Guerra grande, strozzature e specchi di faglia
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GUERRA GRANDE, STROZZATURE E SPECCHI DI FAGLIA
Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso
e non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non
conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia.
Sun Tzu, L’arte della guerra
«Questo è il momento della pace attraverso la forza. È il momento di una difesa
comune. Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi sarà necessario più
coraggio. E altre scelte difficili ci attendono. Il tempo delle illusioni è
finito.» Così dichiarava, il 4 marzo scorso, la presidente della Commissione UE
Ursola Von der Leyern presentando un piano di 5 punti per il riarmo degli Stati
appartenenti all’Unione Europea, mobilitando quasi 800 miliardi di euro per le
spese per la difesa. L’annuncio precede e si aggiunge al maxi fondo tedesco da
500 miliardi di euro che il Bundestag, il parlamento tedesco, ha approvato il 18
marzo con i voti della SPD, della CDU-CSU e dei Verdi, unitamente alle modifiche
costituzionali per investire nel riarmo e per superare lo “scoglio” del limite
del debito e della spesa statale. L’accordo multimilionario per finanziare la
difesa tedesca dà a sua volta impulso al piano di riarmo europeo. Quest’ultimo è
strutturato ed articolato su 5 punti strategici. Il primo punto del piano “ReArm
Europe” prevede l’attivazione della clausola di salvaguardia nazionale del patto
di stabilità (ovvero il regolamento che disciplina i bilanci degli Stati UE).
Questa misura permetterà agli Stati membri di aumentare la spesa per il riarmo
anche oltre il limite del 3% del deficit senza incorrere nella procedura di
infrazione europea. In pratica i governi potranno investire di più in armamenti
senza temere sanzioni dell’UE (cioè fare ciò che tutti i governi e politici sia
di destra che di sinistra dicevano che era impossibile per le spese sociali e
sanitarie). Il secondo punto prevede un nuovo strumento finanziario da 150
miliardi di euro per investimenti militari “condivisi”. La particolarità è che
questi investimenti militari saranno per equipaggiamenti standardizzati fra
eserciti di Stati diversi, così da assicurare che i sistemi militari possano
operare assieme in caso di guerra. Per istituire questo meccanismo la
Commissione UE utilizzerà l’articolo 122 del trattato dell’Unione, che consente
di costruire strumenti finanziari di emergenza senza l’approvazione del
parlamento degli Stati europei. Il terzo punto introduce la possibilità di
utilizzare i fondi destinati alla pacificazione sociale (i cosiddetti “fondi di
coesione” presenti in ogni “piano di resilienza” introdotto negli anni passati
ed emanazione diretta del manifesto della borghesia e degli Stati europei,
ovvero il documento Next generation UE) per progetti di riarmo di guerra. Il
quarto punto del piano prevede il coinvolgimento della Banca Europea per gli
Investimenti nel finanziamento a lungo termine per investimenti di natura
militare, mentre il quinto e ultimo punto ordina la mobilitazione generale del
cosiddetto capitale privato, ovvero il furto di classe dei piccoli risparmi
delle classi sociali non privilegiate del vecchio continente per finanziare la
guerra dei padroni e degli Stati, drenando soldi dai piccoli conti bancari per
trasformarli in capitali di rischio in investimenti militari e nella
re-industrializzazione del vecchio continente. Il provvedimento proposto da
Mario Draghi ed Enrico Letta dopo il successo ottenuto negli anni passati a
danno delle classi sfruttate per finanziare le grandi opere nello Stato italiano
(anche in questo caso, come per il “fronte interno” degli Stati articolato nelle
misure repressive, la classe dominante e lo Stato italiano fanno scuola in
Unione Europea). L’ideologia nazionalista fa da involucro e da parte in causa
nel muovere la guerra globale, sia nelle sue varianti dichiaratamente
reazionarie (ad esempio tutti i partiti di estrema destra chiedono maggiori
attenzioni ai vari riarmi nazionali) sia nelle varianti progressiste e
sinistrorse (evidenti sono, ad esempio, le dichiarazioni in Francia di alcuni
esponenti del Nouveau Front Populaire sull’urgenza di ri-creare un’ideologia
patriottica e nazionalista di sinistra). In questo clima di union sacrée e di
mobilitazione delle coscienze e dei corpi, disertare (per quanto ci riguarda)
dal fronte occidentale diviene un’urgenza sempre più impellente. Come fare?
Cerchiamo innanzitutto di fotografare le dinamiche e di fissare alcune
coordinate della “Guerra Grande” in corsa sempre più veloce sul piano inclinato
che ci sta portando verso l’abisso, partendo dal fronte orientale europeo e
tenendo ben saldi nelle mani il sestante del disfattismo rivoluzionario e
dell’internazionalismo antiautoritario. La vittoria della porzione della classe
dominante statunitense che sostiene l’amministrazione Trump ha impresso una
accelerazione crescente al rafforzamento dell’interventismo dello Stato a stelle
e strisce nell’area del continente americano, africano, mediorientale e
soprattutto indo-pacifico, mentre con l’avvio dei colloqui e degli “incontri di
pace” fra classe dominante russa e nord-americana si evidenzia la crescente
contrapposizione con le borghesie del vecchio continente (degno di nota che uno
di questi “incontri di pace” si è tenuto nella città di Monaco, già teatro della
tristemente nota conferenza di pace del 1938) nell’onda di una sorta di Yalta
2.0 che ricorda bene le dichiarazioni del primo segretario generale
dell’Alleanza Atlantica, ovvero che la Nato serve a: “tenere dentro gli
americani, fuori i russi e sotto i tedeschi”. Ciò ci porta a ricordare
l’obiettivo del più grosso atto di guerra realizzato in questi ultimi anni in
Europa a danno dei padroni di casa nostra, ovvero il sabotaggio del gasdotto
Nord Stream. Negli ultimi mesi il territorio della regione di Kursk, così come
le aree di confine tra la regione ucraina di Sumy e quella russa di Belgorod,
sono state completamente riconquistate dalle forze militari russe e
nord-coreane. Per quanto riguarda i territori ucraini la regione di Donetsk è
sotto controllo russo per più del 73%, quella di Kherson per il 59%, e
assistiamo al totale controllo russo sulla regione di Lugansk. Attualmente più
del 21% del territorio dello Stato ucraino è sotto controllo delle forze armate
di Mosca. Ovviamente i successi degli ultimi mesi dell’esercito russo sul fronte
orientale hanno un impatto ben pesante sui negoziati, visto che la borghesia
russa sta vincendo la guerra, e la preoccupazione attuale dei nostri padroni è
quella di interrompere velocemente questo conflitto prima che l’esercito ucraino
crolli e quello russo dilaghi. Il rischio che i dominatori di entrambi i fronti
temono maggiormente è la presenza di un convitato di pietra al tavolo dei
possibili negoziati di pace, ovvero il ruolo che la nostra classe sociale sta
giocando da entrambi i lati del fronte con il rischio sempre più visibile di un
aumento esponenziale delle diserzioni dal militarismo sia russo che
ucraino-NATO, fino ad arrivare – come dichiarato nell’ultimo mese da alcuni
analisti geopolitici dei padronati occidentali – alla possibilità di
ammutinamento delle truppe ucraine contro il governo di Kiev. Come abbiamo
sempre sostenuto, la guerra in Ucraina è anche guerra per il controllo delle
importanti risorse di terre rare indispensabili all’economia di guerra e alla
trasformazione della società e del modo di produzione capitalista verso la fase
digitale. Mentre l’eventuale e sempre più traballante proseguimento degli aiuti
militari statunitensi dipende dall’accordo che pone in mano al capitalismo a
stelle e strisce le risorse minerarie e le infrastrutture ucraine che, secondo
alcune fonti di Kiev dei mesi scorsi, sarebbero già state assegnate all’Empire
2.0 britannico in base ad un accordo siglato durante la visita del primo
ministro Starmer a Kiev. Già alla conferenza di Monaco si parlò della proposta
della delegazione del Congresso degli Stati Uniti di un contratto che avrebbe
concesso agli USA i diritti sul 50% delle future riserve minerarie ucraine. I
disaccordi e i tira e molla con Trump sulle terre rare negli ultimi mesi si sono
verificati a causa del ruolo attivo in questa questione dei ceti padronali
britannici che, in base ad un preaccordo che fu firmato da Zelensky e Starmer,
lo Stato ucraino si sarebbe impegnato a trasferire tutti i porti, le centrali
nucleari e i sistemi di produzione e trasferimento del gas e giacimenti di
titanio sotto il controllo di Londra. Il giacimento di litio di Shevchenko
(Donetsk), riconquistato dall’esercito russo lo scorso gennaio, contiene circa
13,8 milioni di tonnellate di minerali di litio. Il giacimento è il più grande
non solo dell’Ucraina, ma di tutta l’Europa. Già nel 2021, la società mineraria
del Commonwealth European Lithium aveva annunciato di essere in procinto di
mettere in sicurezza il sito. La perdita di questo giacimento è un duro colpo
per i fabbisogni di litio per le classi dominanti UE che si sarebbero comunque
dovuti rivolgere alla borghesia britannica. Ma anche il cosiddetto agribusiness
(cioè lo sfruttamento intensivo delle terre e degli animali di allevamento con
l’espulsione delle comunità locali) è una della parti in causa nella corsa dei
padronati contrapposti per il controllo delle ricche risorse dell’antica
Sarmatia. Ad esempio già nel 2013 la società agricola ucraina “Ksg Agro” firmò
un accordo con lo “Xinjiang Production and Construction Corps” dello Stato
cinese per la concessione in affitto di terreni agricoli nella regione orientale
di Dnipropetrovsk. L’accordo prevedeva una iniziale locazione di 100mila ettari,
con la possibilità di espandersi fino a 3 milioni di ettari nel tempo,
equivalente circa al 5% del territorio ucraino, e avente come obiettivo
principale la coltivazione agricola e l’allevamento dei suini destinati al
mercato cinese. Progetto ad oggi fallito non solo a causa di eventi bellici ma
anche per via di resistenze e di piccolo lotte delle comunità locali. Secondo il
rapporto del 2023 dell’“Oakland Institute”, oltre 9 milioni di ettari di terreni
agricoli ucraini sono dominati dalla grossa borghesia locale e da grandi aziende
agro-industriali statunitensi, europee e arabe-saudite (come la “NHC Capital”
degli Usa, la francese “Agrogénération” e le tedesche “KWS” e “Bayer”). Terra di
confine fin dai tempi del Kanato dell’Orda d’Oro e del gran ducato di Lituania,
tutti gli sfruttatori e gli oppressori di ogni età hanno sempre cercato di
controllare la porzione del basso piano sarmatico accarezzata dal Mar Nero. Lo
stesso toponimo “ucraina” significa “presso il bordo” limitante, cioè il bordo
fra blocchi di Stati e capitalismi contrapposti e di un piccolo bacino semi
chiuso e poco profondo: il Mar Nero. Il nome di quest’ultimo non è però legato
al colore delle sue acque, ma “Kara” (“Nero”) è il modo con cui i turchi
definivano questo specchio d’acqua secondo un’antica associazione dei punti
cardinali a colori specifici. Ma la cupezza legata all’angusto pelago è più
antica. Nel settimo secolo a.C. i primi colonizzatori delle sue coste (gli Ioni)
lo definivano “Pontos Axeinos” (“Mare inospitale”). Le parole non sono mai
neutre ma lavorano per gli interessi delle varie classi sfruttatrici, così come
possono lavorare anche per noi sfruttati chiamando con il loro nome le cose,
indicando i responsabili dell’oppressione, e dipingendo una cosmovisione altra
della vita. Come fa presagire il suo nome, questo mare non è mai stato
controllato da nessuno.
Nell’attuale frangente storico, sulle coste e nelle acque del Ponto Eusino si
incontrano e si scontrano quattro blocchi di Stati e di capitalismi principali:
quello russo, quello statunitense, quello “europeo” e quello neo-ottomano. Un
mare chiuso caratterizzato da un unico accesso: quello del Bosforo-Dardanelli
controllato dallo Stato turco.
Le classi dominanti russe hanno sempre considerato strategico questo mare, in
quanto unico accesso ai mari caldi e alle loro rotte logistiche.
Per il neo-ottomanesimo dello Stato turco, distanziare dall’Anatolia gli Stati
rivali è un fattore cruciale, mentre continua l’espansionismo degli interessi
del capitale turco verso Europa, Africa, Medio Oriente e Asia Centrale.
La nuova dottrina militare della “Mavi Vatan” (Patria blu) rispecchia pienamente
questi obiettivi.
Fra Stati e potenze in guerra fra loro, la diplomazia turca si adopera per
aprirsi margini di influenza lungo le direttrici precedentemente dette. Ad
esempio, condanna Mosca per l’invasione dell’Ucraina, ma non cessa di fare
affari con il Cremlino. Permette alle flotte della marina militare russa di
entrare ed uscire dal Bosforo, ma costringe gli sfruttatori russi ad accettare
che sia essa a dirigere la “Black Sea Grain Initiative”, mediata per l’appunto
da Ankara per permettere alla fertile Ucraina di esportare derrate alimentari,
aumentando ovviamente le tariffe per il transito dei mercantili nel mar di
Marmara. Ingenti risultano i tentativi su questo mare ad opera dei padronati di
casa nostra di rompere l’anossia data dallo strangolamento delle classi
dominanti rivali statunitensi e russe sull’Europa, in quella che è evidentemente
sempre di più una riaffermazione dell’accordo di Yalta, ad esempio con lo
sfruttamento dei fondali di questo pelago.
L’UE vuole realizzare un cavo internet sottomarino lungo 1100 km per collegare
gli Stati membri con la Georgia con un investimento da circa 45 milioni di euro.
Il progetto mira a ridurre “la dipendenza della regione dalla connettività in
fibra ottica terrestre che transita attraverso la Russia”, ha affermato la
Commissione europea, come riportato dal “Financial Times”. Attualmente circa il
99% del traffico internet intercontinentale viene trasmesso tramite oltre 400
cavi sottomarini che si estendono per 1,4 milioni di km. La gerarchia ed il
controllo delle rotte marittime, dei porti, dei trasporti e della logistica
orienta la circolazione di merci e di capitali. Esprime da sempre la potenza
degli Stati, fin da quando nacquero, e lo sviluppo del capitale. Mare,
capitalismo e guerra muovono e ridefiniscono i rapporti di forza fra Stati e
classi dominanti, nei due passati macelli mondiali così come ora. La Guerra
Grande in corso si combatte strategicamente sulle onde. Sopra e sotto di esse,
tra controllo dei fondali, della terra, dello spazio orbitale e cibernetico fino
al dominio delle tecnologie per il controllo dello spazio infinitamente piccolo
(genetico e nanotecnologico) contratto in un’unica dimensione. Per la nostra
classe sociale, cercare di bloccare la logistica che permette alla megamacchina
della morte di funzionare è un’urgenza vitale e necessaria per poter disertare
dalla loro guerra. Proverò ora ad introdurre due attrezzi concettuali per
l’analisi dei movimenti- posizionamenti del nostro nemico di classe e,
soprattutto, per poter cogliere noi la «fecondità dell’imprevisto» (Proudhon) e
provare a dargli forma nei territori dove si presenta e si presenterà sempre di
più: ovvero il concetto delle “strozzature marittime” e delle possibilità
insurrezionali e rivoluzionarie che si aprono per noi negli “specchi di faglia”,
ovvero in quei territori dove vanno a collidere interessi di Stati e blocchi
contrapposti. Quando parliamo di controllo del mare e di controllo degli spazi
(sia fisici che virtuali come quello digitale), per i nostri nemici di classe
stiamo parlando di controllo della terraferma circostante questi spazi, e di
dominio sulla logistica che rende possibile lo sfruttamento e il loro mondo
(dalle rotte commerciali alla infrastruttura materiale come i cavi internet
sottomarini, che rendono possibile la trasformazione della società e del modo di
produzione capitalistico verso la fase digitale). Per controllare questi spazi e
i territori, Stati e classe padronali devono controllare gli stretti di mare
detti anche, a livello mondiale, “strozzature”. Snodi naturali e/o artificiali
(come Panama e Suez) delle arterie degli Stati e dei meccanismi materiali di
valorizzazione e di riproduzione del capitale per i quali transita la quasi
totalità delle merci e dei cavi internet su scala mondiale. Malacca, Taiwan,
Panama, Gibilterra, Otranto, il canale di Sicilia, Suez, Dardanelli, Bab
al-Mandab, Hormuz, Bering, il canale fra Islanda e Groenlandia, l’Egeo, lo
Jutland ecc. Se consideriamo i vari fronti aperti a livello mondiale dalla
Guerra Grande ci accorgiamo che gli scontri e le guerre in corso dei nostri
padroni ruotano attorno al dominio di queste strozzature perché per Stati e
capitalismi, sin dalla loro nascita, il mare è viatico inaggirabile nella
rincorsa alla volontà di potenza loro e delle classi sfruttatrici. Chi domina
questi spazi e quindi in pratica queste strozzature domina il mondo. Attorno a
questi si scontrano e/o sormontano le varie “faglie” di blocchi di Stati e di
capitalismi in contrapposizione tra loro. Tendenzialmente in alcuni dei
territori limitanti una linea di faglia si aprono più facilmente contraddizioni
a livello sociale ed economico. Territori e società direttamente contesi o
semplicemente considerati punti deboli dal blocco opposto per via delle loro
caratteristiche storico-sociali ed economico-culturali. Ad esempio, per i nostri
padroni i territori e le società dell’Europa orientale e del Sud Europa sono più
sensibili potenzialmente per via delle contraddizioni che si potrebbero
spalancare a insurrezioni o autogestioni generalizzate e alla possibile
conseguente catarsi rivoluzionaria. Esempi a livello storico dove possiamo
utilizzare questi due attrezzi di orientamento e di navigazione per le
possibilità insurrezionali sono tutte le grandi rivoluzioni libertarie della
storia del XX secolo (Manciuria, Ucraina, Kronstadt, Catalunya).
Se consideriamo le considerazioni e le progettualità già elaborate decenni fa
nell’area dell’anarchismo di azione per quanto riguarda le possibilità e le
occasioni rivoluzionarie nelle società del Sud Europa e nel bacino del
Mediterraneo, ritengo che ora, fra le contraddizioni che si spalancano in alcuni
territori con la Guerra Grande in corso e la ristrutturazione sociale del
capitalismo, le analisi e le considerazioni che facemmo decenni fa sono quanto
più attuali e preziose e hanno confermato tutta la loro validità e potenzialità
soprattutto per quanto riguarda le aree rurali, ad esempio del Sud Europa. Aree
rurali dove poter coordinare informalmente sul territorio specifico in questione
situazioni di lotta, di autonomia materiale e di cultura di resistenza; in
sostanza porre in rete e creare momenti e situazioni di autonomia materiale, di
cosmovisione altra e di lotta e lavoro insurrezionale tracciando un orizzonte
politico libertario e anarchico. In sostanza delle CLR (Collettività Locali di
Resistenza) dove provare sin da ora a vivere materialmente e umanamente su dei
territori la vita per cui ci battiamo in lotta contro la devastazione portata
dagli Stati e dal capitale. Rilanciare e nello stesso tempo “uscire” in questa
maniera dal mero intervento di agitazione sia teorica che pratica per entrare in
un’ottica di possibilità rivoluzionaria e insurrezionale. Possibilità,
purtroppo, ben consce e presenti nelle analisi degli Stati dell’UE e dei nostri
nemici di classe, dal momento che già nel 2017 in un documento preparato per la
Commissione europea, e già citato negli anni passati nei vari articoli della
rubrica “Apocalisse o insurrezione”[metterei link], veniva evidenziato come
nelle aree rurali dell’est e del sud Europa, già feconde per noi di
contraddizioni intrinseche, la situazione a livello sociale era potenzialmente
esplosiva. Saper cogliere e rendere feconde le contraddizioni che si stanno
aprendo e che si possono spalancare nel momento in cui i nostri padroni e gli
Stati dell’UE si trovano in difficoltà e si indeboliscono nel confronto con i
loro avversari in questa Guerra Grande. Per noi il tutto sta nel cogliere le
possibilità che si aprono su certi territori nel momento in cui sappiamo
interpretare lo spazio-tempo in profondità e in ampiezza, declinando in pratica
la nostra bussola dei princìpi facendo tesoro dell’esperienza storica delle
lotte della nostra classe sociale, fissando una rotta di massima e elaborandola
in un lavoro rivoluzionario affinché le correnti del divenire convulso e
frenetico di questo periodo storico non ci portino alla deriva. Cosa ancora più
facile dal momento che buona parte della classe dominante, soprattutto
occidentale, sta scivolando a livello di analisi strategica nella demenza
post-storica e dei problemi minuti incasellati in un’illusione dell’eterno
presente. Proviamo a vedere le contraddizioni politico-sociali ed economiche che
si sono aperte nell’ultimo periodo in due aree geografiche che si trovano sullo
specchio di faglia dell’Europa orientale: in Romania e in Moldavia.
Che i territori appartenenti allo Stato rumeno e moldavo siano contesi fra due
blocchi capitalistici contrapposti, non è una novità per nessuno. Gli
avvenimenti istituzionali dell’ultimo anno in Romania (come ad esempio il colpo
di stato filo-UE del dicembre 2024), sono esemplificativi di questa situazione.
Non è questa la sede per entrare nel merito di queste dinamiche. È interessante,
invece, per quanto riguarda l’angolazione della nostra classe, sottolineare le
contraddizioni sociali che possono emergere. Ad esempio, gli scioperi continui
degli insegnanti per l’aumento dei salari, o le forti proteste dei trasportatori
e dei piccoli agricoltori in Romania. Bucarest ormai da più di un anno è una
città in ebollizione. «Raderei al suolo il nostro parlamento. Nessuno fa niente
per migliorare la situazione economica del paese. I salari non crescono ma i
prezzi dei beni di prima necessità continuano ad aumentare. Non ne possiamo
più», commenta un tassista di Bucarest.
Similare la situazione in Moldavia, area incistata tra Ucraina e Romania e punto
di frizione diretta tra le ambizioni di allargamento degli Stati e dei
capitalismi UE e le frazioni delle classi dominanti locali che spingono per
rafforzare i legami con Mosca. Negli ultimi anni, nelle strade di Chisinau, si
sono svolte proteste ed accese mobilitazioni contro il carovita. Nella nostra
prospettiva di classe, antiautoritaria e di disfattismo rivoluzionario, è
fondamentale comprendere quali sono le difficoltà e le problematiche che sta
passando il nemico di casa nostra nella crescente contrapposizione fra Stati e
borghesie europee con la classe dominante statunitense.
“Con simili amici, chi ha bisogno di nemici?”. Dal 24 febbraio del ’22 la frase
celebre di Charlotte Bronte può precisamente sintetizzare la situazione del
padronato e degli Stati dell’UE verso la borghesia a stelle e strisce. A partire
dal sabotaggio del gasdotto Nord Stream ai danni del padronato tedesco avvenuto
agli inizi della guerra, fino alla guerra commerciale dei dazi e agli
avvenimenti dell’ultimo anno sulla questione dell’approvvigionamento energetico.
Lo stop al transito del gas russo verso l’Europa attraverso i gasdotti ucraini
alla fine del ’24 determinò difficoltà e rialzo dei costi in gran parte del
continente con previsioni di incrementi considerevoli delle bollette. Lo Stato
slovacco, membro della NATO e dell’UE, è stato quello che ha risentito di più
della decisione assunta da Kiev con il pieno supporto degli USA e,
paradossalmente ma non troppo vista la posizione di sconfitti delle classi
sociali del vecchio continente, dell’Unione Europea.
Washington ha tutto l’interesse ad imporre il suo costoso GNL (sostenuto in
maniera perentoria da Obama, da Biden e ora da Trump).
L’attacco strategico contro i gasdotti Nord Stream non è stato certamente
l’ultima battaglia della guerra per il mercato energetico europeo. L’11 gennaio
del 2025 un attacco (fallito) è stato portato da 9 droni ucraini alla stazione
di compressione “Russkaya” del gasdotto “Turkstream”, che attraversa i fondali
del Mar Nero e raggiunge la Turchia europea, ed è l’ultimo gasdotto ancora
funzionante che trasporta il gas russo negli Stati europei come Serbia e
Ungheria.
Le fazioni della classe dominante nordamericana, che trova nel governo
repubblicano al potere il rappresentante e il propinatore dei propri interessi,
accelera le pressioni per rinforzare la “Yalta 2.0” contro i padroni del vecchio
continente, attraverso anche una sorta di pagamento delle “indennità di guerra”,
e cioè attraverso l’imposizione che gli Stati dell’Ue comprino più prodotti “per
la difesa” made in USA, se vogliono evitare la guerra – ancora “non combattuta”
sul piano militare – dei dazi commerciali. Trump ha previsto di ridurre in 4
anni di 300 miliardi su 900 il bilancio annuale del Pentagono: il militarismo
europeo dovrà indebitarsi per assorbire le acquisizioni di armamenti cui
rinunceranno gli americani. L’industria statunitense è ben determinata ad
occupare il mercato europeo della “difesa” in cui le importazioni dagli USA sono
cresciute di oltre il 30% dal 2022. Tracciando una panoramica complessiva, al
conflitto in nuce (per il momento limitato al livello commerciale e politico)
fra la borghesia USA e quelle del vecchio continente, si aggiungono i crescenti
compromessi tra Stato statunitense e russo anche in campo economico ed
energetico.
L’avvio della guerra mondiale dei dazi si caratterizza, oltre che per
l’inasprimento degli accordi di Yalta, anche per il rinvigorimento della
dottrina Monroe, prendendo di mira direttamente i due stati limitrofi agli
States (Canada e Messico), minacciati di essere colpiti nelle loro esportazioni
verso Washington. Per il Canada, i dazi rappresentano anche il tassello di una
fase espansionistica che culmina con la minaccia dell’annessione agli Stati
Uniti.
I continui ripensamenti e poi l’abbassamento dei toni stanno caratterizzando
l’atteggiamento delle classi sfruttatrici nord-americane verso il vero nemico:
il padronato mandarino.
La classe dirigente cinese ha ottenuto dagli USA una retromarcia dietro l’altra
sui dazi, come dimostrato dall’ultimo accordo raggiunto nel mese di maggio con
la sospensione temporanea e parziale degli enormi dazi che i due Stati si erano
imposti a vicenda. In base alle condizioni concordate, infatti, gli USA
abbasseranno dal 145 al 30% i dazi sulle merci cinesi, mentre lo Stato cinese,
che aveva imposto dazi speculari, li abbasserà dal 125 al 10%. Per il padronato
statunitense è l’ennesima resa unilaterale, che mostra l’improvvisazione della
strategia dello stato nordamericano, che quando impone i dazi dice che
serviranno per la reindustrializzazione e quando li toglie dice che serviranno
per favorire il commercio. Negli ultimi mesi, alle atrocità inenarrabili che
caratterizzano il proseguimento del primo genocidio automatizzato della storia,
si aggiungono i conflitti nelle regioni che insistono attorno allo stretto di
Hormuz, come la micro-guerra combattuta fra Stato pachistano e indiano, e la
guerra dei 12 giorni di Israele e USA contro l’Iran.
Utilizzando l’attrezzo analitico-concettuale delle “strozzature”, per quanto
riguarda ad esempio il conflitto fra Pakistan e India, evidenziamo che stagliato
sullo sfondo c’è il problema del riequilibrio delle relazioni commerciali tra
Stato indiano e statunitense.
La tendenza al riposizionamento della borghesia indiana nei confronti degli USA
è stata dirompente per gli equilibri del sub-continente. Mentre lo Stato
pachistano ha la necessità di un ampio confine diretto con il territorio cinese
(fondamentale per uno sbocco diretto sull’Oceano Indiano al fine di superare un
eventuale blocco navale dello stretto di Malacca), così la borghesia indiana
cerca a tutti i costi di interrompere questo canale di traffico commerciale.
Attorno alle strozzature contese fra blocchi di Stati e di capitalismi rivali di
Hormuz e di Malacca si stanno spalancando contraddizioni sociali e di classe
significative. Basti pensare anche solamente alle enormi mobilitazioni e
scioperi in aumento negli ultimi anni ad esempio nel territorio indiano, a
partire dalle grosse ondate di scioperi iniziate alla fine del 2020 contro
l’introduzione di nuove leggi agrarie, e dove la congiuntura fra la crisi
climatica e idrica, il revanscismo dell’ideologia nazionalista indiana e il
conseguente riposizionamento delle classi sfruttatrici indù sul piano
internazionale della Guerra Grande, nonché la liberalizzazione del mercato del
carbone assieme all’eliminazione della legge che vincolava l’uso delle terre al
consenso obbligatorio delle popolazioni locali, stanno realizzando sconquassi
strutturali rilevanti e un forte inasprimento della lotta di classe.
Ma torniamo alla situazione che più riguarda da vicino il territorio che
abitiamo e che attraversiamo con un focus sulla situazione groenlandese e delle
rotte che attraversano il Mar Artico.
La Groenlandia è la nuova isola del tesoro dove le borghesie cinesi,
statunitensi, russe ed europee si sfidano fra i ghiacci.
Frontiera strategica sulle rotte artiche e ricchissima di terre rare, gas e
petrolio, ci sono diversi motivi che hanno scatenato negli ultimi anni
un’attenzione crescente attorno a questa isola, e quasi tutti i motivi hanno a
che fare con un fattore: il cambiamento climatico.
Il riscaldamento globale sta provocando lo scioglimento dei ghiacciai in tutto
l’Artico, modificandone i contorni, aprendo nuove possibili rotte commerciali e
militari, scoperchiando ricchezze nascoste e giacimenti di “terre rare”.
La Groenlandia per la sua posizione geografica è considerata strategica dal
militarismo statunitense.
L’isola è circondata dagli stretti che introducono ai passaggi a nord-ovest e a
nord-est dell’Oceano Artico e, con le rotte nel prossimo futuro sempre più
navigabili, gli USA non vogliono che le altre potenze rivali ne approfittino.
Lo scioglimento dei ghiacci, inoltre, consentirà sempre di più lo sfruttamento
delle risorse minerali presenti nell’isola, ricca di minerali e di metalli rari.
Una ricerca del 2023 ha confermato la presenza di 25 dei 34 minerali considerati
“materie prime critiche” dalla Commissione europea, tra cui grafite e litio.
Ma all’interno del meccanismo delle varie economie di guerra, dove la sicurezza
degli approvvigionamenti alimentari ha un ruolo cruciale nel contribuire allo
scontro fra capitalismi rivali (come sta avvenendo in Africa nella corsa
all’accaparramento e alla predazione dei terreni necessari per la “sovranità
alimentare” delle varie potenze in guerra sullo scacchiere mondiale), così i
fondali groenlandesi sono necessari per la pesca, visto che diversi stock ittici
si spostano sempre più a nord, rinvigorendo le potenzialità del mercato della
pesca di Nuuk.
La competizione accesa per il controllo dell’isola più grande del mondo, dei
suoi stretti e dei suoi mari (lo stesso Macron è volato a Nuuk il 15 giugno
scorso per “difendere l’integrità territoriale” di questo territorio colonizzato
dalla Danimarca) accende le contraddizioni sociali sull’isola: aumentano le
proteste delle comunità Inuit in conseguenza dell’accaparramento dei territori e
delle acque limitrofe all’isola, mentre il tasso di disoccupazione e le carenze
sanitarie stanno iniziando a creare segnali di insofferenza nel paese.
La regione artica sta emergendo come nuova frontiera della competizione
strategica e commerciale. Si stima che l’Artico contenga circa il 13% delle
riserve mondiali di petrolio, il 30% di quelle di gas e grandi quantità di
risorse ittiche e minerali rari.
Stato cinese e Stato russo stanno ampliando le loro operazioni nell’Artico,
coinvolgendo le isole Svalbard e l’Islanda. Il controllo del cyber-spazio e dei
fondali oceanici è una base fondante per la guerra e per la trasformazione della
società e del modo di produzione capitalista verso la fase digitale. Tutti
questi punti sono ben visibili per quanto riguarda lo spazio artico dove, data
la crescente attività del capitalismo russo e cinese inerente alla logistica
digitale attraverso i cavi sottomarini, la NATO sta avviando nuovi progetti che
«puntano a rendere internet meno vulnerabile ai sabotaggi, reindirizzando il
flusso di dati verso lo spazio in caso di danneggiamento delle dorsali
sottomarine».
La stessa attività estrattiva in acque profonde potrebbe iniziare già
quest’anno. Agli inizi di aprile del 2024, i membri dell’Autorità Internazionale
dei Fondali marini (ISA) ha revisionato le norme che regolano lo sfruttamento
dei fondali. La nuova corsa all’oro degli abissi è iniziata l’anno scorso con
una legge dello Stato norvegese che permette l’estrazione mineraria su scala
commerciale. L’impatto (anche) ambientale di queste decisioni comporterà la
distruzione di interi habitat, oltre al fatto che il 90% del calore in eccesso
dovuto al riscaldamento globale viene assorbito dagli oceani, devastando così
l’equilibrio che sorregge la vita in questo pianeta. Sostanzialmente, la guerra
al vivente procede e si ramifica in ogni sua forma. La guerra è sempre più
palesemente il cuore di questo mondo senza cuore. Mentre i nostri padroni
proseguono ad attrezzarsi alla guerra mondiale, la domanda (banale) che poniamo
è questa: chi pagherà il riarmo degli Stati e delle borghesie nostrane?
Già nei mesi scorsi, in un articolo che non lascia adito ad alcun
fraintendimento dal titolo: Europe must trim its Welfare State to build a
warfare state, il “Financial Times” sostiene che l’Europa deve ridurre le spese
per il welfare per assicurarsi la capacità di sostenere un consistente riarmo.
L’accordo per aumentare la spesa militare degli Stati aderenti alla NATO al 5%
del PIL deciso al vertice dell’Aia va pienamente in questa direzione, assieme
all’estrazione e al furto dei piccoli risparmi privati, già presente nei punti
che articolano il riarmo europeo.
Ribadendo ulteriormente e con forza che fino a quando esisteranno Stati e
capitalismi saranno illogiche le speranze di pace duratura poiché la negazione
della guerra implica in primo luogo quella dello Stato e del capitale, dinnanzi
a questo mondo di conflitti e di miserie generalizzate che corre verso l’oblio e
la propria autodistruzione, la resistenza palestinese (vera e propria forza
tellurica che ha ridonato speranza alle classi sfruttate di tutto il mondo), la
rivolta di Los Angeles e l’accentuarsi delle insurrezioni, delle mobilitazioni
sociali, delle lotte e dei gesti di insubordinazione quotidiana in tutto il
mondo sono come lampi premonitori che squarciano l’Ancien régime, segnali che un
nuovo assalto proletario ai bastioni dell’alienazione e dello sfruttamento può
essere alle porte.
Non c’è notte tanto lunga da non permettere al sole di risorgere.
«Secondo noi le rivalità e gli odi nazionali sono tra i mezzi che le classi
dominanti hanno a loro disposizione per perpetuare la schiavitù dei lavoratori.
E in quanto al diritto delle piccole nazionalità di conservare, se lo
desiderano, la loro lingua e i loro costumi, ciò è semplicemente questione di
libertà, che avrà la sua vera finale soluzione solo quando, distrutti gli Stati,
ogni gruppo di uomini, o meglio ogni individuo, avrà diritto di unirsi con ogni
altro gruppo o separarsi a piacere.» (Errico Malatesta).