Tag - Approfondimenti

Riarmo e toni apocalittici
Riprendiamo da lanemesi.noblogs.org questa riflessione, che fa da contrappunto a certi “toni apocalittici” sulla guerra spesso utlizzati anche dal nostro sito. Ne apprezziamo soprattutto lo sguardo verso la materialità dei rapporti economici e politici a livello internazionale: ciò che più conta, dal nostro punto di vista, non è certo fare allarmismo, ma non perdere mai di vista la realtà, e in particolare quella che va oltre le nostre immediate vicinanze (l’analisi dell’economia e della politica internazionale, assolutamente necessaria in un mondo globale, non è esattamente un punto di forza della maggioranza degli anarchici). Dal canto nostro,  crediamo però che sia sempre buona cosa prepararsi, e preparare chi ci ascolta, allo scenario peggiore, specialmente in tempi di inerzia della catastrofe. Il che non esclude, ma integra l’attenzione – giustamente richiama dall’autore dell’articolo – agli effetti materiali che sono già prodotti dalla guerra sulla pelle degli sfruttati.   Riarmo e toni apocalittici Nell’attuale (e striminzito) campo rivoluzionario – quello che non ha rinunciato ad adottare una postura classista, internazionalista, antimilitarista e disfattista – la questione del riarmo viene spesso affrontata facendo largo ricorso a toni apocalittici. In particolare, per quanto riguarda l’Europa, stante lo scenario ucraino, il fatto che gli stati accelerino la corsa al riarmo, sembra spingere molti a credere che la guerra totale alle nostre latitudini sia questione di mesi, magari anni; la clessidra del tempo di ”pace” va esaurendosi, la catastrofe incombe. Sarà poi così? Se non si può rimanere indifferenti al riarmo europeo, soprattutto a quello intrapreso da potenze come la Germania, per orientarsi nel caos propagandistico e patriottardo promosso dalle classi dominanti del Vecchio continente,è altrettanto impossibile prescindere da una serie di valutazioni circa lo stato del conflitto in Ucraina e le possibilità concrete di ”scelta” alla portata, nel breve-medio termine, degli stati dell’Europa centrale e occidentale, al fine di preparasi a quella che viene presentata come un’incombente minaccia di attacco russo. Sarà allora il caso di prendere atto, come invitano a fare analisti, tutt’altro che sovversivi, del calibro di Fabio Mini o Lucio Caracciolo, che, nell’immediato, la Russia non ha alcuna seria intenzione di attaccare l’Europa, a partire dai paesi baltici; e non perché non disponga dei mezzi convenzionali e nucleari indispensabili a questo scopo, in questo senso semmai il problema vale per l’avversario. Ad esempio, dovrebbe far riflettere l’atteggiamento dell’Europa, che mentre dipinge il nemico moscovita come il nemico della democrazia pronto ad attaccarla da un momento all’altro, temporeggia, sperando nella prosecuzione del conflitto in Ucraina, per compensare le deficienze che si porta dietro da decenni sul piano militare, e non solo. Ad ogni modo, per la Russia, sin dallo scoppio del conflitto ucraino nel 2022, aggredire l’Europa, con la quale fino a pochi anni prima facevano affaroni, non è mai stata una priorità strategica, quanto piuttosto un’azione insensata frutto delle fantasticherie occidentali, dalla portata potenzialmente destabilizzante per Mosca. In tutto ciò, gli USA sono ben lungi dall’essersi defilati dal conflitto in Ucraina; fatto testimoniato dal recupero dei rapporti bilaterali con la Russia, incrinati dall’amministrazione Biden, funzionali ad evitare un coinvolgimento in uno scontro diretto con Mosca e, possibilmente, a tentare di sganciarla dalla Cina. Sempre Fabio Mini recentemente ha sottolineato che la titubanza dell’attuale amministrazione americana nel fornire agli ucraini i tanto richiesti missili Tomahawk si inserisce in questa direzione; senza tralasciare che il Pentagono ha fatto notare al dealmaker della Casa Bianca che la fornitura non rinforzerebbe affatto la capacità di deterrenza verso la Russia, ma anzi potrebbe favorire un’escalation nucleare. La Russia è dotata poi di sistemi difensivi antimissile capaci di ridurre fortemente il successo, in termini di capacità di colpire i bersagli russi individuati, a due missili su dieci lanciati. «In Ucraina è già successo agli ATACMS e ai Patriot, che hanno visto la loro percentuale di successo crollare dal 90% dichiarato al 6% effettivo». Altro che deterrenza. Per lo sbirro mondiale tanto vale allora fare più concessioni tattiche possibili a Mosca, rimettendo l’Europa, lacerata dai contrasti interni, al suo posto, senza mancare di rammentargli la sua irrilevanza, non avendo assolutamente nulla da mettere sulla bilancia dei rapporti di forza esistenti. Ciò che rimane, a partire dalla futura ricostruzione ucraina, è, ancora una volta, questione di affari. Tra i 28 punti della bozza del piano di pace per l’Ucraina, a quanto pare elaborato in un mese di confronto tra la delegazione statunitense e quella russa, era previsto non solo l’addio dell’Ucraina ai piani di integrazione nella NATO, ma anche la riammissione di Mosca nei circuiti della finanzia internazionale (leggi SWIFT), la cancellazione delle sanzioni, in cambio del 50% dei proventi della ricostruzione, finanziata in parte dagli assets russi congelati in Belgio e in parte dalle tasche europee. Le richieste di modifica del piano da parte degli europei evidenziano soprattutto, e per l’ennesima volta, il tentativo di mandare in vacca il deal, rimettendo al centro la palla dell’integrazione ucraina nella NATO. Intendiamoci, i proletari, di qualsiasi nazionalità siano, non hanno amici: piano USA-Russia o piano UE, ogni decisione viene presa sulla loro pelle; quattro anni di massacri in nome della difesa della democrazia contro la tirannide dovrebbero averlo dimostrato, in barba alla mitizzazione della resistenza ucraina, alimentata da disgraziati strappati via dalle proprie famiglie e comunità. Ecco le magnifiche e progressive della coscrizione obbligatorio e della legge marziale, ma, per l’amore del cielo, in salsa democratica, mica come in Russia. Ma torniamo al riarmo europeo, la cui necessità impellente non va attribuita esclusivamente alla minaccia Russa, ma ancor prima al ruolo degli Stati Uniti in Europa e all’incognita della loro permanenza nell’arco del prossimo decennio. La Germania, recentemente presa in considerazione in relazione alla presentazione della nuova legge sulla leva1, come sempre fa scuola, anche se bisogna tenere ben presente che tra ciò che viene dichiarato e ciò che viene poi applicato la corrispondenza non è automatica: gli investimenti nella spesa bellica e il rafforzamento degli eserciti non avvengono dall’oggi al domani. Perché vengano destinati efficacemente occorre continuità, stabilità politica interna, collaborazione della popolazione e sforzo strategico nel lungo periodo. Partendo dalle deficienze a cui si accennava sopra, le Forze armate tedesche tra gli anni Novanta e il 2022 hanno perso finanziamenti per un valore complessivo di 400 miliardi di euro, con serie conseguenze sul piano della prontezza operativa, delle infrastrutture logistiche, delle scorte, del personale, delle tecnologie della comunicazione, ecc. Nel 2022 Scholz dichiara pubblicamente che la Germania si deve svegliare dal suo letargo pacifista per riarmarsi, e in fretta. Viene così stanziato il primo fondo da 102 miliardi, poi nel marzo del 2025 è il turno del programma di potenziamento della Bundeswher: le spese belliche oltre l’1% vanno fuori bilancio. Per il 2029 è previsto l’investimento di 150 miliardi; intanto, per quanto riguarda il 2026, si passa ai 108 miliardi. Sempre recentemente però, si è stimato ottimisticamente che entro il 2030 la Germania non sarà minimamente in grado di reggere una guerra convenzionale, a causa di tutte le mancanze di cui sopra. Anche perché per farlo è necessaria un’altra cosa: la conversione dell’industria in chiave bellica; un processo che richiede tempi lunghi, capitali e sviluppo tecnico. Rheinmetal punta già ad acquisire stabilimenti Volkswagen, coerentemente con l’idea di far leva sul settore automobilistico in forte crisi per realizzare la riconversione. Ancora poco, se è vero che il tempo stringe, e stiamo parlando della Germania, mica dell’Italietta. In un articolo dell’ultimo numero della Rivista di Geopolitica Limes, sempre in riferimento alla Germania, si riporta come: «le guerre del presente non si combattono con armi tecnologicamente sofisticate e pochi mestieranti. Nessuna blitzkrieg alle viste. Sono conflitti d’attrito, scontri di lunga durata tra apparati bellici di vaste proporzioni. Perdi quando si logora il consenso interno». Quando avviene questa frattura? Questo Limes non ce lo dice, o meglio ce lo dice diversamente: quando le condizioni di vita e la riproduzione della forza lavoro subiscono una forte degradazione funzionale allo sforzo bellico; diversamente gli appelli al disfattismo rivoluzionario, alla diserzione, sono esercitazione retoriche ad uso e consumo degli addetti ai lavori, piaccia o meno. La lotta di classe e l’antimilitarismo devono quindi essere necessariamente legate, giacché separarla, ricondurre la seconda a ragioni etiche, di giustizia e morale, senza sminuire la realtà e concretezza dell’atrocità, della disumanità connaturata a questi fenomeni abominevoli di negazione totale delle vite proletarie, è opera più da pretaglia che da sovversivi. Comunque, è lo stesso articolo a presentarci il sostanziale accordo di due terzi dei tedeschi verso l’aumento delle spese militari entro il 2032, ma con almeno due riserve: innanzitutto che non venga toccato lo stato sociale – ma anche a fronte della possibilità di scorporare la spesa bellica dal patto di stabilità, prima o poi i conti saranno da fare, e saranno dolori-; secondo: poca disponibilità a sacrificarsi per la patria; soltanto un tedesco su sei sarebbe pronto a rischiare la pelle per difendere i confini tedeschi. Ancora una volta: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare! 30/11/2025 1 https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/11/15/una-levataccia-per-la-gioventu-tedesca-ed-europea/
Senza confini
La sinistra italiana che conosciamo è morta. Non lo ammettiamo perché si apre un vuoto che la vita politica quotidiana non ammette. Possiamo sempre consolarci con elezioni parziali o con una manifestazione rumorosa. Ma la sinistra rappresentativa, quercia rotta e margherita secca e ulivo senza tronco, è fuori scena. Non sono una opposizione e una alternativa e neppure una alternanza, per usare questo gergo. Hanno raggiunto un grado di subalternità e soggezione non solo alle politiche della destra ma al suo punto di vista e alla sua mentalità nel quadro internazionale e interno. Non credo che lo facciano per opportunismo e che sia imputabile a singoli dirigenti. Dall’89 hanno perso la loro collocazione storica e i loro riferimenti e sono passati dall’altra parte. Con qualche sfumatura. Vogliono tornare al governo senza alcuna probabilità e pensano che questo dipenda dalle relazioni con i gruppi dominanti e con l’opinione maggioritaria moderata e di destra. Considerano il loro terzo di elettorato un intralcio più che l’unica risorsa disponibile. Si sono gettati alle spalle la guerra con un voto parlamentare consensuale. Non la guerra irachena ma la guerra americana preventiva e permanente. Si fanno dell’Onu un riparo formale e non vedono lo scenario che si è aperto. Ciò vale anche per lo scenario italiano, dove il confronto è solo propagandistico. Non sono mille voci e una sola anima come dice un manifesto, l’anima non c’è da tempo e ora non c’è la faccia e una fisionomia politica credibile. È una constatazione non una polemica. Noi facciamo molto affidamento sui movimenti dove una presenza e uno spirito della sinistra si manifestano. Ma non sono anche su scala internazionale una potenza adeguata. Le nostre idee, i nostri comportamenti, le nostre parole, sono retrodatate rispetto alla dinamica delle cose, rispetto all’attualità e alle prospettive. Non ci vuole una svolta ma un rivolgimento. Molto profondo. C’è un’umanità divisa in due, al di sopra o al di sotto delle istituzioni, divisa in due parti inconciliabili nel modo di sentire e di essere ma non ancora di agire. Niente di manicheo ma bisogna segnare un altro confine e stabilire una estraneità riguardo all’altra parte. Destra e sinistra sono formule superficiali e svanite che non segnano questo confine. > Anche la pace e la convivenza civile, nostre bandiere, non possono essere > un’opzione tra le altre, ma un principio assoluto che implica una concezione > del mondo e dell’esistenza quotidiana. Non una bandiera e un’idealità ma una > pratica di vita. Se la parte di umanità oggi dominante tornasse allo stato di natura con tutte le sue protesi moderne farebbe dell’uccisione e della soggezione di sé e dell’altro la regola e la leva della storia. Noi dobbiamo abolire ogni contiguità con questo versante inconciliabile. Una internazionale, un’altra parola antica che andrebbe anch’essa abolita ma a cui siamo affezionati. Non un’organizzazione formale ma una miriade di donne e uomini di cui non ha importanza la nazionalità, la razza, la fede, la formazione politica, religiosa. Individui ma non atomi, che si incontrano e riconoscono quasi d’istinto ed entrano in consonanza con naturalezza. Nel nostro microcosmo ci chiamavamo compagni con questa spontaneità ma in un giro circoscritto e geloso. Ora è un’area senza confini. Non deve vincere domani ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste. 24 aprile 2003 (Luigi Pintor è morto il 17 maggio 2003) La copertina è di Gabriella Mercadini/Archivio il manifesto. L’immagine è disponibile all’interno dello speciale “essenzialmente Pintor” distribuito da il manifesto LEGGI IL COMUNICATO STAMPA E PARTECIPA ALL’EVENTO FACEBOOK SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Senza confini proviene da DINAMOpress.
In Sudan l’emorragia non si ferma
Cosa sta succedendo in Sudan? È impossibile rispondere davvero a questa domanda se intesa in termini politici oltre che umanitari, o almeno lo è da una prospettiva europea. C’è chi legge la situazione sudanese come il risultato di scontri etnici ereditati dall’epoca coloniale, chi significa la guerra come frutto di conflitti d’interesse legati alla ricchezza di risorse presenti sul territorio (oro, terre rare, gomma arabica, petrolio) e chi invece vede la crisi umanitaria e politica come figlia di un vuoto di potere emerso durante e dopo la lotta di liberazione dalla dittatura di Omar al-Bashir. Sicuramente tutte queste ipotesi hanno un fondo di verità, tutte sono necessarie ma non sufficienti a spiegare la più grande crisi umanitaria al mondo e i più terribili crimini contro l’umanità della storia recente. Le Forze di supporto rapido (Rsf) sono l’eredità della milizia Janjaweed, che nei primi anni Duemila si è macchiata di crimini di guerra, contro l’umanità e persecuzioni di matrice etnica: nel 2013, infatti, il governo a guida al-Bashir ha formalizzato il gruppo paramilitare delle Rsf organizzando così l’allora formazione “a briglie sciolte” Janjaweed sotto un’autorità più controllabile. Lo stesso Mohamed Dagalo – detto Hemedti, attuale leader delle Rsf – era una figura di spicco tra le loro fila. I gruppi che subivano le violenze dei Janjaweed, come i Masalit e i Fur, sono gli stessi che subiscono le stragi delle Rsf. Inizialmente le Forze di supporto rapido erano incaricate di sopprimere i movimenti di insurrezione ed effettuare operazioni di “controllo dei confini”, incarichi ben presto trasformatisi persecuzione etnica e crimini contro l’umanità, per i quali sono sotto indagine dal 2023 presso la Corte Penale Internazionale, in riferimento alle azioni all’interno del conflitto scoppiato nell’aprile dello stesso anno. Anche le Forze armate sudanesi (Saf, esercito nazionale “regolare”), non sono senza macchia: inizialmente sotto il controllo del governo al-Bashir, di cui erano letteralmente il braccio armato, poi con la guida di Abdel Fattah al-Burhan al fianco dei ribelli e delle Rsf nel suo rovesciamento nel 2019. Dopo la destituzione del dittatore trentennale hanno mantenuto la fragile alleanza con le Rsf, formando un governo di transizione con una componente civile durato solo fino al 2021. > Con un altro colpo di stato hanno assunto un potere di natura militare, ma la > coalizione con la milizia – già di per sé problematica – ha retto solo fino al > 2023: il 15 aprile è scoppiata la guerra civile che ancora oggi devasta il > paese. Qui si comprende qualcosa di quel vuoto di potere, o meglio di quelle > rivendicazioni di potere strabordanti e irriducibili fra loro, di cui sopra. La ricchezza di risorse ha portato questo conflitto a eccedere i confini del Sudan, interessando il Ciad, la Libia, il Sud Sudan e, soprattutto, gli Emirati Arabi. Anche l’Egitto fa buon viso a cattivo gioco con il governo di al-Burhan, basti considerare che il Nilo, prima di raggiungere il territorio egiziano, passa per il Sudan: lì, infatti, confluiscono Nilo bianco e Nilo azzurro. L’attore più controverso rimane Abu Dhabi: da sempre accusato dal governo di Khartoum di foraggiare la guerra sostenendo le Rsf, a cui fornirebbe armi e mercenari (anche internazionali, in particolare colombiani) in cambio di risorse, ha di volta in volta rimandato le accuse al mittente, ma le prove di un coinvolgimento sono ormai schiaccianti. Numerosi rapporti delle Nazioni Unite, un primo datato gennaio 2024, un secondo aprile 2025, dimostrano una catena logistica che dagli Emirati arriva fino a Nyala – capitale del Darfur del Sud sotto il controllo delle Rsf – passando per Ciad orientale, Sud Sudan e Libia. I report indicano un tracciamento di aerei cargo non registrati che, in direzione Am Djarass (aeroporto del Ciad nordorientale), spariscono per qualche ora dai radar all’altezza di Nyala, per poi ricomparire ad Am Djarass. Pur non riuscendo a verificare il contenuto dei voli cargo, la catena logistica è innegabile. Da Nyala si irradia la rete infrastrutturale che raggiunge tutte le roccaforti della milizia, da ultima El Fasher. Da un altro report, questo confidenziale ma pubblicato in esclusiva sul “Guardian“, emerge il ritrovamento di passaporti emiratini sul campo di battaglia, nelle zone dello stato di Khartoum precedentemente controllate dalle Rsf e poi riconquistate dall’esercito. > Lo stesso documento indica che gli Emirati potrebbero aver fornito droni > modificati per lo sgancio di bombe termobariche, artiglieria controversa e con > capacità di distruzione molto maggiori rispetto ad altri tipi di arsenale > dello stesso calibro, testimoniate poi dalla sofferenza e dalla morte dei > sudanesi che ne hanno subito gli effetti. È bene ricordare, a questo proposito, che i bombardamenti non hanno mai risparmiato siti civili: ne sono un esempio gli attacchi, perpetrati anche nei primi mesi di quest’anno, sui mercati di El Fasher e Omdurman, che hanno provocato decine di morti e centinaia di feriti. El Fasher, poi, è stata teatro della più grande strage degli ultimi anni in Sudan: la sua capitolazione a fine ottobre, per mano delle Rsf, ha comportato migliaia di morti e dispersi, decine di migliaia di feriti, centinaia di migliaia di sfollati. Le maggiori organizzazioni per i diritti umani, come Human Rights Watch e Amnesty International, invocano un’indagine per crimini contro l’umanità sulle azioni delle Rsf a El Fasher, che hanno rievocato e superato per crudeltà l’assedio sul campo profughi di Zamzam (l’offensiva più devastante è avvenuta ad aprile 2025). Senza un sostegno esterno, la milizia non avrebbe potuto perpetrare queste atrocità, né conquistare tutto questo terreno: controlla infatti ormai quasi tutta la regione del Darfur e parte del Kordofan – dove ha già raggiunto alcune delle principali città, come Bara, e punta alla capitale El Obeid. IL COINVOLGIMENTO USA ED EUROPEO Nel frattempo, l’aspirante Nobel per la pace Donald Trump ha messo in piedi una task force dedicata alla crisi sudanese: il gruppo Quad vede tra le sue fila Arabia Saudita, Egitto, Stati Uniti, e non potevano mancare proprio gli Emirati Arabi. Si comprende come le proposte di un cessate il fuoco avanzate dal team Quad avessero già perso in partenza, Al-Burhan ha definito l’ultima «la peggiore ricevuta finora», perché, oltre alla presenza compromessa di Abu Dhabi, non prevede il ritiro e disarmo delle Rsf, che hanno invece accettato volentieri il piano, dichiarando unilateralmente un cessate il fuoco di tre mesi lunedì 24 novembre. Tregua che già martedì 25 novembre è stata violata dalla milizia e i suoi alleati: il Movimento popolare per la liberazione del Sudan del Nord (Splm-N), parte del governo parallelo guidato da Hemedti, ha rapito oltre 150 ragazzi, tra cui svariati minori, dalla miniera di Zallataya (Kordofan sud); le Rsf, invece, hanno attaccato una base militare nel Kordofan occidentale (secondo una dichiarazione dell’esercito che non è ancora stata verificata indipendentemente). Il consigliere speciale Usa per l’Africa Massad Boulos, inviato ad Abu Dhabi per discutere di Sudan, ha invitato «tutte le parti ad accettare il piano così com’è stato proposto, senza precondizioni», bocciando da subito le richieste di al-Burhan di prevedere quantomeno il disarmo della milizia. L’Unione Europea, dal canto suo, condivide le lacrime di coccodrillo trumpiane: dopo aver imposto delle sanzioni al numero due delle Rsf, Abdelrahim Dagalo, emesse dal Consiglio affari esteri, il Parlamento di Strasburgo il 27 novembre ha convocato una votazione su una Risoluzione legata alle ingerenze esterne nella guerra in Sudan. > Se la prima bozza condannava direttamente il coinvolgimento degli Emirati, > proponendo addirittura di interrompere il trattato di libero commercio delle > armi con Abu Dhabi (che sarebbe semplicemente una mossa ottemperante > all’embargo sulle armi e alla legislazione internazionale in materia di > commercio bellico in teatri di guerra), il documento finale che è stato > approvato non nomina neanche lo stato del Golfo persico. La presenza, nelle vesti di osservatori, dei diplomatici emiratini durante il voto parla da sé rispetto a questa virata angolare e repentina: Lana Nusseibeh, l’inviata di Abu Dhabi per l’Europa, è volata a Strasburgo insieme al suo entourage, dove ha partecipato a incontri con numerosi membri del Parlamento europeo. A tracciare la sottile linea rossa che ha determinato la cancellazione degli Emirati dalla risoluzione è stato il PPE, ma anche Marit Maij – negoziatrice capo per il gruppo S&D (socialisti e democratici) – ha ammesso a Politico di aver incontrato la delegazione emiratina su richiesta di quest’ultima, affermando però di avergli fatto presente che gli elementi del loro supporto alle Rsf sono schiaccianti. Il sito europeo ha ironicamente sottotitolato il servizio: «Gli ufficiali emiratini hanno condotto una spinta lobbista eclatante mentre i parlamentari pasticciano una risoluzione sul devastante conflitto africano». Nel frattempo, il 19 novembre, l’italiana Leonardo spa ha ufficializzato una Joint Venture con il gruppo Edge (Emirati Arabi), di cui quest’ultimo deterrà il 51% e ne commercializzerà i prodotti in casa. Da tutto ciò emerge un filo di legami politici, economici e finanziari che esulano dal contesto sudanese e rendono molto difficile individuare gli interessi concreti che muovono gli attori esterni a interferire nel conflitto e soprattutto la catena di beneficiari che non finisce certo ad Abu Dhabi. Tracciare il profilo delle dinamiche estrattiviste, lobbiste e quasi sempre neocoloniali non è semplice, ma a pagarle da più di cent’anni rimane il popolo sudanese. La copertina ritrae il campo profughi di Khor Abeche (Sud Darfur) dopo un attacco delle Rapid Support Force avvenuto il 22 marzo 2014. L’immagine è di Enough project (Flickr) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo In Sudan l’emorragia non si ferma proviene da DINAMOpress.
“Che fatica conciliare l’inconciliabile…”. Una risposta a “Sulle care vecchie – amate – questioni”
Riprendiamo da lanemesi.noblogs.org questa risposta all’articolo su Comunismo-e-individualismo, pubblicato anche su questo sito: Qui il testo in pdf: Conciliare   “Che fatica, conciliare l’inconciliabile…”. Una risposta al contributo “Sulle solite vecchie – amate – questioni. A proposito di comunismo e individualismo (con disimpegno a vista sul nichilismo)” Che fatica, conciliare l’inconciliabile… Recentemente è stato fatto circolare, sia su Il rovescio che su La Nemesi, un contributo intitolato Sulle solite vecchie amate questioni. A proposito di comunismo e individualismo (https://ilrovescio.info/2025/10/22/sulle-solite-vecchie-amate-questioni-a-proposito-di-comunismo-e-individualismo/), contenente alcune risposte a quattro scritti critici – di cui due riconducibili a Juan Sorroche, prigioniero anarchico, uno ad un autore anonimo e l’altro ancora al gruppo anarchico Panopticon – aventi per oggetto gli articoli La fase nichilista e L‘anarchismo rivoluzionario contro la desistenza, entrambi pubblicati sul settimo numero del giornale anarchico Vetriolo. I quattro scritti menzionati non sono affatto sovrapponibili, né per quanto riguarda il loro contenuto, che nell’approccio metodologico, piaccia o meno il termine, adottato nello sviluppo delle critiche. Poco importa che dietro alle righe che avete sotto gli occhi vi sia l’autore di uno di questi quattro testi; anonimato sia, tanto per quello (Alcune considerazioni critiche su “La fase nichilista“), quanto per questo. Tuttavia, non posso fare a meno di rilevare che emmeffe, l’autore della risposta, o meglio dell’insieme di risposte, evidentemente meno avvezzo alla scelta dell’anonimato, ha replicato in maniera piuttosto autoreferenziale e, mi verrebbe da dire egocentrata, al mio contributo, ignorando di fatto una serie di punti critici ben più rilevanti, ai fini di un dibattito tra rivoluzionari, di mal interpretate accuse di scarsa originalità nella teorizzazione della cosiddetta fase nichilista. Piuttosto che tornarci sopra – l’autoreferenzialità è terribilmente noiosa – trovo maggiormente interessante collegarmi solo ad alcuni punti sviluppati nel suo scritto, al di là del loro specifico riferimento alle critiche mosse nei quattro diversi scritti, tentando di alimentare il dibattito. A questo scopo, può essere utile avvalersi di alcune citazioni testuali. Faccio solo presente che nell’opuscolo Bussole impazzite https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/09/25/bussole-impazzite-note-critiche-su-teoria-radicale-classe coscienza-individuo-comunita-e-possibilita-di-rottura-rivoluzionaria/) – sono state trattate alcune questioni – su cui non mi posso dilungare in questa sede – attorno a cui si è sviluppato anche il dibattito in corso: l’individuo, la comunità, il contenuto del comunismo e le recenti rivolte e sommosse verificatesi in tutto il mondo. * * * «L’espressione «frontismo» indica la strategia messa in atto a partire dagli anni Trenta dello scorso secolo di costituire, dinnanzi all’avanzare del pericolo fascista e nazista, ampi fronti popolari, ovvero alleanze fra partiti, sindacati e altri grandi organizzatori collettivi appartenenti a classi sociali diverse. Con la strategia del frontismo, quindi, si postula che il fascismo è il male assoluto e che contro questa maledizione la lotta di classe va messa in secondo piano. A teorizzare e mettere in pratica il frontismo sono stati innanzitutto partiti marxisti di varie colorazioni, stalinisti e socialdemocratici in origine, seguiti nel dopoguerra dal frontismo straccione del maoismo e del guevarismo che recuperava le lotte di liberazione nazionale originariamente espressione delle borghesie dei Paesi oppressi (giusto per ricordare all’ignorante di turno che i primi ad abbandonare la lotta di classe a favore delle alleanze politiche siano stati i marxisti e che talune categorie postcoloniali sono molto più staliniste-maoiste che libertarie)» Il nostro autore la fa un po’ troppo facile. Il frontismo antifascista è certamente una delle massime espressioni dell’assunzione ottimistica e della partecipazione attiva a lotte sociali interclassiste. In questo senso, la formula, abusata e raramente praticata nelle sue conseguenze pratiche, «l’antifascismo è il peggior prodotto del fascismo», conserva integralmente la sua validità, e non solo perché, al termine della Seconda guerra mondiale, il fascismo ha perso militarmente e ha vinto politicamente, in quanto modo di essere del capitalismo (e quindi dello Stato). Il fatto è che, volendo essere onesti, la tattica del frontismo antifascista non può essere ricondotta esclusivamente ai partiti marxisti fedeli alle direttive della Terza Internazionale, dominata dai bolscevichi. Tra l’altro, in seno ad essa non tutti i partiti aderirono alla tattica del fronte unico; il caso del Partito comunista d’Italia, da poco fondato e diretto dalla cosiddetta Sinistra comunista italiana, e dal più volte evocato – poco coerentemente essendo il nostro autore anarchico – Amadeo Bordiga, è emblematico, ma non esaurisce le posizioni scettiche e di netto rifiuto del frontismo, più diffuse di quanto si immagini in campo marxista, non solo al principio degli anni 20′. Il frontismo è un fenomeno che ha coinvolto storicamente anche gli anarchici, molti ma non tutti, tanto in Italia, ad inizio anni Venti con gli Arditi del popolo, tra il 1943 e il 1945 con la Resistenza partigiana, che, ancora più evidentemente, in Spagna, e precisamente nella misura in cui il fascismo veniva visto come il nemico numero uno da combattere. La lotta di classe e lo scontro ultimativo rivoluzionario venivano così rimandati a democrazia restaurata. È lo stesso autore de La fase nichilista a farcelo presente più avanti: in Spagna alcuni anarchici accettarono addirittura dei ministeri, per non parlare poi dei tentativi di sabotaggio degli scioperi spontanei che si produssero più volte già durante le prime fasi della guerra civile, del maggio 1937 a Barcellona, del discorso pronunciato da Durruti a Radio Barcelona (e riportato sul bollettino Solidaridad Obrera, il 5 novembre 1936), in cui il leader anarchico – si sprecano gli esempi di veri e propri capi libertari nella storia dell’anarchismo – esortava le organizzazioni operaie a non dimenticare che il dovere principale a cui erano chiamate era combattere il fascismo, motivo per cui dovevano lasciare perdere «i rancori e la politica, e pensare alla guerra». Tornando al nostro autore, non è chiaro perché l’esempio del tradimento della CNT debba costituire un’eccezione, tale da permettere di ricondurre il tatticismo frontista ai marxisti, deresponsabilizzando storicamente gli anarchici. La questione conserva una certa attualità. Infatti, ancora oggi l’antifascismo militante classico, con tutto il suo squallido corollario da politicanti – codismo, carrozzoni, logiche racketistiche, compromessi col ”meno peggio”, ecc – viene volentieri abbracciato da molti/e attivisti/e; a monte c’è lo stesso principio: prima si fanno i conti col pericolo fascista sempre dietro l’angolo – evitando di fare un bilancio di cosa sia stato il fascismo oltre allo squadrismo, alle camicie nere, all’olio di ricino, alla brutalità repressiva, quindi ignorando il suo più profondo contenuto, circoscritto ad una fase capitalistica e di scontro di classe che non esiste più nella forma in cui si pose un secolo fa – poi, ammesso e concesso che ne venga riconosciuta l’esistenza, c’è lo scontro di classe. Ogni fronte antifascista è fronte democratico, ogni fronte interclassista è fronte contro l’autonomia proletaria. «Il filone principale di queste ultime analisi, che solo impropriamente e molto riduttivamente possiamo definire di attualità politica, è quello che ci porta ai due scritti contro i quali hanno polemizzato i nostri ultimi interlocutori. In occasione della prima elezione di Trump abbiamo abbozzato un’ipotesi di massima, ancora oggi a mio avviso piuttosto buona per descrivere il presente: siamo di fronte a una fase che definiamo «crisi della globalizzazione», la cosiddetta ondata reazionaria che tanto spaventa i benpensanti di sinistra (Trump, Putin, Orban, i dazi, l’irrigidimento dei mercati, il razzismo e la chiusura delle frontiere) è espressione fenomenica di questa crisi; questa crisi è resa possibile dalle nuove tecnologie, le quali rendono relativamente più agile la produzione nelle economie sviluppate invertendo la dinamica creatasi durante la lunga stagione delle delocalizzazioni (nel frattempo anche i Paesi un tempo poveri sono diventati a capitalismo maturo, gli operai asiatici hanno cominciato a pretendere stipendi un po’ più decenti, ecc.); una parte del capitalismo occidentale dunque ha optato per il ritorno a casa propria degli investimenti, dandosi degli involucri politici (come il trumpismo) che facessero delle politiche (i dazi, per fare un esempio di recentissima attualità) atte allo scopo, mentre la vecchia élite politica liberale è inorridita e ha chiamato alla resistenza». Da tempo ci troviamo di fronte ad una crisi della globalizzazione, ma bisogna fare delle precisazioni utili non a trastullarsi il cervello con menate accademiche, come molti attivisti ostinatamente continuano a sostenere, ma a comprendere dove sta andando il modo di produzione capitalistico. Innanzitutto, il processo di globalizzazione, risposta alla crisi di accumulazione emersa sul finire della Golden Age, sin dal principio aveva fornito solo risposte parziali e niente affatto risolutive per il precario stato di salute del capitalismo. La globalizzazione inizialmente si configura come una vera e propria piattaforma di rilancio dell’accumulazione mondiale sostenuta dall’imperialismo finanziario del dollaro e dalla dilatazione della sua sfera d’influenza – resa possibile dalla fine degli accordi di Bretton Woods – all’intero globo. Contemporaneamente, si assiste al rapido sviluppo cinese, frutto del rapprochement sino-americano, accompagnato da un sostanziale calo della produttività industriale negli USA e dalla progressiva formazione di enormi bolle di capitale fittizio pronte a scoppiare, ecc; contraddizioni che sono andate inasprendosi, nonostante gli innumerevoli tentativi di arginarle, e che sono parzialmente deflagrate nella grande crisi finanziaria dei titoli subprime del 2008. Dire che la crisi in corso è resa possibile delle nuove tecnologie – una formuletta meccanicista che un buon anarchico dovrebbe sbattere in faccia ai suoi storici avversari, i ”socialisti scientifici” – è un’affermazione fumosa, se non si prende in causa il fenomeno della caduta tendenziale del saggio di profitto, quindi – essendo il capitale costretto a rivoluzionare continuamente i propri mezzi di produzione per fronteggiare la concorrenza in termini di produttività e costi – l’insieme di contraddizioni connesse al fenomeno della sostituzione macchinica della forza lavoro viva, per cui, riducendo all’osso: più capitale fisso = meno forza lavoro viva impiegata = meno estrazione di plusvalore = popolazione eccedente crescente = quantità crescenti di merci invendute, con tutto quello che ne consegue dal punto di vista dei mercati, del sistema monetario, del credito, della finanza, ecc. Se poi ce ne sbattiamo altamente dei più recenti, ormai ricorrenti e sistematici, tentativi di decoupling selettivo tra USA e Cina, del debito mondiale e, in particolar modo, di quello yankee; del fatto che gli stessi Stati Uniti fanno sempre più fatica, economicamente e militarmente, a sostenere la propria posizione di sbirro mondiale, della messa in discussione dell’egemonia del dollaro come valuta di riferimento per gli scambi internazionali, e tante altre cosette non da poco, allora la confusione è più che garantita. La crisi della globalizzazione non può quindi essere ridotta all’affermazione di nuove tecnologie nella sfera della produzione e della logistica. Sulla spaccatura politica interna ai grandi amministratori del capitale poi ci sarebbe molto altro da aggiungere, per esempio che il reshoring e i già citati tentativi di disaccoppiamento delle due più grandi economie – anche considerando la sola Cina, che non è poco, senza di essa gli USA non starebbero in piedi – stanno dando pochi risultati. Persino Biden e ”l’élite politica liberale” hanno dovuto raccogliere il lascito trumpiano rappresentato dall’inasprimento della guerra commerciale contro la Cina: un processo avviato formalmente nel 2018 con le tariffe su acciaio e alluminio, arrivate a colpire le importazioni cinesi per 370 miliardi di dollari, nonché su merci e componenti ad elevato contenuto tecnologico. Che vogliamo dire poi della reciproca dipendenza tecnologica tra le due potenze, che vede la Cina detenere quasi il monopolio delle terre rare, essenziali allo sviluppo delle moderne tecnologie e dei sistemi d’arma, con particolare riferimento all’IA – su cui si sta già giocando la partita decisiva, in vista dello scontro aperto tra i due colossi che va preparandosi, e che per ora è solo rimandato – e gli Stati Uniti la supremazia (ancora per quanto?) in materia di produzione di microprocessori e software più all’avanguardia? Insomma, il nodo delle tecnologie e delle materie prime rende evidente l’impossibilità di un disaccoppiamento totale delle due più grandi economie mondiali. Alle restrizioni statunitensi nell’esportazione di tecnologie avanzate la Cina risponde con restrizioni sull’esportazione di terre rare. Per il momento non è possibile parlare di un’inversione della globalizzazione, anche e soprattutto perché i tre processi fondamentali che la caratterizzano: catene globali del valore, logistica e apertura dei mercati mondiali persistono… scricchiolano, ma persistono. «La fase nichilista è la condizione in cui si trova la lotta di classe in questo momento. La lotta di classe non sparisce, ma viene rimossa, essa è inconsapevole, non cosciente, spesso derisa e maledetta, rinnegata dai suoi stessi attori. Ma non per questo scompare. La lotta di classe, per fare un parallelismo con la psicanalisi, viene rimossa, ma questo rimosso ritorna come una rimozione traumatica, continua a perturbare il sonno della pace sociale. Torna come sintomo, come nevrosi, come irrazionalismo di massa. La sua espressione principale per anni è stata nella forma sintomatica della resistenza di massa contro lo sviluppo scientifico» Per un panoramica, tutt’altro che esauriente, sulle determinazioni della lotta di classe internazionale contemporanea rimando al già citato Bussole impazzite. Mi limito a sottolineare alcune contraddizioni individuate nel testo. Inizialmente l’autore ci invita a diffidare delle lotte interclassiste, per poi sostenere che la resistenza di massa contro lo sviluppo scientifico coincide con la lotta di classe. Quest’ultima presuppone un certo grado di autonomia del polo proletario nello scontro col capitale e, stando a quanto si è verificato globalmente negli ultimi cinque anni durante le manifestazioni di opposizione allo sviluppo scientifico, come per esempio le lotte contro il green-pass e l’obbligo vaccinale anti-Covid in Europa, sarebbe del tutto falso, al di là delle valutazioni che possono essere fatte in merito a quelle stesse lotte, affermare che in esse la componente proletaria sia stata dominante e, men che meno, dotata di una propria autonomia sia in termini di obiettivi, se non in sparuti casi, che di organizzazione, ecc. Non a caso si trattava di classici esempi di lotte interclassiste. È vero, la lotta di classe non è mai pura, ma non la si può cercare nemmeno dove non è effettivamente presente. Rintracciare manifestazioni delle lotta di classe in tutto il mondo è, data l’autoevidenza di fenomeni difficilmente analizzabili nel dettaglio in questa sede, chiaramente possibile e necessario. Tuttavia, ciò che risulta essenziale evidenziare è che esse, oggi più che mai, sono direttamente legate alla crisi della riproduzione del proletariato e delle classi medie impoverite, quindi alla crisi della riproduzione del rapporto capitale-lavoro-popolazione eccedente. Il green-pass, per alcuni settori di proletariato europeo, come di classe media, ha costituito motivo di mobilitazione in primo luogo perché molto frequentemente il rifiuto della vaccinazione comportava immediate difficoltà nel mantenere un’occupazione relativamente stabile e portare a casa un salario che consentisse di sopravvivere in tempi di pandemia. Principi, etica, passione per la libertà, ecc, declinati in maniera più o meno democratoide, borghese o bottegaia – non si può negare che l’influsso ideologico delle mezze classi sia stato evidente – e molto più raramente libertaria, sono motivazioni secondarie. Un altro modo per dire che sotto il capitalismo, se sei un senza riserve, con le dichiarazioni di principio non ci fai uno stracazzo di niente, non ci paghi l’affitto, la spesa, le bollette, le rette per i tuoi figli, se puoi permetterti di averne, ecc. Bordiga, per cui emmeffe sembra avere un’incomprensibile passione, era solito ripetere che dai bei principi, dall’etica, dalle pure volontà individuali e dalla loro somma non può derivare quel fenomeno di ionizzazione sociale delle molecole proletarie, fattore necessario perché possa prodursi un violento scontro di classe generalizzato. Per il comunista partenopeo, la rivoluzione sociale non è un fatto tanto diverso dall’evoluzione della specie umana: prima la pancia, poi la mano, infine il cervello; una visione che poco si adatta al volontarismo anarchico, e che deve molto al metodo scientifico, pur essendo assai critica della scienza e delle teorie della conoscenza proprie della civiltà borghese. Per Bordiga l’ortodosso, non esisteva una mezza misura: il marxismo, concezione monistica del mondo e della realtà materiale, o si accettava in toto o non si era altro che dei ciarlatani. Inoltre, e qui concludo la parentesi sul primo segretario del PCd’I – difensore dell’anonimato e acerrimo nemico di quella che definiva la peste individualista, nettamente contrapposta al comunismo, che a sua volta non ha niente a che vedere col comunismo anarchico, non movimento reale ma ideale da realizzare, di cui parla il nostro autore – egli nutriva un sincero disprezzo per certo anarchismo, e per qualsiasi forma di ”proudhonismo”e idealismo. Avversario della bolscevizzazione e critico della cosiddetta degenerazione della Terza Internazionale, era fermamente convinto che il processo di autorganizzazione del proletariato in soviet dovesse essere comunque subordinato all’azione del partito di classe. Alla difesa dei meccanismi democratici opponeva la dittatura proletaria e il centralismo organico. Emmeffe, hai voglia a parlare di anarco-bordighismo! Tornando a noi, le lotte portate avanti tra il 2020 e il 2021 in una serie di fabbriche e magazzini in Italia per la chiusura degli stabilimenti, la tutela della propria salute, per imporre un’immediata diminuzione dei ritmi di lavoro e dei rischi di contagio, più pause per uscire all’aperto e respirare senza mascherina, ecc (cfr. AA.VV, Loco19, Colibrì), non si sono certo verificate a causa di un diffuso, consapevole o meno, sentimento di ribellione verso la scienza e la civiltà industriale. Se fosse stato così, la messa in questione della società industriale, della medicina, dei dispositivi di tracciamento, difficilmente sarebbe tornata in maniera repentina sui propri passi ad emergenza sanitaria rientrata. Fa specie allora che il nostro autore inviti i lettori a non cadere nel tranello che porta chi si fa eccessivamente condizionare dalle proprie convinzioni a cercare nelle manifestazioni di opposizione sociale e nelle lotte ciò che desidera ardentemente scorgervi. Negli USA l’assassinio di Floyd da parte degli sbirri – con gli effetti della pandemia che premevano duramente sul proletariato, soprattutto su quello razzializzato, sotto attacco da decenni, uniti alla disastrosa situazione sanitaria e sociale – ha fatto da detonatore ad un accumulo di fattori pronti a deflagrare nello scontro diretto con lo Stato. I risultati sono noti: prolungati disordini, sommosse, blocchi, attacchi a commissariati, stazione e mezzi di polizia, espropri, occupazioni di aree urbane sottratte al controllo delle autorità, saccheggi e rivolte tendenti a superare i confini etnici per acquisire contorni chiaramente classisti. Infatti, inizialmente il movimento aveva incontrato la solidarietà e la partecipazione attiva di consistenti fette di proletariato bianco – deluso e arrabbiato per le disattese aspettative di aumento dell’occupazione e reindustrializzazione delle aree depresse del Paese promosse da Trump nel 2016 – e latinos; solo in un secondo momento, con il recupero operato dal variegato monnezzaio post-moderno, ha acquisito tratti identitari, democratoidi ed infine elettorali. La rabbia della popolazione ghettizzata, delle lavoratrici e dei lavoratori essenziali, spesso occupati in occupazioni e mansioni richiedenti livelli minimi di specializzazione, ha fatto da catalizzatore e ha trascinato altre fette di proletariato, anche quelle con qualche ”garanzia” in più, fino alle classi medie proletarizzate e in via di rapida proletarizzazione. Sarebbe impossibile poi elencare e riassumere le caratteristiche delle rivolte, definite dai media, piuttosto superficialmente (ma che vuoi mai), della GenZ, avvenute in tutto il mondo nel 2025, figuriamoci durante gli ultimi cinque anni. La scienza e la tecnologia però non sembrano essere stati affatto al centro di tutti questi episodi. Toccherà forse tirare fuori l’inconscio freudiano? «La fase nichilista di cui parliamo noi avviene in un contesto storico nel quale il dibattito pubblico è scisso fra la corrente sovranista e quella liberista del capitale, e oltretutto dove la scienza ha fatto passi giganteschi in termini di espulsione di forza lavoro, di controllo, di rimbecillimento. Il nostro anonimo interlocutore continua a ripetere che in quel che accade non c’è nessuna svolta, «ma è frutto di quella ristrutturazione permanente […] iniziata negli anni Settanta»; mi sembra una puntualizzazione sterile, perché di ogni fenomeno storico è dimostrabile la provenienza da un altro fenomeno storico del passato (peraltro contiene almeno un equivoco, dato che il compagno parla di «delocalizzazioni» mentre la fase nichilista di cui parliamo noi inizia appunto con la crisi della globalizzazione). Eppure negli anni Settanta – per favore compagni non prendiamoci per i fondelli – per quanto vi raccontavate di essere brutti, sporchi e cattivi, vi era comunque una geografia politica dentro la quale il partito comunista era meno peggio della democrazia cristiana e la democrazia cristiana era meno peggio dei neofascisti. Nella fase nichilista, viceversa, non esistono più i partiti riformisti di classe». Partendo da una brevissima sintesi dello stato attuale della globalizzazione, si è visto come essa abbia subito un rallentamento, di cui le politiche protezioniste, il ristagno degli accordi commerciali multilaterali, la restrizione degli investimenti diretti esteri a livello produttivo rappresentano solo alcune manifestazioni. Il contesto storico presente non è fondamentalmente caratterizzato dallo scontro politico tra sovranismo e liberismo, come sostiene il nostro autore. Tale contrapposizione, al massimo, è riflesso delle contraddizioni, brevemente presentate sopra e realmente centrali, di un modo di produzione capitalistico che, in alcune aree del pianeta più di altre, soprattutto in Occidente, versa in condizioni particolarmente difficili; tali da far pensare, nel medio-lungo termine, ad una disarticolazione parziale dell’attuale assetto geoeconomico e ad un’inevitabile riarticolazione del capitalismo mondiale. Il termine disarticolazione richiama senza dubbio l’emersione di fenomeni come le guerre commerciali e guerreggiate, simmetriche o meno, ma anche sconquassi sociali generalizzati, ovvero una ripresa della lotta di classe a varie latitudini passibile di sfuggire al controllo degli stati e delle classi dominanti. Bisogna però tenere presente che la globalizzazione non è una politica che si possa scegliere di abbracciare o abbandonare volontaristicamente – quelle che l’autore chiama élite sovraniste e liberali, i singoli amministratori del capitale, non dispongono delle forze per incidere politicamente su processi globali altamente complessi, sedimentati e ramificati – ma uno stadio del mercato mondiale come unità di produzione e circolazione di merci. Questo stadio, si è cercato di mostrarlo in poche righe, se certamente ha generato contraddizioni gigantesche tendenti a metterlo in questione nella sua totalità, non ha esaurito tutte le sue carte. Lo scontro politico tra élite di cui parla l’autore non va quindi assolutizzato. Le delocalizzazioni, contrariamente a quanto viene affermato in questo passaggio del testo, non sono affatto venute meno; anzi la tendenza degli ultimi decenni è riassumibile in un ulteriore processo di concentrazione e differenziazione di gerarchie e funzioni all’interno delle catene globali del valore, con paesi basati sull’esportazione di materie prime, paesi manifatturieri con larga disponibilità di forza lavoro a basso costo, paesi a manifattura avanzata, ma estremamente settorializzata e, infine, paesi caratterizzati da attività economica volta allo sviluppo di tecnologie e servizi all’avanguardia e ad alto contenuto tecnologico, perciò al vertice della gerarchia, ma comunque dipendenti dalle altre economie su più piani. Dunque, Emmeffe dà la globalizzazione per spacciata troppo presto. Per quanto riguarda la sua parentesi sugli anni Settanta, beh, non so di chi stia parlando, sono nato a PCI definitivamente morto da qualche anno. Ma l’anagrafe è noiosa tanto quanto l’autoreferenzialità, meglio concludere. «Quando dico che bisogna prestare attenzione ai movimenti populisti, se mi si consente un parallelismo storico tanto forzato quanto grandioso, io intendo che dovremmo spingere l’attuale populismo verso i suoi fallimenti, per aiutare la nascita di un nuovo movimento nichilista, prodromo del socialismo rivoluzionario del ventunesimo secolo. Sempre mia nonna diceva che il pane si fa con la farina che si ha, se vogliamo rivoluzionare la realtà dobbiamo partire, appunto, dalla realtà. In questo momento il populismo/nichilismo è l’espressione irrazionale e non cosciente (ovvero, incosciente!) della lotta di classe. L’unico modo in cui essa si esprime a livello di massa in Occidente» L’autore vorrebbe far risorgere un cadavere, quello del nichilismo russo della seconda metà dell’Ottocento, putrescente tanto quanto lo zarismo. Non è possibile sorvolare sul parallelismo con la situazione di un impero alla cui morte convivevano ancora almeno tre modi di produzione: feudale, asiatico e capitalistico, oltre a vestige di antichissimo comunismo, rilevabili nella comunità di villaggio o Obscina. La lotta di classe è una dinamica, invarianza storica all’interno delle società di classe, non una ricetta, una formula o un modello organizzativo trasponibile a piacimento, al di fuori del tempo e dello spazio, sulla base dei gusti personali, delle aspettative e dei principi etici. Le forme della lotta classe, le modalità di autorganizzazione degli sfruttati mutano perché è il modo di produzione a trasformarsi nel tempo e la classe dei senza riserve a scomporsi e ricomporsi in funzione di quelle. In questo senso, ciò che più conta è la spontaneità del proletariato: l’unica forza capace di dare corpo agli organismi dell’autonomia proletaria. La teoria rivoluzionaria ha il dovere di sintonizzarsi con questa spontaneità, laddove e quando emerga, senza illudersi di sostituirsi ad essa, pensando di bruciare tappe che non possono essere bruciate da individui singoli o gruppi, imboccando presunte scorciatoie che portano solo all’autoreferenzialità, all’autocompiacimento e all’autocelebrazione delle proprie gesta militanti, che si fa beffa della vigliaccheria e dell’attendismo degli schiavi sonnolenti. Che tale sintonizzazione sia finalizzata a prendere il controllo del movimento rivoluzionario onde dirigerlo, piuttosto che assecondarne l’autonoma spinta verso la trasformazione dei rapporti sociali che incatenano l’umanità intera è altra faccenda da affrontare necessariamente, quella dell’organizzazione rivoluzionaria.
Stile e lezioni di Pintor
Il mio rapporto con il gruppo storico del “manifesto” è stato altalenante, perché agli inizi degli anni ’60 le nostre posizioni di opposizione all’interno del Pci erano diverse, accomunate prevalentemente dalla critica della destra amendoliana, ma diverse nel giudizio su Togliatti e nella pratica oppositoria (io ero un “entrista”, figura archeologica imposta dal divieto di correnti organizzate dal basso). Comunque il mio apprendistato nella Fgci l’avevo fatto a “Nuova Generazione” sotto la direzione di Luciana Castellina e di un altro maestro eccezionale di giornalismo, Sandro Curzi. La frequentazione di Ingrao e della sinistra ingraiana veniva dunque da sé, con percorsi paralleli. Il rapporto era più facile con quelli che erano di poco più grandi di me e con Natoli, che per il ruolo politico tenuto a Roma aveva una grande capacità interlocutoria. Rossanda, in apparenza la più inavvicinabile per età, biografia “milanese” e statura intellettuale, aveva invece un’insaziabile curiosità per le idee nuove e per questi “giovani”, stimolando il dialogo e il confronto. Luigi Pintor aveva un carattere più riservato, al limite dell’ostico, ma l’ammiravo moltissimo come giornalista (allora dirigeva il quotidiano del Pci e fu fatto fuori da Alicata, che io consideravo quasi un nemico personale per le mie esperienze al “Contemporaneo”, a “Critica marxista” e sulle questioni ideologiche in generale (ebbe peraltro i suoi meriti resistenziali e prima ancora aveva sceneggiato Ossessione per Visconti). > Pintor, come Natoli, aveva fatto la resistenza antinazista nella Roma occupata > e questo conferiva loro, come ai gappisti di via Rasella, un’aura di rispetto > presso i ragazzi con le magliette a strisce che erano scesi in piazza contro > Tambroni nel 1960 immaginandosi di ripetere Porta San Paolo 1943. Vabbè, sono storie di altri tempi, in cielo volavano ancora gli pterodattili, mica i droni. Poco dopo tornammo tutti, volenti o nolenti, a respirare aria libera. Era arrivato il ’68 – e una mano al suo scoppio gliela avevamo data tutti ma l’evento ci sorpassava di gran lunga ed era internazionale – eravamo ormai fuori del Pci e con la successiva segmentazione (sciagurata ma inevitabile) del movimento in partitini ci trovammo agli estremi opposti dello spettro politico “sovversivo”. Il manifesto quotidiano restava però un punto di riferimento ineludibile e per tanti anni facevo il mio pellegrinaggio affabulatorio una volta a settimana a via Tomacelli, libreria e redazione, passando di stanza in stanza a salutare i compagni, fino a concludere con lunghe conversazioni, al piano e al bar di sotto, con Valentino Parlato – che non era il più “a sinistra” del gruppo, ma una fonte inesauribile di storie e mi raccontava anche della Libia, per me esotica, al punto che andai a vedere dall’esterno la sua casa di allora, quando andai a Tripoli da turista nel 2001, nella vecchia citta-giardino italiana. Anche allora non mi azzardavo a disturbare Pintor, il cui amore per la solitudine e l’avversione alle chiacchiere erano leggendari. Il mio periodo di maggior frequenza e scrittura al “manifesto”, cadde fra il 1988 e il 1991, quando Virno diventò redattore culturale e inaugurò un breve periodo sperimentale di resistenza non nostalgica all’ilare e tossica restaurazione degli anni ‘80. Rossanda chiamava ancora me e Paolo “i giovani”, anche se non lo eravamo più e un’intera generazione, la nostra, era stata massacrata, incarcerata o zittita. Al di là delle relazioni personali, spesso dettate da casualità e impulsi affettivi, resta il giudizio sul politico, sul maestro di stile giornalistico e naturalmente sullo scrittore, altrettanto essenziale e impegnato su un arco di emozioni e ricordi ben più profondi dalle miserie di cronaca su cui un editorialista è costretto a esprimere valutazioni. > Pintor era famoso, ben fuori della sua parte, per i corsivi fulminanti e > tutt’altro che d’occasione, tanto che in alcuni casi potrebbero essere > riproposti oggi tali e quali (su Israele, sulle allocuzioni ministeriali > sollecitanti la formazione di una coscienza alimentare nazionale, sullo > stillicidio degli infortuni sul lavoro). La forza dell’approccio di Pintor, espressa negli editoriali del “manifesto”, stava e resta nel suo tenere insieme la crisi del Pci (e metamorfosi susseguenti) con la dinamica dei movimenti, soprattutto dopo le rotture epocali del 1989 per il primo e del 1978 per i secondi, che facevano venir meno la dialettica, a volte malsana ma in fondo produttiva per cui una serie di istanze rivoluzionarie erano tradotte in importanti riforme negli anni ’70, con una tacita complicità bilaterale (almeno fino al 1977) al di là del dissidio strategico e dalla virulenza del linguaggio. Il muro della “fermezza” eretto dal Pci contro la componente terroristica post-sessantottina finì per tagliar fuori tutto lo spirito del movimento , che in maggioranza dal terrorismo era alieno, compresa l’eterogenea moltitudine che si radunò e si sciolse nel mitico convegno bolognese del 1977. In questa situazione Pci e movimenti si suicidarono ciascuno per conto suo, alla Bolognina e a via Fani. Il neoliberismo, una volta schiacciati i sovversivi (non senza l’aiuto dei riformisti), si dedicò a fagocitare i riformisti e poi a disperderli – il tutto in un contesto internazionale di riflusso in cui la caduta del Muro di Berlino sovradeterminava scioglimenti e rifusioni locali. Pintor non aveva nessuna nostalgia del Pci, pur essendo cresciuto proprio nella costruzione del Partito nuovo a partire dal 1943-1944, ma aveva capito che le periodiche insorgenze dal 1960, del 1968 e di tutti gli anni ’70 in polemica aspra con il Pci implicavano appunto la loro esistenza a sinistra di un corpaccione malandato che faceva opposizione e resistenza fisica ai vari comitati d’affari che la borghesia di volta in volta metteva su, con il sostegno Usa, per tenere insieme il Paese. > I movimenti potevano rifluire temporaneamente e il corpaccione mescolarsi alle > formule di governo, ma le distinzioni di fondo rimanevano e una certa idea di > “sinistra” restava in piedi, checché insinuassero certi estremisti che la > vedevano morta. Lo scioglimento del Pci, sulla scia del crollo del campo socialista e Est, cambia i termini del problema. Non possiamo neppure immaginare cosa avrebbe scritto Luigi del personale politico del Pd attuale sui campi larghe e stretti, ma più interessante è che il verdetto di morte del Pci (sotto il nome ormai di Pds) Pintor lo formula proprio nel momento di massimo fulgore post-Bolognina, durante la segreteria (1994-1998) e ancor più il governo (1998-1999 e 1999-2000) di Massimo d’Alema – eh già, di quel leader maximo che oggi spicca come un gigante in confronto ai piddini prostrati a Biden e von der Leyen. Ne scriveva il 2 giugno 2001: «Evidentemente Massimo D’Alema non ha alcuna intenzione di farsi da parte e neppure di ridimensionare se stesso. Pochi (o nessuno) peccano di modestia nel mondo politico di oggi, dove il leaderismo e l’aspirazione al primato prevalgono su ogni altra considerazione. Forse, nel suo caso, dipende anche dal carattere, da quel senso di superiorità che ha sempre ostentato senza mai spiegarne il fondamento biografico». Un cameo validissimo anche per le sue più recenti comparsate in Tv. Compresa la sua olimpica allergia all’autocritica per gli errori commessi in un periodo «difficile ma non sfavorevole», in cui ha insanamente coinvolto l’Italia nelle guerre balcaniche con il bombardamento di Belgrado del 1999 e con i rapporti amichevoli e subalterni con Condoleezza Rice in epoca successiva, da ministro degli Esteri del secondo governo Prodi. D‘Alema – sempre secondo Pintor – aveva leso «l’immagine stessa della sinistra, deprivata di ogni sensibilità sociale e divenuta ancella di tutto ciò che ha sempre combattuto nella sua lunga storia, degenerando fino all’elogio della guerra: che non è stata una necessità subita ma una occasione coltivata». E di ciò il Presidente non aveva mostrato allora «alcun turbamento» e, a dire il vero, non lo mostra neppure oggi, nelle pensose e brillanti interviste che rilascia irridendo giustamente alla miseria della politica corrente. E Pintor profetizza con assoluta puntualità: «Se i diessini superstiti prenderanno questa strada non avranno futuro e anche l’Ulivo ne patirà le conseguenze». > Riprendendo il tema, alla vigilia della morte, nel suo ultimo editoriale > dell’aprile 2003, Pintor afferma seccamente che «la sinistra italiana che > conosciamo è morta», sia essa quercia o margherita o ulivo, per subalternità > irreversibile «non solo alle politiche della destra ma al suo punto di vista e > alla sua mentalità nel quadro internazionale e interno». Il passaggio dall’altra parte si è compiuto nell’89, nel decennio successivo perdendo anche «la faccia e una fisionomia politica credibile». E neppure «facciamo molto affidamento sui movimenti dove una presenza e uno spirito della sinistra si manifestano. Ma non sono anche su scala internazionale una potenza adeguata». Con la seconda guerra del Golfo era tramontata l’illusione del movimento come seconda potenza mondiale e la politica abituale si era impadronita del movimento di Genova, soffocandolo con ben maggiore efficacia della repressione targata Berlusconi-Fini-De Gennaro.  Il mondo si è diviso in due parti per il sentire, ma non per l’agire, rispetto a cui i movimenti sono impotenti. E comunque questa spaccatura non segue più le linee divisive di un tempo: «Destra e sinistra sono formule superficiali e svanite che non segnano questo confine». E, alla fine della vita, Luigi Pintor suggerisce di sostituire a una bandiera una «pratica di vita», non un’organizzazione formale bensì una «formazione politica, religiosa. Individui ma non atomi, che si incontrano e riconoscono quasi d’istinto ed entrano in consonanza con naturalezza», – una moltitudine, ­vorremmo dire con termine che l’autore non usava – di “compagne e compagni” non gelosi di stretto riconoscimento ma «senza confini», propensi in tempi più lunghi di domani a «reinventare la vita» di cui il neoliberalismo ci priva giorno dopo giorno. Apocalittico? Pessimista? Disfattista? No, presa d’atto di una chiusura di ciclo. Però i movimenti sono sopravvissuti e si sono ripresi, dopo un letargo più che decennale, senza una dialettica con il sistema dei partiti (dissolto nell’astensionismo oggi maggioritario e nella perdita di progettualità),dunque oggettivamente indeboliti (e qui il pessimismo di Pintor ci aveva colto), ma definitivamente liberati dalla nostalgia di quella forma, incerti ed espansivi, in parte autonomi dei vincoli destinali della geopolitica. Una pagina bianca, chissà. La copertina è di Livio Senigalliesi/Archivio il manifesto. L’immagine è disponibile all’interno dello speciale “essenzialmente Pintor” distribuito da il manifesto SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Stile e lezioni di Pintor proviene da DINAMOpress.
Luigi Pintor: discontinuità della memoria generazionale
Dal primo giorno in cui ci siamo proposti di ricordare i cento anni dalla nascita di Luigi Pintor, io e altri compagni di lunghissima data, di quelli che la loro vita professionale e politica (e umana, aggiungerei) l’hanno trascorsa al fianco di Luigi, mi assedia una domanda: ne vale la pena? Ovviamente sì, mi sono risposto dopo il convegno di Cagliari, in settembre, e dopo il corso di formazione per giornalisti, in novembre a Roma. La partecipazione, l’interesse, i ragionamenti e sì, i ricordi, sono stati tali, e così calorosi da convincermi che di una “piazza Pintor”, come abbiamo battezzato l’incontro sardo e si chiamerà il prossimo, il 5 dicembre, alla Nuvola dell’Eur, a Roma, c’è proprio bisogno, almeno tra la gente della nostra età, o poco meno. Però un dubbio mi è rimasto e riguarda la faglia generazionale, tra noi sessantottini e i più giovani. In fondo, dalla morte di Luigi sono passati più di vent’anni, giusto una generazione. E poi, si sa, una faglia, o frattura, c’è sempre, e necessariamente, tra i vecchi e i giovani, come diceva Pirandello. Per esemplificare: quando andai in un liceo a raccontare un mio romanzo ambientato nel ’68 e chiesi: questo numero vi dice qualcosa?, un ragazzo alzò la mano e rispose: sì, nel 1968 è nata mia madre. E fui molto colpito quando, in viaggio a Berlino, andammo alla commemorazione di Rosa Luxemburg, migliaia di persone intorno alla sua tomba inventata perché il corpo di Rosa, assassinata dai gruppi di ex-militari nazionalisti che poi sarebbero diventati nazisti, non fu mai ritrovato. E c’erano moltissime ragazze e moltissimi ragazzi, quel giorno, nonostante il fallimento del regime comunista, anche in Germania. > Che cosa spingeva quelle ragazze e quei ragazzi a portare fiori e a mettere > bandiere rosse a un monumento abusivo, in tutti i sensi? E cosa aveva spinto noi, sessantottini, a coltivare, studiare, pezzi del comunismo, da Marx a Lenin, da Gramsci a Rosa Luxemburg, appunto, e moltissimo eccetera? Eppure eravamo noi, allora, i “nuovi”, molto eccentrici e deragliati dal marxismo-leninismo, libertari in tutto, al punto che uno di noi, studente ribelle, si diede fuoco in piazza San Venceslao, a Praga, per protestare contro i carri armati sovietici alla maniera dei bonzi vietnamiti che si opponevano all’invasione statunitense? Mi è capitato di vedere occhi smarriti o inespressivi di ragazze e ragazzi che sentivano nominare Pintor. Chi sarà mai? Non c’è niente di male, certo, ma in questo periodo non si può dire che siano indifferenti, le ragazze e i ragazzi. Le gigantesche manifestazioni femministe e quelle per la Palestina, la tenace opposizione alla distruzione della natura, tra le altre cose, mostrano che al di là della faglia generazionale c’è vita, e vivace. E su quale scia storica e culturale, esattamente o confusamente o in quale miscela, si addensano le intenzioni, lo spirito, il rifiuto della resa al mondo così com’è, spinge a manifestare, cercare nuovi simboli universali, come la bandiera palestinese, riunirsi, inventare nuovi linguaggi, creare occupazioni di scuole e la miriade di azioni che costituiscono la nebulosa della ribellione? Allora, a che serve la memoria di Pintor? Se riuscissimo, noi veterani, a far leggere loro qualcuno degli editoriali di Luigi, a cominciare dall’ultimo, che apre un orizzonte oltre il comunismo novecentesco, penso che avremmo compiuto il nostro dovere. Quando cominciammo a muoverci, alla fine dei Sessanta, nutrivamo quasi un culto della Resistenza e il 25 aprile divenne davvero, venticinque anni dopo la fine della guerra, un rito civile, un modo di dirsi che se l’hanno fatto loro lo possiamo fare anche noi. Una mattina mi son svegliato. La copertina è di Livio Senigalliesi/Archivio il manifesto. L’immagine è disponibile all’interno dello speciale “essenzialmente Pintor” distribuito da il manifesto SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Luigi Pintor: discontinuità della memoria generazionale proviene da DINAMOpress.
Migliaia in corteo a Messina: il Sud unito contro il Ponte sullo Stretto
Ancora una volta in migliaia abbiamo percorso le strade di Messina. Lo abbiamo fatto insieme a tante realtà del Sud con le quali condividiamo la decisione di difendere i nostri territori dalla furia devastatrice delle politiche coloniali ed estrattiviste. In questi giorni la governance del ponte ha subito un duro colpo, ma noi non ci facciamo illusioni. È possibile che tornino ancora, perché il dispositivo del ponte è uno strumento troppo succulento per il blocco sociale che lo sostiene. Noi ci saremo ancora, ma, soprattutto, continueremo la nostra lotta per rivendicare le risorse destinate al ponte affinché vengano soddisfatti I bisogni che i nostri territori esprimono. Abbiamo fatto un altro passo. Tantissime volte ci siamo ritrovati in questa piazza alla fine di un corteo no ponte. E siamo sempre stati in tanti. Sì, perché questo è sempre stato il movimento no ponte, un movimento di popolo, un movimento dal basso, un movimento di abitanti che vogliono decidere del proprio futuro. Questo è sempre stato il movimento no ponte, un luogo d’incontro per tutte le lotte territoriali. Oggi, collegati con la manifestazione che intanto si svolge a Roma, questo luogo è anche la Palestina. > Perché Gaza è oggi il nome comune di ogni ingiustizia e perché il progetto di > ricostruzione di Gaza è la manifestazione più feroce delle politiche > estrattiviste e coloniali di cui anche il ponte è espressione. Quelle stesse > politiche estrattiviste e coloniali che portano con sé morte e repressione, > repressione che colpisce i movimenti con arresti, multe, misure sempre più > restrittive della libertà di manifestare, Saremmo potuti venire in piazza convinti di dovere dare l’ultima spallata, convinti che, alla fine, un giudice metterà fine a questa follia e che ci preserverà dalla devastazione. Saremmo potuti venire in piazza convinti che fosse riconosciuta la ragionevolezza delle nostre argomentazioni, che, alla fine, le bugie hanno le gambe corte e la giustizia prevale sempre. Noi, però, abbiamo imparato che non è così. In tutti questi anni abbiamo imparato che la storia del ponte è fatta di un’alternanza di fasi e che a uno stop segue sempre una ripresa. Non è, d’altronde, solo la storia del ponte. È la storia delle grandi opere e avviene perché intorno alle grandi opere si forma un blocco sociale che si nutre delle risorse pubbliche. Per questo ci fidiamo così poco delle forze politiche, perché gli abbiamo visto cambiare opinione troppe volte. E anche quando si sono schierate per il no al ponte gli abbiamo visto usare troppo spesso un no condizionato. «Il nostro non è un no ideologico», dicono. E quale sarebbe il no ideologico? «Questo progetto non sta in piedi», dicono. E, se stesse in piedi, diventeremmo per quello a favore del ponte? Noi pensiamo, invece, che dalla storia del ponte bisogna uscire definitivamente. Il ponte non è emendabile, non esiste il ponte ecologico, non esiste il progetto che non impatta sul territorio, soprattutto non esiste un ponte che non sperpera enormi quantità di risorse pubbliche che andrebbero usate per la messa in sicurezza del territorio, per scuole, ospedali, reddito. Così come abbiamo scritto nell’appello “Il Sud unito contro il ponte”. * * di Flashmood …MA CHE COS’È QUESTO SUD? Potremmo partire dal dire che c’è sempre qualcuno più a Sud… nel piccolo e nel grande: a Messina, città del Sud, c’è una zona sud: quella che non ha la spiaggia più bella secondo il National Geographic, quella che nei decenni è stata sacrificata prima all’industria e poi al consumo, quella che non fa notizia, non esiste, non importa… e quella che, in qualche modo, è colpa di chi ci abita se ogni giorno è ancora là… Il Sud: il Sud dove manca il progresso (quella nozione circondata dalla nebbia che, come ricordavamo questa estate, anche nella teoria di chi ci governa dovrebbe essere tutt’altro da una grande opera inutile e impattante); il Sud dove manca la civiltà; il Sud dove manca la voglia di lavorare; il Sud dove manca la coscienza; il Sud dove manca la legalità. Ma non si sa perché a nessuno interessa che manchino (queste davvero) la sanità, la cultura, la cura per i territori, le basi per avere la libertà di decidere come vivere… E in questo contesto un po’ di spaesamento con qualche deriva razzista, noi, che siamo il Sud dell’Italia, guardiamo al Sud del Mediterraneo, al Nord Africa, per cercare alleati, amici, compagni; e loro, quelli del Nord dell’Africa, a loro volta guardano al Sud del Sahara, e forse si continua così fino al polo, chissà… Se fossimo (per dirne una) nei Balcani, o anche egiziani (strano ma vero), le nostre percezioni cambierebbero: non ci sentiremmo “a Sud” ma “a Est”; e allora potremmo dire che c’è sempre qualcuno più a Est (palestinesi, siriani, curdi, iracheni, iraniani, afgani e via dicendo…). E questo è già un primo paradosso. Il secondo paradosso è che negli ultimi anni è diventata palese una strana emigrazione di “progresso”: i meccanismi più beceri di estrazione di profitto sono arrivati, palesemente, al Nord: cantieri senza una fine, incompiute, opere pubbliche fatte coi piedi, ricatto occupazionale… Insomma: quelle cose che sono cose del Sud… E intanto, dall’altro versante, la “democrazia illiberale” (come la chiamano in tv per non allarmarci troppo), quella cosa dell’Est, si è palesata, senza più veli, a Ovest: repressione sempre più violenta, pene sempre più severe, giustizialismo sempre più cieco, un’emergenza eterna e l’idea che dietro ogni parola non conforme c’è un nemico. Repressione che in questi mesi ha colpito con arresti, multe e denunce le lotte contro il ponte e il ddl sicurezza, il movimento contro la guerra e solidale col popolo palestinese. > Sud, Nord, Est, Ovest… sono convenzioni per capire dove siamo su una cartina > geografica (che è a sua volta una convenzione) e vengono, da chi ha più > potere, usate come convenzioni anche per stabilire chi sta sopra e chi sta > sotto. Perché il sistema ha bisogno di qualcuno che sia sempre più in basso; > di qualcuno a cui manchi sempre qualcosa; di qualcuno a cui continuare a > togliere per poi dargli l’illusione di ricevere una grazia. Ma non sono le convenzioni stabilite da altri che possono definire chi siamo, che è indissolubilmente legato a dove scegliamo di essere, ai territori che decidiamo di vivere. E quindi, tornando alla domanda: che cos’è questo Sud? Quello che vogliamo che sia. Tutto quello che ha di potenziale nei nostri desideri. Il Sud può diventare, se lo vogliamo, un concetto intersezionale: non un modo per tracciare nuovi confini identitari, ma una parola collettiva che riunisce e rimanda a tutte le comunità e singolarità che ogni giorno, in ogni parte del mondo vengono ingannate, sfruttate, impoverite, tarpate, ignorate, bombardate, asfaltate e continuano a resistere. Il Sud, può essere la parola con cui immaginiamo, in un mondo che ci vorrebbe tutti uguali sotto i più uguali degli altri, una collettività delle differenze. * * di Flashmood CONVERGENZE E forse è per questo che siamo qua: se è vero (e, in fondo, è vero) che nessuno si salva da solo, vogliamo desiderare, insieme, un nuovo modo di resistere e di esistere; e andare in quella direzione. Ed è in risposta a tutto questo che oggi abbiamo dato vita a questo bellissimo spezzone, ampio e plurale, che ha riempito le strade di Messina e che si ritrova qui, con le tantissime di persone di questa piazza. Una piazza che mette al centro la lotta contro l’estrattivismo delle grandi opere, contro la devastazione di tutti i territori di tutti i Sud e che parte dalla necessaria urgenza della solidarietà tra tutte le comunità in lotta, ecco una piazza così, questa piazza non può che essere invasa dalla consapevolezza che tocca a noi adesso chiudere definitivamente la partita del ponte. Solo la nostra mobilitazione può far sì che i nostri territori smettano di essere ostaggio di un’opera già crollata su se stessa e che i 13 miliardi e mezzo di euro destinati al ponte vengano impiegati per realizzare scuole, ospedali, infrastrutture di mobilità sostenibile, messa in sicurezza idrogeologica e sismica, riammodernamento della rete idrica e tanto altro. Siamo chiare, siamo chiari: tocca a noi farlo. È una lotta che non possiamo, né vogliamo delegare. È una lotta delle persone, dei comitati, dei collettivi, dei movimenti, delle comunità – e nessuno se ne può appropriare. E il primo obiettivo per archiviare la questione ponte per noi è evidente: chiudere la Stretto di Messina SpA. Lo gridiamo forte a chi è al governo – a Meloni, Salvini, Tajani –, ma lo ricordiamo anche a chi ha avuto responsabilità di governo in passato e non lo ha fatto. Oggi alcuni di questi soggetti hanno manifestato per le strade di Messina, ma vogliamo essere chiare, e altrettanta chiarezza pretendiamo, con chi magari un giorno tornerà al governo del Paese: chiudere la Stretto di Messina SpA. Il problema non è solo il ponte di Salvini, il problema è il ponte in sé. * * di Flashmood Questa piazza chiama anche i governi regionali e locali a un’assunzione collettiva di responsabilità, perché non siamo disposte, e mai lo siamo state, a tollerare complicità più o meno aperte con questi progetti di saccheggio da parte di chi dovrebbe tutelare gli interessi dei territori in cui viviamo. E non possiamo che cominciare dal sindaco di Messina, Federico Basile, che chiamiamo, per l’ennesima volta, a prendere una posizione chiara e netta, a dirci se vuole assumere una iniziativa politica in difesa di Messina o contribuire a regalare la città a Webuild, in cambio di quattro spicci per le opere compensative. Questo spezzone, questa piazza, ci consegnano ancora una volta la piena consapevolezza che la lotta No ponte è molto più di una battaglia ambientale o locale. È il punto cruciale in cui i territori del Sud tornano a essere voce collettiva, tornano a mettere al centro se stessi, i propri bisogni, la propria dignità. No al ponte, ma, ancora di più, no a una classe politica che per anni ci ha trattato come territori di conquista, come luoghi da sfruttare e svuotare. > E allora lo ripetiamo, limpide e determinate, quello che vogliamo. Vogliamo > che i miliardi oggi destinati alla devastazione dei territori e alle armi > vengano invece investiti nei servizi essenziali e per la tutela dei diritti > fondamentali, dalla Palestina allo Stretto, passando per tutti gli altri Sud. > Vogliamo una sanità pubblica efficiente, capillare, di qualità. Vogliamo > infrastrutture davvero sostenibili, che uniscano persone e comunità, non che > le dividano. Vogliamo l’acqua nelle case, vogliamo scuole e ospedali che funzionino, vogliamo poter nascere, crescere e invecchiare con dignità, con servizi pubblici che non lascino indietro nessuno. Vogliamo poter scegliere: scegliere di restare o di partire, senza essere costrette a scappare. Vogliamo questo e molto di più. Dalla piazza di Messina, da questa piazza, nasce un’onda che non potrete fermare. Copertina e galleria di fotografie dal corteo a cura del collettivo Flashmood, che ringraziamo per la collaborazione. Il comunicato No Ponte è stato pubblicato sulla pagina facebook No Ponte. SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Migliaia in corteo a Messina: il Sud unito contro il Ponte sullo Stretto proviene da DINAMOpress.
Opuscolo sulla lotta contro Tap
Riceviamo e diffondiamo:  Segnaliamo la pubblicazione dell’opuscolo: Una storia. Il gasdotto TAP, l’aggressione a un territorio e l’esperienza di una lotta locale. Il Trans Adriatic Pipeline, segmento adriatico di un gasdotto che attraversa Asia ed Europa, è stato messo in funzione nel dicembre 2020. Questo equivale al fallimento della lotta contro la sua costruzione? Chi ha realizzato questo opuscolo è stato parte integrante di quella lotta vivendo notte e giorno la realtà del presidio nato nelle vicinanze del cantiere, partecipando attivamente alle assemblee, all’organizzazione delle iniziative, alle situazioni di contrapposizione e ai tanti momenti di socialità disorganizzata. Abbiamo raccolto un po’ dei materiali prodotti in quegli anni, tra manifesti, volantini e fogli periodici con cui abbiamo provato a diffondere le nostre idee, informare su ciò che stava accadendo, incoraggiare alla lotta. Aggiungendo alcuni spunti per ragionare su quali sono state le criticità e quali invece le pratiche, le argomentazioni e le idee che possono essere utili in altre circostanze, per continuare a lottare con perseveranza per strade, montagne e campagne che viviamo ogni giorno. L’intento è anche quello di raccontare quali sono state le dinamiche messe in campo dalla repressione, per combatterle al meglio in futuro. Un presupposto ci ha spinto all’epoca a mobilitarci: successo o fallimento non sarebbero stati i termini della nostra contrapposizione. E difatti lottare contro Tap non ci ha costretti a giocare sul suo stesso campo ma ci ha consentito di dissodare campi nuovi, quelli della complicità con individui che altrimenti mai avremmo conosciuto. Se questi sono ancora i nostri compagni allora vuol dire che quel campo era fertile. Infine, non volevamo lasciare l’ultima parola a giudici e tribunali. Oltre ai numerosi procedimenti penali “più piccoli” arrivati a conclusione, conseguenza delle molte denunce con cui la procura leccese ha cercato di fermare la lotta, va ricordato che anche i tre grossi processi imbastiti a partire dal 2020, che coinvolgono a vario titolo e in più circostanze una cinquantina di imputati con condanne previste dai quattro mesi ai due anni – manifestazione non autorizzata, accensioni pericolose, travisamento, danneggiamento, getto pericoloso di cose, violenza, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio, violazione del foglio di via, violenza e minaccia privata –, sono oramai nelle fasi conclusive. A chi vi è coinvolto, va tutta la nostra solidarietà. Per contatti e richieste: unastoria@autistiche.org Qui il PDF scaricabile: Una storia Tap – Web
L’Ecuador dice no a Noboa: bocciate in blocco le riforme del Presidente
Dopo mesi di tensioni, il 16 novembre il popolo ecuadoriano ha inviato un segnale inequivocabile al presidente Daniel Noboa: un netto quanto inaspettato “no” ai quattro quesiti del referendum costituzionale fortemente voluto dal Presidente. Si tratta della prima importante battuta di arresto per Noboa, che proprio in questi giorni celebra il suo secondo anno al potere. DALLE PROTESTE ALLE URNE: IL NETTO RIFIUTO ALL’AGENDA DI NOBOA Il presidente aveva indetto queste votazioni – le terze del 2025 e le settime in soli due anni – presentandole come una risposta urgente alla crisi multidimensionale che attanaglia il Paese, specialmente sul fronte sicurezza. Tuttavia, l’appuntamento elettorale è giunto nel mezzo di un clima molto teso, segnato dalle proteste popolari di settembre e ottobre contro le misure neoliberiste del governo, guidate dalla CONAIE (Confederación de Nacionalidades Indígenas de Ecuador). La mobilitazione, nata contro l’eliminazione dei sussidi al gasolio e il conseguente carovita, è stata repressa duramente: polizia e militari, inviati in massa a sedare le proteste, hanno risposto con un uso spropositato della forza, causando numerosi arresti, feriti e tre morti. Contestualmente, l’esecutivo ha promosso una criminalizzazione del dissenso, dipingendo le e i manifestanti come “terroristi”. A questo si sono aggiunti persecuzione e censura, procedimenti penali abusivi e il congelamento dei conti bancari a diverse organizzazioni e leader sociali. In questo contesto di frattura sociale e crescente autoritarismo, la mossa referendaria di Noboa si è rivelata controproducente, trasformando il voto in un giudizio politico sul suo operato, con la maggior parte dell’elettorato che ha giudicato i quesiti distanti dalle reali necessità del Paese. I QUATTRO NO CHE BOCCIANO LA RIFORMA COSTITUZIONALE Il risultato del Referendum, che ha colto di sorpresa molti osservatori, può essere letto come un rifiuto non solo delle specifiche proposte, ma dell’agenda generale del governo Noboa. L’esito è stato inequivocabile: il “no” ha prevalso largamente su tutta la linea. Il primo quesito, il più delicato in termini geopolitici, proponeva l’eliminazione del divieto costituzionale di installare basi militari straniere sul territorio nazionale. Il 60,8% dei votanti ha optato per il no, difendendo l’articolo 4 della Costituzione che definisce l’Ecuador come una «zona di pace». Alcuni hanno letto il voto come una decisione di proteggere la sovranità nazionale, allontanando le ombre dell’ingerenza statunitense, tristemente note in America Latina. Se avesse vinto il “sì”, gli USA avrebbero potuto riattivare presidi strategici come l’ex-base di Manta, sulla costa pacifica, fondamentale per le loro operazioni nella regione. Noboa, stretto alleato del presidente statunitense Donald Trump, aveva giustificato la misura come necessaria per la lotta al narcotraffico, problema cruciale per l’Ecuador e causa diretta dell’altissimo tasso di mortalità che colloca il Paese, un tempo uno dei più pacifici della regione, tra i primi posti al mondo nella triste classifica. Anche sugli altri fronti, i risultati sono stati chiari. Il 58,3% degli ecuadoriani ha respinto l’eliminazione dei finanziamenti pubblici ai partiti politici. La misura, presentata come un risparmio per lo Stato, è stata percepita come un rischio per la democrazia, che minacciava di limitare la partecipazione popolare rendendo la politica appannaggio esclusivo delle élite economiche. Un aspetto rilevante, considerando che lo stesso Noboa è erede di uno dei più grandi imperi economici del Paese. Il margine più stretto (53,7%) è stato registrato sulla riduzione dei parlamentari da 151 a 73. Il rifiuto ha impedito che la manovra, presentata come misura di austerità, potesse tradursi in una riduzione della rappresentanza democratica all’interno della Asamblea Nacional, favorendo un eccessivo accentramento di potere nelle mani di un esecutivo che ha già più volte manifestato insofferenza verso lo stato di diritto e la separazione dei poteri. Infine, il rifiuto più netto (61,8%) ha riguardato la proposta di convocare un’Assemblea Costituente che sarebbe stata incaricata di redigere una nuova Costituzione per sostituire quella del 2008, la cosiddetta Constitución de Montecristi, considerata una delle più importanti al mondo in materia di diritti. BUEN VIVIR, DIRITTI COLLETTIVI E DELLA NATURA: LA DIFESA DELLA COSTITUZIONE DEL 2008 In molti la chiamano “la costituzione correista” – in riferimento all’allora presidente Rafael Correa, figura divisiva ma fondamentale nella storia recente del Paese (2007-2017) – ma la Carta di Montecristi è molto di più, rappresentando la cristallizzazione giuridica di decenni di lotte dei movimenti indigeni e della società civile, soprattutto in difesa dei diritti indigeni e della natura. > La Carta ha inserito il concetto di Buen Vivir (Sumak Kawsay in kichwa), > letteralmente “Buon Vivere”: un paradigma alternativo di sviluppo che cerca > l’armonia tra le persone e la Pachamama (la Madre Terra), privilegiando il > benessere collettivo su quello individuale e ponendo l’accento sulla > dimensione spirituale, culturale e affettiva della vita, oltre alla > soddisfazione dei bisogni materiali. Un principio in netta contrapposizione > con la logica neoliberista promossa dall’attuale amministrazione. Altro pilastro è il riconoscimento della plurinazionalità, con il conferimento di diritti specifici alle diverse comunità, popoli e nazionalità (pueblos y nacionalidades) che abitano l’Ecuador. Spiccano l’autodeterminazione, il diritto al territorio ancestrale e, punto cruciale, il diritto alla Consulta Previa, Libera e Informata sui progetti che li coinvolgono, tra cui quelli di sfruttamento estrattivo. Il tentativo di Noboa di riformare la Costituzione poneva potenzialmente a rischio questi strumenti di partecipazione democratica e tutela del territorio, a favore dei progetti minerari e petroliferi che il governo intende promuovere. Infine, l’Ecuador è stato il primo Paese al mondo a riconoscere la Natura come soggetto di diritto (derechos de la naturaleza). Il “no” è servito a riconfermare queste tutele legali per fiumi, foreste ed ecosistemi, minacciati dall’agenda estrattivista. Per quanto l’applicazione reale di questi principi sia ancora imperfetta e spesso disattesa, la vittoria del “sì” avrebbe rischiato di smantellare un quadro giuridico unico al mondo, vanificando lotte decennali. LE RAGIONI CHE HANNO PORTATO AL NO Il risultato alle urne, con un’affluenza record dell’80% della popolazione (il voto è obbligatorio tra i 18 e i 64 anni), può essere letto come la prosecuzione elettorale della mobilitazione sociale che aveva infiammato l’Ecuador poche settimane prima, figlia a sua volta di un lungo e radicato processo di lotta popolare. I movimenti protagonisti dello sciopero nazionale (paro) avevano sospeso la protesta “fisica” per concentrare le risorse su una campagna in difesa dei diritti e della Costituzione, una strategia che sembra aver dato i suoi frutti. Ma cosa c’è dietro a un rifiuto così netto? Il “no” risponde a una lunga crisi multidimensionale e alla percezione che le ricette del governo siano state sostanzialmente inefficaci. In primis, sulla questione sicurezza, che rimane irrisolta e anzi continua a peggiorare, nonostante la propaganda ufficiale e la massiccia militarizzazione. I dati smentiscono la narrazione di successo dell’esecutivo: dal suo insediamento nel novembre 2023 all’ottobre 2025, si sono registrati 15.561 omicidi, con una media di 22 al giorno. A questo si somma una grave crisi sociale ed economica, segnata dal progressivo smantellamento dello stato sociale – evidente nella drastica riduzione dell’apparato statale, il disinvestimento nella sanità pubblica (cronica carenza di medicinali e beni di prima necessità negli ospedali) e nell’istruzione – oltre che dall’aumento del costo della vita. Si aggiunge poi il timore di una deriva autoritaria, alimentato anche dal lungo scontro con la Corte Costituzionale che, secondo il Presidente, avrebbe ostacolato molti dei suoi sforzi per combattere le bande criminali nel Paese e che egli stesso ha più volte definito «nemica del popolo». Infine, rilevanti sono stati i numerosi tentativi di indebolire i diritti indigeni e della natura. Tra questi, la controversa fusione nel luglio del 2025 del Ministero dell’Ambiente con quello dell’Energia e delle Attività Estrattive (che ha subordinato di fatto la tutela ecologica agli interessi minerari e petroliferi) e il mancato rispetto del referendum del 2023 che sancì lo stop allo sfruttamento petrolifero nel Parco Nazionale Yasuní, un’area amazzonica di inestimabile biodiversità e casa di popoli in isolamento volontario. Il chiaro risultato del voto segna il rigetto dell’agenda politica di Noboa, testimoniando che, nonostante il Presidente abbia goduto finora di una certa approvazione, gli ecuadoriani non hanno voluto consegnargli un “assegno in bianco” per riformare lo Stato. ALL’INDOMANI DEL VOTO Mentre l’esecutivo ha mantenuto un generico silenzio sulla strategia post-elettorale, il giorno successivo al voto Noboa ha proceduto a un drastico rimpasto di Gabinetto, allontanando sei ministri in un tentativo di ricalibrare la squadra dopo la sconfitta elettorale. Di contro, dal referendum escono rafforzati i movimenti di opposizione, in primis quelli sociali e indigeni, promotori delle proteste, come la CONAIE, che ha rivendicato la vittoria del popolo ecuadoriano, per cui il mese di paro nacional è stato fondamentale. Risultato molto favorevole anche per il principale partito di opposizione, Revolución Ciudadana, con Luisa González alla guida dei fedelissimi dell’ex-presidente Correa. González ha dichiarato che il “no” esprime il rifiuto popolare alla trasformazione dell’Ecuador in una estensione della «corporación Noboa», gestita come patrimonio privato del presidente e del suo gruppo economico. A catalizzare l’attenzione nazionale in questi ultimi giorni è soprattutto la condotta poco trasparente dell’esecutivo in materia di politica estera. La bocciatura delle basi militari straniere getta incertezza sul futuro delle relazioni tra l’Ecuador e gli USA (poco dopo la visita della segretaria alla Sicurezza, Kristi Noem) oltre a rallentare il piano riformista del Presidente. I rapporti però non sembrano essersi interrotti, anzi. Subito dopo la débâcle elettorale, Noboa si era recato negli Stati Uniti per un viaggio ufficiale di qualche giorno, la cui agenda era però rimasta confidenziale, generando polemiche all’interno della Asamblea e dell’opinione pubblica. Poco dopo, la Presidenza aveva annunciato un secondo viaggio negli USA a fine mese. La trasferta, inizialmente classificata come ufficiale, è stata poi ridefinita come «personale» tramite un decreto correttivo nel giro di poche ore. Questa mancanza di chiarezza, unita all’annuncio che il Presidente trascorrerà fuori dal Paese oltre 30 giorni (tra viaggi ufficiali e di carattere personale) tra fine novembre e gennaio, ha alimentato dubbi sull’attività presidenziale e polemiche da parte dell’opposizione e dell’opinione pubblica, che contestano la gestione di un esecutivo che si allontana dal Paese in piena crisi economica, sanitaria e di sicurezza. Solo il 29 novembre, nella prima intervista rilasciata dopo il referendum, Noboa ha ammesso che il voto è stato «uno scossone per i membri dell’Assemblea, i ministri e persino per il nostro movimento politico», promettendo però di insistere sulle riforme necessarie attraverso l’Assemblea o nuovi emendamenti, pur rispettando la volontà popolare. QUALI PROSPETTIVE PER IL NUEVO ECUADOR? Nonostante l’imponente campagna mediatica e il massiccio dispiegamento militare, il voto ha dimostrato che il Nuevo Ecuador proposto da Noboa non convince. Si mantiene invece vivo lo spirito di resistenza di un popolo che, malgrado provato dai lunghi anni di crisi, ha scelto di difendere una delle Costituzioni più avanzate al mondo. > Diversi attivisti e organizzazioni della società civile ricordano come il > risultato non debba essere visto come un traguardo, ma come un punto di > partenza. Per riflettere e organizzarsi, per continuare ad arginare il > progetto autoritario ed estrattivista, riaffermare la sovranità e proteggere i > diritti e i territori. Nel tempo si vedrà se il Governo saprà modificare la sua ricetta politica, ridefinendo le priorità e gli strumenti per ascoltare le istanze della popolazione, o se per l’Ecuador si prospetta un nuovo inasprimento della polarizzazione politica e della tensione sociale. La copertina è di Ronald Reascos SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo L’Ecuador dice no a Noboa: bocciate in blocco le riforme del Presidente proviene da DINAMOpress.
Le sfide della rivista “Teiko”: una bussola per orientarsi nel caos
“Una bussola per orientarsi nel caos sistemico del presente”: così si presenta sul sito la rivista Teiko, la cui ambizione emerge fin dal nome (un sostantivo giapponese traducibile con resistenza, uguale sia al femminile che al maschile) con cui il collettivo redazionale dichiara la propria intenzione di pensare nuove militanze: «Connettere voci e prospettive, dall’Italia ma guardando fin dall’inizio al mondo; costruire una cartografia del dominio e delle lotte e interpretarla politicamente; rilanciare lo sguardo dell’operaismo rivoluzionario coniugandolo e contaminandolo con altre tradizioni: sono queste alcune delle linee di ricerca che Teiko, con cadenza semestrale, cercherà di seguire». Abbiamo intervistato il collettivo redazionale per dare vita a un dialogo tra le due esperienze. Quale discussione vi ha spinto a dar vita a questo esperimento politico-editoriale? Come ha preso forma il collettivo redazionale che sostiene la rivista? Mettendola in un modo che potrebbe rischiare di risultare eccessivamente enfatico, ma che è assolutamente concreto: “Teiko” nasce dalla profonda inquietudine per il tempo storico che stiamo abitando – la crisi egemonica planetaria turbolenta, le guerre, il riscaldamento climatico, il genocidio a Gaza, e si potrebbe continuare…, e dalla passione politica che spinge a rovesciare l’inquietudine in possibilità di trasformazione. Più nel piccolo, la discussione che ha condotto verso questa nuova rivista è stata legata anche dal registrare una certa impasse nel mondo dei “movimenti” in Italia (e non solo). “Teiko” si propone infatti come uno stimolo all’approfondimento, alla discussione e riflessione, al rilancio di pratiche di inchiesta e di produzione di teoria politica radicale. Infine, nell’editoriale del numero Zero, a giugno, scrivevamo: «abbiamo avuto spesso la sensazione, negli ultimi anni, a una fase indecifrabile e violenta si contrapponesse – contrapponessimo – il deserto. [… Ma] la sensazione di vivere un momento di scarsa attivazione politica è frutto di un’erronea illusione». Come dire… Quanto successo a inizio autunno non può che rafforzare la necessità di cercare nuove lenti con le quali guardare il nostro tempo. Con l’idea di costruire dunque uno strumento utile a tracciare nuove coordinate politiche per una militanza da reinventare e a connettere, come indica il sottotitolo, soggetti, movimenti e conflitti, il collettivo redazionale si sta costituendo a partire da una serie di eventi elaborati dalla rete Euronomade nel corso del 2024, apertasi a nuovi contributi e con l’ottica di dare vita a un progetto autonomo. Il collettivo redazionale di Teiko è tuttora in divenire. Immaginiamo questo progetto come una processualità aperta, che si potrà strutturare di numero in numero e anche in base a come si muoveranno le condizioni nelle quali lottiamo. Dagli anni Sessanta fino all’inizio dei Duemila, la produzione di riviste nel movimento italiano è stata una delle vie principali attraverso cui si è sviluppato il dibattito critico (pensiamo ad esempio all’importanza che queste hanno avuto nella tradizione dell’operaismo). Cosa significa, oggi, riconnettersi a quella eredità e reinterpretarla nell’attuale scenario politico e sociale? Lo sfondo storico che richiamate è sicuramente parte della genealogia di “Teiko”, ma non ci interessa «rifare una rivista», come in passato, o simili. Diciamo che la nostra ricerca nasce piuttosto dal domandarsi come poter elaborare un equivalente funzionale di quello che sono state in passato le esperienze delle riviste di movimento. Una delle necessità che vediamo oggi è quella di provare a contribuire a dare vita a un nuovo “noi” da inventare, costruire, creare, riempiendo un vuoto politico e aprendo uno spazio inedito, in cui ricominciare da capo con l’ottica di elaborare strumenti per una nuova militanza politica. Per questo, la rivista nasce in Italia, ma proietta la sua analisi all’interno del contesto globale in tumultuosa trasformazione, connettendo voci e prospettive, nella consapevolezza che il contesto territoriale non può essere separato da quello globale, con tutte le sue dinamiche, le sue contraddizioni, i suoi laceranti conflitti. Con questa rivista non intendiamo solo cartografare queste voci e prospettive, ma provare a interpretare politicamente questa cartografia e a dare un orizzonte di senso che possa concretizzarsi nella costruzione di convergenze. Infine, giustamente indicate nell’inizio degli anni Duemila il momento in cui le sperimentazioni di riviste si concludono. Cos’è successo? Tantissime cose, ovviamente, ma almeno una può valere la pena menzionarla: il ruolo di Internet. Indymedia prima, la stagione dei “portali di movimento”, poi i social media, fino a oggi – tutto ciò ha ampiamente trasformato la concezione del come si comunica, si fa informazione, inchiesta, teoria, dibattito… Oggi, lo ripetiamo, non si tratta evidentemente di “tornare indietro” nello sperimentare un “ritorno alla carta” come soluzione, ma di ri-sperimentarsi provando a lavorare su più piani e strumenti. Una rivista cartacea in questo senso ci sembra un qualcosa sul provare a investire per connettere forme di dibattito, formazione, inchiesta, produzione teorica. A chi è indirizzata la rivista? Quali luoghi e pratiche immaginate per la circolazione di “Teiko” e per il suo incontro con chi legge? In che modo pensate che possa essere utilizzata – nei movimenti, negli spazi sociali, nei percorsi di ricerca e di formazione politica? Una prima risposta potrebbe seccamente dire che “Teiko“ si indirizza a compagne e compagni, alle militanze politiche, all’attivismo diffuso, a che agisce nei movimenti sociali. Ma ci rendiamo conto che sono tutte parole che devono oggi essere riqualificate. Possiamo quindi dire che “Teiko“ si rivolge a tutte le persone che vogliano provare a capire il tempo che viviamo, che siano alla ricerca di un pensiero critico e di un dibattito. Il proporre una “rivista militante” è anche, in altre parole, parte di una ricerca collettiva da compiere su quali sono oggi le traiettorie di soggettivazione, quali i possibili terreni di incontro tra generazioni politiche differenti. E questo incide anche sulla seconda domanda. Teiko si compone di un sito, dove è possibile scaricare liberamente i numeri e che funziona anche come laboratorio per altri tipi di contributi: abbiamo ad esempio lanciato una call per un’inchiesta collettiva sul recente movimento. Stiamo costruendo anche dei profili social, e ragionando su come poter valorizzare le singole specificità di questi differenti strumenti oltre al cartaceo. Rispetto a quest’ultimo aspetto, oggi non esistono reti di distribuzione autogestita a livello nazionale e per chi conosce il mondo dell’editoria proprio il tema della logistica e della distribuzione è oggi elemento dolente, tra l’emergere di colossi come Amazon e il ruolo spesso parassitario delle aziende di distribuzione. Anche questa è dunque per noi una nuova sfida, che potrà muoversi tra spazi sociali e librerie indipendenti, aule universitarie e percorsi di lotta che potranno avere interesse a usare lo strumento-“Teiko” nei modi che più potranno essere opportuni. Come dicevamo prima, pensiamo che la rivista si presti a numerosi utilizzi e si tratterà di co-costruirli assieme alle persone e le realtà collettive che possano avere interesse a cooperare con noi. Quali urgenze vi hanno portato a scegliere l’organizzazione come tema del numero Zero? È una parola importante, densa, segnata da equivoci e ideologismi: qual è la posta in gioco intorno all’organizzazione, anche alla luce dell’enorme ondata di mobilitazioni a sostegno della Palestina? Come dite, il tema del numero Zero possiamo dire che è stato immediatamente riqualificato da quanto successo tra metà settembre e metà ottobre per la Palestina. E ci pare che lo rilanci. Certo, il riferimento all’organizzazione è antico quanto la storia dei movimenti rivoluzionari, ma pensiamo si ripresenti sempre in modo inedito nel corso della storia, e quindi anche nel nostro presente. L’organizzazione è presentata come “enigma”, nel numero Zero, che abbiamo dunque strutturato come un’inchiesta su come tale tema si è presentato come problema negli ultimi 15 anni di lotte, conflitti, insurrezioni, scioperi, movimenti. Per questo abbiamo elaborato una cartografia che porta in luce una serie di nodi che sono appunto rinvenuti al mettine anche negli ultimi mesi. Qual è il rapporto tra dinamiche transnazionali dei movimenti e le loro determinazioni territoriali – guardando ad esempio a Ni Una Menos, alla Palestina globale, a Black Lives Matter, ai movimenti climatici, alle forme acampada-Occupy, ai riot e alla insurrezioni che hanno punteggiato gli scorsi quindi anni? Su questo si componeva la prima sezione della parte monografica della rivista, mentre la seconda ragionava di come sono mutate alcune “forme politiche”, tra autonomie (femminismi, zapatismo, Rojava, spazi sociali italiani), forme mutualistiche e di lotta come GKN, le trasformazioni del sindacalismo (confederale e di base), o anche nuovi partiti che sono emersi, studiando in particolare il caso de La France Insoumise. Ecco, ci pare urgente oggi ridiscutere collettivamente di come, ad esempio, si è posto il rapporto tra sciopero, blocco e marea nella mobilitazione palestinese, di come si sono determinate le interazioni tra sindacati, movimenti e istanze internazionaliste come la Flottilla, ma soprattutto per pensare come andare avanti, ora. Per chiudere, lasciateci dire che oltre alla sezione monografica di volta in volta dedicata a un tema, “Teiko” si compone anche di altre due sezioni: Rubriche (che contiene racconti di lotte e inchieste, dialoghi con pensatori e pensatrici o realtà collettive, ma anche pagine su arte, report di seminari e frammenti di memorie) e Materiali (dove raccogliamo recensioni a libri, serie tv, dischi musicali, mappe e interviste). Quali saranno i prossimi terreni di ricerca che immaginate di esplorare con la rivista? Il prossimo numero, in uscita a dicembre, si chiamerà “Mondi”. Laddove nel numero Zero abbiamo elaborato un’inchiesta e una cartografia planetaria delle lotte dell’ultimo quindicennio, qui intendiamo proporre un’altra mappa focalizzata in primo luogo sui processi e le dinamiche che “strutturano il mondo” nel capitalismo contemporaneo. La sezione monografica sarà composta di una dozzina di interventi e interviste che spaziano dal ruolo di guerra, finanza e digitale quali vettori del mondo contemporaneo a come si stanno trasformando le spazialità – spaziando dal Sudan all’America Latina, dal Sud Est asiatico agli Stati Uniti, con anche forme di inchiesta che portano in luce il ruolo di frizioni, resistenze e lotte nel comporre il mondo unico e fratturato di oggi. In linea con l’idea processuale e in divenire di “Teiko”, chi ha letto il numero Zero potrà notare numerose novità nel prossimo numero, sia a livello di grafica e formato che nella sua interazione con il sito e i social. E possiamo già anticipare che per il 2026 intendiamo procedere in un lavoro collettivo di ricerca e inchiesta procedendo nella costruzione di una “architettura” che di numero in numero possa erigere nuove bussole, assemblando sguardi, analisi, intuizioni, teorie, inchieste che dall’Italia continuino a guardare al mondo. In questa direzione, stiamo riflettendo su due macro-ambiti per il 2026, che in via preliminare possiamo etichettare come “territori” e “digitale”. Ci sembra infatti che questi due vettori siano già a più riprese emersi nel corso dei numeri Zero e Uno della rivista e che possano costruire una necessaria integrazione e approfondimento di come movimenti e lotte di oggi si riproducono, diffondono, confliggono. La copertina è di Loke_Artemis da Pixabay SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Le sfide della rivista “Teiko”: una bussola per orientarsi nel caos proviene da DINAMOpress.