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Guerra grande, strozzature e specchi di faglia
Qui il pdf: guerra grande, strozzature e specchi di faglia GUERRA GRANDE, STROZZATURE E SPECCHI DI FAGLIA Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso e non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia. Sun Tzu, L’arte della guerra «Questo è il momento della pace attraverso la forza. È il momento di una difesa comune. Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi sarà necessario più coraggio. E altre scelte difficili ci attendono. Il tempo delle illusioni è finito.» Così dichiarava, il 4 marzo scorso, la presidente della Commissione UE Ursola Von der Leyern presentando un piano di 5 punti per il riarmo degli Stati appartenenti all’Unione Europea, mobilitando quasi 800 miliardi di euro per le spese per la difesa. L’annuncio precede e si aggiunge al maxi fondo tedesco da 500 miliardi di euro che il Bundestag, il parlamento tedesco, ha approvato il 18 marzo con i voti della SPD, della CDU-CSU e dei Verdi, unitamente alle modifiche costituzionali per investire nel riarmo e per superare lo “scoglio” del limite del debito e della spesa statale. L’accordo multimilionario per finanziare la difesa tedesca dà a sua volta impulso al piano di riarmo europeo. Quest’ultimo è strutturato ed articolato su 5 punti strategici. Il primo punto del piano “ReArm Europe” prevede l’attivazione della clausola di salvaguardia nazionale del patto di stabilità (ovvero il regolamento che disciplina i bilanci degli Stati UE). Questa misura permetterà agli Stati membri di aumentare la spesa per il riarmo anche oltre il limite del 3% del deficit senza incorrere nella procedura di infrazione europea. In pratica i governi potranno investire di più in armamenti senza temere sanzioni dell’UE (cioè fare ciò che tutti i governi e politici sia di destra che di sinistra dicevano che era impossibile per le spese sociali e sanitarie). Il secondo punto prevede un nuovo strumento finanziario da 150 miliardi di euro per investimenti militari “condivisi”. La particolarità è che questi investimenti militari saranno per equipaggiamenti standardizzati fra eserciti di Stati diversi, così da assicurare che i sistemi militari possano operare assieme in caso di guerra. Per istituire questo meccanismo la Commissione UE utilizzerà l’articolo 122 del trattato dell’Unione, che consente di costruire strumenti finanziari di emergenza senza l’approvazione del parlamento degli Stati europei. Il terzo punto introduce la possibilità di utilizzare i fondi destinati alla pacificazione sociale (i cosiddetti “fondi di coesione” presenti in ogni “piano di resilienza” introdotto negli anni passati ed emanazione diretta del manifesto della borghesia e degli Stati europei, ovvero il documento Next generation UE) per progetti di riarmo di guerra. Il quarto punto del piano prevede il coinvolgimento della Banca Europea per gli Investimenti nel finanziamento a lungo termine per investimenti di natura militare, mentre il quinto e ultimo punto ordina la mobilitazione generale del cosiddetto capitale privato, ovvero il furto di classe dei piccoli risparmi delle classi sociali non privilegiate del vecchio continente per finanziare la guerra dei padroni e degli Stati, drenando soldi dai piccoli conti bancari per trasformarli in capitali di rischio in investimenti militari e nella re-industrializzazione del vecchio continente. Il provvedimento proposto da Mario Draghi ed Enrico Letta dopo il successo ottenuto negli anni passati a danno delle classi sfruttate per finanziare le grandi opere nello Stato italiano (anche in questo caso, come per il “fronte interno” degli Stati articolato nelle misure repressive, la classe dominante e lo Stato italiano fanno scuola in Unione Europea). L’ideologia nazionalista fa da involucro e da parte in causa nel muovere la guerra globale, sia nelle sue varianti dichiaratamente reazionarie (ad esempio tutti i partiti di estrema destra chiedono maggiori attenzioni ai vari riarmi nazionali) sia nelle varianti progressiste e sinistrorse (evidenti sono, ad esempio, le dichiarazioni in Francia di alcuni esponenti del Nouveau Front Populaire sull’urgenza di ri-creare un’ideologia patriottica e nazionalista di sinistra). In questo clima di union sacrée e di mobilitazione delle coscienze e dei corpi, disertare (per quanto ci riguarda) dal fronte occidentale diviene un’urgenza sempre più impellente. Come fare? Cerchiamo innanzitutto di fotografare le dinamiche e di fissare alcune coordinate della “Guerra Grande” in corsa sempre più veloce sul piano inclinato che ci sta portando verso l’abisso, partendo dal fronte orientale europeo e tenendo ben saldi nelle mani il sestante del disfattismo rivoluzionario e dell’internazionalismo antiautoritario. La vittoria della porzione della classe dominante statunitense che sostiene l’amministrazione Trump ha impresso una accelerazione crescente al rafforzamento dell’interventismo dello Stato a stelle e strisce nell’area del continente americano, africano, mediorientale e soprattutto indo-pacifico, mentre con l’avvio dei colloqui e degli “incontri di pace” fra classe dominante russa e nord-americana si evidenzia la crescente contrapposizione con le borghesie del vecchio continente (degno di nota che uno di questi “incontri di pace” si è tenuto nella città di Monaco, già teatro della tristemente nota conferenza di pace del 1938) nell’onda di una sorta di Yalta 2.0 che ricorda bene le dichiarazioni del primo segretario generale dell’Alleanza Atlantica, ovvero che la Nato serve a: “tenere dentro gli americani, fuori i russi e sotto i tedeschi”. Ciò ci porta a ricordare l’obiettivo del più grosso atto di guerra realizzato in questi ultimi anni in Europa a danno dei padroni di casa nostra, ovvero il sabotaggio del gasdotto Nord Stream. Negli ultimi mesi il territorio della regione di Kursk, così come le aree di confine tra la regione ucraina di Sumy e quella russa di Belgorod, sono state completamente riconquistate dalle forze militari russe e nord-coreane. Per quanto riguarda i territori ucraini la regione di Donetsk è sotto controllo russo per più del 73%, quella di Kherson per il 59%, e assistiamo al totale controllo russo sulla regione di Lugansk. Attualmente più del 21% del territorio dello Stato ucraino è sotto controllo delle forze armate di Mosca. Ovviamente i successi degli ultimi mesi dell’esercito russo sul fronte orientale hanno un impatto ben pesante sui negoziati, visto che la borghesia russa sta vincendo la guerra, e la preoccupazione attuale dei nostri padroni è quella di interrompere velocemente questo conflitto prima che l’esercito ucraino crolli e quello russo dilaghi. Il rischio che i dominatori di entrambi i fronti temono maggiormente è la presenza di un convitato di pietra al tavolo dei possibili negoziati di pace, ovvero il ruolo che la nostra classe sociale sta giocando da entrambi i lati del fronte con il rischio sempre più visibile di un aumento esponenziale delle diserzioni dal militarismo sia russo che ucraino-NATO, fino ad arrivare – come dichiarato nell’ultimo mese da alcuni analisti geopolitici dei padronati occidentali – alla possibilità di ammutinamento delle truppe ucraine contro il governo di Kiev. Come abbiamo sempre sostenuto, la guerra in Ucraina è anche guerra per il controllo delle importanti risorse di terre rare indispensabili all’economia di guerra e alla trasformazione della società e del modo di produzione capitalista verso la fase digitale. Mentre l’eventuale e sempre più traballante proseguimento degli aiuti militari statunitensi dipende dall’accordo che pone in mano al capitalismo a stelle e strisce le risorse minerarie e le infrastrutture ucraine che, secondo alcune fonti di Kiev dei mesi scorsi, sarebbero già state assegnate all’Empire 2.0 britannico in base ad un accordo siglato durante la visita del primo ministro Starmer a Kiev. Già alla conferenza di Monaco si parlò della proposta della delegazione del Congresso degli Stati Uniti di un contratto che avrebbe concesso agli USA i diritti sul 50% delle future riserve minerarie ucraine. I disaccordi e i tira e molla con Trump sulle terre rare negli ultimi mesi si sono verificati a causa del ruolo attivo in questa questione dei ceti padronali britannici che, in base ad un preaccordo che fu firmato da Zelensky e Starmer, lo Stato ucraino si sarebbe impegnato a trasferire tutti i porti, le centrali nucleari e i sistemi di produzione e trasferimento del gas e giacimenti di titanio sotto il controllo di Londra. Il giacimento di litio di Shevchenko (Donetsk), riconquistato dall’esercito russo lo scorso gennaio, contiene circa 13,8 milioni di tonnellate di minerali di litio. Il giacimento è il più grande non solo dell’Ucraina, ma di tutta l’Europa. Già nel 2021, la società mineraria del Commonwealth European Lithium aveva annunciato di essere in procinto di mettere in sicurezza il sito. La perdita di questo giacimento è un duro colpo per i fabbisogni di litio per le classi dominanti UE che si sarebbero comunque dovuti rivolgere alla borghesia britannica. Ma anche il cosiddetto agribusiness (cioè lo sfruttamento intensivo delle terre e degli animali di allevamento con l’espulsione delle comunità locali) è una della parti in causa nella corsa dei padronati contrapposti per il controllo delle ricche risorse dell’antica Sarmatia. Ad esempio già nel 2013 la società agricola ucraina “Ksg Agro” firmò un accordo con lo “Xinjiang Production and Construction Corps” dello Stato cinese per la concessione in affitto di terreni agricoli nella regione orientale di Dnipropetrovsk. L’accordo prevedeva una iniziale locazione di 100mila ettari, con la possibilità di espandersi fino a 3 milioni di ettari nel tempo, equivalente circa al 5% del territorio ucraino, e avente come obiettivo principale la coltivazione agricola e l’allevamento dei suini destinati al mercato cinese. Progetto ad oggi fallito non solo a causa di eventi bellici ma anche per via di resistenze e di piccolo lotte delle comunità locali. Secondo il rapporto del 2023 dell’“Oakland Institute”, oltre 9 milioni di ettari di terreni agricoli ucraini sono dominati dalla grossa borghesia locale e da grandi aziende agro-industriali statunitensi, europee e arabe-saudite (come la “NHC Capital” degli Usa, la francese “Agrogénération” e le tedesche “KWS” e “Bayer”). Terra di confine fin dai tempi del Kanato dell’Orda d’Oro e del gran ducato di Lituania, tutti gli sfruttatori e gli oppressori di ogni età hanno sempre cercato di controllare la porzione del basso piano sarmatico accarezzata dal Mar Nero. Lo stesso toponimo “ucraina” significa “presso il bordo” limitante, cioè il bordo fra blocchi di Stati e capitalismi contrapposti e di un piccolo bacino semi chiuso e poco profondo: il Mar Nero. Il nome di quest’ultimo non è però legato al colore delle sue acque, ma “Kara” (“Nero”) è il modo con cui i turchi definivano questo specchio d’acqua secondo un’antica associazione dei punti cardinali a colori specifici. Ma la cupezza legata all’angusto pelago è più antica. Nel settimo secolo a.C. i primi colonizzatori delle sue coste (gli Ioni) lo definivano “Pontos Axeinos” (“Mare inospitale”). Le parole non sono mai neutre ma lavorano per gli interessi delle varie classi sfruttatrici, così come possono lavorare anche per noi sfruttati chiamando con il loro nome le cose, indicando i responsabili dell’oppressione, e dipingendo una cosmovisione altra della vita. Come fa presagire il suo nome, questo mare non è mai stato controllato da nessuno. Nell’attuale frangente storico, sulle coste e nelle acque del Ponto Eusino si incontrano e si scontrano quattro blocchi di Stati e di capitalismi principali: quello russo, quello statunitense, quello “europeo” e quello neo-ottomano. Un mare chiuso caratterizzato da un unico accesso: quello del Bosforo-Dardanelli controllato dallo Stato turco. Le classi dominanti russe hanno sempre considerato strategico questo mare, in quanto unico accesso ai mari caldi e alle loro rotte logistiche. Per il neo-ottomanesimo dello Stato turco, distanziare dall’Anatolia gli Stati rivali è un fattore cruciale, mentre continua l’espansionismo degli interessi del capitale turco verso Europa, Africa, Medio Oriente e Asia Centrale. La nuova dottrina militare della “Mavi Vatan” (Patria blu) rispecchia pienamente questi obiettivi. Fra Stati e potenze in guerra fra loro, la diplomazia turca si adopera per aprirsi margini di influenza lungo le direttrici precedentemente dette. Ad esempio, condanna Mosca per l’invasione dell’Ucraina, ma non cessa di fare affari con il Cremlino. Permette alle flotte della marina militare russa di entrare ed uscire dal Bosforo, ma costringe gli sfruttatori russi ad accettare che sia essa a dirigere la “Black Sea Grain Initiative”, mediata per l’appunto da Ankara per permettere alla fertile Ucraina di esportare derrate alimentari, aumentando ovviamente le tariffe per il transito dei mercantili nel mar di Marmara. Ingenti risultano i tentativi su questo mare ad opera dei padronati di casa nostra di rompere l’anossia data dallo strangolamento delle classi dominanti rivali statunitensi e russe sull’Europa, in quella che è evidentemente sempre di più una riaffermazione dell’accordo di Yalta, ad esempio con lo sfruttamento dei fondali di questo pelago. L’UE vuole realizzare un cavo internet sottomarino lungo 1100 km per collegare gli Stati membri con la Georgia con un investimento da circa 45 milioni di euro. Il progetto mira a ridurre “la dipendenza della regione dalla connettività in fibra ottica terrestre che transita attraverso la Russia”, ha affermato la Commissione europea, come riportato dal “Financial Times”. Attualmente circa il 99% del traffico internet intercontinentale viene trasmesso tramite oltre 400 cavi sottomarini che si estendono per 1,4 milioni di km. La gerarchia ed il controllo delle rotte marittime, dei porti, dei trasporti e della logistica orienta la circolazione di merci e di capitali. Esprime da sempre la potenza degli Stati, fin da quando nacquero, e lo sviluppo del capitale. Mare, capitalismo e guerra muovono e ridefiniscono i rapporti di forza fra Stati e classi dominanti, nei due passati macelli mondiali così come ora. La Guerra Grande in corso si combatte strategicamente sulle onde. Sopra e sotto di esse, tra controllo dei fondali, della terra, dello spazio orbitale e cibernetico fino al dominio delle tecnologie per il controllo dello spazio infinitamente piccolo (genetico e nanotecnologico) contratto in un’unica dimensione. Per la nostra classe sociale, cercare di bloccare la logistica che permette alla megamacchina della morte di funzionare è un’urgenza vitale e necessaria per poter disertare dalla loro guerra. Proverò ora ad introdurre due attrezzi concettuali per l’analisi dei movimenti- posizionamenti del nostro nemico di classe e, soprattutto, per poter cogliere noi la «fecondità dell’imprevisto» (Proudhon) e provare a dargli forma nei territori dove si presenta e si presenterà sempre di più: ovvero il concetto delle “strozzature marittime” e delle possibilità insurrezionali e rivoluzionarie che si aprono per noi negli “specchi di faglia”, ovvero in quei territori dove vanno a collidere interessi di Stati e blocchi contrapposti. Quando parliamo di controllo del mare e di controllo degli spazi (sia fisici che virtuali come quello digitale), per i nostri nemici di classe stiamo parlando di controllo della terraferma circostante questi spazi, e di dominio sulla logistica che rende possibile lo sfruttamento e il loro mondo (dalle rotte commerciali alla infrastruttura materiale come i cavi internet sottomarini, che rendono possibile la trasformazione della società e del modo di produzione capitalistico verso la fase digitale). Per controllare questi spazi e i territori, Stati e classe padronali devono controllare gli stretti di mare detti anche, a livello mondiale, “strozzature”. Snodi naturali e/o artificiali (come Panama e Suez) delle arterie degli Stati e dei meccanismi materiali di valorizzazione e di riproduzione del capitale per i quali transita la quasi totalità delle merci e dei cavi internet su scala mondiale. Malacca, Taiwan, Panama, Gibilterra, Otranto, il canale di Sicilia, Suez, Dardanelli, Bab al-Mandab, Hormuz, Bering, il canale fra Islanda e Groenlandia, l’Egeo, lo Jutland ecc. Se consideriamo i vari fronti aperti a livello mondiale dalla Guerra Grande ci accorgiamo che gli scontri e le guerre in corso dei nostri padroni ruotano attorno al dominio di queste strozzature perché per Stati e capitalismi, sin dalla loro nascita, il mare è viatico inaggirabile nella rincorsa alla volontà di potenza loro e delle classi sfruttatrici. Chi domina questi spazi e quindi in pratica queste strozzature domina il mondo. Attorno a questi si scontrano e/o sormontano le varie “faglie” di blocchi di Stati e di capitalismi in contrapposizione tra loro. Tendenzialmente in alcuni dei territori limitanti una linea di faglia si aprono più facilmente contraddizioni a livello sociale ed economico. Territori e società direttamente contesi o semplicemente considerati punti deboli dal blocco opposto per via delle loro caratteristiche storico-sociali ed economico-culturali. Ad esempio, per i nostri padroni i territori e le società dell’Europa orientale e del Sud Europa sono più sensibili potenzialmente per via delle contraddizioni che si potrebbero spalancare a insurrezioni o autogestioni generalizzate e alla possibile conseguente catarsi rivoluzionaria. Esempi a livello storico dove possiamo utilizzare questi due attrezzi di orientamento e di navigazione per le possibilità insurrezionali sono tutte le grandi rivoluzioni libertarie della storia del XX secolo (Manciuria, Ucraina, Kronstadt, Catalunya). Se consideriamo le considerazioni e le progettualità già elaborate decenni fa nell’area dell’anarchismo di azione per quanto riguarda le possibilità e le occasioni rivoluzionarie nelle società del Sud Europa e nel bacino del Mediterraneo, ritengo che ora, fra le contraddizioni che si spalancano in alcuni territori con la Guerra Grande in corso e la ristrutturazione sociale del capitalismo, le analisi e le considerazioni che facemmo decenni fa sono quanto più attuali e preziose e hanno confermato tutta la loro validità e potenzialità soprattutto per quanto riguarda le aree rurali, ad esempio del Sud Europa. Aree rurali dove poter coordinare informalmente sul territorio specifico in questione situazioni di lotta, di autonomia materiale e di cultura di resistenza; in sostanza porre in rete e creare momenti e situazioni di autonomia materiale, di cosmovisione altra e di lotta e lavoro insurrezionale tracciando un orizzonte politico libertario e anarchico. In sostanza delle CLR (Collettività Locali di Resistenza) dove provare sin da ora a vivere materialmente e umanamente su dei territori la vita per cui ci battiamo in lotta contro la devastazione portata dagli Stati e dal capitale. Rilanciare e nello stesso tempo “uscire” in questa maniera dal mero intervento di agitazione sia teorica che pratica per entrare in un’ottica di possibilità rivoluzionaria e insurrezionale. Possibilità, purtroppo, ben consce e presenti nelle analisi degli Stati dell’UE e dei nostri nemici di classe, dal momento che già nel 2017 in un documento preparato per la Commissione europea, e già citato negli anni passati nei vari articoli della rubrica “Apocalisse o insurrezione”[metterei link], veniva evidenziato come nelle aree rurali dell’est e del sud Europa, già feconde per noi di contraddizioni intrinseche, la situazione a livello sociale era potenzialmente esplosiva. Saper cogliere e rendere feconde le contraddizioni che si stanno aprendo e che si possono spalancare nel momento in cui i nostri padroni e gli Stati dell’UE si trovano in difficoltà e si indeboliscono nel confronto con i loro avversari in questa Guerra Grande. Per noi il tutto sta nel cogliere le possibilità che si aprono su certi territori nel momento in cui sappiamo interpretare lo spazio-tempo in profondità e in ampiezza, declinando in pratica la nostra bussola dei princìpi facendo tesoro dell’esperienza storica delle lotte della nostra classe sociale, fissando una rotta di massima e elaborandola in un lavoro rivoluzionario affinché le correnti del divenire convulso e frenetico di questo periodo storico non ci portino alla deriva. Cosa ancora più facile dal momento che buona parte della classe dominante, soprattutto occidentale, sta scivolando a livello di analisi strategica nella demenza post-storica e dei problemi minuti incasellati in un’illusione dell’eterno presente. Proviamo a vedere le contraddizioni politico-sociali ed economiche che si sono aperte nell’ultimo periodo in due aree geografiche che si trovano sullo specchio di faglia dell’Europa orientale: in Romania e in Moldavia. Che i territori appartenenti allo Stato rumeno e moldavo siano contesi fra due blocchi capitalistici contrapposti, non è una novità per nessuno. Gli avvenimenti istituzionali dell’ultimo anno in Romania (come ad esempio il colpo di stato filo-UE del dicembre 2024), sono esemplificativi di questa situazione. Non è questa la sede per entrare nel merito di queste dinamiche. È interessante, invece, per quanto riguarda l’angolazione della nostra classe, sottolineare le contraddizioni sociali che possono emergere. Ad esempio, gli scioperi continui degli insegnanti per l’aumento dei salari, o le forti proteste dei trasportatori e dei piccoli agricoltori in Romania. Bucarest ormai da più di un anno è una città in ebollizione. «Raderei al suolo il nostro parlamento. Nessuno fa niente per migliorare la situazione economica del paese. I salari non crescono ma i prezzi dei beni di prima necessità continuano ad aumentare. Non ne possiamo più», commenta un tassista di Bucarest. Similare la situazione in Moldavia, area incistata tra Ucraina e Romania e punto di frizione diretta tra le ambizioni di allargamento degli Stati e dei capitalismi UE e le frazioni delle classi dominanti locali che spingono per rafforzare i legami con Mosca. Negli ultimi anni, nelle strade di Chisinau, si sono svolte proteste ed accese mobilitazioni contro il carovita. Nella nostra prospettiva di classe, antiautoritaria e di disfattismo rivoluzionario, è fondamentale comprendere quali sono le difficoltà e le problematiche che sta passando il nemico di casa nostra nella crescente contrapposizione fra Stati e borghesie europee con la classe dominante statunitense. “Con simili amici, chi ha bisogno di nemici?”. Dal 24 febbraio del ’22 la frase celebre di Charlotte Bronte può precisamente sintetizzare la situazione del padronato e degli Stati dell’UE verso la borghesia a stelle e strisce. A partire dal sabotaggio del gasdotto Nord Stream ai danni del padronato tedesco avvenuto agli inizi della guerra, fino alla guerra commerciale dei dazi e agli avvenimenti dell’ultimo anno sulla questione dell’approvvigionamento energetico. Lo stop al transito del gas russo verso l’Europa attraverso i gasdotti ucraini alla fine del ’24 determinò difficoltà e rialzo dei costi in gran parte del continente con previsioni di incrementi considerevoli delle bollette. Lo Stato slovacco, membro della NATO e dell’UE, è stato quello che ha risentito di più della decisione assunta da Kiev con il pieno supporto degli USA e, paradossalmente ma non troppo vista la posizione di sconfitti delle classi sociali del vecchio continente, dell’Unione Europea. Washington ha tutto l’interesse ad imporre il suo costoso GNL (sostenuto in maniera perentoria da Obama, da Biden e ora da Trump). L’attacco strategico contro i gasdotti Nord Stream non è stato certamente l’ultima battaglia della guerra per il mercato energetico europeo. L’11 gennaio del 2025 un attacco (fallito) è stato portato da 9 droni ucraini alla stazione di compressione “Russkaya” del gasdotto “Turkstream”, che attraversa i fondali del Mar Nero e raggiunge la Turchia europea, ed è l’ultimo gasdotto ancora funzionante che trasporta il gas russo negli Stati europei come Serbia e Ungheria. Le fazioni della classe dominante nordamericana, che trova nel governo repubblicano al potere il rappresentante e il propinatore dei propri interessi, accelera le pressioni per rinforzare la “Yalta 2.0” contro i padroni del vecchio continente, attraverso anche una sorta di pagamento delle “indennità di guerra”, e cioè attraverso l’imposizione che gli Stati dell’Ue comprino più prodotti “per la difesa” made in USA, se vogliono evitare la guerra – ancora “non combattuta” sul piano militare – dei dazi commerciali. Trump ha previsto di ridurre in 4 anni di 300 miliardi su 900 il bilancio annuale del Pentagono: il militarismo europeo dovrà indebitarsi per assorbire le acquisizioni di armamenti cui rinunceranno gli americani. L’industria statunitense è ben determinata ad occupare il mercato europeo della “difesa” in cui le importazioni dagli USA sono cresciute di oltre il 30% dal 2022. Tracciando una panoramica complessiva, al conflitto in nuce (per il momento limitato al livello commerciale e politico) fra la borghesia USA e quelle del vecchio continente, si aggiungono i crescenti compromessi tra Stato statunitense e russo anche in campo economico ed energetico. L’avvio della guerra mondiale dei dazi si caratterizza, oltre che per l’inasprimento degli accordi di Yalta, anche per il rinvigorimento della dottrina Monroe, prendendo di mira direttamente i due stati limitrofi agli States (Canada e Messico), minacciati di essere colpiti nelle loro esportazioni verso Washington. Per il Canada, i dazi rappresentano anche il tassello di una fase espansionistica che culmina con la minaccia dell’annessione agli Stati Uniti. I continui ripensamenti e poi l’abbassamento dei toni stanno caratterizzando l’atteggiamento delle classi sfruttatrici nord-americane verso il vero nemico: il padronato mandarino. La classe dirigente cinese ha ottenuto dagli USA una retromarcia dietro l’altra sui dazi, come dimostrato dall’ultimo accordo raggiunto nel mese di maggio con la sospensione temporanea e parziale degli enormi dazi che i due Stati si erano imposti a vicenda. In base alle condizioni concordate, infatti, gli USA abbasseranno dal 145 al 30% i dazi sulle merci cinesi, mentre lo Stato cinese, che aveva imposto dazi speculari, li abbasserà dal 125 al 10%. Per il padronato statunitense è l’ennesima resa unilaterale, che mostra l’improvvisazione della strategia dello stato nordamericano, che quando impone i dazi dice che serviranno per la reindustrializzazione e quando li toglie dice che serviranno per favorire il commercio. Negli ultimi mesi, alle atrocità inenarrabili che caratterizzano il proseguimento del primo genocidio automatizzato della storia, si aggiungono i conflitti nelle regioni che insistono attorno allo stretto di Hormuz, come la micro-guerra combattuta fra Stato pachistano e indiano, e la guerra dei 12 giorni di Israele e USA contro l’Iran. Utilizzando l’attrezzo analitico-concettuale delle “strozzature”, per quanto riguarda ad esempio il conflitto fra Pakistan e India, evidenziamo che stagliato sullo sfondo c’è il problema del riequilibrio delle relazioni commerciali tra Stato indiano e statunitense. La tendenza al riposizionamento della borghesia indiana nei confronti degli USA è stata dirompente per gli equilibri del sub-continente. Mentre lo Stato pachistano ha la necessità di un ampio confine diretto con il territorio cinese (fondamentale per uno sbocco diretto sull’Oceano Indiano al fine di superare un eventuale blocco navale dello stretto di Malacca), così la borghesia indiana cerca a tutti i costi di interrompere questo canale di traffico commerciale. Attorno alle strozzature contese fra blocchi di Stati e di capitalismi rivali di Hormuz e di Malacca si stanno spalancando contraddizioni sociali e di classe significative. Basti pensare anche solamente alle enormi mobilitazioni e scioperi in aumento negli ultimi anni ad esempio nel territorio indiano, a partire dalle grosse ondate di scioperi iniziate alla fine del 2020 contro l’introduzione di nuove leggi agrarie, e dove la congiuntura fra la crisi climatica e idrica, il revanscismo dell’ideologia nazionalista indiana e il conseguente riposizionamento delle classi sfruttatrici indù sul piano internazionale della Guerra Grande, nonché la liberalizzazione del mercato del carbone assieme all’eliminazione della legge che vincolava l’uso delle terre al consenso obbligatorio delle popolazioni locali, stanno realizzando sconquassi strutturali rilevanti e un forte inasprimento della lotta di classe. Ma torniamo alla situazione che più riguarda da vicino il territorio che abitiamo e che attraversiamo con un focus sulla situazione groenlandese e delle rotte che attraversano il Mar Artico. La Groenlandia è la nuova isola del tesoro dove le borghesie cinesi, statunitensi, russe ed europee si sfidano fra i ghiacci. Frontiera strategica sulle rotte artiche e ricchissima di terre rare, gas e petrolio, ci sono diversi motivi che hanno scatenato negli ultimi anni un’attenzione crescente attorno a questa isola, e quasi tutti i motivi hanno a che fare con un fattore: il cambiamento climatico. Il riscaldamento globale sta provocando lo scioglimento dei ghiacciai in tutto l’Artico, modificandone i contorni, aprendo nuove possibili rotte commerciali e militari, scoperchiando ricchezze nascoste e giacimenti di “terre rare”. La Groenlandia per la sua posizione geografica è considerata strategica dal militarismo statunitense. L’isola è circondata dagli stretti che introducono ai passaggi a nord-ovest e a nord-est dell’Oceano Artico e, con le rotte nel prossimo futuro sempre più navigabili, gli USA non vogliono che le altre potenze rivali ne approfittino. Lo scioglimento dei ghiacci, inoltre, consentirà sempre di più lo sfruttamento delle risorse minerali presenti nell’isola, ricca di minerali e di metalli rari. Una ricerca del 2023 ha confermato la presenza di 25 dei 34 minerali considerati “materie prime critiche” dalla Commissione europea, tra cui grafite e litio. Ma all’interno del meccanismo delle varie economie di guerra, dove la sicurezza degli approvvigionamenti alimentari ha un ruolo cruciale nel contribuire allo scontro fra capitalismi rivali (come sta avvenendo in Africa nella corsa all’accaparramento e alla predazione dei terreni necessari per la “sovranità alimentare” delle varie potenze in guerra sullo scacchiere mondiale), così i fondali groenlandesi sono necessari per la pesca, visto che diversi stock ittici si spostano sempre più a nord, rinvigorendo le potenzialità del mercato della pesca di Nuuk. La competizione accesa per il controllo dell’isola più grande del mondo, dei suoi stretti e dei suoi mari (lo stesso Macron è volato a Nuuk il 15 giugno scorso per “difendere l’integrità territoriale” di questo territorio colonizzato dalla Danimarca) accende le contraddizioni sociali sull’isola: aumentano le proteste delle comunità Inuit in conseguenza dell’accaparramento dei territori e delle acque limitrofe all’isola, mentre il tasso di disoccupazione e le carenze sanitarie stanno iniziando a creare segnali di insofferenza nel paese. La regione artica sta emergendo come nuova frontiera della competizione strategica e commerciale. Si stima che l’Artico contenga circa il 13% delle riserve mondiali di petrolio, il 30% di quelle di gas e grandi quantità di risorse ittiche e minerali rari. Stato cinese e Stato russo stanno ampliando le loro operazioni nell’Artico, coinvolgendo le isole Svalbard e l’Islanda. Il controllo del cyber-spazio e dei fondali oceanici è una base fondante per la guerra e per la trasformazione della società e del modo di produzione capitalista verso la fase digitale. Tutti questi punti sono ben visibili per quanto riguarda lo spazio artico dove, data la crescente attività del capitalismo russo e cinese inerente alla logistica digitale attraverso i cavi sottomarini, la NATO sta avviando nuovi progetti che «puntano a rendere internet meno vulnerabile ai sabotaggi, reindirizzando il flusso di dati verso lo spazio in caso di danneggiamento delle dorsali sottomarine». La stessa attività estrattiva in acque profonde potrebbe iniziare già quest’anno. Agli inizi di aprile del 2024, i membri dell’Autorità Internazionale dei Fondali marini (ISA) ha revisionato le norme che regolano lo sfruttamento dei fondali. La nuova corsa all’oro degli abissi è iniziata l’anno scorso con una legge dello Stato norvegese che permette l’estrazione mineraria su scala commerciale. L’impatto (anche) ambientale di queste decisioni comporterà la distruzione di interi habitat, oltre al fatto che il 90% del calore in eccesso dovuto al riscaldamento globale viene assorbito dagli oceani, devastando così l’equilibrio che sorregge la vita in questo pianeta. Sostanzialmente, la guerra al vivente procede e si ramifica in ogni sua forma. La guerra è sempre più palesemente il cuore di questo mondo senza cuore. Mentre i nostri padroni proseguono ad attrezzarsi alla guerra mondiale, la domanda (banale) che poniamo è questa: chi pagherà il riarmo degli Stati e delle borghesie nostrane? Già nei mesi scorsi, in un articolo che non lascia adito ad alcun fraintendimento dal titolo: Europe must trim its Welfare State to build a warfare state, il “Financial Times” sostiene che l’Europa deve ridurre le spese per il welfare per assicurarsi la capacità di sostenere un consistente riarmo. L’accordo per aumentare la spesa militare degli Stati aderenti alla NATO al 5% del PIL deciso al vertice dell’Aia va pienamente in questa direzione, assieme all’estrazione e al furto dei piccoli risparmi privati, già presente nei punti che articolano il riarmo europeo. Ribadendo ulteriormente e con forza che fino a quando esisteranno Stati e capitalismi saranno illogiche le speranze di pace duratura poiché la negazione della guerra implica in primo luogo quella dello Stato e del capitale, dinnanzi a questo mondo di conflitti e di miserie generalizzate che corre verso l’oblio e la propria autodistruzione, la resistenza palestinese (vera e propria forza tellurica che ha ridonato speranza alle classi sfruttate di tutto il mondo), la rivolta di Los Angeles e l’accentuarsi delle insurrezioni, delle mobilitazioni sociali, delle lotte e dei gesti di insubordinazione quotidiana in tutto il mondo sono come lampi premonitori che squarciano l’Ancien régime, segnali che un nuovo assalto proletario ai bastioni dell’alienazione e dello sfruttamento può essere alle porte. Non c’è notte tanto lunga da non permettere al sole di risorgere. «Secondo noi le rivalità e gli odi nazionali sono tra i mezzi che le classi dominanti hanno a loro disposizione per perpetuare la schiavitù dei lavoratori. E in quanto al diritto delle piccole nazionalità di conservare, se lo desiderano, la loro lingua e i loro costumi, ciò è semplicemente questione di libertà, che avrà la sua vera finale soluzione solo quando, distrutti gli Stati, ogni gruppo di uomini, o meglio ogni individuo, avrà diritto di unirsi con ogni altro gruppo o separarsi a piacere.» (Errico Malatesta).
Colombia, storica sentenza di condanna: 12 anni per l’ex presidente Uribe
La sentenza della giudice Heredia apre una nuova fase nella storia della Colombia, perché per la prima volta l’ex presidente Álvaro Uribe Vélez è stato condannato nell’ambito di un procedimento sulle relazioni tra la politica e il paramilitarismo. Lo scorso lunedì 28 luglio, per oltre 10 ore, la giudice Sandra Heredia ha letto in diretta nazionale circa la metà delle oltre duemila pagine della sentenza. Prima di entrare nel merito della sentenza, aveva dichiarato: «La giustizia non si inginocchia davanti al potere». Ieri, venerdì 1 agosto, è stata resa nota, con effetto immediato, l’entità della condanna: 12 anni di arresti domiciliari, multa di 3.444 milioni di pesos (all’incirca 700mila euro) e interdizioni ai pubblici uffici per 8 anni e 3 mesi. Fin dalla mattina del giorno della sentenza, davanti al Tribunale di Paloquemao erano presenti sia simpatizzanti dell’ex presidente ed esponenti politici di estrema destra (tra cui l’ex vicepresidente dei due governi di Uribe e l’ex ministro della difesa del governo Duque), sia persone che invece denunciavano le responsabilità dell’ex presidente chiedendo verità e giustizia. * * I simpatizzanti dell’ex presidente di estrema destra portavano maschere con la faccia di Uribe e cartelli e bandiere con su scritto “Uribe innocente”, mentre dall’altra parte del Tribunale attivisti per i diritti umani chiedevano condanna e carcere per l’ex-presidente. Secondo quanto appreso dalle testimonianze dei presenti, vi sono stati diversi episodi violenti da parte dei militanti di estrema destra, che hanno portato ad un arresto per aggressione ai danni di giornalisti e attivisti per i diritti umani. * * * * Intanto sia davanti al Tribunale, che nelle zone limitrofe e in altri luoghi simbolo di Bogotá si sono tenuti presidi, mobilitazioni e cucine comunitarie per chiedere verità, giustizia e carcere per l’ex presidente. Poco distante, si è tenuto durante l’intera giornata il “Processo popolare contro Uribe”, una assemblea pubblica in piazza, dove è stato poi dipinto un immenso murales che dice: “Uribe colpevole”. La stessa frase che comincia a circolare sulle reti sociali e che diventa il titolo dei giornali poche ore dopo. * * La vicenda politica e giudiziaria che ha portato a questa sentenza è molto lunga e rappresenta una importante vittoria dei movimenti sociali e per i diritti umani che per decenni hanno denunciato le relazioni tra politica e paramilitarismo e i crimini di Stato. L’attuale procedimento nasce da una denuncia che lo stesso Uribe ha portato avanti contro il senatore Iván Cepeda Castro, figlio di Manuel Cepeda Castro, dirigente del Partito Comunista assassinato dai paramilitari nel 1994. Dopo la morte del padre, Cepeda è stato fondatore e portavoce del Movimento delle Vittime dei Crimini di Stato, e dopo essere stato costretto due volte all’esilio, oggi è una figura fondamentale e importante riferimento della lotta contro il paramilitarismo e il terrorismo di Stato in Colombia. * * * * * Dopo un intervento al Congresso, nel 2012, nell’ambito di un dibattito di controllo politico, in cui Iván Cepeda ha denunciato le relazioni tra paramilitarismo e politica, la cosiddetta “parapolitica”, Álvaro Uribe Vélez lo ha denunciato: proprio durante quel procedimento, terminato con una assoluzione nel 2018, sono stati riscontrati i tentativi di manipolazione delle testimonianze portati avanti da persone di fiducia dell’ex presidente, motivo per cui è stato aperto un nuovo processo giudiziario che ha portato questa settimana alla condanna in primo grado. Secondo quanto emerso dal processo, l’avvocato Diego Cadena, per conto di Uribe, ha visitato diverse carceri per fare pressione sugli ex paramilitari implicati nel procedimento, che avevano rilasciato dichiarazioni sulle relazioni tra l’ex presidente e le organizzazioni paramilitari, al fine di cambiare le loro testimonianze. Così, alla fine, è stato proprio Iván Cepeda a portare a processo Uribe, per il tentativo di manipolazione delle testimonianze dei due ex-paramilitari Carlos Vélez e Juan Guillermo Monsalve, testimoni nell’ambito delle indagini sul “Bloque Metro de las Autodefensas”, formazione paramilitare che, secondo diverse testimonianze, aveva legami stretti con Uribe. Dopo la sentenza, si è atteso fino a venerdì per sapere l’entità della condanna e la modalità di detenzione per l’ex-presidente, il primo della storia colombiana a essere condannato penalmente. Dopo l’annuncio dell’entità della condanna, immediatamente esecutiva per il rischio di fuga dell’ex presidente, di tre anni superiore alla richiesta dei pm (che avevano chiesto 9 anni), la destra in Colombia ha annunciato mobilitazioni il prossimo 7 agosto in difesa di Uribe. A un anno dalle elezioni presidenziali, questa sentenza storica dimostra ancora una volta le complicità dei governi di estrema destra con il paramilitarismo; pochi mesi fa, infatti, la scoperta delle fosse comuni alla Escombrera della Comuna 13 a Medellín, e prima ancora, il riconoscimento da parte della Giustizia Speciale per la Pace dei cosiddetti “falsos positivos”, con 6402 vittime accertate, ha fatto luce sulla sparizione di migliaia di giovani dei quartieri popolari, che dopo essere stati sequestrati sono stati sistematicamente uccisi dalle forze militari tra il 2002 e il 2008, durante i governi di Uribe, e poi presentati alla stampa come guerriglieri caduti in combattimento. Ma la grande sconfitta politica dell’ex presidente e del suo modello politico, prima ancora della condanna di ieri, e prima ancora della vittoria elettorale del progressismo nel 2022, va fatta risalire alle lotte dei movimenti sociali, delle vittime del conflitto e delle organizzazioni per i diritti umani, e soprattutto alle proteste sociali di massa tra il 2019 e il 2021: risuonano ancora gli slogan scritti sui muri, sulle magliette e nelle strade, cantati da migliaia di manifestanti durante le proteste, gli scioperi e le rivolte popolari contro il governo Duque, che più di ogni altro ha rappresentato la continuità dell’uribismo al governo, che dalle strade hanno sfidato il potere: «Questo non è un governo, sono i paramilitari al potere», e «Uribe, paraco [paramilitare, ndr] il popolo è arrabbiato». > Mentre la destra difende Uribe e parla di «persecuzione politica», le > organizzazioni dei diritti umani e le sinistre chiedono che si indaghi a fondo > per far emergere tutta la verità sulle relazioni e le complicità dei governi > di estrema destra con il paramilitarismo. Le posizioni dei partiti di destra in difesa di Uribe è sostenuta anche dalla gravissima ingerenza da parte del governo degli Stati Uniti, con il segretario di Stato Marco Rubio che è intervenuto in difesa di Uribe poche ore dopo la sentenza, in quella che il presidente Petro ha immediatamente qualificato come una intromissione nella sovranità nazionale. Anche il senatore Iván Cepeda Castro e diverse organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato l’ingerenza degli Stati Uniti, sollecitando garanzie per difendere l’indipendenza dei giudici in Colombia, ed evitare condizionamenti rispetto al secondo grado di giudizio. All’uscita dal tribunale, Iván Cepeda ha dichiarato: «Oggi è una giornata in cui dobbiamo riconoscere il ruolo della giustizia come garante della democrazia e come forma efficace di controllo dei politici più potenti e dei loro crimini. Nel nostro caso, con questa sentenza, è stata stabilita la verità sul tenebroso apparato diretto da Uribe Vélez e composto da numerosi falsi testimoni che hanno cercato di ingannare la giustizia. Dopo tredici anni e un lungo processo, in cui sono state offerte tutte le garanzie processuali all’ex presidente, è stato condannato in primo grado». Oggi con la persistenza, nonostante anni di esilio e minacce, Cepeda ha vinto la sua causa, che è anche la causa di tanti e tante in Colombia. > Conclude così il senatore Iván Cepeda: «Oggi non solamente viene reso onore > alla nostra dignità, ma anche a quella di tantissime vittime in Colombia. Oggi > questa sentenza giusta la dedichiamo anche alle madri di quei giovani che sono > stati desaparecidos, torturati e gettati nelle fosse comuni o presentati ai > media come falsos positivos» Una sentenza che mette fine all’impunità e apre il cammino verso la ricerca della verità e della giustizia per i decenni di violenza e massacri di Stato in Colombia, per le relazioni tra politica e paramilitarismo nel periodo della “sicurezza democratica”, nome della dottrina applicata durante i due governi del Centro Democratico guidati da Álvaro Uribe Vélez. Un processo che segna, in modo assolutamente significativo, lo scenario elettorale verso le presidenziali da qui al prossimo anno, in cui la destre puntano a tornare al potere, mentre il progressismo punterà a ripetere la vittoria elettorale, con l’obiettivo di migliorare le elezioni al Congresso. In attesa della prossima definizione, ad ottobre, dei candidati delle diverse coalizioni, questa storica condanna inaugura sicuramente una nuova tappa dello scenario politico nel paese. E potrebbe non essere l’ultima. Tutte le immagini sono di Sebastián Bolaños Pérez, fotografo e collaboratore di Dinamopress, dal tribunale di Paloquemao, lunedì 28 luglio 2025, Bogotá SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Colombia, storica sentenza di condanna: 12 anni per l’ex presidente Uribe proviene da DINAMOpress.
Appello delle donne ezide al governo italiano: «Riconoscere il genocidio di Shengal»
Il 3 agosto prossimo la comunità ezida ricorderà il genocidio del 2014, quando nel distretto di Shengal (Iraq), proprio in quella data, i miliziani dello Stato Islamico (Deash) fecero irruzione nelle abitazioni e nelle vite delle e degli ezidi seminando violenza e terrore. Le avvisaglie di quanto stava per accadere c’erano e il genocidio si sarebbe potuto impedire, ma qualcosa si mosse alle spalle di questo popolo, condannandolo a un massacro. Uomini, ragazzi e donne anziane furono uccisi dai jihadisti dello Stato Islamico mentre le donne più giovani insieme ai bambini e alle bambine furono rapite. Ancora oggi, le fosse comuni continuano a restituire i resti delle uccisioni di massa. Le donne e i bambini scappati dalla prigionia invece hanno raccontato storie raccapriccianti: donne, ragazze e bambine violentate in continuazione e vendute come schiave; bambini obbligati a convertirsi all’islam e a imbracciare le armi per uccidere tutti gli infedeli, a cominciare delle e dagli ezidi, ossia dai membri della loro stessa comunità. Un genocidio in piena regola che le e gli ezidi definiscono anche come “genocidio culturale”. Lo Stato Islamico, infatti, con la sua brutalità ha mirato a cancellare il culto ezida, che venera Melek Ta’us, ossia l’Angelo Pavone, che nell’islam rappresenta Iblis, cioé il Diavolo. Ma questo popolo è tutt’altro che adoratore del Diavolo, al punto da non riconoscere l’esistenza di Satana, nella convinzione che la fonte del male si trovi solo nei cuori umani. > Lo Stato Islamico però non si è diretto verso questo popolo con l’intento di > sterminarlo per ragioni esclusivamente religiose, poiché l’attacco che ha > sferrato era dettato anche da necessità più strategiche. Nel 2014 aveva già occupato parti della Siria e dell’Iraq e il distretto di Shengal, all’epoca sotto il controllo militare dei peshmerga del KDP (Partito Democratico del Kurdistan), partito alla guida del governo del Kurdistan iracheno, era il tassello mancante per comporre il puzzle della costruzione del Califfato. L’integrazione del distretto ai territori già conquistati significava creare una continuità territoriale che permetteva di raggiungere in tempi brevi le due più grandi città del Califfato, la capitale Raqqa, in Siria, e Mosul, in Iraq, cancellando in questo modo anche i confini disegnati dalle potenze coloniali.  Tra Daesh e il KDP era stato raggiunto un accordo con il quale il primo aveva garantito di non ostacolare l’avanzata del secondo nella ricca regione petrolifera di Kirkuk, in quel momento nelle mani del governo centrale di Baghdad, in cambio del lasciapassare su Shengal. Come la storia ci racconta, l’accordo siglato è stato rispettato da entrambe le parti e la forza devastatrice dello Stato Islamico ha travolto la comunità ezida. La paura però che la storia non venga trascritta fedelmente e che la memoria possa perdersi con il trascorrere del tempo ha spinto le sopravvissute e i sopravvissuti ezidi a impegnarsi perché questo non avvenga. Ma sono soprattutto le sopravvissute a essersi caricate sulle spalle questo lavoro e lo fanno anche attraverso le proprie organizzazioni delle donne. Le donne della comunità ezida che si riconoscono nell’Amministrazione Autonoma di Shengal, forma di autogoverno basata sui principi del confederalismo democratico espressi dal leader curdo del PKK, Abdhulla Öcalan, hanno costituito due organizzazioni femminili, il TAJE nel 2016 e l’Êzîdî Woman Support League nel 2019 (tre delle sette fondatrici di quest’ultima erano state rapite da Daesh), che operano nella società civile per supportare le ezide liberate dalla schiavitù imposta dallo Stato Islamico e per rintracciare quelle ancora nelle sue mani e liberarle, per tramandare le tradizioni ezide alle nuove generazioni e garantire loro un’istruzione adeguata ma anche per parlare del genocidio e comprenderne le cause e i suoi effetti. Le donne sono certe che la loro comunità dovrà affrontare nuove sfide insidiose e vogliono farla trovare preparata affinché sia scongiurata la sua estinzione.  > Il lavoro sociale e politico che portano avanti disegna il nuovo ruolo che > hanno nella contemporanea società ezida, che continua a fare i conti con il > lascito del genocidio. In questa società la donna ezida è una figura indispensabile e copre tutti gli spazi politici rivestiti anche dagli uomini, con la messa in pratica della doppia carica (co-presidente, co-sindaco/a, ecc.) all’interno delle amministrazioni e delle organizzazioni della società civile. L’istruzione delle bambine e delle ragazze, sacrificata per molto tempo, oggi è al centro dello sforzo collettivo della comunità che guarda a loro con occhi diversi, investendo sulla loro formazione perché possano partecipare con gli strumenti della cultura alla elaborazione e realizzazione del confederalismo democratico. Sulla scia di questo paradigma politico, le donne ezide dovranno lottare duramente contro ogni forma di patriarcato per costruire una società democratica, libera e in armonia con l’ambiente. Ma non solo. Le donne ezide non si devono limitare alla partecipazione politica e sociale ma sono chiamate a difendere la propria comunità, la propria terra e la propria cultura attraverso la resistenza armata. Infatti, mentre lo Stato Islamico faceva razzia nei villaggi e nelle città ezide conquistate, circa 350mila ezidi cercavano di mettersi in salvo scappando sulla Montagna di Shengal per evitare la condanna jihadista. Questo lungo fiume di persone affaticate e disperate era stato protetto dal HPG, l’ala armata del PKK, che era prontamente intervenuto in soccorso, nell’attesa che le cancellerie del mondo decidessero se e come aiutare quella popolazione in pericolo.  Al HPG ben presto si erano aggiunte le YPG, le unità di resistenza curde del Rojava, ma la stessa comunità ezida non era restata inerte. Tra coloro che si erano uniti alla battaglia per riconquistare la propria terra c’erano anche le donne, le quali nella primavera del 2015 avevano dato vita alle YJŞ, ossia le unità di resistenza delle donne ezide. > Le YJŞ insieme alle YBŞ, le unità di resistenza degli uomini ezidi, hanno il > compito di difendere il territorio di Shengal e l’Amministrazione Autonoma. Daesh non poteva immaginare che con il suo progetto genocida avrebbe contribuito a liberare intelligenze, energie e forze che appartengono alle donne ezide. Proprio loro che, nel disegno che aveva in mente lo Stato Islamico, avrebbero dovuto rappresentare il simbolo, insieme ai bambini ezidi trasformati in soldati, del disfacimento della cultura e della società ezida attraverso l’umiliazione della conversione forzata all’islam e degli stupri, hanno saputo interrogarsi davanti alla tragedia e a dare risposte concrete. No, Daesh non poteva immaginare che la risposta al suo progetto genocida sarebbe stato l’inizio di un cammino che porta alla liberazione della donna dalle grinfie del patriarcato. Nonostante ci sia una legge irachena, la Yazidi (Female) Survivors’ Law entrata in vigore nel 2021, che riconosce il genocidio degli ezidi e di altre minoranze da parte di Daesh e il 3 agosto venga indicata come data di commemorazione nazionale, a 11 anni dal genocidio la comunità ezida non si sente ancora fuori pericolo perché vive sotto la pressione degli interessi che il governo centrale di Baghdad e il KDP hanno sull’area, ma è soprattutto la Turchia che la preoccupa, con i ripetuti attacchi effettuati con i droni che prendono di mira i membri dell’Amministrazione Autonoma uccidendoli in quanto reputati affiliati del PKK.  Questa situazione pericolosa genera instabilità, aggravata anche dalla carenza di molti servizi e infrastrutture, diretta conseguenza della distruzione provocata da Daesh, e scoraggia il rientro delle tante famiglie ezide che ancora vivono nei campi profughi del Kurdistan iracheno. Con l’avvicinarsi del 3 agosto, il TAJE ha scritto al Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, e a 14 Paesi, tra cui l’Italia, per chiedere che il genocidio venga riconosciuto. In Italia la richiesta per il riconoscimento pende davanti al Governo già da cinque mesi, ossia da quando la deputata Laura Boldrini, presidente del Comitato permanente sui diritti umani nel mondo, su domanda dell’Associazione Verso il Kurdistan odv, l’ha formalizzata nella seduta parlamentare del 21 febbraio.  > Il Governo italiano non si è ancora espresso è il TAJE lo esorta a farlo. Il > testo che segue è la lettera inviata dal TAJE: «Sono trascorsi undici anni dal 74° genocidio, ma le ferite non sono ancora guarite e la tragedia non è ancora stata superata. Circa 2.900 ezidi, per lo più donne e bambini, sono ancora tenuti prigionieri dai mercenari dell’IS. Il destino di centinaia di loro rimane sconosciuto. Decine di fosse comuni sono ancora in attesa di riesumazione e continuano a essere scoperte nuove fosse comuni. In 11 anni, 14 paesi hanno riconosciuto l’attentato del 3 agosto come genocidio. Come Movimento per la Libertà delle Donne Ezide, abbiamo preparato un dossier completo sul genocidio del 3 agosto 2014. Vi presentiamo un dossier contenente documenti e informazioni che dimostrano che ciò che il popolo ezida di Shengal ha subito è stato un genocidio. Vi esortiamo ad adempiere al vostro dovere e alla vostra responsabilità umanitaria e a riconoscere ufficialmente il massacro come genocidio. Come donne ezide, ci siamo organizzate nel 2015 con il nome di Consiglio delle Donne Ezide per impedire il massacro delle donne e della nostra comunità in seguito al genocidio del 2014. Abbiamo fondato la nostra organizzazione in risposta al genocidio che ha colpito le donne ezide e la comunità ezida. Abbiamo ampliato i nostri sforzi per dare potere alle donne e consentire loro di proteggersi da attacchi e genocidi. Nel 2016, abbiamo fondato il Movimento per la Libertà delle Donne Ezide” (TAJÊ) attraverso un congresso da noi organizzato. Come donne ezide di Shengal, continuiamo il nostro lavoro». L’immagine di copertina è di Carla Gagliardini SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Appello delle donne ezide al governo italiano: «Riconoscere il genocidio di Shengal» proviene da DINAMOpress.
Un Manifesto per non morire di rendita
Dopo il caso Milano, un Manifesto per non morire di rendita  di Walter Tocci   Il caso Milano solleva temi molto più profondi di quanto raccontano le cronache. Come al solito si prende coscienza dei problemi nazionali solo dopo l’intervento della magistratura. Il diffuso conformismo, infatti, oscura le analisi eterodosse che mettono in discussione ideologie e pratiche correnti. Nella diffusa apologia dello sviluppo urbanistico milanese si è voluto oscurare la crescente potenza della valorizzazione immobiliare che travolge tutte le forme di controllo e scarica alti costi sociali e umani nella vita urbana. Questo squilibrio crea un terreno fertile per la corruzione, ma è una patologia urbana anche in assenza di comportamenti illegali. Come processo socioeconomico è stato perfezionato al massimo livello a Milano, ma riguarda anche Roma e tutte le città italiane. Il valore urbano, inteso come rendita immobiliare, era al centro del dibattito politico negli anni Sessanta. Gli storici hanno dimostrato che fu il vero movente del tentativo di colpo di stato del generale De Lorenzo contro la legge Sullo. Se ne occupava anche la cultura, dal film di Rosi Le Mani sulla città al romanzo di Calvino La Speculazione edilizia. Perfino i capitalisti la disprezzavano come fattore di arretratezza dell’economia. Contro la rendita Agnelli invocava un patto tra produttori, cioè un’alleanza tra lavoratori e capitalisti. Invece, da quando si è alleata con la finanza se ne parla meno. È invisibile perché partecipa attivamente al capitalismo contemporaneo, il quale è il regno dei rentier e dei monopoli, nonostante le favole sulla concorrenza che ci raccontano gli economisti ortodossi. Che sia diventato un fattore cruciale è dimostrato dalla grande crisi del 2008, causata proprio dai mutui subprime. Chi l’aveva previsto che il turbocapitalismo naufragasse sul sogno piccolo-borghese della casetta in proprietà? E non a caso oggi l’impero americano è guidato da un immobiliarista, e un suo sodale negli affari, l’ineffabile Witkoff, tratta su pace e guerra, tra lo sconcerto dei diplomatici di professione. Dall’invisibilità derivano dimenticanze e fraintendimenti che dominano il senso comune e alimentano politiche dannose, come dimostra il miglior libro sulla questione: B. Pizzo, Vivere o morire di rendita, Donzelli 2023. Se l’attrazione della rendita è troppo forte vengono scoraggiati gli investimenti produttivi. L’acqua va dove trova la strada. E gli effetti sono più evidenti in Italia, nella pluridecennale stagnazione della produttività, nella diminuzione del valore aggiunto e nelle crisi bancarie, causate dagli eccessivi valori immobiliari scritti in bilancio prima dell’esplosione della bolla. L’eccesso di valorizzazione immobiliare, inoltre, produce devastanti effetti sociali e culturali, che sono sotto gli occhi di tutti. A Milano la crescita degli affitti ha determinato una sostituzione di popolazione, con espulsione nell’hinterland di ceti sociali meno abbienti e attrazione di quelli ad alto reddito, come ha dimostrato Lucia Tozzi, con largo anticipo sulle attuali vicende, quando tutti celebravano i fasti ambrosiani. In tutte le grandi città ritorna una drammatica “Questione delle abitazioni”, che sembra riecheggiare il saggio di Engels sui mali della città industriale. Inoltre, gli inusitati valori immobiliari determinano una selezione negativa delle funzioni urbane. Sono scoraggiate tutte le attività di innovazione culturale e tecnologica che nella fase di incubazione non ce la fanno a sostenere gli alti costi immobiliari. Al contrario vengono attratte le ricchezze originate dai monopoli di vario tipo: gruppi finanziari (basti pensare ai capitali del Qatar), airbnb, public utilities, cordate professionali, concentrazioni dei media, ecc. La rendita chiama altra rendita e scoraggia l’ingegno, smentendo il modaiolo bla-bla sulla città creativa. Ora sembrano prenderne coscienza anche gli editorialisti del Corriere della Sera, come scrive Dario Di Vico: “La rendita sta vincendo, e questa per Milano, storica città della crescita, è la vera ferita. Un modernità che umiliasse il merito non l’avevamo prevista”. L’economia classica di Ricardo era una scienza morale, proprio come l’urbanistica, e attribuiva all’imprenditore il merito del profitto mentre stigmatizzava i guadagni immeritati dei rentiers. Oggi si parla tanto di meritocrazia, eppure si dimentica che la valorizzazione non è merito dell’immobiliarista, poiché dipende in gran parte dal prestigio, dalla qualità e dalle infrastrutture del contesto urbano, cioè viene alimentata dall’azione dei cittadini e dalle iniziative dell’amministrazione pubblica. Al merito dell’operatore si può attribuire solo il profitto di impresa nel processo di costruzione. Se un profitto vale 20, la rendita vale 100, nonostante il primo sia frutto di una impegnativa attività industriale mentre la seconda richieda solo l’attesa di un guadagno immeritato. Con la legge Berlusconi, purtroppo ratificata anche dalle amministrazioni di sinistra, è diventato normale parlare di “premio di cubatura”. Eppure, non dovrebbe essere premiata una valorizzazione già molto più alta del plusvalore di qualsiasi investimento produttivo. La trasformazione dei tessuti non dovrebbe risolversi nel gioco ristretto tra legislatore e proprietario, a prescindere da qualsiasi considerazione sul contesto urbano. Semmai il “premio” dovrebbe essere destinato ai cittadini, riservando i terreni ancora liberi ai servizi pubblici e al verde, spesso carenti proprio nelle città costruite male. E non suscita alcuna indignazione la bassissima quota di questa valorizzazione che ritorna all’interesse pubblico. In una delle più grandi operazioni urbanistiche romane, nell’area di Bufalotta, si è calcolato che l’operatore ha ottenuto una rendita del 106% rispetto ai costi di costruzione e ha versato al Comune solo il 6% della valorizzazione. Cioè l’onere per il proprietario è stato circa quattro volte più basso delle tasse che paga un operaio. L’Italia è un paradiso fiscale per l’immobiliare. In Europa gli oneri arrivano al 30%, come non si è mai stancato di dimostrare il compianto Roberto Camagni, uno dei pochi economisti ad occuparsi di rendita. La legge Bucalossi, inoltre, aggiunge effetti distorsivi calcolando gli oneri non rispetto alla valorizzazione, ma ai costi di costruzione, con il risultato che nei quartieri più ricchi, in percentuale sul valore, gli oneri sono più bassi che in periferia o addirittura sono annullati con l’alibi delle urbanizzazioni esistenti. Si arriva a turlupinare l’opinione pubblica offrendo nei piani urbanistici un’opera pubblica aggiuntiva in cambio di ulteriori aumenti di cubatura. La scuola o il parco in più sono finanziati dagli stessi bassi oneri al 6%, per rimanere all’esempio precedente, mentre il proprietario incamera oltre il 100% di valorizzazione anche sull’aumento di cubatura. È un altro regalo per lui, ma viene presentato come una generosa offerta ai cittadini. D’altronde, c’è anche un’evidente asimmetria informativa. I Comuni non hanno strutture e competenze per valutare gli effetti economici di ciò che autorizzano, non sono in grado di confutare il business plan dell’immobiliarista, non dispongono di osservatori efficaci della valorizzazione urbana. La stessa legislazione non indica chiari criteri e parametri di convenienza pubblica nella contrattazione con i privati. Al contrario, negli appalti di infrastrutture c’è un imponente corpus normativo mirato a ridurre i costi per il pubblico e a impedire illeciti arricchimenti del costruttore. Le norme sono severe con il profitto d’impresa e lascive con la rendita di posizione. Tutti questi processi favoriscono la ricchezza proprietaria e aumentano la povertà pubblica. Al contrario se una quota ben maggiore della rendita fosse incamerata dal pubblico e reinvestita nelle infrastrutture la città sarebbe nel contempo più giusta e più produttiva. La così detta “urbanistica riformista” ha studiato i processi di valorizzazione al fine di perequare le rendite differenziali nel piano urbanistico. Nell’economia di carta e di mattone, però, il valore viene estratto dal suolo e innalzato nelle eteree transazioni finanziarie. Emerge, quindi, una nuova forma di rendita pura, la quale, a differenza di quella differenziale, non solo incide sul piano urbanistico, ma determina soprattutto gli effetti macroeconomici e macrosociali di cui sopra. Da come si ripartisce il valore urbano, quindi, dipendono questioni cruciali: se le risorse vanno verso usi parassitari oppure produttivi, se il valore della città viene appropriato da pochi oppure aumenta la qualità della vita e l’inclusione sociale. Per non morire di rendita occorre una svolta nelle politiche urbane. Ma prima ancora è necessaria una mobilitazione culturale per ribaltare almeno un trentennio di narrazioni dominanti, luoghi comuni, ideologie parassitarie, pratiche pubbliche e private ormai insostenibili. Ci sono in Italia tante persone e associazioni disponibili a cambiare lo stato di cose: chi ha sempre criticato lo sviluppo estrattivo di risorse, chi pratica quotidianamente la cura di parti di città, studiosi consapevoli degli impatti negativi dei processi attuali, enti preposti alla tutela dei beni comuni, tecnici e imprenditori che riflettono criticamente sul passato e cercano di voltare pagina. E’ arrivato il momento di fare forza comune, senza settarismi, superando anche le diversità particolari, cercando un filo comune per restituire alla città il valore creato dai cittadini. Ci vorrebbero persone e associazioni capaci di prendere l’iniziativa, mobilitare altre risorse e allargare il movimento. Quelli della mia generazione possono dare una mano, ma a guidare devono essere le nuove generazioni. Perché sono soprattutto loro a sentire gli effetti nella propria vita quotidiana e professionale: nella affannosa ricerca di un’abitazione, nella difficoltà di trovare un immobile per avviare un’opera innovativa, nella ricerca di fondi per ricerche eterodosse, nella faticosa interlocuzione con le burocrazie amministrative e politiche. In mezzo a tanti fenomeni negativi, se si osservano le città italiane con animo curioso si vedono tante esperienze emblematiche di una nuova cultura urbana, nel recupero sociale di aree dismesse, nelle pratiche di riconversione ecologica, nella produzione di nuovi beni culturali, nella promozione del mutualismo sociale, ecc. Tra gli organizzatori si nota una nuova alleanza tra ricercatori sociali e attivisti urbani. Per merito loro l’azione collettiva ha preso le sembianze di una progettualità urbana ad alto grado di condivisione, ben lontana dalla partecipazione assembleare e rivendicativa della mia generazione. Da questa alleanza tra cultura d’avanguardia e impegno collettivo oggi scorga un’inedita energia politica, che surroga l’assenza dei partiti nel territorio. Finora tale energia è rimasta confinata nel locale, ma rischia di essere travolta dai padroni della rendita se non prende la parola a livello cittadino e nazionale. Spero che almeno alcuni di questi ricercatori e attivisti prendano l’iniziativa di una mobilitazione generale. Sulla base di un Manifesto “Per non morire di rendita”, da sottoporre all’approfondimento in appositi Forum nelle città, allargando l’analisi e la proposta ai diversi casi italiani, per poi confluire in un appuntamento nazionale che scoperchi la realtà davanti all’opinione pubblica e chiami la politica alle sue responsabilità. Nonostante la gravità di tanti fenomeni di crisi urbana, le nostre città dispongono delle energie morali e sociali indispensabili per la loro rinascita.     Il testo è tratto dall’intervento al Congresso INU di Roma del 23 maggio 2025, Elogio dell’Urbanistica, ora pubblicato in: Città Bene Comune della Casa della Cultura di Milano. (foto di Italo Insolera, Roma Monte Mario, 1971) L'articolo Un Manifesto per non morire di rendita proviene da Roma Ricerca Roma.
Ombre sulla città, Milano e l’urbanistica
Ombre sulla città: Milano e l’urbanistica  di Barbara Pizzo e Alessandra Valentinelli, RomaRicercaRoma La più recente fase dell’inchiesta giudiziaria che ha portato alla redazione del “Salva Milano”, tra i decreti più controversi del Governo Meloni, ha concentrato di nuovo l’attenzione pubblica sull’urbanistica e il governo delle trasformazioni urbane, un tema di solito poco frequentato, se non addirittura estraneo alla maggioranza della popolazione, nonostante i suoi effetti e i suoi impatti riguardino tutti. Ci sono due aspetti in particolare che pensiamo valga la pena discutere allontanandoci dal fragore mediatico. Il primo riguarda il modo di pensare il governo del territorio da parte di chi è chiamato specificamente ad occuparsene. Il secondo riguarda il territorio, il suo presente e il suo futuro. Riferendosi all’elusione “sistematica” del Piano regolatore di Milano, Giuseppe Marinoni, presidente della Commissione Paesaggio, parlava di “Piano Ombra” caratterizzato da “alte parcelle”. Le indagini, che pure lo riguardano (nei suoi confronti è stata richiesta la custodia cautelare) e che a marzo scorso hanno già portato ad alcuni arresti, dicono del ricorso a modalità di “semplificazione” (per lo snellimento delle procedure) delle trasformazioni urbane in cui l’intervento di singoli decisori risulta particolarmente orientato all’esercizio di quella discrezionalità che invece solo marginalmente dovrebbe caratterizzare i sistemi di regolazione, quali, appunto, quelli urbanistici. Nella nuova tornata di avvisi di metà luglio sono 74 le persone a vario titolo indagate. Tra esse spiccano l’Assessore alla “Rigenerazione” Giancarlo Tancredi, Manfredi Catella, protagonista con il suo gruppo COIMA di alcune fra le più glam delle operazioni immobiliari locali, gli scambi non proprio eleganti tra il Sindaco Sala e l’architetto Stefano Boeri. In particolare, l’indagine evidenzia dinamiche relative alle procedure autorizzative che hanno attirato l’attenzione degli inquirenti per modalità quantomeno disinvolte nell’uso degli strumenti urbanistici. Ciò che emerge è la reiterazione di tali modalità le quali, nei fatti, rendono ambigui ruoli che invece dovrebbero essere chiari e distinti: non sono solo, né tanto, le “laute parcelle per le consulenze” che preoccupano, ma il fatto che divenga consulente chi in realtà dovrebbe controllare, supervisionare, governare, ricordandoci che il tema del “conflitto di interessi”, che può assumere moltissime forme, resta un nodo cruciale, a tutti i livelli e in tutti i settori pubblici, purtroppo incredibilmente sottostimato. A colpire tuttavia, nel vortice di dichiarazioni di maggioranza e opposizione, è la pressoché unanime preoccupazione che le notizie di reato possano fermare la città: “Così si ferma Milano”, “Non si può fermare la città” sono affermazioni ripetute e rilanciate dai media, che suonano tra il terrorizzante e il minaccioso. Allora (ci) chiediamo: ma davvero la Milano che si pensa motore dello sviluppo nazionale potrebbe fermarsi per un blocco dei cantieri? Siamo certi sia la finanza del mattone a costituire la ricchezza della città? Il tema non è semmai quello tutto politico, sollevato dal consigliere Enrico Fedrighini il 17 luglio, del “controllo pubblico per interesse pubblico” delle trasformazioni urbane? Fra le rendite assicurate dai palazzi in costruzione e l’economia meneghina, le differenze non sono sottili. Il capoluogo lombardo è sede di tre prestigiose università, delle principali banche e società informatiche nazionali, della metà delle multinazionali presenti in Italia. È “capitale del design”, dei brevetti in campo energetico e biotecnologico. Milano “è” la Borsa, e detiene i primati per occupazione, concentrazione di imprese e turismo d’affari con un PIL procapite doppio della media italiana. In tale quadro stride il numero di domande in lista d’attesa per l’assegnazione degli appena 600 alloggi popolari che, dai conteggi Sicet pubblicati da Zita Dazzi su Repubblica, ogni anno tornano disponibili: 17.000 famiglie che si sommano ai 4.500 nuclei che hanno già comprato casa negli edifici sequestrati dalla magistratura, o comunque congelati dallo stallo degli uffici comunali sui permessi. Dagli arresti in primavera cui si deve anche il ritiro del discusso “Salva Milano”, non sono mancate le riflessioni sulla bontà di una rigenerazione che espelle residenti: con quotazioni crescenti che oscillano tra 5.000 e oltre 25.000 €/mq per gli appartamenti più lussuosi, “non si trova casa”, denuncia a ogni articolo Lucia Tozzi; “non si trovano tranvieri”, dicono allarmati i milanesi. Del resto se, nonostante i 17 milioni di metri cubi di licenze residenziali rilasciate in 10 anni, Nomisma stima 80.000 immobili sfitti, il 10% del totale, i dati indicano una politica che risponde non alla domanda abitativa ma ai costruttori: “dumping urbanistico” l’ha definita il Presidente dell’INU Michele Talia, ottenuta dimezzando gli oneri a standard e servizi, con scomputi e deroghe che, solo negli ultimi anni secondo la Corte dei Conti ripresa da Barbacetto sul Foglio, hanno prodotto perdite secche per le casse di Palazzo Marino di oltre 100 milioni di euro. Il giro d’affari emerso dalle odierne inchieste è pervasivo quanto la sua retorica; cattura valore dall’esistente, creando “eventi” o aree “strategiche”: nei lotti vuoti del centro, negli ex scali ferroviari, nelle opere per i Giochi invernali del 2026 (già futuro studentato da 1.400 posti), allo Stadio di San Siro (di proprietà del Comune) a rischio demolizione per far posto ad un nuovo impianto (privato) dotato di attività commerciali e terziarie, con il progetto “Milano 2050” per nove “centralità” periferiche collegate alla rete metropolitana, oggetto per la procura di “un’operazione di speculazione intensiva” da 12 miliardi. Chi ci guadagna in questa corsa al mattone? Con inquinanti fuori soglia, verde e servizi in perenne affanno, in disarmo persino Argelati e Lido, le piscine comunali vanto di una città un tempo civile, il Rapporto 2025 di Assolombarda titola implacabile: “Milano perde talenti” per la mancanza di qualità urbana, dissipando un capitale umano la cui coorte giovanile alimenta sempre più i 600.000 coetanei, emigrati all’estero negli ultimi 10 anni. Argelati e Lido riflettono bene il cedimento del pubblico ai privati che Nadia Urbinati imputa alle istituzioni “disfunzionali”. Apprezzate piscine all’aperto, attive nei tre mesi della peggior afa estiva, hanno significato per generazioni di milanesi isole di divertimento, refrigerio e sport a tariffe accessibili. L’Argelati era stata la prima inaugurata nel 1915, poi ampliata nel 1956, seguita dal Lido nel 1930 con un’unica vasca da 6.500 mq balneabili; cartoline di una Milano se non popolare, svagata, accoglievano l’una 30.000, l’altra sino a 50.000 bagnanti a stagione. Così quando la Giunta Sala, tra il 2019 e il 2022, ne ha disposto la chiusura, ha toccato un nervo sensibile del culto ambrosiano, memore degli investimenti sociali nelle vecchie periferie. Ne spiega le implicazioni Antonio Longo, cui va il merito della petizione contro il “Salva Milano” lanciata con altri colleghi del Politecnico. Il suo report sulla “operazione” piscine evidenzia l’insufficienza di risorse comunali da spendere in lavori straordinari, 15 milioni che hanno indotto il Lido all’agonia, poi la sua concessione al privato per 25 milioni e 42 anni di gestione svincolata dal mantenimento del centro balneare: una rinuncia a preservare bene storico e benefici collettivi della funzione anche e non secondariamente climatica che, per Argelati, ancora in attesa di offerte valide, suona come la condanna alla fatiscenza. Sorte analoga alle piscine ha travolto la pista verde del Trotto: anch’esso abbandonato per scarsità di fondi di manutenzione, lo spazio pubblico adiacente lo stadio è stato reso edificabile e, nel 2023, venduto agli sviluppatori di Hines. A Milano, e non solo, la si chiama densificazione e la si giustifica con la “resilienza ambientale” che deriverebbe dal non consumare suolo, ma non si soddisfa nessun equilibrio ecologico se poi si sacrificano i terreni permeabili superstiti nel tessuto costruito, peraltro contravvenendo il Regolamento europeo sul ripristino della Natura, approvato appunto per difenderli. Ci chiediamo dunque: fermare un certo modo di portare avanti lo sviluppo urbano, che estrae valore molto più di quanto non ne produca, che è troppo spesso solo “rendita che produce altra rendita” (Pizzo 2023) e che determina una città sempre più iniqua e diseguale, davvero significa “fermare la città”? E se sì, allora su cosa si basa la sua struttura socioeconomica e in cosa consiste il suo “modello di sviluppo”? Possibile che una città come Milano abbia come sola freccia al proprio arco, l’economia della rendita? Se, invece, questo tipo di economia che intreccia mattoni e finanza, è l’unico modo in cui si pensa sia possibile fare “tutto il resto”, quello che tiene assieme tutto, allora a maggior ragione, dobbiamo (finalmente) riprendere a discutere seriamente di rendita urbana (che “non è più quella di una volta” – Pizzo cit.), e (finalmente) mettere in relazione finanziarizzazione e teoria della rendita per capire esattamente come e a cosa serve, cosa produce nei vari specifici contesti (a cosa si intreccia, come è usata, cosa produce) – e valutarla conseguentemente. Lo scorso 21 luglio in Aula, il Sindaco ha rivendicato le proprie azioni e chiesto sostegno in cambio del rinvio a settembre del nodo più controverso, il Meazza. Tancredi invece si è dimesso; forse non era il momento per annunciare pure un cambio di passo, a partire da quella Commissione Paesaggio nelle cui dubbie mani sono state accentrate le scelte di trasformazione. Frutto avvelenato dell’ansia di semplificare le procedure, la Commissione ha sottratto margini di verifica all’amministrazione e prerogative al Consiglio, indebolendo l’istituzione nella contrattazione coi privati che era supposta vigilare. La semplificazione ha inoltre agito in concorso con il “dumping” sugli oneri di urbanizzazione, compressi al 5% del valore del volume edificabile contro il 20-30% che le città europee in media incassano per la gestione urbana, redistribuendoli in incrementi e conservazione del patrimonio pubblico, per garantire disponibilità ed efficienza dei servizi collettivi, il diritto all’abitare, la tutela della salute, il contrasto della vulnerabilità al clima. Colluse o indifferenti, a Milano le pratiche edilizie sono al contrario progredite senza il “peso” di un confronto con il carico di nuovi abitanti, l’impatto sulla mobilità, vincoli o salvaguardie ambientali: si è così disatteso il mandato di governo urbanistico che, il 24 luglio bocciando il ricorso contro i sigilli alle Torri “Lac” di Baggio, la Cassazione ha affermato di ritenere imperativo. Bisogna dunque ancora chiedersi: mettere in discussione e sperabilmente provare a modificare un certo modo (solo “ambrosiano”?) di fare urbanistica cosa significa esattamente? Ossia: cosa intendiamo con “fermare la città”? Se significasse fermare o rallentare un modello di sviluppo basato sulla crescita dissennata, un consumo di risorse insostenibile, un’idea di città come luogo del privilegio e dell’esclusione, piuttosto che come diritto e inclusione, allora forse si dovrebbe prendere sul serio la possibilità che una tale macchina vada fermata. Se è così, con la vicenda milanese (ma solo perché è emersa per prima) ci è data davvero l‘occasione di “fermarci”, allontanarci dagli interessi piccoli e grandi, ma immediati, dal “basso cabotaggio”, dalle idee per le città dal respiro breve e dalle prospettive anguste, e provare a chiederci: ma cosa stiamo facendo, per chi? È questa la città che desideriamo? Ed è una città vivibile? Da urbaniste, formate in un tempo in cui non si parlava d’altro che di “crisi” dell’urbanistica, della sua debolezza crescente e quasi-inutilità, ci sorprende che ora tutti i guasti messi in luce da questa inchiesta milanese siano ricondotti a quella disciplina che “improvvisamente” avrebbe invece un così grande potere; ci preoccupa l‘ulteriore delegittimazione e svilimento di una pratica nobile, socialmente rilevante, che questo ennesimo scandalo potrà produrre (e di nuovo a favore di chi vorrebbe “meno urbanistica”). Milano dimostra come una visione subalterna alle logiche della rendita e della finanza immobiliare riduca la città a congerie di eventi, opere e architetture che, per quanto possano incantare con la loro bellezza, rispondono a mire speculative in grado di logorare i luoghi, i modi e le relazioni da cui dipende la qualità della vita urbana. Perciò chiariamo che la soluzione a tutto questo non è “meno urbanistica”, e forse neppure “più urbanistica”, ma certamente un’urbanistica diversa da quella attualmente praticata, che purtroppo anche molti esponenti del così detto “riformismo” hanno più o meno direttamente ed esplicitamente contribuito ad affermare.     Per approfondimenti, si rimanda al testo di Barbara Pizzo Vivere o morire di rendita, Donzelli 2023, e al recente “Dialogo” promosso dalla SIU, tenutasi proprio a Milano il 18 e 19 giugno, intitolato “Mercato e regolazione. Processi di finanziarizzazione e rendita” tra Barbara Pizzo, Sapienza Università di Roma e Tuna Tasan Kok, dell’Università di Amsterdam, che sarà pubblicato a breve in forma di podcast sul sito della SIU; si vedano inoltre, su queste pagine, il Manifesto di Walter Tocci, tratto dal suo intervento al Congresso INU di maggio 2025 “Elogio dell’Urbanistica” e l’appello contro il Decreto “Salva Milano”   (immagine: Milano Murata di AleXandro Palombo, Milano Galleria di Arte Moderna, 21 lug.2025) L'articolo Ombre sulla città, Milano e l’urbanistica proviene da Roma Ricerca Roma.
Minori sedati, non visti e allontanati
Jessica Lorenzon 1 Giudicato colpevole da un branco di pecore Hanno provato a rendermi debole Solo perché non sto alle loro regole, ma Non ho niente da perdere, come un’amichevole Mandami un bacio attraverso le lettere Voglio uscire al più presto e smettere, ma Voglio cambiare vita, mamma Ya, habibi-bibi, yalla Rincorso dai casini, dalla Non siamo noi i cattivi, wallah Mi trattano male, scioperi di fame Sto in isolamento e voglio solo cantare, cantare Siamo quei ragazzi che mamma ci ha fatto pure da papà Sognavo un diploma all’università Ora sogno un futuro lontano da qua e Mi dicono in tanti, “Ti prego, cambia quella mentalità” Ma finché non cambia questa società Rimango lo stesso ribelle di sempre Liberi, liberi, liberi, liberi, liberi, liberi, ah, ah… Baby gang – Liberi Questa presa di parola propone una riflessione sulla condizione dei minori stranieri nelle carceri italiane, in particolare su una preoccupante tendenza le cui spiegazioni risultano sempre più nitide in relazione all’attuale clima politico, ovvero la gestione e la neutralizzazione dei MSNA – minori stranieri non accompagnati – attraverso la reclusione penale, in carcere. Sappiamo da tempo che, a parità di reato, i minori stranieri vengono più spesso puniti con l’isolamento tramite la reclusione rispetto agli italiani; su questo punto le statistiche offrono una prospettiva chiara che a breve verrà discussa. L’Associazione Antigone già nel 2011, anno della pubblicazione del primo Rapporto sulla detenzione minorile, sottolineava come “a mano a mano che ci si addentra nei luoghi di privazione della libertà, la selettività a danno dei minori stranieri è sempre più forte”. Ad oggi, dopo la pubblicazione del c.d. Decreto Caivano (dell’autunno 2023) la situazione è peggiorata significativamente, sia in termini di numeri delle detenzioni, nonché in termini di trattamento e qualità della custodia. > Un quadro mai visto in 30 anni di esperienza penitenziaria, una tensione mai > vista. La chiave è tutta repressiva. L’OSCE in una nota formale dice > chiaramente che è messo in discussione lo Stato di diritto. > > Osservatorio minori di associazione Antigone, 2024 Si premette che chi scrive considera la detenzione intramoenia sempre foriera di sofferenza e mancato rispetto per la dignità umana; andrebbe quindi superata definitivamente. Se fino a qualche anno fa la detenzione minorile in Italia fungeva da modello per altri Paesi, la recente accelerata pan-penalistica, militarizzante, razzializzante e legata a modelli familistici e tradizionali di chiara impronta etero-patriarcale, ha declassato il nostro Paese lasciandolo al vertice solo per quanto riguarda i numeri delle detenzioni dei minori 2. L’Italia è infatti uno dei Paesi europei con il maggior numero di minori detenuti in carcere, seguita solo da Polonia, Svizzera, Regno unito e Galles 3. Il passato è quindi d’obbligo e monito, ci troviamo in una fase politica che in tema di penale sta distruggendo le garanzie e le riforme conquistate tra la fine del Secolo scorso e l’inizio degli anni Duemila. Come anticipato, lo scritto ha l’obbiettivo di mettere in luce un processo che ancora non trova una forma chiara nei dati quantitativi ma che è apparso più volte nel recente discorso pubblico prodotto da coloro che, a vario titolo, si impegnano nel monitoraggio delle condizioni di detenzione e nello studio dei processi di criminalizzazione a danno dei e delle migranti e, in particolare, di coloro che provengono da rotte migratorie estreme. Non è possibile infatti riferirsi alle statistiche per conoscere i movimenti in campo penitenziario dei minori stranieri non accompagnati, i quali ad oggi non sono differenziati da parte del Ministero di Giustizia e si collocano nel grande insieme degli “stranieri”. Riannodiamo qualche filo per rendere più chiara la riflessione proposta, offrendo alcune specifiche soprattutto per le persone non socializzate al lessico penale e penitenziario. La condizione dei minori stranieri in carcere, nonché di tutti i minori detenuti, riguarda gli spazi degli IPM – Istituti di pena per minori -. In Italia questi sono 17, di cui 15 interamente dedicati alla detenzione maschile, uno misto e uno femminile dove le detenute presenti sono poche unità. Queste carceri non ospitano solo minorenni in senso stretto, ma anche giovani adulti, ossia ragazzi processati per titoli di reato compiuti prima della maggiore età. Questi ultimi dovrebbero essere detenuti in IPM fino ai 25 anni di età al fine di promuovere le pratiche educative che il legislatore ha storicamente considerato primarie alla punizione, soprattutto nel caso dei giovani. Una ulteriore tendenza che si sta riscontrando a seguito dell’entrata in vigore del Decreto Caivano è che sempre più, però, i giovani adulti vengono trasferiti dal carcere minorile al carcere per adulti, con tutti i risvolti legati al caso e con buona pace di qualsiasi volontà educativa e di cura. Un dato ancora più perturbante è che, nonostante i numerosi trasferimenti, i numeri delle detenzioni in IPM stanno continuando a salire, raggiungendo picchi mai visti prima. Se fino a qualche anno fa il dato sulle presenze non aveva storicamente superato le 300 unità, oggi le tendenze sono in ascesa. Alla fine dell’anno 2021 erano 281 le persone detenute in IPM, a settembre 2023 erano presenti invece 550 detenuti a fronte di una capacità totale di 516 posti, con un tasso di affollamento del 107%. Per quanto riguarda le caratteristiche dei giovani detenuti risulta chiaro che a subire la detenzione, nella maggioranza, non sono coloro che in virtù del reato ascritto possiamo considerare i più pericolosi, bensì: > Negli IPM ci vanno i marginali, quelli per cui il sistema non riesce o non > vuole trovare collocazione. Il nuovo mandato alle carceri per minori non è > “preparateli all’uscita” ma teneteceli perché non sappiamo dove mandarli, > dall’insediamento del nuovo governo in poi il mandato è chiaro. > > Osservatorio minori di associazione Antigone, 2024 Arrivando all’oggi, secondo i dati dell’ultimo rapporto fornito dal Ministero della giustizia 4, a febbraio 2025 sono 587 le persone detenute negli IPM italiani, di questi 561 ragazzi e 26 ragazze. La divisione relativa alla nazionalità parla di 294 italiani e 293 stranieri. Per quanto riguarda le provenienze, 36 provengono da Paesi d’Europa (Croazia, Romania, Albania e Serbia); gli altri 234 provengono principalmente da: Algeria, Egitto, Marocco, Senegal e Tunisia (in ordine decrescente rispetto ai dati del Rapporto). 13 ragazzi provengono dall’ “America” (dicitura generica dal Rapporto del Ministero) e 10 dal continente asiatico (di cui 5 dalla Cina). Le classi d’età sono state raggruppate nell’elaborazione di chi scrive in due macro insiemi: i ragazzi tra i 14 e i 17 anni, quindi minorenni, sono 359 (di cui 163 italiani e 196 stranieri); i ragazzi tra i 18 e i 24 anni, c.d. giovani adulti, sono 228 (di cui 131 italiani e 97 stranieri). I dati quantitativi poc’anzi narrati non andrebbero considerati come assoluti, bensì dovrebbero fungere da strumento per un inquadramento generale della situazione. Sappiamo infatti che risulta molto complesso raccogliere informazioni statistiche attraverso la comunicazione con gli istituti di pena per minori. Chi scrive ha avuto esperienza diretta, durante una visita di monitoraggio, della discrezionalità con cui talvolta vengono classificati e qualificati detenuti italiani e stranieri. Emblematica a questo proposito la conversazione con un Direttore che segnalava come italiano il detenuto C., il quale era nato in un Paese dell’Unione europea, non aveva documenti e per lui era prevista l’espulsione dall’Italia a fine pena. Di fronte a una richiesta di chiarimento, il Direttore rispose che “C. è come noi, parla perfettamente italiano e ha anche l’accento del posto”. Una piccola nota etnografica a testimonianza di come, lo stigma che spesso viene associato al migrante, porta con sé uno scotoma su quelli che sono elementi strutturali di differenza come l’accesso ai servizi pubblici e sanitari, la possibilità di avere una residenza sul territorio. Requisiti essenziali e, tra i pochi riconosciuti ufficialmente nella letteratura scientifica di settore, come elementi prodromici di una scelta di desistenza ai circuiti collegati alla devianza; quindi volti all’abbassamento delle tendenze recidivanti. Provando a scendere ancora più nel dettaglio rispetto all’oggetto di questa riflessione, ovvero l’intersezione tra detenzione penale e percorso biografico dei MSNA, il Ministero ha recentemente reso pubbliche le tabelle sulle classi di reato e le caratteristiche generali delle persone detenute in IPM ad essi collegate. Il dato generale è che su 59.696 reati registrati nell’anno 2024, il 69,12% è a carico di italiani. La distribuzione delle condanne tra IPM e altre misure mette in evidenza le sproporzioni dei percorsi. Senza pretesa di esaustività emerge che, per quanto riguarda le varie classi di reato, le detenzioni sono così distribuite: Percentuale sul totale delle persone in detenzione in IPM – istituto penale per minori – per classi di reatoPercentuale sul totale delle persone in carico ai Servizi della giustizia minorile per classi di reato NazionalitàitalianistranieriitalianistranieriContro la persona 57,242,874,5725,43Contro la moralità pubblica, la famiglia e il buon costume 78,3321,6785,4114,59Contro il patrimonio 45,6954,3161,1638,84Contro l’incolumità pubblica 69,9630,478,8521,15Contro la fede pubblica 307067,8432,16Contro Stato, altre istituzioni, ordine pubblico 47,1852,8267,5532,45 Elaborazione dell’autrice sui dati forniti dal Ministero di Giustizia (2025) Dalla tabella notiamo che, per tutte le classi di reato, sia quelle connotate dal senso comune come “gravi” che quelle “lievi”, la percentuale degli italiani coinvolti è superiore. Le stesse tendenze tuttavia non si registrano in relazione alla scelta punitiva, infatti si nota in modo chiaro come più spesso siano gli stranieri a parità di reato ad essere detenuti in carcere. Approfondendo ulteriormente le classi di reato in relazione alla gravità percepita appare altresì che, per i reati considerati di grave entità, come ad esempio l’omicidio volontario (sia esso agito o tentato) la percentuale di italiani sul totale è nettamente superiore. Le stesse tendenze si registrano anche per quei reati che sono correlabili alla violenza maschile e di genere. Lo stesso dicasi per i reati contro la moralità pubblica, la famiglia e il buon costume, come ad esempio i maltrattamenti in famiglia; di questi (898) il 78,40% è imputato a italiani. La classe di reati che più significativamente possiamo accostare alla giovane identità migrante è quella “contro il patrimonio”, furto e rapina in primis. Più in generale possiamo dire che le tendenze vedono i reati collegati al possesso di soldi e all’uso o allo spaccio di droga quelli che coinvolgono maggiormente gli stranieri (non in senso assoluto poiché abbiamo visto come le percentuali più alte nelle statistiche coinvolgano sempre il gruppo degli italiani). Nel primo caso si tratta di reati che rientrano nei c.d. reati economici, non di rado correlati alla povertà; nel secondo si tratta di reati spesso in comorbidità con una situazione di abuso e dipendenza. Una ulteriore questione non trova facili risposte, ovvero se nel percorso biografico del minore sia arrivata prima l’abitudine all’uso di sostanze, oppure lo spaccio e gli atti di devianza volti al procurarsi quest’ultima. Quello che è chiaro è che è in corso, all’interno degli IPM, una vera e propria sedazione di massa – a danno nuovamente degli stranieri in particolare – attraverso l’uso massiccio di psicofarmaci, come riportato dall’inchiesta condotta dall’associazione Antigone in collaborazione con Altreconomia 5. A seguito della pubblicazione dell’inchiesta è stata aperta una interrogazione parlamentare. L’utilizzo smodato di talune sostanze è infatti correlato al mantenimento della condizione di dipendenza che talvolta i ragazzi presentano già al momento dell’ingresso. Una presa in carico istituzionale che passa quindi attraverso gli stessi processi associabili ai reati forieri dell’ingresso in carcere. Infine, la tabella non riporta la classe che il Ministero definisce “altri delitti” e che comprende il traffico d’armi e le violazioni in materia di immigrazione. Sul totale di 108 casi registrati a questo titolo, 98 sono a carico di italiani e si legano al traffico illecito di armi. Il dato interessante per la nostra riflessione è che per i reati che violano le norme in materia di immigrazione vi sono 8 persone detenute in IPM. Questi ragazzi (tutti maschi) sono con buona probabilità stati definiti “scafisti”. Il giovane scafista è stato recentemente presentato a fini propagandistici come uno dei nuovi nemici pubblici d’elezione, insieme ad altre figure che non vengono qui citate per ragioni di spazio come ad esempio i “raver”. “Prima di partire l’uomo arabo con la pistola mi ha detto che avrei dovuto tenere la bussola mentre a quello in fila dietro di me (eravamo l’ultimo ed il penultimo della fila) è stato dato il comando dell’imbarcazione, sotto minaccia di essere sparati. Solo dopo ho scoperto che quella sera per tutte e tre le barche che sono partite, gli ultimi due della fila erano stati scelti per condurre la barca. Non si può fare nulla, tutti sono armati in Libia. Non è possibile opporsi a quello che comanda. 6” Così come si registra per le tendenze detentive degli adulti, anche nel caso delle detenzioni in IPM, gli stranieri vengono più spesso trattenuti in carcere anche nella fase di custodia cautelare, ovvero prima di ricevere la condanna definitiva. Anche in questo caso il primo elemento di spiegazione è sociale e non penale e spesso riferito all’assenza di capitale materiale. Sono stati fino a qui forniti alcuni elementi utili al proseguo dell’ipotesi che ha guidato questa presa di parola, ovvero che la detenzione in carcere per i minori stranieri appare sempre più come un dispositivo di controllo sociale e neutralizzazione di una eccedenza difficilmente collocabile e scarsamente tollerata, quindi oppressa. Una neutralizzazione che agisce in due direzioni: in un primo momento attraverso l’isolamento e il contenimento architettonico in carcere, poi nella presa in carico istituzionale quotidiana attraverso la sedazione con l’utilizzo di psicofarmaci. Molti degli elementi considerati non sono nuovi agli addetti ai lavori, la novità è l’avanzata spietata in Italia del richiamo al campo penale per risolvere qualsiasi questione di matrice sociale, nel caso dei minori tutto ciò risulta ancora più perturbante rispetto all’ideale risocializzante che ha sempre guidato, almeno nelle parole, la detenzione minorile. 1. Jessica Lorenzon è attivista e osservatrice con Antigone, di cui coordina la sede veneta. Psicologa e criminologa critica, si è dottorata a Padova studiando i percorsi di uscita dai circuiti penali e penitenziari. ↩︎ 2. L’approfondimento di Stroppa (Antigone 2024) a questo link. ↩︎ 3. Per approfondire: Children of Prisoners Europe. ↩︎ 4. Minorenni e giovani adulti in carico ai Servizi minorili – Analisi statistica dei dati 2024 (provvisori); Minorenni e giovani adulti in carico ai Servizi minorili – Analisi statistica dei dati 2024 (convalidati). ↩︎ 5. Per approfondire: Gli psicofarmaci negli Istituti penali per i giovani reclusi, di Luca Rondi – 1 ottobre 2023; Psicofarmaci all’Ipm “Beccaria” di Milano: l’altra faccia di abusi e torture, di Luca Rondi – 14 maggio 2024; Fine pillola mai. Psicofarmaci negli IPM, di Luca Rondi. ↩︎ 6. Per approfondire l’indagine condotta da ARCI Porco Rosso e Alarm Phone: “Dal mare al carcere“. ↩︎
Val di Susa: le foto della due giorni di lotta
Nei suoi scatti, Luca Profenna racchiude le emozioni delle oltre 10mila persone che sabato 26 luglio sono partit3 dal campeggio del Festival “Alta Felicità” per protestare contro il TAV, la grande opera inutile che sta già devastando da tre decenni il territorio della Val di Susa. Fedele al motto “Fermiamo il TAV con ogni mezzo necessario”, il corteo ha praticato diverse azioni durante la giornata di lotta, dalle battiture contro le cancellate all’irruzione in vari punti del cantiere, tra cui anche la nuova sezione nella località Traduerivi, portando anche alla chiusura di un tratto dell’autostrada Torino-Bardonecchia. Dopo la giornata di lotta, il Festival è proseguito domenica 27 luglio con una intera giornata di eventi, assemblee e dibattiti, a cui ha partecipato, tra tante e tanti ospiti, anche l’eurodeputata Ilaria Salis. * * * * * * * * * * * * Tutte le foto sono di Luca Profenna SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Val di Susa: le foto della due giorni di lotta proviene da DINAMOpress.
Donne migranti e lavoro: sfruttamento e abusi negli insediamenti informali
Questo testo analizza le condizioni di lavoro e di vita delle donne migranti impiegate nei settori agricolo e domestico, con particolare attenzione allo sfruttamento nei contesti informali e alle dinamiche di genere. Per molte donne migranti, l’impiego in agricoltura rappresenta, insieme al lavoro domestico e di cura, una delle poche opportunità di accesso al mondo del lavoro. Le braccianti lavorano nelle campagne in condizioni di sfruttamento e degrado: la giornata lavorativa dura generalmente dalle nove alle dieci ore; le lavoratrici passano la maggior parte del tempo piegate o in piedi, esposte a temperature elevate e a contatto diretto con fitofarmaci altamente aggressivi. A queste condizioni si sommano ulteriori elementi di discriminazione, come la differenza salariale di genere (“gender pay gap”). Secondo l’ultimo Rendiconto di Genere del Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell’INPS, molte lavoratrici risultano formalmente assunte con contratti a tempo determinato che registrano meno di 50 giornate lavorative annue, nonostante l’effettivo impiego sia ben superiore. Questo escamotage le esclude dall’accesso a misure di welfare fondamentali come sussidi di disoccupazione e maternità. La mancanza di reti familiari e sociali di supporto rende la loro condizione ancora più vulnerabile. Le difficili condizioni lavorative si intrecciano spesso con situazioni abitative precarie: sovraffollamento, isolamento, e dipendenza dal datore di lavoro – soprattutto nei casi in cui l’alloggio è fornito da quest’ultimo – creano un contesto favorevole ad abusi e violenze. In molti casi, il bisogno di ottenere o rinnovare un permesso di soggiorno vincolato al contratto di lavoro obbliga le donne a sopportare condizioni inaccettabili.  Allargando lo sguardo, anche il lavoro domestico e di cura è fortemente femminilizzato e rappresenta il settore con il più alto tasso di irregolarità. Le cause sono molteplici: difficoltà nei controlli, mancanza di servizi pubblici di assistenza, svalorizzazione del lavoro di cura, paura di denunciare per timore di perdere lavoro o permesso di soggiorno. Spesso i contratti sono informali e poco chiari, negoziati caso per caso, senza tutele né prospettive. Situazioni di particolare vulnerabilità si verificano nei casi di co-residenza con il datore di lavoro, sfociando in alcuni casi in vere e proprie situazioni di servitù domestica. In entrambi i settori, agricolo e domestico, le donne migranti vivono un intreccio di discriminazioni legate al genere, alla nazionalità, allo status socio-economico e giuridico, che le espone a esclusione sociale e a frequenti violazioni dei diritti umani. Come sottolinea la ricercatrice Letizia Palumbo dell’Università di Venezia, questo multiplo livello di sfruttamento non può essere ridotto a fatto episodico ma va analizzato nella “natura sistemica che lo caratterizza, in un quadro socio-economico segnato da profonde disuguaglianze, dalla perdurante eredità patriarcale e da politiche migratorie sempre più restrittive e selettive 1”. La “vulnerabilità” delle lavoratrici migranti, è quindi determinata dall’intreccio di fattori personali, sociali, economici e culturali, in un contesto segnato da discriminazioni e disuguaglianze strutturali che si traduce nella mancanza di una reale possibilità di scelte alternative. Il termine vulnerabilità negli ultimi anni si è diffuso nel linguaggio politico e giuridico, spesso usato per indicare categorie di soggetti considerati ontologicamente vulnerabili, come donne, minori e disabili. Tuttavia, la vulnerabilità in questo ambito è solo e unicamente il risultato di fattori sociali che riducono o annullano la capacità di una persona di prevenire e/o reagire a un rischio, e dunque di sottrarsi a un vulnus, a un’offesa. È sempre legata alla posizione sociale e ai rapporti di potere. Nell’esperienza femminile, è proprio per la loro posizione subordinata nei rapporti di potere che le donne sono vulnerabili rispetto a molteplici rischi e violazioni dei loro diritti. PATRIARCATO E RETI DI RESISTENZA INTERNA La percezione, da parte delle donne migranti, di non avere altra scelta che sottomettersi allo sfruttamento lavorativo deve essere letta alla luce delle gerarchie patriarcali che regolano i rapporti sociali. In molti casi, le lavoratrici domestiche hanno lasciato il proprio paese per sostenere economicamente la famiglia d’origine: figli, genitori e, spesso, anche il marito. Questa centralità nel sostentamento familiare si traduce in una pressione psicologica fortissima, che spinge molte donne ad accettare condizioni di lavoro e di vita profondamente ingiuste pur di non interrompere il flusso di reddito verso casa 2. Nel lavoro agricolo, la situazione assume tratti differenti, ma altrettanto complessi: qui, molte donne scelgono questo impiego perché è l’unico che consente loro di vivere con i figli, seppur in condizioni abitative e sanitarie spesso drammatiche. Il bisogno di conciliare lavoro e maternità si scontra con un sistema che non prevede tutele, né alternative. L’aspetto più critico, come già evidenziato, è il doppio livello di sfruttamento a cui molte donne sono sottoposte: a quello lavorativo si aggiunge frequentemente l’abuso sessuale. Questa dinamica, lungi dall’essere eccezionale, è talmente diffusa da essere percepita come parte “normale” dell’esperienza migratoria e lavorativa femminile. Non sorprende, dunque, che alcune donne abbiano iniziato a organizzarsi per proteggere le più giovani, consapevoli che senza forme di tutela esse sarebbero esposte a violenze tali da compromettere perfino la loro “reputazione” e, con essa, le possibilità future di matrimonio. Nel libro “Amara Terra”, Amina, una lavoratrice di origine marocchina, racconta come molte donne siano pienamente consapevoli del rischio di essere ricattate o abusate sessualmente una volta giunte nei campi della Calabria. La raccolta delle cipolle, ad esempio, viene spesso associata all’idea di “disponibilità sessuale” da parte dei caporali, il che può compromettere in modo permanente la posizione sociale e matrimoniale delle giovani donne. Proprio per questo, le lavoratrici marocchine hanno elaborato strategie di mutuo supporto: organizzano le partenze in modo da tutelare le più vulnerabili, proteggendole da esperienze che le marchierebbero socialmente. Questo tipo di resistenza interna mostra come lo sfruttamento sia talmente sistemico da indurre le donne a ideare autonomamente pratiche di autodifesa collettiva. IL CASO DEL RAGUSANO Un esempio particolarmente emblematico di questa complessa rete di sfruttamento è rappresentato dalle lavoratrici rumene impiegate nelle serre della provincia di Ragusa. A partire dalla fine degli anni Sessanta, la produzione agricola della zona si è trasformata da stagionale a permanente, grazie all’introduzione estensiva delle coltivazioni in serra. Questa transizione ha portato con sé un progressivo reclutamento di manodopera migrante stanziale, spesso femminile. Nel tempo, si è così sviluppato un modello organizzativo sistemico in cui le aziende agricole non solo gestiscono il lavoro, ma anche l’alloggio delle lavoratrici e delle loro famiglie. Gli spazi abitativi forniti sono però, nella maggior parte dei casi, insediamenti informali ricavati da vecchi magazzini, garage o capannoni situati direttamente all’interno delle proprietà agricole. Isolati, lontani dai centri abitati e privi di servizi essenziali, questi luoghi diventano un terreno invisibile di subordinazione, che alimenta dinamiche di controllo, dipendenza e dominio – vere e proprie forme di neocolonialismo radicate nel territorio. Un tema centrale è rappresentato dalle  condizioni abitative delle lavoratrici e dei lavoratori migranti nel settore agro-alimentare:  tra ottobre 2021 e gennaio 2022, è stata condotta la prima indagine nazionale “InCas” sulle condizioni di vita dei migranti impiegati nel settore agro-alimentare, con particolare attenzione alla mappatura degli insediamenti informali 3. L’inchiesta ha coinvolto 3.851 Comuni italiani – pari al 48,7% del totale – e ha restituito un quadro allarmante dello sfruttamento lungo tutta la filiera agricola nazionale. Non si è trattato solo di un’analisi delle condizioni lavorative, ma anche di un’esplorazione approfondita dei contesti territoriali che, attivamente o per omissione, contribuiscono a mantenere e riprodurre situazioni di marginalizzazione e dominio, in una logica che richiama dinamiche neocoloniali. Le principali nazionalità che subiscono tali condizioni sono: rumena, marocchina, indiana, albanese, senegalese, pakistana e nigeriana. Secondo i dati raccolti, sono 38 i Comuni in cui è stata rilevata la presenza di migranti che vivono in insediamenti informali o spontanei: strutture non autorizzate, spesso definite “ghetti”, come nel caso emblematico di Borgo Mezzanone (Manfredonia) o del Ghetto di Rignano (San Severo). In totale, questi insediamenti accolgono oltre 10.000 persone, in condizioni di vita estremamente precarie. La gravità della situazione emerge con particolare evidenza dalla quasi totale assenza di servizi essenziali. In ben 32 insediamenti informali – pari al 34% del totale mappato – mancano completamente acqua potabile, energia elettrica, strade asfaltate e trasporti pubblici. Anche dove questi servizi sono presenti, si tratta comunque di una minoranza di casi: meno della metà degli insediamenti dispone di almeno uno dei servizi primari. Ancora più drammatica è la situazione sul piano socio-sanitario e lavorativo. L’assistenza socio-sanitaria, pur essendo il servizio più diffuso, è garantita solo nel 13,8% dei casi, mentre strumenti fondamentali come la formazione professionale, l’orientamento al lavoro e la rappresentanza sindacale sono pressoché assenti. Si tratta di un isolamento strutturale, che esclude un segmento di società non solo da tutele fondamentali, ma lo ostacola nel processo di emancipazione dallo sfruttamento. Particolarmente preoccupante è la presenza di nuclei familiari con minori: oltre un insediamento su cinque ospita bambini, e circa il 30% degli abitanti degli insediamenti informali è costituito da rifugiati o richiedenti asilo. In assenza di servizi educativi, sanitari e di sicurezza, si configura un quadro di esclusione permanente che compromette tanto il presente quanto il futuro di intere famiglie. La mancanza di illuminazione pubblica e di servizi igienici accentua la vulnerabilità, soprattutto per le donne, esponendole a rischi quotidiani di violenza e rendendo estremamente difficile cercare aiuto o denunciare abusi. In un contesto già segnato dallo sfruttamento lavorativo, la precarietà abitativa e l’assenza di diritti basilari diventano ostacoli strutturali all’emancipazione individuale e collettiva. L’indagine InCas restituisce così l’immagine di un sistema agricolo che non si limita a sfruttare il lavoro delle persone migranti, ma ne gestisce attivamente la segregazione e la marginalizzazione, negando loro l’accesso a qualsiasi forma di cittadinanza attiva. La mancanza di prospettive non è un effetto collaterale, ma il prodotto diretto di un modello economico e politico che alimenta, attraverso l’abbandono istituzionale, una forza lavoro sottomessa, silenziosa e ricattabile. COME STIMARE GLI ABUSI NEGLI INSEDIAMENTI INFORMALI? Stimare con precisione la diffusione degli abusi e dello sfruttamento nelle campagne italiane è estremamente complesso. La maggior parte delle lavoratrici non denuncia per paura di ritorsioni, perdita del lavoro o del permesso di soggiorno. Tuttavia, alcuni indicatori indiretti possono offrire uno spaccato della violenza sommersa. Uno di questi è il numero delle interruzioni volontarie di gravidanza tra le donne migranti. Secondo i dati ISTAT relativi al triennio 2016–2018, in Puglia e in particolare nella provincia di Foggia, dove si concentrano i principali insediamenti informali, è stato registrato il numero più alto di aborti volontari tra donne rumene. Nel solo 2017, 119 su 324 interruzioni sono state eseguite a Foggia. Questi numeri non possono essere letti semplicemente come dati sanitari: sono segnali allarmanti di contesti lavorativi segnati da abusi e controllo sul corpo delle donne. A testimoniare questa realtà è la storia di T., una lavoratrice rumena che per nove anni ha subito un doppio sfruttamento, sessuale e lavorativo, da parte del suo datore di lavoro. Ogni estate, racconta Alessandra Sciurba nell’articolo “Libere di scegliere? L’aborto delle donne migranti in Italia, tra politiche migratorie, sfruttamento lavorativo e casi estremi di abusi e violenza“, T. tornava in Romania per sottoporsi ad aborto, spesso in modo clandestino e rischioso, utilizzando anche metodi estremi come l’acqua bollente. La sua vicenda non è un’eccezione, ma la manifestazione di un sistema che agisce nel silenzio. La prostituzione nei ghetti agricoli rappresenta un’altra espressione brutale dello sfruttamento. In diverse aree del sud Italia, in particolare in Puglia e Campania, molte donne – in particolare nigeriane – vengono avviate alla prostituzione già nei centri di accoglienza, per poi essere trasferite nei campi. La componente di genere aggiunge quindi un livello specifico e sistemico di violenza: non solo forza lavoro sfruttata, ma corpi su cui esercitare controllo e dominio sessuale.  Tra Foggia e Manfredonia, nel 2019, la testimonianza di un operatore umanitario al quotidiano Avvenire: “Qua c’è prostituzione in baracca, 10 euro a prestazione, e anche per strada, 30-40 euro. Vengono tanti italiani di notte per ‘consumare’. Anche ragazzi. Perfino per feste di laurea e compleanni. Altri italiani, sfruttatori legati a gruppi criminali, vengono e le portano via, per farle prostituire. Le ragazze comunque qui stanno poco, ci sono partenze per gli altri ghetti, anche fuori regione, e nuovi arrivi”. Insediamento informale a Rosarno (RC) – Ph: Intersos Molte lavoratrici vivono, anche con i loro bambini, in abitazioni informali. In questo scenario di totale dipendenza dal datore di lavoro, di invisibilità e isolamento, aggravati dalla carenza dei servizi, lo sfruttamento è spesso caratterizzato da ricatti e abusi sessuali. Spesso bambini e ragazzi assistono a queste dinamiche o diventano essi stessi strumenti di ricatto.  È il caso di Luana, una donna rumena che viveva e lavorava in una serra con i suoi due figli. Il datore di lavoro li accompagnava a scuola, ma in cambio la donna doveva cedere alle sue richieste sessuali per mantenere lavoro e alloggio, raccontano sempre Letizia Palumbo e Alessandra Sciurba in un articolo su Melting Pot, purtroppo ancora attuale. Quando l’uomo temette che i bambini potessero denunciare, smise di portarli a scuola. Luana rifiutò di continuare a subire abusi, ma il datore la minacciò di togliere ai bambini l’accesso all’acqua potabile. Solo allora, con l’aiuto del centro anti-tratta di Ragusa, Luana fuggì con i figli. Tuttavia, dopo qualche mese e senza alternative concrete, abbandonò il centro e tornò a lavorare in un’altra azienda agricola, probabilmente ancora in condizioni di sfruttamento. PERCHÉ LA DENUNCIA “TARDA” AD ARRIVARE? OSSERVAZIONI CONCLUSIVE E PROSPETTIVE FUTURE Quando vengono individuate situazioni di super-sfruttamento, ciò che le lavoratrici chiedono prima di tutto è un’alternativa lavorativa concreta. Troppo spesso, però, gli interventi repressivi si limitano all’avvio di procedimenti penali contro gli autori, senza prevedere supporti per aiutare le vittime a ricostruire un percorso di vita e migratorio, aumentando così la loro vulnerabilità. È quindi necessario orientare il processo penale verso una giustizia “utile” alle vittime, istituendo un sistema di presa in carico reale, che le indirizzi verso percorsi di protezione e assistenza adeguati. Tra i progetti si segnala “Navigare”, una rete nazionale antitratta che sostiene le vittime di sfruttamento, soprattutto nei settori agricolo e domestico. Attraverso sportelli mobili, assistenza legale e percorsi di inserimento socio-lavorativo, aiuta le donne migranti a uscire dalla vulnerabilità e a ricostruire la propria autonomia. Conoscenza dei fenomeni, esperienza e competenza nel settore sono fondamentali per ottenere dei risultati: la Cooperativa Sociale Dedalus, con sede a Napoli, capofila del progetto “Fuori Tratta” in Campania, rappresenta un modello esemplare di accoglienza nel supporto alle vittime di tratta e sfruttamento, sia lavorativo che sessuale. Attraverso unità mobili di strada, sportelli di primo contatto e centri d’ascolto, Dedalus ha raggiunto oltre 12.000 contatti, supportando quasi 800 persone con percorsi individualizzati di orientamento al lavoro, assistenza legale, sostegno psicologico, corsi di lingua e autonomia abitativa. Un intervento integrato, incluse attività di formazione per operatori e campagne di sensibilizzazione territoriali. Come già precedentemente affermato, lo sfruttamento delle donne migranti non è un’emergenza episodica, ma il risultato del razzismo istituzionale, di disuguaglianze strutturali, leggi restrittive e assenza di tutele. Per cambiare questo sistema serve un impegno concreto: politiche inclusive con fondi e progettualità, un aumento generale all’accesso ai diritti e sostegno a progetti virtuosi che offrano alternative concrete alla vulnerabilità e all’invisibilità. 1. Sfruttamento lavorativo e vulnerabilità in un’ottica di genere. Le condizioni di vita e di lavoro delle lavoratrici migranti nelle serre del Ragusano. Letizia Palumbo, Università Ca’ Foscari di Venezia  ↩︎ 2. Le donne migranti in agricoltura: sfruttamento, vulnerabilità, dignità e autonomia. Maria Grazia Giammarinaro e Letizia Palumbo ↩︎ 3. Tabelle e grafici sono ripresi dal rapporto ↩︎
Un lavoretto da portare a termine. Sul 41-bis
Riceviamo e diffondiamo: Qui l’articolo in pdf: Un lavoretto da portare a termine Un lavoretto da portare a termine All’inizio del mese di luglio (2025) il tribunale di sorveglianza di Roma ha rinnovato l’applicazione del regime detentivo 41-bis a Marco Mezzasalma. Marco è stato arrestato nel 2003 ed in seguito condannato all’ergastolo per le azioni dell’organizzazione di cui faceva parte: le Brigate Rosse per la Costituzione del Partito Comunista Combattente. Le più note azioni di questa organizzazione armata furono l’eliminazione di Massimo D’Antona, presidente della commissione tecnica per la redazione di un testo unico per la disciplina del rapporto di lavoro presso le pubbliche amministrazioni del governo Amato, e di Marco Biagi, consulente del ministro del welfare Roberto Maroni per l’elaborazione della riforma del mercato del lavoro. Entrambi i giuslavoristi erano impegnati nella trasformazioni dei rapporti di sfruttamento per renderli idonei all’affermazione del modello economico neoliberista. Marco Mezzasalma, come altri due membri della sua organizzazione Nadia Lioce e Roberto Morandi, è soggetto al 41-bis da oltre vent’anni, periodo in cui l’applicazione del regime speciale gli è stata costantemente rinnovata. Il 41bis prevede la reclusione in istituti appositamente dedicati; l’isolamento; l’assenza di spazi comuni; limitazioni all’accesso all’aria e la gestione delle sezioni unicamente da parte di corpi speciali della polizia penitenziaria (GOM); la limitazione dei colloqui e l’utilizzo di vetri divisori; la censura della posta e forti limitazioni alla possibilità di studio; la totale impossibilità di comunicare con l’esterno. Si tratta quindi di una forma di detenzione finalizzata all’annientamento fisico, mentale e politico del detenuto. Dalla data del 2 marzo 2023, in cui si verificò il conflitto a fuoco che portò alla morte del combattente Mario Galesi e di un agente della PolFer, alla cattura di Nadia Lioce, ed al successivo arresto di altri membri del loro gruppo, l’esistenza dell’organizzazione PCC non si è più manifestata. Quindi è palesemente inesistente il presupposto legale per cui viene applicato il 41-bis ai tre compagni, cioè recidere i contatti tra il detenuto e l’organizzazione all’esterno, mentre è altrettanto evidente la sua non dichiarata funzione punitiva. L’accanimento con cui viene prorogato il 41-bis sembra quindi essere l’esercizio della vendetta e dell’odio di classe della borghesia verso chi ne ha messo in discussione il potere; ed essere inoltre un castigo esemplare attraverso cui si sottopone un corpo a condizioni estreme per lanciare un monito a molti altri: che sappiano cosa li potrebbe aspettare se la loro rivolta superasse determinati limiti. Il 41-bis si manifesta come sospensione (delle regole previste dall’ordinamento penitenziario), si tratta quindi dell’instaurazione dello stato di emergenza all’interno delle carceri, cioè di una misura di carattere eccezionale e provvisorio prevista per gravi motivi di ordine pubblico e di sicurezza. Nei fatti, una volta introdotta, questa misura di governo delle carceri è stata normalizzata e la sua applicazione progressivamente estesa: l’eccezione è divenuta la regola. Infatti il 41-bis, che riprende il percorso del carcere speciale (una storia sia europea che specificamente italiana legata alla repressione dell’insorgenza rivoluzionaria degli anni 70), è stato inizialmente introdotto a tempo determinato negli anni 80, ma successivamente la sua applicazione è stata costantemente prorogata ed infine è diventata stabile nell’ordinamento penitenziario. Inoltre il limite di tempo per il quale un detenuto può esservi sottoposto è stato prolungato da due a quattro anni. Ma soprattutto, per quanto riguarda la durata, è importante rilevare che le istituzioni preposte ad amministrare questa misura – la cui applicazione, dato il suo elevato livello di afflizione, era appunto prevista per periodi limitati – hanno assunto nella maggior parte dei casi la decisione di rinnovarla costantemente, ed in sostanza automaticamente, facendola diventare una pesante pena accessoria che, per molti detenuti, accompagna l’intera durata della reclusione. Questa è una grave responsabilità politica di chi gestisce il 41-bis, cioè in primo luogo del Ministro della Giustizia in carica e del tribunale di sorveglianza di Roma, ma evidentemente, risalendo l’ordine gerarchico, anche del presidente del consiglio e del presidente della repubblica che avrebbero il potere di porre fine a questa situazione disumana. Infine il 41-bis, originariamente utilizzato per contrastare “l’emergenza mafia”, dal 2002 è diventato uno strumento di repressione politica, e vi possono essere sottoposti gli accusati di delitti commessi con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico. Inoltre 41-bis si è esteso nello spazio, facendo dello Stato italiano un punto di riferimento per le politiche repressive in campo internazionale. Infatti recentemente questo modello detentivo, sperimentato in Italia, è stato proposto e preso in considerazione dalle amministrazioni dei sistemi carcerari cileno e francese. Il principale argomento utilizzato per giustificare il carcere duro è la sua utilità nel contrastare la mafia, conseguenza della diffusa quanto reazionaria ideologia antimafia. Essere contro la mafia non vuol dire essere favorevoli al carcere duro, ad esempio gli anarchici sono contro la mafia, perché qualsiasi mafia è un sistema fondato sulla gerarchia, sulla sopraffazione, sullo sfruttamento e quando lo scontro tra le classi si accende si dimostra fedele alleata dei capitalisti e dello Stato, ma allo stesso tempo gli anarchici sono per la distruzione del carcere. Basterebbe conoscere la storia degli anarchici di Africo in Calabria, della loro lotta contro la ‘ndrangheta e di come lo Stato li abbia repressi per favorire l’insediamento delle Cosche, per fugare qualsiasi dubbio in merito a questa irreversibile inimicizia, messa recentemente in discussione dalle vergognose insinuazioni del sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro. Non pretendiamo rappresentare l’opinione di tutti ma, limitandoci alle idee di chi scrive, riteniamo che l’esistenza della mafia sia indissolubilmente connaturata all’ingiustizia insita nel sistema capitalista e che quindi solo tramite la distruzione di questo sistema si potrà estinguerla. Il carcere duro invece non risolve nulla in questo senso, infatti non solo la logica punitiva ed il carcere duro non hanno evidentemente sconfitto la mafia, ma l’antimafia ha creato nuove concentrazioni di potere e rafforzato la parte più profonda e totalitaria dello Stato. Rigettiamo totalmente quindi la logica punitiva insita nella concezioni giustizialiste, tanto di destra quanto di sinistra, che arrivano a fare presa perfino in ambiti che si definiscono libertari. Questa visione, strettamente legate al pensiero dominante, si concentra sulle responsabilità individuali di fenomeni ritenuti criminali o nocivi per la società, rifiutandosi di indagarne le cause. Ragionando in questi termini i conflitti interni alla società vengono letti come un problema di legalità e la soluzione è sempre la repressione. Invitiamo a ribaltare completamente questo paradigma ed a considerare che si possono risolvere i problemi di una società solo analizzandone e comprendendone le cause originanti ed andando a ad agire su di esse. La lotta di classe quindi è l’unica soluzione possibile per avere giustizia, per un vero cambiamento della società, e anche per sconfiggere la mafia. Il 41-bis va chiuso perché è tortura, è il carcere nella sua massima espressione, e la sua funzione antimafia non lo giustifica. Inoltre il 41 bis va chiuso perché è uno strumento di guerra, pronto per per essere usato dallo Stato contro chiunque osi metta in discussione l’ordine che domina la società in cui viviamo. In un periodo di relativa pace sociale, lo Stato si è dotato di una serie di potenti strumenti repressivi, che vanno dall’apice del 41-bis, fino arrivare al decreto sicurezza approvato quest’anno. Questi strumenti non sono scollegati tra loro, ma andrebbero letti come un sistema complessivo che abbraccia l’intero spettro delle pratiche con cui si esprime il conflitto sociale, mirando a impedirgli qualsiasi possibilità di espressione che non sia totalmente sterile o recuperabile. Oggi che il pluridecennale periodo di dominio incontrastato del capitalismo occidentale è giunto al termine e sul suo orizzonte si addensano pesanti nubi che portano tempesta, il rapporto tra conflitto sociale e repressione è di stringente attualità. Segnaliamo alcune importanti questioni, che comportano l’aumento della repressione, quali la fine del mondo unipolare e la ridefinizione degli equilibri internazionali, quindi la guerra come questione fondamentale del presente e quindi la necessità di mantenere un rigido controllo del fronte interno. Altra importante questione è la diminuzione costante della richiesta di forza lavoro all’interno dell’occidente, dovuta ad una somma di cause tra cui l’introduzione di nuove tecnologie, che porta all’esistenza di masse umane eccedenti rispetto alle esigenze del capitale, quindi alla necessità per chi detiene il potere di gestirle: l’aumento di repressione e controllo è la soluzione che è stata adottata. Il 41-bis è un carcere di guerra, è la punta di diamante di questo guerra di classe dall’alto verso il basso, uno strumento che oggi è rivolto conto pochi combattenti ma che è a disposizione dello Stato qualora dovesse allargarsi il conflitto. Lo sciopero della fame intrapreso dal compagno anarchico Alfredo Cospito per l’abolizione del 41-bis e dell’ergastolo ostativo, ha avuto il grande merito di fare prendere coscienza a molti, anche al di fuori del movimento, della inaccettabile esistenza del 41 bis. Questa iniziativa è stata sostenuta da una campagna di solidarietà internazionale. In previsione della decisione su un eventuale rinnovo del regime speciale di detenzione al compagno, che verrà presa dal ministro della giustizia Carlo Nordio nei prossimi mesi, è giunta l’ora di riprendere la discussione e la mobilitazione in merito a questa lotta. Un lavoro iniziato bene che dobbiamo ancora concludere… complici e solidali
Colpit3 dalle onde non affondiamo
Appunti in vista dell’assemblea in Valle del 27 luglio e per quelle già programmate per settembre… Nell’ultimo anno, abbiamo ostinatamente ragionato e organizzato iniziative contro la guerra e il regime di comando che ne è conseguenza. Lo abbiamo detto più volte, la guerra cambia, e non poco, il contesto in cui viviamo e diamo vita alle nostre battaglie politiche. Mutano i rapporti di forza, i punti di riferimento, le politiche economiche e, quindi, la ricaduta nella società è profondissima. In termini di diritti sociali e civili ma anche nella produzione di discorso pubblico, della retorica istituzionale e della cultura complessiva della nostra società. Quando abbiamo iniziato il percorso di Reset abbiamo fatto lo sforzo di adottare collettivamente, in uno spazio multiplo ed eterogeneo, delle lenti differenti per leggere non solo la fase ma le linee di disuguaglianza e sfruttamento che si vanno approfondendo. Per questo è stato fondamentale mettere al centro il confronto tra chi veniva dalle diverse esperienze delle lotte transfemministe, ambientaliste e sociali; tentare di assumere una nuova prospettiva che potesse aiutarci non solo ad analizzare il presente ma costruire uno sguardo radicalmente trasformativo per il futuro. > Da questo punto di osservazione e di iniziativa abbiamo affrontato anche i > limiti e le insufficienze del movimento – non solo in Italia – di cui, per > chiarezza, siamo state e stati e siamo parte. Quei limiti e insufficienze sono > anche i nostri. Alcuni passaggi sono stati rilevanti in questo nostro percorso o ci sono sembrati indicare dei terreni interessanti. Gli Stati Generali per la giustizia climatica e sociale lanciati da GKN e dalle realtà ambientaliste, le mobilitazioni per la Palestina, la marea transfemminista che ha preso parola da subito contro la guerra, le mobilitazioni in opposizione all’approvazione della c.d. Legge Sicurezza, la giornata del 21 giugno e la piattaforma di Stop Rearm. Molte sono le chiamate “a convergere” da parte di importanti percorsi, piattaforme e spazi di lotta che si sono dati negli ultimi anni e che, guardando al futuro prossimo, fanno appello a confluire e costruire il proprio spazio di lotta. Tuttavia, pensiamo che la convergenza non sia un qualcosa di dato, un fatto già esistente, un modellino “prefabbricato” da applicare, ma piuttosto una ipotesi strategica che si fonda su un processo di costruzione in divenire in grado di generare una novità in grado di rompere la temporalità in corso e che scommetta sull’incertezza. Insomma, per convergere c’è bisogno, secondo noi, di interrogarsi e confrontarsi non soltanto con altre realtà ed esperienze, ma sul modo di fare movimento e organizzazione, allargando lo sguardo al di fuori delle realtà organizzate. Non può essere una dinamica di mera sommatoria ma un processo, anche poco lineare, che ha come fine la moltiplicazione e l’inusuale processo in cui una formula matematica ha come risultato parole e relazioni nuove. Noi abbiamo scelto di partecipare a molti di quegli incontri e alle mobilitazioni che ne sono nate, sia a livello nazionale che europeo, e continueremo a partecipare agli spazi di confronto che si daranno nel movimento. Ma ci domandiamo se abbia senso costruire innumerevoli ambiti assembleari dove ognuno ha la sicurezza di indicare la strada da mostrare alle altre e agli altri o convocare “manifestazioni nazionali” o se, invece, non convenga a tutt* fare un passo indietro per poi compierne due avanti, insieme. Per quanto riguarda noi, continuiamo a proporre a tutte di costruire un processo di sciopero che rimetta in discussione pratiche e tempi. Uno sciopero europeo che esca dalla dinamica dell’evento e che possa essere risignificato come processo di accumulazione che si dà nel tempo, in grado di articolare pratiche, parole d’ordine e rivendicazioni che nascono dal basso dentro i processi reali, ma che sia al tempo stesso capace di costruire una capacità di iniziativa condivisa e potente, che duri nel tempo. Un processo non di mera federazione o alleanza ma che, nel mutuo riconoscimento delle soggettività in lotta, sappia guardare ai soggetti del lavoro vivo – lavoratori e lavoratrici, precarie, migranti, persone lgbtqi+ – che sul posto di lavoro come sui territori, sul terreno materiale come su quello culturale, si oppongono alla guerra come meccanismo di comando sulle vite di milioni di persone e rifiutano di pagarne il prezzo. Per fare ciò, vale secondo noi la pena di assumerci collettivamente il rischio e la fatica, anche del fallimento per poi sempre ritentare, per una scommessa ambiziosa che punti alla costruzione di occasioni di reale confronto tra le lotte su come acquisire la capacità di fermare e colpire insieme il sistema nazionale, europeo, mondiale che si avvia così velocemente verso il riarmo e la guerra, ognuno col proprio punto di vista e col proprio portato di esperienze. > Il nostro obiettivo è organizzarci per disertare, sabotare e scioperare contro > guerra, facendo dell’Europa lo spazio minimo della nostra iniziativa politica. In questa prospettiva pensiamo che sia necessario non solo  condividere prospettive nell’immediato, ma costruire un orizzonte di analisi e discorso comune. Ci sono, pensiamo, dei nodi che non possiamo evitare di affrontare nel nome dell’iniziativa, ed è per questo che vogliamo continuare a costruire spazi di discussione e comunicazione. Di fronte a guerra e riarmo non saremo soggetti passivi. Vogliamo essere agenti conflittuali e organizzati per affrontare la violenza di questo mare in tempesta. Insieme, con mutualismo e cooperazione, costruire la nostra forza collettiva. L’immagine di copertina è di Renato Ferrantini SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Colpit3 dalle onde non affondiamo proviene da DINAMOpress.