione in Argentina a causa delle politiche economiche e repressive del governo di estrema destra di Javier Milei lanciando un appello alla solidarietà internazionale, che invitiamo a sottoscrivere e diffondere [intro della redazione] «Il ruolo della solidarietà internazionale deve essere rilanciato per preservare un movimento che genera non solo lotta, ma anche speranza che un altro modo di produrre e vivere sia possibile e auspicabile, in un mondo sempre più carente di esempi da difendere e seguire. Le imprese recuperate sono importanti per riflettere una realtà che richiede la sopravvivenza dell’autogestione come strumento per la classe operaia, sia per combattere la disoccupazione e la chiusura delle fonti di produzione, sia per formulare relazioni di lavoro più umane e trasformative rispetto alle convenzionali relazioni capitale-lavoro nell’economia capitalista. Ma anche perché le imprese autogestite, in quanto rappresentanti ultime dell’essenza collettiva del lavoro e della produzione, sono forse la manifestazione ultima di ciò che il presidente ha ripetutamente definito «collettivismo maledetto». Per queste ragioni, a nostro avviso, la situazione delle Ert è di enorme importanza. Per questo, diverse organizzazioni e personalità di diversi paesi, in gran parte – ma non esclusivamente – partecipanti alla rete Economia Internazionale dei Lavoratori e delle lavoratrici, hanno deciso di allinearsi al Comitato Internazionale di Solidarietà con l’Autogestione in Argentina, con l’obiettivo di collaborare a sostegno del movimento, tanto nella diffusione delle sue azioni e nelle campagne di solidarietà attive per aiutare l’organizzazione dell’Argentina quanto nella circolazione dei suoi prodotti, come forma di visibilità e di aiuto economico, in diversi paesi del mondo, veicolando l’esempio del lavoro e della produzione senza padroni. In questo comitato ci sono già rappresentanti di organizzazioni autogestionarie e operaie di vari paesi europei (come Spagna, Italia, Francia, Germania e Grecia), dell’America del Nord (Canada e Stati Uniti) e, ovviamente, dell’America Latina.  Questo sostegno è fondamentale e ogni volta più importante quanto più si avvicina il momento difficile e inevitabile dell’esplosione di un modello invivibile per i popoli, quando, più che mai, l’incoraggiamento e la solidarietà internazionale diventano una carta fondamentale, come è stato in molti altri momenti della storia della classe mondiale.  Leggi il testo integrale dell’appello Facciamo appello a quanti vogliano collaborare e solidarizzare a far parte di questo comitato e organizzare e proporre azioni per rafforzare e sostenere un’esperienza che è esempio globale di autogestione e di lotta. Aderisci all’appello Per aderire e proporre azioni alle realtà italiane si può scrivere a 1871internazionale@gmail.com Pubblichiamo l’invito alla partecipazione e alla presentazione di proposte di articoli e di papers, con indicazioni su contenuti, struttura organizzativa e modalità di partecipazione per il 10° Incontro internazionale “L’economia dei lavoratori e delle lavoratrici” che si svolgerà nella città di La Rioja, in Argentina, dal 27 al 29 novembre 2025. Invitiamo i lavoratori e le lavoratrici delle imprese recuperate e autogestite, delle cooperative e delle organizzazioni sociali e popolari, nonché le organizzazioni sindacali e gli accademici interessati e impegnati nelle pratiche di autogestione e nel progetto di una nuova economia dei lavoratori a partecipare a questa nuova edizione dell’Incontro, uno spazio di dibattito e di presentazione delle esperienze di autogestione del lavoro, delle organizzazioni sociali e comunitarie e della classe operaia in generale, che si propongono di discutere i loro problemi e i loro relisultati, insieme agli spazi di militanza e accademici, nella ricerca di un’alternativa a partire dal lavoro e dall’autogestione di fronte alla crisi a cui il capitalismo neoliberista globale sta sottoponendo i nostri popoli. L’Incontro Internazionale si tiene ogni due anni dal primo appuntamento del 2007 a Buenos Aires, Argentina, poi ancora a Buenos Aires (2009), e successivamente in Messico (2011), Brasile (Joao Pessoa, 2013), Venezuela (Punto Fijo, 2015), Argentina (Pigüé, 2017), Brasile (Guararema, Escuela Nacional Florestan Fernandes, 2019) poi di nuovo in Messico (2021 in modalità virtuale) e infine in Argentina nella città di Rosario (2023). A loro volta, dal 2014 si sono tenuti incontri regionali, organizzati per area (Sud America, Nord e Centro America, Europa). Il successo del IV Incontro Latinoamericano che si è tenuto nella provincia di La Rioja nel 2024, organizzato dalla storica cooperativa Copegraf, editrice di “El Independiente Media” e da altre organizzazioni del resto dell’Argentina, è stata decisiva per la decisione di ripetere la sede quest’anno, ma questa volta per l’incontro internazionale che include partecipanti da altri continenti. Le sessioni si terranno nella capitale della provincia di La Rioja, nel nord dell’Argentina, presso il Paseo Cultural Pedro Ignacio de Castrobarros, proprio nel centro della città. IL CONTESTO E I DIBATTITI DEL DECIMO INCONTRO Questo nuovo Incontro si terrà nel contesto di una situazione sempre più critica sia in Argentina che nella regione, con l’aggravarsi della crisi economica internazionale, gli attacchi sempre più frequenti e profondi alle conquiste storiche della classe operaia e l’espulsione permanente di milioni di persone verso la precarietà e l’informalità, in un mondo attraversato da una gigantesca crisi ambientale che mette a repentaglio la vita stessa del pianeta, aggravata dall’esacerbazione della concentrazione della ricchezza e dall’accumulazione a livello esponenziale del capitale a spese del lavoro. La preponderanza sempre più aggressiva delle opzioni di destra e ultradestra in molti Paesi e il frequente ricorso alla guerra per risolvere situazioni di conflitto tra le nazioni e all’interno di esse, insieme alle politiche imprevedibili ma pericolose della potenza imperialista ancora egemone, soprattutto in ambito militare, gli Stati Uniti, rendono la situazione più volatile e pericolosa. Gli attacchi e le deportazioni dei migranti, il genocidio a Gaza, le guerre taciute in Africa, la distruzione delle condizioni di vita e delle politiche sanitarie, educative, abitative e del lavoro accelerate in diversi Paesi dell’America Latina, tra le altre calamità contro i popoli, minacciano anche le lotte della classe operaia. È in questo contesto che governi come quello di Javier Milei in Argentina mettono in discussione non solo le condizioni di vita minimamente dignitose del popolo, ma scelgono come nemico esplicito la classe operaia e soprattutto le organizzazioni e le tendenze politiche che cercano il bene collettivo. L’autogestione e l’economia dei lavoratori sono una visione opposta a quella della crescente ultradestra. Esprimiamo un progetto alternativo al capitale e, pertanto, dobbiamo discutere i problemi, la situazione e le realizzazioni delle nostre idee e realtà, nonché le possibilità della loro articolazione, crescita e consolidamento. In questo modo, le nostre traiettorie e idee possono essere presentate come una delle poche espressioni in grado di mostrare un’alternativa reale ed efficace, basata sulla pratica e sull’esperienza di imprese recuperate, cooperative, organizzazioni comunitarie, in città e in campagna, che nonostante le difficoltà esistono e creano quotidianamente una logica diversa. Rafforzare queste esperienze alternative attraverso lo scambio, il dibattito e l’articolazione locale, regionale e internazionale è stato lo scopo di questo incontro fin dalla sua fondazione, diciotto anni fa. A partire da questa convinzione, invitiamo a partecipare a questa nuova edizione, con l’obiettivo di rafforzare e ampliare il dibattito e l’organizzazione e di poter ripensare un progetto di economia e di società a partire dalla classe operaia e dalle sue esperienze e organizzazioni. TEMI E LINEE GUIDA DELL’INCONTRO: Ogni asse costituisce una linea guida per i temi di dibattito che saranno discussi durante l’incontro e un riferimento per l’organizzazione del programma sulla base delle proposte ricevute, compito che sarà assunto dal comitato organizzativo locale e internazionale. Assi principali: 1. Analisi della situazione della classe operaia nella crisi politica, economica e ambientale del capitalismo globale. Autogestione di fronte alla sfida delle nuove e vecchie destre. 2. L’autogestione come pratica e progetto alternativo. 3. Sfide organizzative e politiche del sindacalismo e di altre forme di organizzazione dei lavoratori salariati e di altre forme di organizzazione nel capitalismo neoliberale globale. 4. Precarizzazione e informalizzazione del lavoro nel capitalismo globale: esclusione, inclusione o riformulazione delle forme di lavoro? 5. L’economia dei lavoratori da una prospettiva di genere. 6. Problemi e sfide della produzione industriale autogestita, della commercializzazione e della loro articolazione nell’economia dei lavoratori. 7. Produzione agricola autogestita e comunitaria nell’economia dei lavoratori. 8. Stato e politiche pubbliche nell’economia dei lavoratori. 9. Che ruolo hanno la formazione, l’autosviluppo e l’innovazione? Scadenze per la presentazione di proposte di lavori: presentazione degli abstract: 30/9/25; accettazione degli abstract 10/10/25; presentazione degli articoli completi: 31/10/25. Le proposte devono essere presentate come abstract di non più di una pagina. Si raccomanda di accompagnare la proposta con un suggerimento in quale dei 10 assi tematici proposti dovrebbe essere incluso. Se la proposta viene approvata, l’elaborato non dovrà essere più lungo di 10 pagine, in Times New Roman o Arial 12, con interlinea 1,5. I lavori approvati saranno caricati su un sito web prima della riunione. Per la presentazione di documenti in altri formati, si prega di contattare gli organizzatori. La presentazione di relazioni o proposte deve essere inclusa nel modulo di iscrizione e inviata all’indirizzo e-mail xencuentrolarioja@gmail.com. Scadenze per la presentazione di proposte per workshop, presentazioni di libri e riviste e presentazioni audiovisive: presentazione: 30/9/25; accettazione: 10/10/25. Nel caso di presentazione di workshop, questi dovranno essere giustificati in termini di tema, metodologia, partecipanti e relazione con i temi principali dell’incontro. Queste proposte saranno valutate anche in base alla loro rilevanza e alla disponibilità di spazio all’interno dell’incontro. Registrazione (gratuita) su: https://forms.gle/Ak9DiHeywQt9YFbM8 Termine ultimo per la registrazione come partecipante fino all’inizio dell’Incontro. La partecipazione è gratuita e verranno rilasciati attestati di partecipazione e di relatore (per ottenere l’attestato di partecipazione, l’iscrizione deve essere effettuata entro il 20/11/2025). Maggiori informazioni su www.recuperadasdoc.com.ar Comunicazioni a xencuentrolarioja@gmail.com Immagine di copertina di Ri Maflow, incontro euromediteraneo Economia dei lavoratori e delle lavoratrici. La prima immagine nell’articolo è dell’Incontro in Grecia (foto dinamopress) e la seconda di Alioscia Castronovo, 2017, incontro presso la fabbrica recuperata Textiles Pigué, provincia di Buenos Aires, Argentina L'articolo Emergenza imprese recuperate, in Argentina il decimo incontro internazionale proviene da DINAMOpress.
Il processo di Budapest
Con la dicitura Processo di Budapest, facciamo riferimento ai diversi procedimenti giudiziari che hanno preso il via in seguito alle contestazioni alle celebrazioni neonaziste in occasione delle cosiddette “Giornate dell’onore”, tra il 9 e l’11 febbraio del 2023. Queste giornate, che ufficialmente celebrano la “resistenza” contro l’Armata Rossa, sono di fatto un insieme di parate e rievocazioni nostalgiche, finanziate direttamente dal governo ungherese, in cui si radunano i partecipanti delle peggiori sigle neonaziste da mezza europa tra cui: Legio Hungaria, Hammerskin, Blood&Honour e Nordic Resistance. Nell’ambito delle contromanifestazioni che si sono tenute in quei giorni sono state denunciate delle aggressioni al alcuni partecipanti ha portato l’11 febbraio 2023  all’arresto a Budapest di Ilaria e due cittadini tedeschi, Tobi e Anna. > Ad oggi ci sono 15 imputati di cui 3 italiani a piede libero e 12 in germania > di cui 2 a piede libero, 8 in varie carceri tedesche e un* in carcare in > Ungheria. Il processo, che in diversi casi ha come perno le dichiarazioni di noti neo-nazisti, ha ben presto acquisito una dimensione europea non solo per effetto del MAE – mandato di arresto europeo – spiccato ai danni delle e degli antifascisti imputati, ma anche per la solerzia delle autorità nazionali dei Paesi coinvolti nel coordinamento della caccia al militante antifascista. Inoltre l’uso del reato associativo ha permesso l’applicazione di lunghissimi periodi di carcerazione preventiva e restrizioni nelle comunicazioni, intercettazioni, pressioni e violenze nei confronti di amici e familiari degli imputati, e accuse che prevedono molti anni di carcere. Difornte a un quadro così complesso e preoccupante la solidarietà deve essere all’altezza di questo apparato repressivo e sempre più si devono moltiplica le azioni di solidarietà e lotta a sostegno dei prigionieri antifa in Ungheria, Germania e ovunque in Europa! ILARIA Dopo 16 mesi di detenzione a Budapest, è stata liberata nel giugno 2024 perché eletta al Parlamento europeo. Il governo ungherese ha chiesto al Parlamento di revocarle l’immunità e la commissione dovrà decidere sul suo caso tra settembre e ottobre. Qualora l’immunità venisse revocata, il processo a suo carico riprenderebbe e Ilaria rischierebbe nuovamente di essere arrestata ed estradata in Ungheria. GABRI È attualmente libero in Italia con divieto di espatrio. Nel marzo del 2024, dopo 3 mesi di domiciliari, la corte d’appello di Milano ha respinto la richiesta di estradizione dell’Ungheria a causa delle condizioni disumane di detenzione nelle carceri magiare. Il suo processo è ripreso insieme a quello per Maja e per ovvi motivi non sta partecipando alle udienze. Per tutte le informazioni sul processo e la campagna di solidarietà segui: www.instagram.com/comitato_antirep_milano GINO Gino è stato liberato. Al momento si trova  piede libero in attesa che il processo a Budapest riprenda anche per lui. Per tutte le informazioni sul processo la campagna di solidarietà segui: https://www.instagram.com/liberez_gino/ MAJA Maja è stat* arrestat* a Berlino nel dicembre 2023 e, dopo aver trascorso sei mesi in prigione a Dresda, è stat* illegalmente deportat* in una prigione di Budapest il 27 giugno 2024. Nel luglio 2025, Maja ha intrapreso uno sciopero della fame durato 40 giorni e ora si trova in un ospedale penitenziario a più di 200 km da Budapest, vicino al confine rumeno. A settembre riprenderanno le udienze del processo, per il quale rischia fino a 24 anni di carcere. Per tutte le informazioni sul processo e la campagna di solidarietà segui: https://www.instagram.com/free.maja/ PAUL, NELE, CLARA, ZAID, MORITZ, LUCA, PAULA ED EMMI Il 20 gennaio 2025, sette compagni che erano in fuga da quasi due anni si sono consegnati alle autorità tedesche. A loro si è aggiunta Emmi, che si è consegnata due mesi dopo. Nel maggio 2025, Zaid è stato rilasciato dal carcere poiché è stato incriminato solo dalle autorità ungheresi e non anche da quelle tedesche.  Gli altri sette compagni sono attualmente detenuti nelle carceri di Lipsia, Amburgo, Chemnitz e Bielefeld, in attesa della decisione delle autorità tedesche sulla richiesta di estradizione dell’Ungheria. I loro processi si terranno a Dresda e Düsseldorf (a centinaia di chilometri dal luogo di residenza delle loro famiglie). Sono accusati di far parte di un’organizzazione criminale (articolo 129 del codice penale tedesco) e di tentato omicidio. A causa della loro giovane età, alcuni potrebbero essere processati come minorenni. Zaid, in particolare, rischia di essere estradato in Ungheria, o addirittura deportato in Siria, perché non è cittadino tedesco. Per tutte le informazioni sul processo e la campagna di solidarietà segui: https://www.instagram.com/budapest.soli.duesseldorf/ ANNA  È stata arrestata a Budapest con Ilaria Salis e Tobi nel febbraio 2023. Ora si trova in Germania con alcune restrizioni. Attualmente è sotto processo a Budapest in contumacia. TOBI Tobi è stato arrestato a Budapest nel febbraio 2023 e condannato a 22 mesi di carcere dopo aver accettato il patteggiamento del pubblico ministero. Dopo aver scontato la pena in Ungheria nel dicembre 2024, è tornato in Germania dove è stato immediatamente arrestato di nuovo. È stato poi trasferito nella prigione di Burg in Germania, dove ora dovrà affrontare il processo per il caso Antifa Ost davanti alla Corte regionale superiore di Dresda. Per tutte le informazioni sul processo e la campagna di solidarietà segui: https://www.instagram.com/free.tobi161/ HANNA È stata arrestata nel maggio 2024, prima imprigionata a Norimberga, poi trasferita nella prigione di Monaco. Il suo processo è iniziato nel febbraio 2025 ed è ancora in corso. Il procuratore ha chiesto per lei una pena di un anno, il suo processo dovrebbe concludersi il 15 settembre.  Per tutte le informazioni sul processo e la campagna di solidarietà segui: https://alleantifa.noblogs.org/ PAUL E JOHANN Johann è stato arrestato nel novembre 2024 a Weimar dopo aver trascorso diversi anni in clandestinità. Johann sarà processato davanti alla Corte d’appello regionale di Dresda a partire da questo autunno, insieme ad altri tre detenuti (Paul, Tobias, KW-Thomas/Nanuk) e tre compagni che non sono in carcere.  INIZIATIVE DI SOLIDARIETÀ INTERNAZIONALE In questi anni si sono tenute decine di iniziative a sostegno degli imputati del processo, sia per raccogliere fondi sia per dimostrare azioni di solidarietà concreta e dibatitto sul tema dell’antifascismo. In Germania il movimento di solidarietà per il caso Budapest è iniziato nel febbraio 2023, quando Tobi e Ilaria sono stati arrestati.  Naturalmente, a causa della repressione estremamente dura che gli antifascisti subiscono nel Paese, le manifestazioni contro la repressione non si limitano a singoli casi giudiziari, ma affrontano un contesto più ampio. Alcune delle più grandi manifestazioni contro la repressione si sono svolte durante il Tag X a Lipsia nel 2023, il giorno in cui il tribunale di Dresda ha pronunciato le sentenze di reclusione per gli attivisti di Antifa Ost, e la manifestazione contro la repressione a Jena nel giugno 2025, dove più di 10.000 persone hanno marciato insieme. Regolarmente vengono organizzate manifestazioni davanti alle prigioni dove sono detenuti gli antifascisti. > In Italia fin dall’arresto di Ilaria ci sono state manifestazioni e iniziative > che si sono intensificate soprattutto a partire da gennaio 2024 con > l’organizzazione di giornate di mobilitazione a Milano che sono iniziate con > il corteo nazionale Free All Antifas del 13 gennaio per concludersi con la > revoca dell’estradizione per Gabri nel mese di febbraio. Per tutto l’anno si sono poi sviluppate inizative di approfndimento e benefit fino all’arresto di Gino a Parigi a dicembre che ha visto iniziative coordinate in Francia e in Italia per opporsi alla richiesta di estrazizione in Ungheria. In Francia si è assistito a una grande mobilitazione dal basso che ha coinvolto personaggi della società civile insieme a collettivi, spazi sociali e squadre di sport popolare in una campagna di pressione sulle autorità che ha portato proprio alla negazione dell’estradizione di Gino. In Italia ricordiamo inoltre il corteo Free All Antifas dell’1 marzo 2025 e le successive mobilitazioni per l’anniversario di Dax che hanno declinato il motto Antifascismo è Anticapitalismo anche attraverso la solidarietà agli imputati e ospitando durante l’assemblea internazionale gli interventi dei comitati da Francia e Germania. CAMPAGNA DI RACCOLTA FONDI La solidarietà ha bisogno anche di impegno concreto, per questo la campagna di raccolta fondi ha pagato gli avvocati.e, viaggi di parenti e amici .he e sostegno diretto ai prigionieri con le donazioni raccolte tramite decine di benefit, un corwfoundig ospitato da Produzioni dal Basso e le vendite del fumetto Questa Notte Non Sarà Breve di Zerocalcare. Tuttavia non si è ancora concluso il primo grado di giudizio e le pene previste sono molto alte, è importante continuare a sostenere la cassa nei mesi a venire! L’associazione Brigate di Solidarietà ha creato un conto dedicato esclusivo per questa causa ed è possibile effettuare donazioni tramite bonifico o pagamento su PayPal. IBAN: IT20Z0623001616000015293082 Beneficiario: Brigate Volontarie per l’Emergenza ODV Paypal: https://www.paypal.com/paypalme/brigatevolontarie Per restare aggiornati sul processo e sulle azioni di solidarietà seguia la Campagna Free All Antifas – Italy Sito: https://freeallantifas.noblogs.org/  Canale telegram: http://t.me/freeallantifas Comitato Antirepressione Milano: www.instagram.com/comitato_antirep_milano/ Mail: freeallantifasitaly@inventati.org Budapest Antifascist Solidarity Committee (in tedesco) Sito: https://www.basc.news/  Instagram https://www.instagram.com/freebudapesttwo/ Questa mappa è stata presentata il 5 settembre 2025 in contemporanea al festival Renoize – in ricordo dell’omicidio di Renato Biagetti (Roma) e al COA T28 (Milano)- in occasione dell’assemblea pubblica cittadina e della cena benefit per il processo. Immagine di copertina di Budapest Antifascist Solidarity Committee L'articolo Il processo di Budapest proviene da DINAMOpress.
Narco-stato e fascismo criminale in Messico
Ciao a tutt*, siamo qui a dare la nostra parola come collettivo internazionalista Nodo Solidale, un piccolo gruppo di militanti con un sogno rivoluzionario, piantato su due sponde dell’oceano, una in Messico e l’altra in Italia. Partendo dalla nostra umile e specifica esperienza politica, speriamo di stimolare e nutrire il dibattito, necessario, che ci propone questa meravigliosa realtà che ringraziamo e di cui ci sentiamo parte. Perché Renoize è la memoria viva di Renato, idea e pratica mai sopita di antifascismo comunitario che ancora ci unisce in questa città sempre più delirante e difficile. Come molt* già sanno, per il nostro collettivo esserci oggi è una questione d’infinito, inesauribile, amore ribelle.  Come bianchx europex che attraversano, vivono, amano e si riconoscono complici di quel Messico “dal basso”, ribelle e resistente, proveremo a tradurre in questo intervento ciò che osserviamo da circa vent’anni, citando talvolta i nostri stessi contributi su nodosolidale.noblogs.org Il tema che ci convoca è la guerra contro l’umanità che stiamo vivendo. Ormai sappiamo che le guerre servono all’autocrazia mondiale – passatecelo come concetto critico e metaforico – per «distruggere e spopolare» per poi «riordinare e ripopolare i territori» secondo gli interessi di un unico vincitore: il capitale. È questa la formula coniata dagli e dalle zapatiste dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) per leggere la «Quarta guerra mondiale». “Quarta” perché durante quella che fu definita “Guerra fredda” si sono combattutte più di un centinaio di guerre in tutto il pianeta, insomma di freddo c’era poco… La guerra globale permanente che sta combattendo il capitale globale contro l’umanità.  Il genocidio in Palestina preparato da anni di occupazione, assedi e attacchi sistematici al popolo palestinese, ne è tragicamente la dimostrazione più feroce e palese. «L’atto finale del colonialismo bianco», così lo definisce il giornalista Bellingausen. Come scrive Rita Laura Segato, ci sono massacri che non si limitano allo sterminio fisico: colpiscono la trama stessa del vivente. Non si uccidono soltanto corpi: si spezzano genealogie, si interrompono legami, si devastano comunità. È un femminicidio mondiale, dove ciò che è relazionale, ciò che custodisce e protegge la vita, viene ferito al cuore, proprio perché la vita è l’antitesi del capitalismo. Accade oggi in molte parti del mondo quello che giustamente qui chiamate «regime di guerra». E non si tratta soltanto del cosiddetto «modello Orbán“ delle destre: anche governi che si proclamano progressisti riproducono, con maschere nuove e un lessico più seducente per le masse, le stesse logiche di dominio e sfruttamento del capitale globale. In questo senso, il Messico e la guerra non dichiarata che vi si consuma, rappresentano oggi un laboratorio “anomalo” di potere e sfruttamento, un esempio drammatico che non possiamo ignorare e che vorremmo provare a inquadrare insieme. LA QUARTA TRASFORMAZIONE Citiamo ancora l’EZLN che, in uno dei suoi comunicati più recenti ha descritto il pianeta come un unico e grande latifondo: i padroni sono le grandi imprese multinazionali, mentre i governi non sono altro che i caporali che si alternano nella gestione tirannica del pezzo di proprietà loro assegnato. L’alternanza fra i diversi caporali è quella che chiamano democrazia. E  In quest’ ottica, l’arrivo di Morena (Movimiento de REgeneración Nacional) al governo non ha cambiato il sistema, ma soltanto chi lo amministra, il caporale, appunto. In Messico, dopo due sconfitte elettorali, Andrés Manuel López Obrador decise di abbandonare il PRD e fondare appunto Morena, un nuovo movimento che si presentava come voce della sinistra popolare e alternativa al sistema dei partiti tradizionali: un partito costruito intorno alla sua figura, più che su un progetto collettivo. Nel 2018, al terzo tentativo, ha conquistato la presidenza con un consenso senza precedenti, presentandosi come paladino della “Quarta trasformazione” del Paese, dopo l’Indipendenza (1810-’21), la Riforma liberale (1867) e la Rivoluzione Messicana (1910-’17). > Al posto di una vera democratizzazione si è consolidato invece un potere > personalistico, con programmi sociali più utili al consenso che alla giustizia > strutturale. La militarizzazione della sicurezza è proseguita, smentendo gli > impegni iniziali, mentre le politiche economiche hanno favorito le pratiche > estrattiviste. Nel 2024 Claudia Sheinbaum è diventata la prima donna presidenta del Messico, ma la sua elezione è stata solo un sigillo di continuità con il governo precedente. Sul piano sociale, a livello micro-economico, si è tentata una ridistribuzione dei redditi, soprattutto nelle campagne e nelle zone più povere del Paese, attraverso numerosi programmi puramente assistenzialistici. Questi interventi, infatti, pur alleviando un po’ le difficoltà immediate di sopravvivenza, restano privi di una reale prospettiva di cambiamento strutturale delle vite e spesso sono stati utilizzati in chiave controinsorgente: per cooptare, comprare le coscienze e indebolire le lotte sociali e i movimenti popolari, soprattutto quelli autonomi.  A livello macro-economico, i governi progressisti di López Obrador e Claudia Sheinbaum hanno invece continuato e, in certi casi, approfondito il solco delle politiche neoliberali imposte dal Fondo Monetario Internazionale e da organismi finanziari continentali come il Banco de Desarrollo Interamericano. In questo contesto, il Messico si presenta come nuova potenza regionale “latina”, sia culturalmente che politicamente, ma il suo rapporto di sudditanza con gli Stati Uniti resta invariato: la dipendenza economica e politica limita le possibilità di indipendenza e di trasformazione reale, consolidando invece il modello di sviluppo orientato al mercato e alle élite transnazionali più che ai bisogni della popolazione.  Foto Nodo Solidale I MEGA-PROGETTI E IL MODELLO ESTRATTIVISTA Il progetto trentennale di riordino strutturale e geostrategico, noto come Plan Puebla-Panamá, ostacolato storicamente dalle resistenze locali, trova oggi nuova linfa con i governi progressisti messicani. In Messico l’estrattivismo resta il vero motore dell’economia, con i settori minerario, petrolifero e forestale che servono principalmente a garantire profitti alle grandi imprese, calpestando i diritti delle comunità locali. I governi recenti hanno puntato a rafforzare la Comisión Federal de Electricidad (CFE) come strumento di sovranità nazionale, ma al contempo hanno aperto sempre più spazi alle grandi imprese e investitori esteri, che continuano a esercitare un’influenza decisiva. Nel 2025 il governo di Sheinbaum vanta il record di investimenti stranieri: 36 miliardi di dollari. I progetti di energia rinnovabile, spesso promossi come sostenibili, convivono con centrali fossili e idroelettriche ad alto impatto sociale e ambientale, che espropriano terre e risorse delle comunità locali. Progetti energetici come la raffineria di Dos Bocas a Tabasco non mirano tanto allo sviluppo interno, quanto a fornire energia agli Stati Uniti, rafforzando un modello di subordinazione economica e geopolitica.  Così sviluppo, estrattivismo e controllo politico si intrecciano, trasformando risorse naturali e territori in spazi di messa a valore, mentre le popolazioni locali pagano il prezzo ambientale e sociale.  Progetti come il Tren Maya rappresentano uno specchietto per le allodole: presentati come iniziative di sviluppo turistico e valorizzazione culturale, dietro il marketing verde e sostenibile si nasconde un impatto ambientale e sociale devastanti. La costruzione della ferrovia attraversa ecosistemi fragili, distruggendo porzioni significative di selva maya e habitat naturali, mettendo a rischio specie animali e piante endemiche. Allo stesso tempo, le comunità indigene e rurali lungo il percorso subiscono espropri, pressione economica e marginalizzazione, senza ricevere veri benefici dal progetto. Su quei binari viaggiano soprattutto merci, mentre il turismo promesso risponde agli interessi delle grandi imprese e degli investitori, riducendo territori ricchi di biodiversità a semplici scenografie per flussi rapidi e superficiali. Così, il Tren Maya diventa un altro esempio di come il discorso di sviluppo sostenibile possa mascherare pratiche estrattiviste, neoliberali e di sfruttamento dei territori e delle popolazioni locali.  Il Corredor Transístmico rappresenta uno dei progetti infrastrutturali più ambiziosi di questi governi progressisti. Attraversando l’istmo di Tehuantepec, collega l’Oceano Pacifico con l’Atlantico, posizionando il paese come alternativa commerciale strategica al canale di Panama. Il progetto integra porti, ferrovie, strade e zone industriali in un corridoio che trasforma radicalmente il territorio: vaste aree rurali e indigene sono espropriate, gli ecosistemi fragili vengono travolti dalla linea ferroviaria di altà velocità e il paesaggio naturale riscritto per accogliere infrastrutture logistiche e attività produttive intensive. Dal punto di vista logistico, il corridoio accelera in maniera vertiginosa i flussi di merci, materie prime e persino turisti, integrando il Messico in catene globali di commercio e consolidando la sua funzione di hub regionale a beneficio delle élite e del capitale internazionale.  Non si tratta solo di Grandi Opere o Mega-progetti, ma di dispositivi geopolitici di controllo su territorio e popolazione. La trasformazione non è mai neutra: diventa accumulazione capitalistica e controllo sociale, mentre i benefici restano simbolici o concentrati in poche mani. I mega-progetti messicani mostrano così il volto reale di uno sviluppo estrattivista e politicizzato, dove tutto è subordinato a profitto e potere. UN’IMMENSA FRONTIERA Nella logica violenta del riordino territoriale rientra naturalmente anche la gestione delle frontiere. Il Messico, sotto la pressione costante degli Stati Uniti, continua, per esempio, ad applicare il Plan Frontera Sur, rilanciato e inasprito nel 2024 con nuovi fondi statunitensi, droni di sorveglianza e pattugliamenti congiunti. L’obiettivo dichiarato: contenere le migrazioni prima che arrivino al confine nordamericano. L’obiettivo reale: esternalizzare il confine USA fino al Guatemala, trasformando tutto il Messico in una immensa zona di frontiera. Mentre il governo federale stringe accordi con Washington per contenere il flusso migratorio, intere regioni diventano zone cuscinetto, dove la migrazione è gestita come una minaccia militare invece che come una crisi umanitaria. Il dramma migrante in Messico, infatti, non è solo il risultato di rotte pericolose o confini militarizzati, ma è il frutto di un sistema che trasforma la mobilità umana in problema di sicurezza. La migrazione viene gestita come minaccia, mentre chi fugge da fame, violenza o disastri climatici si trova intrappolato tra politiche repressive, gruppi criminali e frontiere invisibili che segnano territori e corpi. Centri di detenzione, pattugliamenti, accordi internazionali con gli Stati Uniti e controllo tecnologico del territorio rendono ogni passo del cammino un percorso di costante rischio, mentre i diritti fondamentali vengono negati e la dignità calpestata. I dati ufficiali parlano di un flusso verso il nord di circa un milione e mezzo di migranti all’anno, ma solo nel 2024 questo governo di “sinistra” ha dichiarato di averne arrestati 925.000. > Circa 9.000 le denuncie di migranti desaparecid@s, scomparsi, numero > nettamente inferiore alla realtà, perché ovviamente è estremamente complicato > per i familiari di un altro Paese realizzare la pratica della denuncia in > Messico.  La presenza dei cartelli del narcotraffico, poi, lungo le rotte migratorie di Chiapas, Oaxaca, Veracruz, Tabasco, con percorsi secondari in Guerrero e Campeche, si intensifica sempre di più: sequestri per estorsione, stupri a fini di tratta e reclutamento forzato. Desaparecid@s in tutto il Paese. I migranti sono costretti a lavorare come sicari o come braccianti nei campi di oppiacei o nei laboratori di metanfetamina, mentre le donne sono trascinate nel girone infernale della prostituzione forzata e della tratta. La frontiera non è una linea: è una trappola, un labirinto di checkpoint, milizie, sequestri, fosse comuni e omertà che pervade il Paese. La migrazione diventa così un altro laboratorio di sfruttamento, esclusione e violenza, dove lo Stato, le mafie e gli interessi geopolitici definiscono chi usare, chi può sopravvivere, chi deve arretrare e chi scompare nell’oblio di rotte invisibili.  Per anni la frontiera nord del Messico è stata il simbolo del dramma, con il muro che separava famiglie, sogni, vita e morte. Ma anche al sud la violenza era già presente e oggi si è moltiplicata, trasformando intere regioni in teatri di guerra silenziosa. Nord e Sud sono ormai scenari di un conflitto che colpisce migranti e comunità locali, lasciando dietro di sé terre devastate e vite spezzate: una narco-dittatura, feroce forma di fascismo criminale in America Latina. Foto Nodo Solidale NARCO-STATO: FRAMMENTARE, IMPAURIRE, SORVEGLIARE E PUNIRE  Insomma, questa politica del riordino territoriale che “distrugge e spopola” per “ricostruire e ripopolare” che è tipica del capitalismo estrattivista globale, si innesta anche in Messico e lo fa su di un elemento nazionalista: l’uso della forza dello Stato non solo come strumento di controllo ma anche di gestione economica. Gli appalti per le grandi opere vengono assegnati alle imprese costruttrici tramite la SEDENA (Secretaría de Defensa Nacional, il ministero della Difesa) e custoditi dalle forze militari grazie a un decreto che definisce questi mega-progetti «territori di rilevanza strategica nazionale». Con gli ultimi due governi progressisti, l’Esercito messicano ha rafforzato il proprio peso politico, assumendo funzioni civili e di polizia, fino all’incorporazione nel 2024 della Guardia Nacional nella SEDENA. Ispirata al modello dei Carabinieri italiani, la Guardia è nata nel 2019 come corpo militarizzato alternativo alla corrotta Policia Federal. Oggi conta 130.000 agenti, assorbiti dalle Forze Armate e dispiegati in tutto il paese. In particolare, sono concentrati lungo la frontiera sud e in quei luoghi considerati strategici per l’economia nazionale, fungendo sia da barriera per respingere i migranti in arrivo dal Centroamerica, sia da protezione del capitale investito nelle grandi opere e nelle attività estrattiviste.  In definitiva, è una mercificazione capitalista dei territori, sostenuta e difesa dal braccio armato dello Stato: l’Esercito federale. Un’alleanza potente e spaventosa, soprattutto quando è risaputo – e dimostrato – che in Messico le forze armate sono complici e socie dei consorzi criminali, specialmente dello storico cartello di Sinaloa. Al di là della rappresentazione simbolica che spoliticizza i “narcos” – o addirittura li rende accattivanti attraverso serie tv e film –, infatti, crediamo che il fenomeno vada letto come una forma di organizzazione specifica dell’economia capitalistica neoliberale e globalizzata. Ci azzardiamo a dire che in molte parti del mondo l’economia criminale sta penetrando nelle relazioni economiche come un vero e proprio modo di produzione capitalistico, un modo assolutamente violento, quindi “fascista” in senso ampio. Non è una peculiarità esclusiva del Messico o dell’America Latina, basti pensare alle mafie europee, come quella russa, alle organizzazioni camorristiche e ‘ndranghetiste in Italia capaci di muovere capitali globali, alle “scam cities” asiatiche, alle triadi cinesi, alla Yakuza giapponese o ai cartelli africani legati ai traffici di materie prime e migranti.  > Se il profitto economico è il principio cardine della politica contemporanea, > il crimine organizzato è l’attore perfetto della distopia capitalista: si > presenta come un imprenditore dotato di capitali inesauribili, capaci di > scorrere dai mercati sommersi a quelli formali, contaminandoli. Le sue fonti di ricchezza sono le più estreme forme di mercificazione: i corpi (con il traffico di organi, la prostituzione, lo sfruttamento dei migranti), le armi, le droghe e tutto ciò che può generare valore di scambio. La mano d’opera quasi schiavizzata, tra precarietà assoluta e negazione di ogni diritto lavorativo, permette inoltre l’immpennata della curva del plusvalore, accelerando l’accumulazione di ricchezza. Oltre a questa presenza attiva nel mercato, il crimine organizzato, che nei fatti si fa socio della classe politica che corrompe e protegge, rappresenta anche il “nemico perfetto” nel discorso pubblico dei governi perché si consolida come il pretesto inoppugnabile per incentivare le spese militari, estendere la militarizzazione, aumentare gli effettivi di polizia, affinare le forme di tecno-controllo sulla popolazione, che, di fronte alla reale e spietata violenza di questi consorzi mafiosi, spesso applaude addirittura le politiche securitarie e repressive.  Così che l’applauso del popolo e la narrativa delle istituzioni distolgono l’attenzione da un fatto socialmente comprovato: il crimine organizzato è parte viva e integrante tanto dell’apparato economico, amministrativo e repressivo come del suo tessuto sociale. È un elemento fondamentale e attivo dell’economia attuale di un Paese come il Messico, solo per rimanere nell’esempio di cui stiamo parlando. È una struttura fluida e diffusa che pervade imprese e istituzioni.  Infine il crimine organizzato offre allo Stato la possibilità di una repressione in “outsorcing”: fuori dai corpi armati ufficiali del potere, le bande di criminali diventano, infatti, i mercenari e i paramilitari contemporanei che, mentre generano terrore nella popolazione per sottometterla alle proprie necessità economiche, eliminano selettivamente chiunque si opponga o denunci queste convivenze criminali. Giornalist*, compagn*, attivist* sociali, ambientalisti, madres buscadoras, leader indigeni o comunitari, vengono tutt* falciati dalle smitragliate dei “narcos” o fatti sparire, mentre i governi, anche quelli progressisti, se ne lavano le mani, giocando ad accusare la criminalità “narco” di questi tristi, interminabili e sempre impuniti delitti. > In Messico, questa guerra invisibile e “democratica” va avanti dal 2006, dalla > cosiddetta “guerra al narcos” di Felipe Calderón fino al 2025, ha già prodotto > 532.609 morti, di cui almeno 250.000 sotto i governi progressisti di López > Obrador e Sheinbaum. Parallelamente, 123.808 persone > risultano desaparecidas (dato ufficiale al 13 marzo 2025), quasi 50.000 negli > ultimi sei anni. La tragedia avviata dalle destre non si è fermata con il progressismo: si è moltiplicata. Tutti i governi, senza distinzione ideologica, hanno le mani sporche di sangue. È da più di quindici anni che, come collettivo, ci uniamo a quella parte della società civile organizzata che denuncia questa guerra negata, manipolata o romanticizzata, per esempio, lo ripetiamo, nelle serie televisive dedicate al narcos. Si tratta invece di una guerra e di un modello eminentemente capitalista, che accumula enormi ricchezze attraverso il traffico di merci, armi e corpi. Quelli dei migranti, delle donne e dei bambini rapiti, dei giovani attratti da offerte di lavoro ingannevoli e arruolati a forza. Corpi torturati, smembrati, sciolti nell’acido, ridotti a niente. È la fabbrica del terrore, la necro-produttività capitalista. La repressione e il terrore, in questo contesto, non sono più diretti solo contro guerriglieri o attivisti, ma diventano una forma di governance flessibile e spietata: un dispositivo che disciplina territori e popolazioni, che difende il capitale e normalizza l’orrore. Questo meccanismo, oltre a reificare e mercificare tutto, persone, corpi, spazi e tempi di vita, ha anche un ruolo ideologico decisivo: spoliticizzare la lotta di classe, trasformare la resistenza in “criminalità”, oscurare il saccheggio dietro la retorica della sicurezza. Si potrebbe pensare, ironicamente, che «almeno non piovono le bombe dal cielo», che il Messico non sia come la Palestina, la Siria, il Kurdistan, il Sudan o l’Ucraina. Eppure il numero delle vittime è paragonabile, a volte persino superiore. Non è una guerra simmetrica tra eserciti, né la classica guerra asimmetrica tra Stato e nemico interno.  Il Messico è quindi il laboratorio di una nuova forma di conflitto: una guerra di frammentazione territoriale. Le aree più colpite sono le periferie rurali e semi-rurali, ma anche città e metropoli subiscono gli effetti di questa guerra fatta di micro-conflitti ad altissima intensità di fuoco, disseminati e invisibili, che devastano la vita civile, condotta da una moltitudine di attori armati come cartelli, paramilitari, bande giovanili, forze speciali di polizia come i Pakales, esercito federale, Guardia Nacional e gruppi di autodifesa più o meno legittimi che si contendono territori e mercati. Ripetiamo: Stato e crimine non sono blocchi contrapposti e monolitici, ma componenti fluidi di un vasto mercato condiviso, dove politici, giudici, militari, narcos e imprenditori si intrecciano in una feroce lotta per risorse, corpi, territori e flussi economici. In Chiapas, dove vari compagn* del nostro collettivo vivono, il sud profondo del Paese, la situazione è esplosiva. Si contano 15,000 “desplazados“, sfollati di intere comunità indigene e contadine costrette ad abbandonare le proprie terre a causa dell’intensificarsi dei conflitti armati, con il cartello di Sinaloa e Jalisco Nueva Generación che si intrecciano a forze di sicurezza e paramilitari. Solo in questi primi sei mesi del 2025 sono state scoperte 27 fosse comuni clandestine nella zona a ridosso la frontiera. In varie aree, lo Stato si ritira. In altre, convive o subappalta al crimine organizzato la gestione della res publica come l’elezione pilotata dei sindaci (o la loro soppressione), la riscossione delle “tasse” o il pizzo, la gestione delle licenze, l’imposizione di orari di coprifuoco. Altrove, lo Stato reprime. Sparizioni forzate, imboscate e sparatorie in pieno giorno, femminicidi come pratica sistematica, villaggi rasi al suolo e fosse comuni clandestine sono l’orrore quotidiano di questa guerra di frammentazione territoriale, dove ogni metro quadrato del Chiapas sembra ardere per un conflitto diverso, per il moltiplicarsi degli attori armati in gioco. E non si sa mai bene chi è stato, perché il nemico è ovunque, volutamente spoliticizzato, cangiante, feroce. Resta dunque una domanda cruciale: Come ci si scontra con le mafie quando queste governano? Come ci si ribella a un nemico politicamente impalpabile? Non a un esercito in uniforme, ma a una moltitudine camaleontica di imprenditori della violenza, senza regole, senza etica, senza patto sociale. Contro chi dirigere la rabbia sociale? A chi chiedere giustizia? Questa è la potenza terribile del dispositivo: rendere la rivolta quasi impossibile.  Eppure, nonostante tutto, comunità e movimenti continuano a resistere, a costruire autonomia, isole di speranza nel mare infuocato di questa guerra anomala. Nella selva del Chiapas, sulle coste del Pacifico, nelle periferie delle megalopoli, negli assolati deserti del nord decine di collettivi, organizzazioni popolari, comunità indigene costruiscono spazi di speranza, mantenendo una fiammella accesa in questa terribile oscurità… con il sogno di veder bruciare un giorno i palazzi del potere e costruire sulle loro macerie un mondo più umano.  Immagine di copertina di Nodo Solidale, manifestazione a Città del Messico Articolo pubblicato originariamente sul blog Nodo Solidale SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. 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f.Lotta: occupare il Mediterraneo per la libertà di movimento
IL CONTESTO E LE RAGIONI Dal 14 al 16 settembre 2025, ci sarà un  appuntamento in mare per partecipare ad un’azione il cui nome contiene il programma:  f.Lotta, un gioco di parole tra “flotta di mare” e “lotta“ ad “indicare la natura politica e intransigente dell’iniziativa”. Notizie F.LOTTA: UN’OCCUPAZIONE MARITTIMA CONTRO IL SISTEMA DEI CONFINI Dal 10 al 20 settembre a sud di Lampedusa 28 Luglio 2025 Un movimento indipendente, orizzontale e auto-organizzato che prevede una massiccia occupazione del Mediterraneo Centrale, a sud di Lampedusa per rivendicare la libertà di movimento per ogni cittadino del mondo. Questa “critical mass” del mare, nata dal basso, vuole contrastare il modello di controllo e esternalizzazione – razzista, capitalista e neocoloniale – proposto dalla Fortezza Europa. Per tre giorni, in un “spazio” sempre attraversato da soggetti diversi -persone che cercano di passare da una sponda all’altra, cosiddette guardie costiere libiche e tunisine, droni, aerei e navi di Frontex, flotte civili che operano il salvataggio e barche di pescatori – una quindicina di barche si danno appuntamento. Da Lampedusa al cuore del central Med, con l’idea di abitare questa frontiera liquida. Il messaggio generale di f.Lotta è la libertà di movimento, ma, accanto ad esso, si declinano 15 campagne politiche specifiche 1 di cui ogni barca sarà portavoce e testimone. A questa f.Lotta partecipa anche Tanimar, il cui progetto nasce nel 2022: da marinaie e marinai, da ricercatrici e ricercatori che hanno deciso di entrare in relazione con il Mediterraneo, provando a realizzare un’etnografia del mare e nel mare, a cominciare dallo stretto di Sicilia, per continuare con la Tunisia (2023) e con l’Egeo (2025).  Fotografia tratta da Linosa. Isolitudine. Equipaggio della Tanimar (2022) Durante le precedenti navigazioni, hanno tentato di disegnare un percorso che si intreccia con le rotte delle persone in movimento: per ricomporre memorie e analisi, per rendere più visibile la polifonia di voci e la pluralità di visioni sul futuro del Mediterraneo. Per questa nuova navigazione, saliranno a bordo persone e organizzazioni diverse, che, pur con linguaggio e strumenti diversi, hanno un comune fondamentale denominatore: considerano le migrazioni come fenomeni che attraversano confini – geografici, culturali, giuridici – e implicano memorie, diritti e immaginari condivisi. A bordo una fotografa e una filmaker, due professori di sociologia dei processi culturali e migrazioni a Genova e Parma, un mediatore culturale per The Routes Journal, volontari attivisti legati a OnBorders e Mem.Med. E poi il Progetto Melting Pot che ha una storia comune con Tanimar e ne ha già amplificato la voce che questa volta affida a me questa il racconto. Avremo un equipaggio di terra, con gli studenti delle radio universitarie, ma soprattutto coi testimoni del rapporto RRx che aspettano, nascosti negli uliveti e in qualche hangar tra Tunisia e Libia, di poter partire.  In questa prospettiva Tanimar ha deciso di aderire alla campagna lanciata da f.Lotta, organizzazione dal basso che promuove “un’occupazione massiccia del Mediterraneo Centrale, con un’iniziativa orizzontale, dal basso, spontanea”. Le ragioni di questa scelta sono evidenti per l’equipaggio che sale a bordo durante l’iniziativa, dal 14 al 16 settembre. Innanzitutto, perché il discorso politico e mediatico in Italia descrive il Mediterraneo come una barriera naturale tra mondi distanti, una frontiera liquida da controllare, setacciare, luogo in cui si scontrano le politiche europee di sorveglianza e repressione della mobilità e la volontà delle persone migranti di continuare a muoversi. Ma il Central Med non è solo questo. Questo mare, il cui confine che separa non si vede all’orizzonte ma su radar a bordo di barche, ha una storia che racconta di incontri, attraversamenti, scambi. PH: Roberta Derosas Nelle sue acque fatte di incroci si intrecciano persone migranti, pescatori, marinai, guardacoste, funzionari europei e statali, operatori umanitari e solidali, ciascuno portatore di interessi e prospettive diverse. Politiche migratorie europee basate sulla militarizzazione delle frontiere marittime e terrestri hanno contribuito, come conseguenza diretta, a trasformare il Mediterraneo in un confine mortale. Da una sponda all’altra, viene criminalizzato chi offre sostegno e solidarietà a chi è in transito, ma anche chi migra nel tentativo di raggiungere l’Europa: l’assenza di vie legali di accesso all’Europa lascia alle persone che partono l’unica possibilità di intraprendere viaggi rischiosi, su imbarcazioni di fortuna. Eppure, lo spazio mediterraneo continua a generare relazioni e pratiche che superano le dicotomie sociali, intrecciando storie e vissuti in un tessuto complesso. Luogo di incontro e campo di battaglia, spazio cruciale della contemporaneità in cui si riproducono processi di razzializzazione legati alla governance migratoria, il Mediterraneo è ugualmente orizzonte di desiderio e possibilità. Viverlo, percorrerlo, osservarlo è l’unico modo per comprenderlo davvero. Questo Mediterraneo, che si tenta di chiudere con blocchi navali, fermi amministrativi alle navi dei soccorritori civili, respingimenti operati dalle cd. guardie costiere libiche e tunisine e accordi bilaterali che lasciano dietro di sé una scia di sangue e morti, resta comunque aperto e poroso: continua ad essere attraversato con ogni mezzo da chi esercita il proprio diritto alla fuga. Ci sono molti modi di “stare” nel  Mediterraneo: pattugliare, controllare, soccorrere, osservare, accogliere, respingere, affondare, tessere, raccontare sono tutte azioni possibili. Tanimar, ancora una volta, vuole essere testimone civile di ciò che altrove viene nascosto o ridotto a spettacolo.  Per l’azione proposta da f.lotta, con il suo invito a “occupare in modo massiccio il Mediterraneo”, l’equipaggio di Tanimar sarà composto da cittadini provenienti da Africa ed Europa, filmaker, artist3, lavoratori sociali, rifugiat3,  ricercatrici e ricercatori, navigatrici e navigatori: al di là del background, delle funzioni e delle professioni, li unisce credere alle leggi del mare, all’obbligo di rendere soccorso, al doveroso diritto  di ogni singolo essere umano di poter scegliere dove vivere e di non essere respinto, violato, mercificato, soggiogato, torturato. Accanto al suo equipaggio di mare, ne avrà anche a terra: in Tunisia e in Libia, grazie al contributo dei corrispondenti del Giornale delle Rotte (un progetto di comunicazione alternativa sul tema della mobilità impedita animato da persone in viaggio o bloccate in attesa di partire) e ai testimoni del rapporto RR[X]  sul fenomeno della  tratta di Stato, ma anche grazie agli studenti delle radio universitarie di Parma e Bologna e ai volontari che agiscono in altre frontiere, di terra, che arrivano dopo l’approdo a Lampedusa.  Intrecciando attivismo, arte, nautica ed etnografia, Tanimar e i suoi equipaggi vogliono continuare a raccontare l’incontro con il Mediterraneo attraverso parole e immagini, suoni e visioni, in una tessitura che sia insieme politica e poetica. Il desiderio e la volontà dell’equipaggio sono di amplificare le voci di chi è privato del diritto al movimento sulla sponda sud del Mediterraneo, partendo dalle loro stesse parole, per non sostituirsi ad esse, ma condividere con chi vive l’attraversamento, il diritto al racconto, costruendo narrazioni che devono e possono essere incrocio di sguardi, parole, fili tessuti, patchwork a colori che formano una sola coperta. Ed è anche per questo che a bordo sarà portata quella di Yousuf, che è nata e continua a crescere per creare un legame tra le storie dei singoli, primo passo verso la nascita di una comunità. Partecipare a f.Lotta nella navigazione dello spazio mediterraneo significa anche diventare portabandiera e testimone di una specifica campagna nel contesto globale della lotta per la libertà di movimento. La Tanimar Anche Tanimar ne porta una: Stop State trafficking of human beings between Tunisia and Libya. Fermare la tratta di stato di esseri umani tra Tunisia e Libia.  Come rivelato dal Rapporto 2 di RR[X] (un gruppo di ricerca  internazionale che ha deciso di anonimizzarsi sotto uno pseudonimo collettivo per proteggere le proprie fonti), presentato al Parlamento europeo il 25 febbraio, il progressivo inasprimento delle politiche di frontiera dell’UE ha generato una conseguenza inquietante: la vendita e lo riduzione in schiavitù delle persone migranti subsahariani ad opera degli apparati militari e di polizia tunisini. Rapporti e dossier STATE TRAFFICKING SVELA LA TRATTA DI MIGRANTI TRA TUNISIA E LIBIA Un rapporto con 30 testimonianze da un confine esterno della UE Redazione 1 Marzo 2025 Il rapporto Tratta di Stato, accompagnato da un accurato sommario delle violazioni dei diritti umani nel corso delle operazioni di espulsione e deportazione curato da ASGI, intende riaprire il dibattito sulla responsabilità dell’Unione e dei singoli stati nell’esposizione alla morte e alla schiavitù delle persone in viaggio, così come sullo statuto di “paese sicuro” assegnato alla Tunisia, al suo ruolo di partner e beneficiario economico nella gestione della frontiera esterna della UE.  L’equipaggio di Tanimar è potuto entrare in relazione con i testimoni del rapporto RR[X]  sulla Tratta di Stato fra Tunisia e Libia e ha deciso di contribuire ad amplificare le loro storie e le loro richieste.   I testimoni di RR[X] dopo la presentazione del rapporto al parlamento europeo, e in Italia al Senato e alla Camera dei deputati, hanno presentato numerose interrogazioni parlamentari  senza ricevere risposta alcuna dalle istituzioni a cui si sono rivolti. La richiesta principale di questo collettivo che l’equipaggio di Tanimar vuole veicolare è l’apertura di un corridoio legale-umanitario affinché le voci delle vittime della tratta di Stato possano arrivare di fronte a un tribunale europeo. Durante i giorni dell’imbarco, testimoni e corrispondenti ancora in Libia e Tunisia racconteranno non solo la loro esperienza di vendita e deportazione alla frontiera, ma anche la loro lotta per il diritto alla mobilità e per avere giustizia e riparazione.   Attraverso diversi canali – la pagina Instagram del Giornale delle Rotte, una rete di radio universitarie studentesche, il progetto Melting Pot – l’equipaggio di Tanimar intende così contribuire ad amplificare la consapevolezza su un fenomeno recente e ancora poco conosciuto.  Nonostante la retorica europea della lotta ai trafficanti, le politiche di esternalizzazione della frontiera hanno generato un effetto paradossale: alla frontiera tunisino-libica, il trafficante di esseri umani indossa ora un’uniforme. In questo mare che è insieme luogo di transito, crocevia di esistenze, spazio di azione e di resistenza, gli equipaggi di Tanimar navigheranno ascoltando, osservando, raccogliendo, raccontando. Portare a bordo la coperta di Yousuf, amplificare la voce dei testimoni della Tratta di Stato, intrecciare saperi e pratiche dal mare e dalla terra, significa parlare di un altro Mediterraneo: aperto, solidale, plurale, fondato non sul possesso o sul controllo, ma sull’incontro, sulla cura e sulla responsabilità collettiva e condivisa. 1. Tutte le informazioni sulle campagne ↩︎ 2. Consulta il sito del rapporto ↩︎
Dal Metodo Giacarta al Metodo Gaza
Qui in pdf: Dal Metodo Giacarta al Metodo Gaza Dal Metodo Giacarta al Metodo Gaza Nel 2021 è uscito in Italia, tradotto da Einaudi, un libro importante, passato, almeno negli ambiti sovversivi, per lo più inosservato. Si tratta de Il Metodo Giacarta. La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di massa che hanno plasmato il nostro presente. In questo testo, il giornalista californiano Vincent Bevins dimostra, in modo ampio e accurato, che il colpo di Stato realizzato in Indonesia nel 1965 con l’appoggio degli Stati Uniti è stato un episodio centrale della Guerra fredda perché ha rappresentato, appunto, un metodo. Leggere il libro di Bevins mentre si sta compiendo il genocidio del popolo palestinese toglie alla lettura ogni distanza storica, scaraventandoci nel presente. Il Metodo Giacarta «Negli anni tra il 1954 e il 1990 emerse in tutto il mondo una rete informale di programmi anticomunisti di sterminio appoggiati dagli Stati Uniti che commise omicidi di massa in almeno ventitré paesi. Non ci fu un piano d’insieme, né una cabina di regia in cui fu orchestrato tutto, ma penso che i programmi di sterminio in Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Corea del Sud, El Salvador, Filippine, Guatemala, Honduras, Indonesia, Iraq, Messico, Nicaragua, Paraguay, Sri Lanka, Sudan, Taiwan, Thailandia, Timor Est, Uruguay, Venezuela e Vietnam fossero collegati tra loro e abbiano avuto un ruolo cruciale nella Guerra fredda. (E non includo gli interventi militari diretti né gli innocenti che persero la vita in guerra come “danni collaterali”). Gli uomini che intenzionalmente hanno giustiziato dissidenti e civili indifesi imparavano gli uni dagli altri; adottavano metodi già applicati in altri paesi; a volte chiamavano persino le loro operazioni come altri programmi che volevano emulare. Ho trovato prove che legano indirettamente la metafora “Giacarta”, tratta dal più grande e importante di questi programmi, ad almeno undici paesi (dodici, se consideriamo lo Sri Lanka, dove il governo applicò quella che chiamò “soluzione indonesiana”). Ma anche i regimi che non furono mai influenzati da questo particolare linguaggio avevano visto molto chiaramente che cosa aveva fatto l’esercito indonesiano e il successo e il prestigio che le loro azioni avevano portato al loro paese in Occidente. E anche se alcuni di questi programmi furono condotti malamente e spazzarono via spettatori innocenti che non costituivano nessuna minaccia, in effetti riuscirono a eliminare i veri oppositori al progetto globale guidato dagli Stati Uniti. Ancora una volta, l’Indonesia è l’esempio più importante. Senza lo sterminio del Pki [Partito comunista indonesiano], il paese non sarebbe passato da Sukarno a Suharto. Anche nei paesi dove il destino dei governi non era in bilico, gli omicidi di massa mostravano cosa sarebbe successo a chi opponeva resistenza: una forma efficace di terrore di Stato che venne applicata anche nelle regioni circostanti. […] Voglio affermare che questa rete informale di programmi di sterminio, organizzata e giustificata da princìpi anticomunisti, ha avuto un ruolo molto importante nella vittoria degli Stati Uniti e che quella violenza ha profondamente influenzato il mondo in cui viviamo oggi». Una spietata efficacia «L’Indonesia divenne davvero un “partner docile e compiacente” degli Stati Uniti, cosa che spiega come mai oggi così tanti americani abbiano a malapena sentito parlare di quel paese. Ma a quel tempo le cose erano molto diverse. L’annientamento del terzo partito comunista del mondo e il sorgere di una dittatura fanaticamente anticomunista scosse violentemente l’Indonesia e provocò uno tsunami che arrivò in quasi ogni angolo del globo. Nel lungo periodo, la forma dell’economia globale cambiò per sempre. Inoltre, le dimensioni della vittoria anticomunista e la spietata efficacia del metodo impiegato ispirarono programmi di sterminio che presero nome dalla capitale indonesiana». In poche parole «”Per di più abbiamo avuto tutti il capitalismo americanocentrico voluta da Washington. Basta guardarsi intorno”, ha detto indicando la sua città e l’intero arcipelago indonesiano intorno a lui”. Come abbiamo fatto a vincere, ho chiesto. Winarso smette di muoversi: “Ci avete ammazzati”». I numeri di un massacro Da sola, la mappa intitolata «I programmi di sterminio anticomunista, 1945-2000» e pubblicata come Appendice al libro di Bevins racconta una storia così feroce che lascia semplicemente allibiti quanto poco sia presente nella coscienza collettiva. Ecco i luoghi, le date, i numeri: Messico 1965-1982: 1300 Honduras 1980-1993: 200 Nicaragua 1979-1989: 50 000 Guatemala 1954-1996: 200 000 Venezuela 1959-1970: 500-1500 El Salvador 1979-1992: 75 000 Colombia 1985-1995: 3000-5000 Paesi membri dell’Operazione Condor (l’Alleanza anticomunista tra Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay, Uruguay), Anni Settanta-Ottanta: 60 000-80 0000 Iraq 1963 e 1978: 5000 Iran 1988: 9 000 («l’unico caso in cui le violenze sono state compiute da un avversario geopolitico degli Stati Uniti») Sudan 1971: un po’ meno di 100 Sri Lanka 1987-1990: 40 000-60 000 Thailandia 1973: 3000 Corea del Sud 1948-1950: 100 000-200 000 Taiwan 1947: 10 000 Filippine 1972-1986: 3250 Vietnam, Operazione Phoenix 1968-1972: 50 000 Timor Est 1975-1999: 300 000 Indonesia 1965-1966: 1 000 000 «Giacarta sta arrivando» O semplicemente «GIACARTA» sono le scritte che, nel 1972, appaiono in diverse città del Cile e che i militanti di sinistra si vedono recapitare per posta. A incaricarsi dell’operazione sono il gruppo fascista Pátria y Libertad e la sezione cilena dell’organizzazione anticomunista brasiliana Tradición, Família y Propriedad – base sociale del golpe militare in Brasile del 1964 –, entrambe finanziate dalla CIA. L’11 settembre 1973 avviene il colpo di Stato. Quando migliaia di “rossi” vengono radunati allo Estadio Nacional, per essere interrogati, torturati e uccisi, a presiedere le operazioni ci sono consiglieri militari brasiliani. La Dina, la feroce polizia segreta di Pinochet creata dalla CIA, assassina in pochi giorni tremila oppositori. La violenza contro indigeni e dissidenti in Guatemala viene promossa dalla Mano Blanca (organizzazione razzista e ferocemente anticomunista) con l’appoggio dei Berretti verdi nord-americani. «Dal 1978 al 1983 l’esercito guatemalteco uccise più di duecentomila persone. Circa un terzo di loro, soprattutto nelle aree urbane, furono portate via e fatte “sparire”. La maggior parte degli altri erano indigeni maya massacrati all’aperto nei campi e sulle montagne dove le loro famiglie avevano vissuto per generazioni». Nel 1982 vengono sterminati interi villaggi. «In Indonesia l’omicidio di massa potrebbe non essere stato genocidio, ma solo omicidio di massa anticomunista. In Guatemala fu genocidio anticomunista». Nel 1979, per stroncare il Nicaragua sandinista gli Stati Uniti dispiegano i contras, forze anticomuniste finanziate dalla CIA e addestrate da Argentina, Guatemala e Cile come proseguo dell’Operazione Condor (con cui «il fanatismo anticomunista conquistò il continente» latino-americano). In un incontro organizzato dall’ambasciatore USA in Spagna, le squadre speciali argentine e guatemalteche parlano ancora di «Piano Giacarta». Perché «Giacarta»? Operazione Annientamento Operasi Penumpasan. Così si chiama l’operazione lanciata l’8 ottobre 1965 dall’esercito indonesiano contro i comunisti. In circa sei mesi viene sterminato un milione di persone e altrettante vengono rinchiuse nei campi di concentramento. Preparato dalla CIA fin dal 1958 sul modello del golpe in Guatemala, il colpo di Stato del generale Suharto ricalca fin nei dettagli il modo con cui si è imposta l’anno precedente la dittatura in Brasile. L’ideologia è quella fornita dalla «teoria della modernizzazione», secondo la quale in certi contesti è l’esercito che deve rimuovere, con la forza, ciò che si oppone alla modernizzazione capitalistica di un Paese. È l’esercito modernizzatore guatemalteco che nel 1954 permette, con un colpo di Stato, di assicurare il controllo sulla produzione agricola alla United Fruit Company. Lo stesso avverrà con l’ITT nel Cile del generale Pinochet, così come, nel 1976, dopo il colpo di Stato del generale Videla, in Argentina, dove «l’azienda automobilista Ford e Citibank collaborarono alla sparizione di lavoratori appartenenti al sindacato». Ma il modello che segue il generale Suharto per «estirpare dalle radici» la presenza comunista (parliamo, tra il Pki, il sindacato operaio, il fronte contadino, l’organizzazione studentesca e il Gerwani, cioè il movimento delle donne, di qualcosa come dieci milioni di persone) si ispira, nelle tecniche di propaganda, a quelle sperimentate dalla CIA nel colpo di Stato in Brasile del 1964. S’inventa un piano segreto comunista per attaccare l’esercito e assumere il potere, con tanto di streghe comuniste che evirano nel sonno gli ufficiali e poi ballano nude attorno ai cadaveri mutilati. Si erige un monumento ai militari golpisti uccisi dai comunisti, si producono film da proiettare ufficialmente ogni anno e si trasforma la giornata delle forze armate nella celebrazione dell’annientamento dei nemici della nazione. Si trasforma l’esercito nel centro organizzativo della modernizzazione. «Un anno dopo un colpo di Stato nella nazione più importante dell’America Latina, parzialmente ispirato da una leggenda sui soldati comunisti che accoltellano generali nel sonno, il generale Suharto racconta alla nazione più importante del Sud-est asiatico che comunisti e soldati di sinistra avevano trascinato via i generali dalle proprie case nel cuore della notte per ucciderli lentamente a coltellate, e poi entrambe le dittature militari anticomuniste, allineate con Washington per decenni, celebrano l’anniversario di queste ribellioni in modo molto simile». A partire dal 1958, la Fondazione Ford organizza viaggi di studio negli Stati Uniti a giovani ufficiali indonesiani, i quali vengono addestrati, tra un corso sull’economia americana e le serate nei locali di spogliarello, nelle basi militari del Kansas. Erano, il Brasile del 1964 e l’Indonesia del 1965, Paesi sul bordo della rivoluzione? Nient’affatto. Nel primo caso, qualche timida riforma sgradita ai latifondisti, nel secondo caso un governo messosi a capo, con il congresso di Bandung del 1955, dei Paesi appena usciti dal gioco coloniale o intenzionati a farlo, un governo – quello di Sukarno – appoggiato dai nazionalisti, dagli islamici e anche dal Pki, partito la cui strategia era totalmente socialdemocratica. Paesi non abbastanza allineati con Washington e con la sua guerra al comunismo. Bevins sostiene che i colpi di Stato in Brasile e in Indonesia, con il loro effetto domino, sono stati gli eventi decisivi della Guerra fredda, la quale non si è giocata tanto e soltanto con i missili nucleari e con il napalm, ma con le politiche di sterminio nelle colonie o ex colonie. Al punto che la vittoria degli USA in Indonesia (e a Timor Est, dove Suharto ha assassinato un terzo della popolazione) ha controbilanciato la sconfitta in Vietnam. La differenza tra il Brasile e l’Indonesia è che quando, a modernizzazione raggiunta, le rispettive dittature militari si sono concluse, nel Paese latino-americano la «riconciliazione nazionale» ha dovuto fare i conti con gli assassinati e i desaparecidos, mentre lo sterminio indonesiano è stato semplicemente rimosso, con un’intera popolazione letteralmente streghizzata. Una militante novantenne, sopravvissuta alla detenzione e alla tortura, racconta a Bevins che per gli abitanti del quartiere in cui vive lei è ancora una strega comunista. Silenzio «Lo scopo delle violenze era il loro silenzio. Le forze armate non sovraintesero allo sterminio di ogni singolo comunista, presunto comunista o simpatizzante comunista del paese: sarebbe stato quasi impossibile, visto che circa un quarto del paese aveva una qualche affiliazione con il Pki. Una volta che i massacri presero piede diventò estremamente difficile trovare qualcuno che ammettesse di avere qualche associazione con il Pki. Circa il quindici per cento delle persone prese prigioniere furono donne. Furono sottoposte a violenze particolarmente crudeli e di genere che scaturivano direttamente dalla propaganda diffusa da Suharto con l’aiuto dell’Occidente. Sumiyati, esponente di Gerwani, sfuggì alla polizia per due mesi prima di costituirsi. Le fecero bere l’urina dei suoi aguzzini. Ad altre donne tagliarono i seni o mutilarono i genitali; gli stupri e la schiavizzazione sessuale erano diffusi ovunque. Le liste delle persone da uccidere non furono fornite all’esercito indonesiano soltanto dai funzionari del governo degli Stati Uniti: alcuni dirigenti di piantagioni di proprietà americana diedero i nomi di sindacalisti e comunisti “scomodi” che poi furono uccisi. […] Gli Stati Uniti contribuirono all’operazione in ogni sua fase, a partire da molto prima dell’inizio dei massacri, fino a che cadde l’ultima vittima e l’ultimo prigioniero politico uscì di galera, decenni dopo, torturato, segnato dalle cicatrici e smarrito». Il Metodo Gaza Dopo il crollo dell’URSS, il concetto di «comunismo» è stato sostituito con quello di «terrorismo». Nella crociata mondiale «antiterrorista» che si è dispiegata soprattutto dopo il 2001, un ruolo cruciale lo ha giocato, non a caso, Israele. Se il concetto di «terrorismo» risale a Babeuf, il paradigma operativo del ribelle come «terrorista» è infatti tipicamente coloniale. E la storia insegna che tutto ciò che viene sperimentato nelle colonie – dai bombardamenti aerei sui civili alla detenzione amministrativa, dalle tecniche di tortura all’architettura dell’occupazione – prima o poi torna indietro. I primi campi di concentramento (in senso letterale: campos de concentración) sono stati realizzati dalla Spagna a Cuba nel 1896, replicati nelle Filippine (dalla Spagna e in seguito dagli Stati Uniti) e poi in Sudafrica dall’impero Britannico, per diventare l’emblema stesso del nazismo. I metodi impiegati in Algeria verranno insegnati dalla polizia militare francese alle polizie militari e segrete del Brasile, del Guatemala, del Cile, dell’Argentina… La repressione «anticomunista» più feroce in America Latina avviene là dove il nemico della nazione e il selvaggio anticivile si confondono: in Guatemala. Così come nella rimozione storica dello sterminio in Indonesia e a Timor Est (qui viene eliminato un terzo della popolazione) pesa il fatto che gli assassinati non fossero bianchi. Lo spazio intermedio tra le colonie e il territorio nazionale sono le zone di confine. Non a caso la violenza fascista, a Trieste e dintorni, colpì prima le popolazioni slave e poi gl’italiani “rossi”, ebbe modalità a metà tra la spedizione punitiva e le tecniche militari di guerra e creò lo «slavo-comunista» come nemico nazionale, versione bianca dell’indigeno maya-comunista del Guatemala (dove le pratiche di sterminio condotte dall’esercito guatemalteco avvennero con l’addestramento e la supervisione di quello israeliano). E non è un caso che i primi a sperimentare sulla propria pelle, nell’Italia degli anni Sessanta, la tortura come metodo militare furono i secessionisti tirolesi (a dirigere le operazioni contro i quali troviamo gli stessi personaggi di quell’Ufficio Affari Riservati che ha pianificato la strage di Piazza Fontana). Se la legislazione italiana «antiterrorismo», dal 1980 in avanti, ha fatto scuola a livello internazionale (anticipando quella europea degli anni Duemila) e il carcere di guerra 41 bis viene oggi studiato dallo Stato cileno, non deve sorprendere che i più accaniti sostenitori di Netanyahu (gli altri lo sostengono con maggiore discrezione) siano gli esponenti di quella destra anticomunista e antisemita erede della Guardia di Ferro filonazista (Orban), del Metodo Giacarta e dell’Operazione Condor (Bolsonaro e Milei) e dell’esercito quale baluardo contro i froci e i rossi (Vannacci). Oppure afrikaner la cui potenza tecnologica conferisce al loro suprematismo una dimensione addirittura cosmica (si pensi a Elon Musk e a Peter Thiel). Ma anche la sinistra istituzionale ha raccolto l’insegnamento del Metodo Giacarta (non a caso Berlinguer giustificava il «compromesso storico» riferendosi esplicitamente al colpo di Stato di Pinochet, come prima Togliatti giustificò la «svolta di Salerno», operata in obbedienza a Mosca, per scongiurare una «situazione alla greca», cioè lo scontro con la CIA), schierandosi attivamente – con i questionari, con le denunce alla polizia, con la «linea della fermezza» nel caso Moro – a fianco della repressione «antiterrorista», fino all’immondo slogan «il proletariato salverà lo Stato». È il colonialista a definire chi è l’indigeno; è l’inquisitore a stabilire chi è la strega; è il suprematista bianco a stabilire chi è il negro; è l’antisemita a definire chi è l’ebreo; è il sionista a stabilire chi è l’antisemita; è l’anticomunismo a stabilire chi è il comunista; è l’antiterrorismo a stabilire chi è il terrorista. Interrogarsi sulla sostanza sociale, politica o ontologica di queste categorie di reietti è non solo fuorviante, ma comporta uno scivolamento sul terreno del potere accusatore, della sua propaganda e della sua guerra psicologica. Mentre assistiamo al declino dell’impero statunitense, con le dichiarazioni trumpiane di annessione del Canada e di conquista della Groenlandia, con le navi nucleari statunitensi schierate nell’Indo-Pacifico e di fronte al Venezuela e con il Pentagono ribattezzato senza fronzoli Dipartimento della Guerra, dobbiamo capire che Gaza non è un orrore contro il quale richiamare dal basso al rispetto del Diritto internazionale o alla democrazia, bensì un Metodo che compendia un’intera storia di massacri, e che vale da monito per tutti i palestinizzabili del mondo. L’ordine è già stato impartito «Ci ispiriamo alla strategia di Haussmann per la Parigi del XIX secolo» è scritto nel documento Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation (GREAT). Come noto, il barone von Haussmann distrusse la vecchia Parigi dei vicoli e delle strade strette (che facilitavano le barricate e le insurrezioni) e la riorganizzò su vasti boulevard che facilitavano la cavalleria e lo spostamento delle truppe nell’area urbana. Ancora oggi, l’architettura imperiale è parte integrante della contro-insurrezione, cioè della continuazione del colonialismo nello spazio urbano. Senza distruggere le strade, i tunnel e la resistenza di Gaza non si possono costruire i Poli tecnologici né edificare, su decine di migliaia di cadaveri, gli hotel di lusso. Il terrorista – in Palestina come in Occidente – è qualunque barbaro contrasti il destino manifesto dell’impero. Il linguaggio sempre più esplicitamente religioso e “messianico” (meglio sarebbe dire teocratico) ci informa che più gli obiettivi sembrano impossibili, più i mezzi si fanno smisurati e totali. Oggi il Metodo Giacarta, dotato di tutti gli strumenti che il complesso scientifico-miltare-industraile ha approntato nel frattempo, è capeggiato da un immobiliarista e sostenuto da transumanisti che hanno tutti i mezzi di potenza per i propri deliri. La cosa più insensata è spiegare a Ubu Re che è folle pensare di deportare due milioni di palestinesi per fare una riviera di lusso. La solidarietà internazionalista con la resistenza palestinese deve essere rafforzata dalla consapevolezza che qualcosa di simile è già accaduto. Gli hotel e i club di Bali, meta turistica e sessuale dei bianchi ricchi d’Occidente, sono stati eretti letteralmente sull’Operazione Annientamento (che solo in quell’isola indonesiana sterminò il cinque per cento della popolazione, vale a dire ottantamila persone). La sabbia su cui sono stati costruiti i resort e i beach club dove «i bianchi possono permettersi di comprare ospitalità di lusso, o sesso, dalla gente del posto», è «la stessa sabbia dove i militari portarono persone da Kerobokan, qualche chilometro a est, per ucciderle durante la notte». «”Doveva ammazzare i comunisti, così gli investitori stranieri potevano portare qui i loro capitali”, dice Ngurath Termana». Che la rivolta in corso in Indonesia faccia saltare per aria quei resort e l’infame violenza su cui sono stati costruiti. Una credenza insostenibile In un’intervista rilasciata a «Jacobin Italia» poco dopo la traduzione italiana del suo libro, Bevins diceva: «Non credo che questa storia sia finita. Con il passare del tempo i temi di questo libro si sono rivelati più attuali di quanto avrei voluto e l’anticomunismo è un fantasma del passato che può resuscitare in qualsiasi momento e con ancora più forza. Anche se l’egemonia degli Stati Uniti si realizza attraverso metodi differenti e se ha perso potere rispetto alla Cina, resta di gran lunga il paese più potente e non ci sono ragioni per credere che una cosa accaduta in passato non possa ripetersi di nuovo. È una sorta di credenza automatica che penso sia insostenibile. E lo posso affermare perché i cileni e gli indonesiani pensavano esattamente la stessa cosa. Molti di loro mi hanno detto che se gli avessi chiesto un anno prima della strage se fosse stata possibile, avrebbero detto di no. Ad esempio, i cileni pensavano «no, dài, siamo negli anni Settanta e non siamo mica in Guatemala o Indonesia dove i generali uccidono le persone!». Ecco, io credo che bisogna stare sempre in guardia, soprattutto perché il sistema economico globale è lo stesso di allora». Se c’è un popolo che sa che dal nemico deve aspettarsi tutta la violenza possibile, è quello palestinese. Una violenza sterminatrice che, a differenza di quella dispiegata dall’Operazione Annientamento, avviene in diretta mondiale. Siamo noi che, di fronte al Piano Gaza, non dobbiamo cedere né all’incredulità né all’orrore disarmato.