Tag - Movimenti

La geografia sa da che parte stare?
Articolo di Gaia Florese Gambase Di solito si pensa che lo studio della geografia sia limitato a memorizzare le capitali internazionali e a identificare le coltivazioni di barbabietole da zucchero. Nonostante, sin dai banchi di scuola, la disciplina venga presentata perlopiù in questo modo, a livello scientifico la geografia si occupa in realtà di temi diversi e complessi, come le relazioni fra i fenomeni sociali e i territori, l’educazione ambientale, le catene globali del valore, le disuguaglianze socio-spaziali, le riconfigurazioni urbane e rurali nei processi globali, o il ruolo delle dinamiche economiche e geopolitiche. Tuttavia, come disciplina moderna, la geografia è stata soprattutto uno strumento coloniale e militare per l’Occidente, sia attraverso la ragione cartografica, sia attraverso la costruzione di una visione egemonica del mondo, per il controllo e il dominio dei territori. Se da una parte esiste un’ampia produzione scientifica di geografie critiche e decoloniali, dall’altra, la relazione tra geografia, potere e disegno del mondo continua a godere di ottima salute – un esempio, tra altri, gli accordi fra il Politecnico di Torino e l’agenzia europea Frontex per la produzione di materiale cartografico utile per monitorare le rotte migratorie. Questi approcci differenti alla disciplina sono entrati in conflitto tra loro durante il XXXIV Congresso Geografico Italiano, svoltosi a Torino tra il 3 e il 5 settembre. Se di solito questi eventi hanno carattere perlopiù istituzionale, questa edizione del Congresso è stata caratterizzata da una mobilitazione contro le scelte del comitato scientifico e organizzativo, che ha deciso di aprire il Congresso lasciando parola, tra altri, a Michael Storper, geografo esperto di disuguaglianze socio-spaziali che negli ultimi anni ha fatto parlare di sé per le sue posizioni in merito al genocidio a Gaza e alla solidarietà verso la Palestina.  L’ASSEMBLEA «NO COMPLICITY IN GENOCIDE»  È il 2024, il campus dell’Ucla (University of California – Los Angeles), viene occupato dalle acampadas animate dalle mobilitazioni studentesche in solidarietà alla Palestina. Un gruppo di oltre 300 persone del corpo docente afferenti all’Università statunitense, incluso Storper, firma una lettera che esprime una ferma condanna delle occupazioni studentesche, definendole terroristiche e «pro-Hamas». La stessa lettera contiene attacchi espliciti anche alla componente del corpo docente solidale con il movimento studentesco, e una netta critica al movimento Bds (Boycott, Disinvestment, and Sanctions), presentato come intrinsecamente violento, antisemita e lesivo della libertà di parola e di pensiero. Lo stesso docente risultava già firmatario di un appello del 2023 in cui si chiedeva all’Ateneo di prendere misure contro le prime iniziative in supporto alla Palestina, con argomentazioni simili a quelle appena elencate.  Agosto 2025. A poche settimane dal XXXIV Congresso Geografico Italiano, un gruppo di geografi e geografe – perlopiù persone precarie – venute a Torino per l’evento, vengono a conoscenza di queste informazioni. Il gruppo si riunisce sotto il nome di Assemblea Geografa per chiedere chiarimenti al comitato organizzatore del Congresso, sottolineando che affidare l’apertura dell’evento al professor Storper, durante il perpetuamento di un genocidio, rischia di trasmettere un messaggio politicamente e moralmente problematico. Lo stesso gruppo nota che, fra le Università di provenienza dei relatori e relatrici delle presentazioni, figura anche un’affiliazione alla Hebrew University of Jerusalem, nota per la sua complicità con il complesso militare-industriale israeliano. Come ampiamente documentato da numerose organizzazioni, l’Università ha infatti una storia profondamente intrecciata con l’occupazione militare israeliana. Il suo campus principale, sul Monte Scopus, si trova a Gerusalemme Est – territorio palestinese occupato illegalmente anche secondo il diritto internazionale – e parte del campus è stato ampliato dopo il 1967 su terre espropriate a famiglie palestinesi. Per questi motivi è stata indicata dalla Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel (Pacbi) come una delle istituzioni attivamente complici del sistema di occupazione, colonizzazione e apartheid. A questa richiesta di chiarimenti, il Comitato organizzatore risponde confermando l’invito al professor Storper e raddoppiando la sua presenza, con l’aggiunta della tavola rotonda Political activism and academic freedom in times of crisis, a cui invita una persona – preferibilmente precaria – in rappresentanza dell’Assemblea Geografa. Il processo collettivo, forte dell’adesione all’appello di oltre 100 persone partecipanti al Congresso, rifiuta la proposta di prendere parte alla tavola rotonda, ritenuta non orizzontale, squilibrata dal punto di vista delle relazioni di potere e fuori fuoco rispetto ai temi politici sollevati dal programma dell’evento. Ecco perché, in alternativa, si decide di disertare l’apertura del Congresso e la plenaria con la presenza di Storper convocando l’assemblea «No complicity in genocide».  L’intento di questa assemblea, introdotta da un intervento sui rapporti profondi e sempre più chiari tra Università e militarizzazione e da contributi di rappresentanti della campagna Bds, è stilare una mozione, in linea con altre associazioni scientifiche, affinché l’A.Ge.I (Associazione dei Geografi Italiani) applichi le linee guida del boicottaggio accademico e si dissoci da ogni complicità con il genocidio. Nel corso dell’assemblea, partecipata da oltre 150 persone, alcune di queste decidono di andare ad ascoltare la plenaria in cui era presente Storper e riportano, indignate, alcuni contenuti. In quell’aula, interrotto da qualche fischio, Storper rilascia dichiarazioni gravi. Come testimoniano alcune registrazioni, l’accademico ribadisce la sua adesione al contenuto delle lettere sopracitate; critica l’ossessione da parte dell’Occidente per i crimini di Israele, menzionando un doppio standard; tenta di delegittimare la solidarietà alla causa palestinese con argomentazioni deliranti riguardo al trattamento riservato da parte di Hamas alle persone queer. Queste dichiarazioni scatenano l’indignazione dell’Assemblea Geografa che, in modo spontaneo, chiama un’azione di contestazione nelle fasi conclusive del suo intervento. Alcune persone con striscioni irrompono nell’aula: al grido di «Palestina Libera» e «Fuori i sionisti dall’Università» si pone fine a un momento vergognoso. GEOGRAFIE CRITICHE E BOICOTTAGGIO ACCADEMICO Ma perché l’Associazione dei Geografi Italiani e il comitato scientifico del Congresso più importante della disciplina in Italia non sono riusciti a prendere una chiara e netta posizione rispetto al genocidio? Perché è servito un gruppo di persone, in maggioranza vulnerabili dal punto di vista lavorativo, per avanzare la richiesta minima di riconoscere come un genocidio ciò che avviene in Palestina per mano di Israele? Gli strumenti epistemologici non mancano. Tra questi, le numerosissime pubblicazioni e prese di posizioni scientifiche in merito, come quella dell’International Association of Genocide Scholars (Iags) che, con una risoluzione di agosto 2025, ha dichiarato che le politiche israeliane e le azioni a Gaza ricadono nella definizione legale di genocidio. Considerati i molteplici posizionamenti in merito, continuare a sostenere che la parola genocidio sia divisiva e possa generare opinioni contrastanti è grave e rimanda, in realtà, a nodi politici e di accumulo di potere all’interno dell’accademia contemporanea che si estendono ben oltre questo evento scientifico. In questo modo, la complicità accademica al genocidio non si esplica soltanto con il sostegno materiale, ma anche nella validazione epistemica di posizioni e figure come quella di Storper, cui si è deciso di affidare l’apertura di un congresso scientifico. Nel panorama dell’accademia contemporanea, infatti, si nota una profonda reticenza a sostituire – o trasformare – i termini del potere scientifico con quelli del posizionamento politico. Se da una parte abbiamo assistito all’emergere di «saperi critici» e al loro affermarsi dentro i quadri di finanziamento del ministero nazionale e comunitario, dall’altra questa dimensione critica rimane estremamente vuota di contenuti quando si tratta di prendere un posizionamento politico, o di trasformare le modalità e i luoghi stessi attraverso i quali si costruisce conoscenza. Quindi, nonostante l’impianto accademico di stampo conservatore, positivista e neutrale sia stato superato a livello scientifico, l’impianto istituzionale che supporta la ricerca piega questi concetti a logiche di mercato, in linea con la crescente aziendalizzazione dell’Università neoliberale che delegittima i saperi critici, soprattutto fra le scienze sociali, seguendo l’agenda militare e industriale che co-finanzia tali progetti in linea con le agende internazionali sul riarmo.  Ecco perché non è un caso che la maggior parte delle mobilitazioni sul boicottaggio accademico emerga da chi rifiuta un modello di università antico e «critico» soltanto quando questo non significa perdere privilegi, sodalizi e finanziamenti. Il genocidio diventa allora un’opinione di cui dibattere attorno a una tavola rotonda, e chi porta avanti forme di boicottaggio e prese di posizioni radicali un promotore della censura della «libertà accademica».  Invece, in questo momento storico, il boicottaggio è uno degli  strumenti più potenti che, come accademiche, possiamo utilizzare per fare emergere i nodi di accumulo della militarizzazione progressiva della società, e per contestare la complicità del sapere accademico nel legittimare morte, guerra e colonialismi contemporanei.  Ciò che è avvenuto a Torino è uno spartiacque importante, di certo all’interno della disciplina geografica. Ha fatto emergere le gerarchie di potere, gli strumenti collettivi possibili per prendere posizione, ma anche il tipo di saperi e di Università che vogliamo costruire, vivere e attraversare in questo momento storico. Di certo, l’Assemblea Geografa non è sola in questo processo. Mentre la Global Sumud Flottilla sta percorrendo lo spazio marittimo costruendo contro-geografie di solidarietà e attraversamento, il 13 settembre si è tenuta a Roma l’assemblea «La conoscenza non marcia» per contrastare la militarizzazione di Università e scuole, a cui hanno aderito moltissime associazioni e collettività scientifiche che non vogliono rendersi complici del genocidio in corso.  Il duo di geografe Gibson-Graham si chiedeva: «In che modo il nostro lavoro può aprire nuove possibilità? Che tipo di mondo vogliamo contribuire a costruire? Quali possono essere gli effetti di un avanzare teorizzazione piuttosto che un’altra?» Di che tipo di Università vogliamo essere parte? Nel contesto del Congresso Geografico Italiano, chi ha preso parte alla mobilitazione ha deciso da che parte stare: quella del sapere critico e libero, ma soprattutto posizionato contro il genocidio. *Gaia Florese Gambase è l’anagramma di Assemblea Geografa, una firma collettiva scelta da chi scrive, da una parte per incorporare le forme di distribuzione collettiva di co-autorialità, dall’altra per scorporare forme di individualizzazione nel contesto accademico, e dai testi, e dai processi. L'articolo La geografia sa da che parte stare?  proviene da Jacobin Italia.
La Palestina vince La Vuelta
Articolo di Andrea Ponticelli, Gabriele Granato Molte persone reputano noiose le competizioni ciclistiche: troppo lunghe e colpi di scena da ricercare negli ultimi chilometri. Uno sport eccessivamente lento per la velocità dei nostri tempi. Eppure, nonostante l’opinione comune dei non appassionati sia questa, i grandi giri continuano ad attirare tantissimi fan che a bordo strada seguono e partecipano con la loro foga incitatrice alla corsa. Oltre gli appassionati però i grandi giri sono capaci di attirare anche persone scettiche ma affascinate dal passaggio per le strade della propria quotidianità, ciclisti professionisti provenienti da tutto il mondo; sportivi che hanno bisogno di attraversare queste strade per raggiungere il traguardo, la vittoria. Ed è così che si riesce ad attirare anche i profani: sfruttando il legame viscerale con le loro strade.  La beauté est dans la rue recita uno slogan del maggio del ‘68 francese, nato per sintetizzare che le rivolte per la bellezza, per un mondo diverso e più giusto, avessero come luogo naturale e di espressione la strada. In questa Vuelta a España il popolo spagnolo ha deciso di far capire che le strade sono di chi le vive, ossia del popolo solidale a quello palestinese. A poco è servito lo spettacolo del combattimento tra Joao Almeida e Jonas Vingegaard. il ritorno alla vittoria del francese David Gaudu alla terza tappa, gli sprint serrati che hanno visto primeggiare Jasper Philipsen e Mads Pedersen, le 6 tappe vinte dalla Uae Team Emirates – Xrg, il podio in bilico fino alla fine primeggiato proprio da Vingegaard. La bellezza che ci hanno offerto i corridori è stata totalmente offuscata dalle manifestazioni dirompenti degli attivisti e le attiviste pro-Pal.  Le manifestazioni, inizialmente percepite come episodi isolati, hanno assunto una portata crescente man mano che la corsa avanzava verso il nord della Spagna. Nelle città basche, storicamente sensibili alle questioni di autodeterminazione e di giustizia sociale, gruppi di attivisti e attiviste hanno occupato tratti di strada e zone d’arrivo per contestare il team Israel Premier-Tech, considerato simbolo di un legame diretto con lo Stato d’Israele in un momento segnato dal genocidio a Gaza.  Un gruppo di manifestanti, nel corso della cronosquadre di Figueres, aveva letteralmente costretto i corridori del team israeliano ad alzare i piedi dai pedali, occupando tutta la strada al momento del loro passaggio; a Bilbao, durante l’undicesima tappa, decine di manifestanti, armati di bandiere palestinesi e striscioni che recitavano «Free Palestine» e «Stop Israel Apartheid», hanno bloccato l’accesso al traguardo costringendo i giudici di gara a fermare ufficialmente il cronometro tre chilometri prima della linea prevista dell’arrivo. Immagini che hanno fatto, ben presto, il giro del mondo assieme a quelle degli attimi prima della partenza quando i rappresentanti dei corridori si erano riuniti per decidere sull’eventualità di chiedere alla Israel Premier-Tech di abbandonare la corsa.  Eventualità che il patron del team israeliano, Sylvan Adams, aveva categoricamente escluso incassando anche il plauso del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che sui propri social si era complimentato: «ottimo lavoro a Sylvan e alla squadra ciclistica israeliana per non aver ceduto all’odio e alle intimidazioni. Rendete orgoglioso Israele!». Nonostante quest’intransigenza verbale, il team – il giorno dopo – ha dovuto fare un passo indietro modificando la divisa ufficiale, rimuovendo il riferimento a Israele: «nell’interesse di dare priorità alla sicurezza dei nostri corridori e dell’intero gruppo Israel Premier-Tech ha fornito ai corridori una divisa con il monogramma della squadra per il resto della gara». La proprietà ha insistito che il cambiamento non fosse dettato da ragioni politiche ma solo da questioni di sicurezza, ribadendo che il team non rappresenta ufficialmente il governo israeliano. Tuttavia, la scelta è stata percepita come una resa simbolica: per molti attivisti, il gesto ha rappresentato una vittoria, mentre per i sostenitori del team israeliano è apparso un cedimento alle pressioni di piazza.  Una scelta che, ad ogni modo, non è servita a placare l’ondata di proteste. La sedicesima tappa, in Galizia, è stata ridotta di otto chilometri dopo che alcuni gruppi avevano annunciato, attraverso canali social, l’intenzione di bloccare la salita finale del Castro de Herville. La decisione di accorciare la tappa è arrivata in extremis, con la polizia che ha rafforzato i controlli lungo il percorso e ha utilizzato droni per monitorare i movimenti dei manifestanti. La cronometro di Valladolid, prevista sulla distanza di 27,2 chilometri, è stata drasticamente ridotta a meno della metà: una misura di sicurezza che ha suscitato polemiche, trasformando una prova chiave per la classifica generale in una frazione molto meno impegnativa, segnata più dalla solidarietà con la Palestina che dalla competizione sportiva. Così come la tappa conclusiva della Vuelta, con arrivo a Madrid, che addirittura è stata annullata (così come il cerimoniale della premiazione conclusiva) dopo che a 58 chilometri dalla conclusione un gruppo di manifestanti aveva invaso la strada portando il gruppo a spezzarsi e poi a fermarsi. Corsa che era ripresa per qualche centinaio di metri prima che i corridori fossero nuovamente costretti a fermarsi poiché nei pressi dell’arrivo era in corso una massiccia protesta che ha spinto gli organizzatori ad annullare definitivamente la tappa.  Le proteste che hanno spinto diversi corridori a esprimere pubblicamente la loro preoccupazione per la sicurezza, come già fatto nelle riunioni interne del peloton quando si era discusso della possibilità di un boicottaggio collettivo nei confronti del team israeliano se episodi del genere si fossero ripetuti. Ma ci sono state anche dichiarazioni che, in un certo qual modo, hanno dato sostegno e forza alle mobilitazioni come quelle del vincitore della Vuelta, Vingegaard, che parlando delle proteste lungo le strade ha affermato che «la gente lo fa per una ragione. Quello che sta succedendo a Gaza è terribile. Penso che chi protesta voglia farsi sentire, quindi forse dovrebbero essere i media a dare loro quella voce». Il dibattito che si è creato attorno alle proteste lungo le strade della Vuelta ha immediatamente oltrepassato i confini dello sport. La Vuelta si è trasformata in un’arena politica, una sorta di palcoscenico globale dove ogni gesto ha assunto un valore non solo simbolico ma anche concreto. Per i manifestanti, il team Israel Premier-Tech rappresenta il cosiddetto «sport-washing», cioè l’uso dello sport per ripulire l’immagine di governi o Stati accusati di violazioni dei diritti umani. Perché nonostante il team sia, formalmente, privato ha chiari ed evidenti legami con il governo israeliano e con quelle che sono le sue politiche.   Non è un caso che proteste simili erano già andate in scena negli altri due grandi giri del circuito Uci. Il Tour de France 2025 ha visto episodi analoghi, con manifestanti che hanno provato a interrompere una tappa vicino a Tolosa e tentato di bloccare il passaggio del gruppo in diverse occasioni. Al Giro d’Italia, le contestazioni sono state altrettanto dirompenti, da nord a sud, anche in ricordo della partenza del Giro 2018 da Gerusalemme, vista da molti come un endorsement alle politiche israeliane ed ennesimo esempio di sportwashing. La Vuelta di quest’anno, però, segna un salto di qualità nella portata delle proteste: il numero degli interventi delle forze dell’ordine, l’intensità delle azioni dimostrative e il coinvolgimento diretto delle autorità politiche la rendono un caso unico nella storia recente del ciclismo. Quest’edizione della corsa spagnola lascia quindi un’eredità che non deve essere dispersa: le mobilitazioni durante le grandi competizioni sportive internazionali possono essere fondamentali per spostare gli equilibri dei grandi e terribili eventi storici in corso. Aver costretto gli organizzatori a neutralizzare tappe, modificare percorsi e intervenire sull’immagine del team israeliano è la dimostrazione concreta che protestare e boicottare serve, e come se serve. Quello a cui abbiamo assistito nel corso di questa Vuelta è un precedente che deve pesare anche in futuro. Se oggi il ciclismo è stato chiamato a misurarsi con proteste organizzate e capillari, domani altri sport potrebbero trovarsi davanti alla stessa situazione. Sta al movimento di solidarietà con la Palestina renderlo nuovamente possibile.  Le ruote insanguinate dei complici del genocidio non macchieranno le nostre strade! *Andrea Ponticelli, attivista da più di dieci anni nelle lotte di Napoli e provincia, fa parte del progetto di Calcio&Rivoluzione di cui è tra i principali promotori. Gabriele Granato, attivista sociale, frequentatore di stadi e collezionista di t-shirt da gioco, è appassionato di sport e politica ed è tra i fondatori del progetto Calcio&Rivoluzione. L'articolo La Palestina vince La Vuelta proviene da Jacobin Italia.
Difendere le imprese recuperate, anche contro Milei
Articolo di Andrés Ruggeri Le imprese recuperate dai lavoratori argentini (Ert) rappresentano il movimento contemporaneo più emblematico di autogestione del lavoro, non solo in America latina ma a livello globale. Nate negli anni Novanta durante il boom del neoliberismo, hanno acquisito visibilità mondiale a partire dalla crisi argentina del 2001, con oltre un centinaio di occupazioni di fabbriche e imprese di ogni tipo. Attualmente, il movimento conta 400 cooperative di lavoratori in tutto il territorio argentino, dalle fabbriche industriali alle aziende alimentari e ai fornitori di servizi di ogni tipo, comprese scuole e ospedali. Circa 13.200 lavoratori e lavoratrici vivono del lavoro autogestito di queste aziende fallite e abbandonate dal capitale e rimesse in funzione grazie alla lotta, alla volontà e alla creatività dei loro operai e operaie. La comparsa delle imprese recuperate ha riportato al centro del dibattito della classe operaia e dei movimenti sociali argentini l’esperienza storica dell’autogestione, al di là del cooperativismo istituzionale e, grazie alla rilevanza internazionale del movimento, anche in molte altre parti del mondo. Questa esperienza è a rischio sotto il governo di estrema destra e ultraliberista di Javier Milei, che governa l’Argentina dal dicembre 2023. Le imprese recuperate rappresentano tutto ciò che Milei e il suo governo attaccano: un’esperienza collettiva, di gestione comunitaria e solidale, l’esatto contrario della giungla del mercato dominato dalle multinazionali che egli propone e in cui sta trasformando il paese. Il governo di Milei è un laboratorio di un progetto di «fascismo di mercato», che distrugge ogni tipo di regolamentazione pubblica che favorisce i diritti del popolo, attaccando in particolare la sanità, l’istruzione e i diritti dei lavoratori, portando l’industria locale al collasso e i redditi dei lavoratori al limite della sussistenza, mentre reprime ogni opposizione e allinea incondizionatamente l’Argentina ai governi di Donald Trump e Benjamin Netanyahu. Sebbene non sia l’unico paese al mondo governato da questa variante dell’estrema destra, è un pericoloso esempio da imitare, che cerca di dimostrare la fattibilità di un simile progetto attraverso un eventuale successo in un paese caratterizzato da un forte movimento sociale.  In particolare, l’esperienza delle imprese recuperate è messa a dura prova dalla distruzione economica che porta al calo della produzione e al crollo dei consumi, insieme all’aggressività del governo, dei giudici, dei media e all’avanzata della repressione. Una ventina di cooperative hanno chiuso a causa di questa situazione, mentre altre hanno registrato un calo dell’attività compreso tra il 20 e l’80% della loro capacità, con una media del 40% di calo produttivo, la perdita di circa mille posti di lavoro e una significativa perdita di reddito per il resto dei lavoratori. Preservare il meglio dell’esperienza autogestita mondiale, crediamo, non è solo una lotta valida in Argentina ma è molto importante per il movimento sociale mondiale.  LA SITUAZIONE DELLE IMPRESE RECUPERATE SOTTO IL GOVERNO MILEI Dall’insediamento del presidente Javier Milei e del suo partito La Libertad Avanza (Lla) nel dicembre 2023, l’Argentina sta attraversando un aggressivo processo di regressione sociale, politica ed economica che mira a ridurre lo Stato argentino a un’espressione minima che garantisca le regole economiche dell’ultraliberalismo, il controllo sociale e la repressione di ogni opposizione, la sottomissione alle politiche e agli interessi delle grandi multinazionali e l’allineamento incondizionato ai dettami delle potenze egemoniche occidentali. Le conseguenze di questo programma di governo sono evidenti nelle nuove regolamentazioni economiche (deregolamentazioni che favoriscono il capitale); nella riconfigurazione dello Stato nazionale; nel dominio dei mercati finanziari della speculazione basata sul debito estero; nell’apertura delle importazioni e nella conseguente accelerata distruzione dell’apparato industriale; nella promozione di attività estrattive per l’esportazione di risorse naturali ed energetiche nelle mani del capitale corporativo; l’abbandono della maggior parte dei programmi di protezione sociale e delle politiche pubbliche, in particolare in materia di sanità, alloggi e istruzione; e, infine, l’aggressività nei confronti della classe lavoratrice, con la perdita del potere d’acquisto dei salari e delle pensioni e l’aumento della disoccupazione.  La propaganda attraverso i media e i social network, ipertrofica nello schema politico dominante, cerca di contrastare questa situazione con il presunto calo dell’inflazione (sfruttando il ricordo del processo inflazionistico negli ultimi tempi del governo precedente e in altre fasi della storia recente dell’Argentina, e il confronto manipolato con l’esplosione inflazionistica provocata da questo stesso governo al momento dell’insediamento) e il dollaro a basso costo che favorisce i consumi dei settori ad alto reddito ed è parte essenziale del sistema di valorizzazione finanziaria basato sul debito estero.  Le imprese recuperate, in quanto processi di autogestione del lavoro emersi negli anni Novanta, si sono diffuse durante la crisi del 2001 e si sono consolidate durante i governi kirchneristi (2003-2015), rappresentando sin dalla loro nascita una manifestazione di resistenza alle politiche neoliberiste e alle loro conseguenze per la classe lavoratrice. Tuttavia, nella fase attuale si trovano in una situazione difficile, caratterizzata dalla crisi produttiva e dalla diminuzione della forza lavoro e, mentre, al contrario, la comparsa di nuove imprese recuperate è molto limitata ed estremamente difficile, segnando una grande differenza rispetto alle fasi di contrazione economica dei periodi precedenti.  Come in altre occasioni, le Ert sono, oltre alla loro situazione specifica, una finestra sul mondo produttivo che mostra caratteristiche a volte difficili da comprendere con altri mezzi, come è stato evidente durante il governo di Mauricio Macri (2015-2019), quando sono state proprio queste imprese autogestite le prime a mostrare la portata degli aumenti eccessivi delle tariffe dei servizi pubblici indispensabili per l’attività industriale. In questa occasione, le Ert ci mostrano in tutta la loro crudezza la distruzione delle catene produttive e il peggioramento delle condizioni del mondo del lavoro, ma soprattutto l’impatto dell’assenza di regole in economia attraverso la deregolamentazione promossa dal governo e l’irruzione della tecnologia digitale del capitalismo delle piattaforme.  Questa situazione influisce sul processo di recupero delle aziende fallite o in crisi da parte dei loro lavoratori in due modi. Da un lato, generando un impatto sulla produttività delle Ert attraverso la diversità dei lavori complementari che molti lavoratori (in misura variabile a seconda dei casi) sono costretti a svolgere per integrare i redditi ridotti ricevuti dalle cooperative a causa del calo dell’attività produttiva, e, dall’altro, scoraggiando la formazione di nuovi processi di recupero delle imprese, poiché offre una soluzione (reale o presunta) più rapida alla improvvisa mancanza di reddito causata dalla cessazione di un’unità produttiva, provocando in tal modo lo smantellamento dei collettivi di lavoro preesistenti nell’impresa in crisi. Questa situazione, che colpisce gran parte della classe lavoratrice argentina (sia quella che ancora gode di salari formali e diritti lavorativi, sia quella informale e precaria), conferisce a questo momento storico una caratteristica distintiva che non era presente nelle fasi precedenti.  Si tratta di una crisi dalle molteplici cause, provocata dalle politiche del governo di estrema destra, ma con radici nelle fasi precedenti. Sebbene esista un programma economico che distrugge la struttura produttiva legata al mercato interno e, in particolare, alla produzione industriale, a una velocità maggiore rispetto ai precedenti processi neoliberisti, esistono anche ragioni endogene che rendono insufficiente la risposta di molte delle Ert a tale situazione.  Le politiche portate avanti nei quattro anni del precedente governo peronista sono state, in questo senso, contraddittorie: mentre alcune iniziative tendevano a rafforzare la capacità produttiva delle imprese recuperate, altre aumentavano la dipendenza dei lavoratori dall’assistenza permanente dello Stato in termini di reddito personale, incoraggiando indirettamente il deterioramento delle condizioni di produzione (o, in altre parole, sostituendo in questo modo l’incentivo e il sostegno in termini di risorse al miglioramento dei processi produttivi e all’inserimento nelle reti di commercializzazione). Il governo di Milei, erroneamente definito «libertario», ha cancellato tutte queste politiche, insieme alla distruzione della maggior parte delle azioni statali destinate alla protezione sociale e alla garanzia dei diritti della classe lavoratrice. L’impatto di questa riformulazione dello Stato argentino è stato enorme e ha generato un effetto di mancanza di protezione in quelle fabbriche che avevano problemi produttivi o tecnologici per affrontare la concorrenza delle imprese capitalistiche tradizionali, o che avevano contratti con lo Stato per la fornitura di servizi o materiali. Allo stesso tempo, si sta delineando una situazione che riguarda l’intera classe lavoratrice. L’emergere di modi alternativi di generare reddito attraverso il capitalismo delle piattaforme o il commercio digitale, tra gli altri lavori temporanei, fa sì che la lotta per recuperare le imprese appaia come un mezzo meno necessario (e senza risultati garantiti o tempi prevedibili) per la sopravvivenza quotidiana, o persino per il mantenimento di un’attività economica autogestita. Il risultato della combinazione di queste percezioni e situazioni specifiche nella vita della classe lavoratrice è eterogeneo e si ripercuote sia sulla vita interna delle Ert (con la ricerca di opportunità di lavoro complementari o la perdita di lavoratori), generando difficoltà produttive e gestionali, sia scoraggiando la possibilità di nuove esperienze di recupero, verificatesi solo raramente dal dicembre 2023 e con enormi difficoltà. Nonostante tutto ciò, l’adesione dei settori popolari al governo della «motosega», cruciale per la sua ascesa al potere, sta mostrando segni di frattura, come dimostrano i recenti risultati elettorali nella provincia di Buenos Aires (che concentra il 40% della popolazione e il grosso dell’attività industriale), con una sconfitta catastrofica per il governo, insieme alla crescita di proteste, scioperi e occupazioni. Il governo di estrema destra sta iniziando a entrare nella zona di incertezza in cui si scontra con i limiti della tolleranza sociale per le proprie politiche e deve scegliere tra rafforzare il suo percorso autoritario o prepararsi alla ritirata. Questo è il momento più delicato, in cui la crisi sociale e persino umanitaria si aggraverà, la repressione aumenterà, e così anche la solidarietà, l’organizzazione e la lotta della popolazione. Per le aziende recuperate, si tratta da un lato di lottare per la sopravvivenza e, dall’altro, di sostenere i nuovi processi di autogestione che senza dubbio inizieranno a emergere man mano che le speranze intorno a Milei e alle sue politiche svaniranno. IL RUOLO DELLA SOLIDARIETÀ INTERNAZIONALE Per tutte queste ragioni, crediamo che la situazione delle imprese recuperate e autogestite debba essere portata in primo piano e attirare maggiore attenzione da parte delle organizzazioni di base, sia all’interno che all’esterno dell’Argentina. Il ruolo della solidarietà internazionale deve essere rilanciato per preservare un movimento che genera non solo lotta, ma anche speranza che un altro modo di produrre e vivere sia possibile e auspicabile, in un mondo sempre più carente di esempi da difendere e seguire. Le imprese recuperate sono importanti per riflettere una realtà che richiede la sopravvivenza dell’autogestione come strumento per la classe operaia, sia per combattere la disoccupazione e la chiusura delle fonti di produzione, sia per formulare relazioni di lavoro più umane e trasformative rispetto alle convenzionali relazioni capitale-lavoro nell’economia capitalista. Ma anche perché le imprese autogestite, in quanto rappresentanti ultime dell’essenza collettiva del lavoro e della produzione, sono forse la manifestazione ultima di ciò che il presidente ha ripetutamente definito «collettivismo maledetto». Per queste ragioni, a nostro avviso, la situazione delle Ert è di enorme importanza. Per questo, diverse organizzazioni e personalità di diversi paesi, in gran parte – ma non esclusivamente – partecipanti alla rete Economia Internazionale dei Lavoratori e Lavoratori, hanno deciso di allinearsi al Comitato Internazionale di Solidarietà con l’Autogestione in Argentina, con l’obiettivo di collaborare a sostegno del movimento, tanto nella diffusione delle sue azioni e nelle campagne di solidarietà attive per aiutare l’organizzazione dell’Argentina quanto nella circolazione dei suoi prodotti, come forma di visibilità e di aiuto economico, in diversi paesi del mondo, veicolando l’esempio del lavoro e della produzione senza padroni. In questo comitato ci sono già rappresentanti di organizzazioni autogestionarie e operaie di vari paesi europei (come Spagna, Italia, Francia, Germania e Grecia), dell’America del Nord (Canada e Stati Uniti) e, ovviamente, dell’America Latina.  Questo sostegno è fondamentale e ogni volta più importante quanto più si avvicina il momento difficile e inevitabile dell’esplosione di un modello invivibile per i popoli, quando, più che mai, l’incoraggiamento e la solidarietà internazionale diventano una carta fondamentale, come è stato in molti altri momenti della storia della classe mondiale.  Per ulteriori adesioni all’appello: solidaridadERT@proton.me. Per maggiori Info: https://solidaridadautiogestion.noblogs.org. Per aderire e proporre azioni alle realtà italiane si può scrivere a 1871internazionale@gmail.com.  *Andrés Ruggeri è antropologo presso la Facoltà di Filosofia e lettere dell’università di Buenos Aires. Promotore degli incontri internazionali dell’Economia dei lavoratori e delle lavoratrici è autore tra l’altro di Le fabbriche recuperate (Alegre, 2014). La traduzione è a cura della redazione. L'articolo Difendere le imprese recuperate, anche contro Milei proviene da Jacobin Italia.
Il non senso di votare
Raúl Zibechi Quando il sistema politico si impegna affinché andiamo a votare, dobbiamo sospettare. Ma quando la possibilità di votare avviene in un paese la cui società si sta decomponendo in modo evidente, con risultati tremendi per la popolazione, dovremmo riflettere sull’utilità di mettere una scheda nell’urna. Il tema è il seguente, e la riflessione […]
«Basta con l’economia di guerra»
Articolo di Ferdinando Pezzopane, Giorgio De Girolamo «Se veramente perdiamo il contatto con José e con gli altri, se si mette male per loro, si mette male per tutti», ci ribadisce Riccardo Rudino, portuale del Calp di Genova, che non cambia una virgola dell’impegno preso dal palco della grande manifestazione genovese in sostegno alla Global Sumud Flotilla (Gsf) del 30 agosto scorso. Nella storia i lavoratori portuali più volte hanno incrociato le braccia in solidarietà alle lotte di resistenza dei popoli, bloccando le merci, ma anche diventando protagonisti dell’invio di beni di prima necessità. Due episodi, tra i molti, restituiscono questa storia di antimilitarismo e solidarietà internazionalista: nel 1962 a San Francisco l’International Longshore Warehouse Union (Ilwu) impegnata contro l’Apartheid boicottò le partenze di navi verso il Sud Africa, mentre sempre a Genova, quasi 10 anni dopo, nel 1973 partì la nave Australe carica di cibo verso il Vietnam, ancora coinvolta nella guerra di resistenza contro l’invasore americano.  Il Calp nel 2019 è riuscito per la prima volta dalla sua nascita a bloccare una nave carica di armamenti verso l’Arabia Saudita, la Bahri Yanbu. Il messaggio? Essere solidali con i popoli oppressi e al fianco della loro resistenza. Da allora non si sono più fermati e ai loro appelli hanno aderito le realtà più disparate, dal pacifismo cattolico di Pax Christi agli anarchici, contribuendo a scrivere una pagina di successo della convergenza antimilitarista del nostro paese. Intanto però l’economia e la logistica della morte hanno accelerato. Ma con le guerre e con il genocidio in corso il fronte del porto ha continuato a essere vivo, con blocchi sempre più partecipati contro le navi cariche di materiale bellico verso Israele. Come a fine luglio,  quando il Calp, insieme ai solidali, è riuscito a far rinunciare Cosco al transito di armi dal porto ligure, rispedendo così la merce a Singapore, da dove era partita. Queste attività non sono passate inosservate agli occhi della repressione e sono valse ai portuali inchieste per «interruzione di pubblico servizio», «attentato alla merce», e finanche «associazione a delinquere», poi archiviate. I portuali questa volta però non sono impegnati solo in blocchi, ma partecipi dell’organizzazione della più grande missione umanitaria dal basso verso Gaza, per rompere l’assedio: la Global Sumud Flotilla (Gsf). Non è la prima missione di questo tipo. Negli anni ci sono stati vari tentativi posti in essere dalle flottiglie, con alterni esiti. Tra il 2008 e il 2016 trentuno imbarcazioni provarono l’impresa, ma solo cinque furono in grado di aggirare il blocco navale che Israele impone illegalmente dal 2007. Nel 2010 le Forze di occupazione israeliane (Foi) attaccarono in acque internazionali la nave Mavi Marmara uccidendo dieci attivisti e ferendone dozzine. Da allora nessuna imbarcazione è mai riuscita a raggiungere la Palestina, venendo puntualmente abbordata dalle Foi in  acque internazionali e vedendo i propri equipaggi detenuti e successivamente deportati. Nel solo 2025 sono stati già quattro i tentativi di rompere l’assedio.  La partenza della missione, posticipata dal porto di Catania ancora di alcuni giorni rispetto alla data prevista del 7 settembre per coordinarsi con le partenze da altri paesi, sta alimentando un grande processo di solidarietà, indignazione e protesta nel paese. Dopo le grandi piazze di Genova e Catania, a Firenze, in migliaia giovedì hanno raccolto l’invito del Collettivo di Fabbrica – ex GKN a partecipare al nono Urlo per Gaza, per fare ancora rumore sul genocidio palestinese; a Venezia la mobilitazione continua dopo la grande manifestazione tenutasi una settimana fa in concomitanza con il Festival del Cinema; a Pisa, un corteo spontaneo ancora giovedì ha bloccato per un’ora la stazione ferroviaria lanciando un chiaro segnale al governo: «Se bloccano la missione, bloccheremo tutto». Anche i lavoratori portuali di Livorno hanno indetto insieme ad altre organizzazioni per venerdì una manifestazione a cui hanno partecipato migliaia di persone e che è entrata nel porto della città labronica. Una mobilitazione che sta riuscendo a generalizzarsi anche attraverso il contributo di piccoli centri periferici solitamente non toccati da questo tipo di agire collettivo.  Dell’impegno dei portuali di Genova nella missione della Gsf e, più in generale, delle possibilità di dare continuità a una lotta anche a forte trazione sindacale nelle prossime settimane abbiamo parlato con Riccardo Rudino, lavoratore portuale di Genova e membro del Calp, che lo scorso 30 agosto ha pronunciato uno tra i più incisivi, ascoltati e ripresi interventi di chiusura del corteo genovese. Perché avete deciso di imbarcarvi su una missione umanitaria, di passare dal blocco della logistica militare al tentativo di rompere un assedio? La risposta è semplice. La Gsf ha contattato sia Music for Peace che noi e ci hanno proposto questa operazione. Perché non farla? Il nostro compagno José ha deciso di imbarcarsi e noi abbiamo deciso ovviamente che gli avremmo dato tutto il nostro sostegno. Non lo facciamo per noi. Siamo al fianco dei popoli che soffrono, ora al fianco del popolo palestinese – che soffre da troppi anni – qualche anno fa al fianco del popolo yemenita e del Rojava bloccando i carichi di armi. Puntiamo ad aiutare i popoli che vogliono l’autodeterminazione e che combattono per la loro nazione e la loro vita. Nell’ultima settimana il clima è cambiato molto, la solidarietà alla Flotilla è aumentata. Non abbiamo ancora consegnato un chilo di farina a Gaza e la tensione è già altissima. In pochissimi giorni sono state raccolte 300 tonnellate di materiali. La manifestazione è stata un’ulteriore sorpresa, 40 mila persone reali, una manifestazione di contenuto, anche determinata, con parole importanti e anche la presenza della sindaca. Da lì si è messo in moto tutto, il sindacato che ha dato il suo appoggio e sta continuando a darlo, i portuali di altre città hanno dato sostegno e sono venuti a Genova. Noi abbiamo il supporto di città portuali di mezza Europa. Quello che abbiamo detto, ossia che faremo sciopero internazionale e che bloccheremo le armi, è realistico.  Tutto sta accelerando, in tanti modi, ma anche nel bene. Oggi la dichiarazione del sindaco di Ravenna [che, a seguito di un’inchiesta del il manifesto del 2 settembre scorso che ha portato alla luce il transito nel porto romagnolo di carichi di armi partiti dalla Repubblica Ceca e privi della necessaria autorizzazione, ha manifestato in una lettera al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini, la contrarietà e l’opposizione della città a essere complice del genocidio perpetrato da Israele contro il popolo palestinese, Ndr] l’ho trovata importantissima, la manifestazione di Catania con 15 mila persone in piazza è stata stupenda al pari di quella di Genova. So già per certo che allo sciopero generale che lanceremo aderiranno altri sindacati sia di base che confederali o pezzi di sindacati importanti, nazionali e anche internazionali.  Il 30 agosto ha segnato un passo importante per la mobilitazione in solidarietà al popolo palestinese. Negli ultimi anni avete riscontrato un salto di qualità nella partecipazione cittadina agli appelli dei portuali contro il transito di armi e in solidarietà con il popolo palestinese? Come si traduce, rispetto agli anni scorsi, in capacità concrete di mobilitazione e blocco? Vanno dette due cose importanti per quella manifestazione. Anzitutto il merito principale è di Music for Peace, che riesce a muovere un mondo molto vasto ed eterogeneo, poi anche noi abbiamo fatto la nostra parte come altre realtà genovesi. Ma il nostro contributo nei giorni prima della partenza non è stato nè più nè meno di quello che hanno dato tutti gli altri volontari. Abbiamo svuotato qualche camion e caricato le barche alla fine dei nostri turni di lavoro.  Secondo me siamo arrivati a un punto di rottura, e sulla solidarietà per il popolo palestinese si stanno innestando tante vertenze, per cui le persone non ne possono più dell’economia di guerra, di assistere al genocidio a Gaza. Secondo me si sono incrociate tante cose.  Genova sembra una città molto chiusa, polemica, ma quando decide di fare una cosa la fa; è sorniona, sembra assente ma in realtà guarda tutto e risponde sempre nel modo giusto, nella storia lo ha sempre fatto. Come il 30 giugno del 1960 quando i portuali, gli operai, i giovani e la città tutta scese in piazza contro la possibilità che si svolgesse a Genova il congresso del Movimento sociale italiano. Quell’esperienza di lotta portò alle dimissioni del governo democristiano di Fernando Tambroni. Noi oggi cerchiamo di interpretare al meglio quel sentimento antifascista e lo coniughiamo con l’anticolonialismo. Se le cose dovessero mettersi male per la Flotilla – anche se speriamo di no – la città tornerà a mobilitarsi e ne vedremo di tutti i colori. Durante la fiaccolata del 30 agosto avete ventilato l’ipotesi di un blocco totale dei porti europei. Negli ultimi giorni Adl Cobas Venezia insieme ai centri sociali del Nord-est si è detta disposta a bloccare il porto, alla loro dichiarazione è seguita quella di diversi collettivi universitari – dai Collettivi Autorganizzati Universitari di Napoli, Torino e Padova al Collettivo Autonomo Universitario di Bologna – pronti a bloccare le università. Se la Cgil da un lato sostiene l’iniziativa umanitaria, e chiama alla più ampia «mobilitazione contro la barbarie», sembra dall’altro ancora molto lontana dal prendere in considerazione l’indizione di uno sciopero generale contro il genocidio, che è stato invece già evocato dall’Usb e da altri sindacati di base. Quali interlocuzioni sono già in corso (sindacati confederali e di base, portuali, logistica, scuola, servizi) e quali alleanze ritenete decisive per rendere lo sciopero praticabile ed efficace? Adl Cobas Veneto, in particolare di Verona, è stato il primo che incontrammo anni fa uscendo da Genova per raccontare le nostre lotte contro la logistica delle armi che passa attraverso i porti. I nostri rapporti sindacali, con i compagni, sono sempre stati corretti con tutti. Poi magari su certe cose non siamo d’accordo, ma non è importante. I rapporti li manteniamo e ci sono. Nel movimento non ci vogliono tanti discorsi e tante cupole. Qui c’è una cosa da fare: difendere quei ragazzi che sono su quelle barche e aprire un canale umanitario permanente verso la popolazione di Gaza che porti al fatto che comincino a tornare i diritti, le leggi internazionali e cessi la guerra.  Come lo faremo noi ce l’abbiamo in testa. Abbiamo le idee abbastanza chiare. Al porto di Venezia, di Livorno, di Ravenna sapranno come fare e così in tutti i porti italiani ed europei. Nel lungo periodo vedremo come fare. Siamo anche in contemporanea con questa mezza rivoluzione che a partire dal 10 settembre vogliono fare in Francia. Già in questi giorni stiamo andando in diverse città d’Italia per ragionare sul da farsi. Soprattutto arriveremo all’assemblea generale di giovedì 11 settembre aperta a tutti al Cap (Circolo Autorità Portuale) e in quell’assemblea tutto sarà subordinato a cosa succede sulla Gsf. Potrebbe essere un’assemblea in cui condivideremo informazioni organizzative importanti, ma potrebbe anche già essere un momento in cui prendere iniziative di mobilitazione.  Avete parlato di un blocco dei porti a carattere internazionale: da ultimo in questi giorni è arrivato il sostegno e l’adesione a tale iniziativa da parte del principale sindacato dei lavoratori portuali di Barcellona. Ma voi siete anche parte di un Coordinamento internazionale dei lavoratori portuali. Quante e quali realtà fanno parte di questo coordinamento, che tipo di strumenti vi siete dati negli ultimi mesi dato l’intensificarsi del genocidio in atto e che tipo di contatti state avendo in questi giorni?   Il coordinamento internazionale dei lavoratori portuali è stato costruito anche con il contributo di Usb ed è nato il 28 febbraio scorso. Le realtà sindacali aderenti sono tante. Per il 26 e 27 settembre abbiamo lanciato un’assemblea del coordinamento internazionale a Genova dal quale è probabile che lanceremo lo sciopero internazionale e bisogna capire la Global Flotilla in che situazione sarà in quelle giornate. Ci saranno delegazioni da Grecia, Slovenia, Francia, i portuali marocchini di Tangeri e gli svedesi. Gli sloveni, per esempio, hanno detto che porteranno tre pullman di portuali: hanno mille lavoratori tutti iscritti allo stesso sindacato, e appoggiano completamente le mobilitazioni per la Palestina [la Slovenia è peraltro il primo paese europeo ad aver annunciato e realizzato un embargo sulle armi verso Israele Ndr]. Se diventerà una cosa immediata dipenderà da quella che sarà la situazione sulla Gsf, se sarà una cosa tranquilla allora lo sciopero internazionale avrà dei tempi più morbidi, mentre se la situazione della Gsf sarà drammatica allora i tempi accelereranno. Per questo la questione dei porti europei e non, anche dall’altra parte del Mediterraneo, ha un suo valore: il danno economico che si produrrebbe spingerebbe la rottura degli accordi commerciali con Israele.  *Giorgio De Girolamo è dottorando di ricerca in Diritto del lavoro presso l’Università di Trento, è attivo nei movimenti sociali e climatici, fa parte del collettivo Exploit – Pisa.  Ferdinando Pezzopane è studente di Scienze del governo presso l’Università degli Studi di Torino, fa parte del Collettivo di Comunicazione Chrono. L'articolo «Basta con l’economia di guerra» proviene da Jacobin Italia.
Blocchiamo tutto. Anche in Europa
Articolo di Salvatore Cannavò Secondo lo storico Fernand Braudel «fu un errore immenso per il socialismo europeo di allora non essere stato in grado di bloccare il conflitto». Ci si riferisce al 1914, un’era geologica fa, e la citazione è riportata nel bel volume di Gilles Vergnon Cambiare la vita? Storia del socialismo europeo dal 1875 a oggi.  Potrebbe sembrare un vezzo andare a recuperare quel dibattito storico di cui tutto ormai si sa, compresa la conseguenza della Grande guerra sull’implosione dell’Internazionale socialista nata a Parigi nel 1889, a un secolo esatto dalla grande rivoluzione francese. Se nei documenti iniziali dell’Internazionale la guerra non occupa alcun posto di rilievo, pochi anni dopo al congresso di Basilea del 1912 «invade l’agenda del congresso straordinario» convocato proprio per l’imminenza della guerra. L’idea condivisa pienamente è di fermarla all’insegna dello slogan «Proletari di tutti paesi unitevi», «Guerra alla guerra!». I socialisti appaiono unanimi nel giudizio drastico sulla guerra, intesa come strumento della competizione imperialistica tra gli Stati per la conquista dei mercati mondiali. Ma è condivisa anche l’idea che un’opposizione radicale alla guerra possa essere foriera di una rivoluzione, l’unica in grado di garantire la pace. L’impegno è di utilizzare ogni strumento possibile per arrivare all’obiettivo, ma quello che diviene centrale fin dal 1919, al congresso di Copenaghen, è «lo sciopero generale dei lavoratori soprattutto nelle industrie che forniscono alla guerra i suoi strumenti (armi, munizioni, trasporti)».  Incredibile come il passare del tempo non renda meno attuali alcune parole d’ordine. Lo sciopero generale occupa il centro della scena, quindi, ma subito si imbatte in una difficoltà inedita, poco compresa all’inizio, ma che costituirà la ragione di fondo dell’implosione socialista allo scoccare della Prima guerra mondiale. Saranno i delegati della tedesca Spd infatti a sollevare il problema della «desincronizzazione» dello sciopero con differenze di tempistica tra i vari paesi belligeranti. «Il paese che non sarebbe riuscito a organizzarlo [lo sciopero, ndr] avrebbe dato al proprio paese un vantaggio militare potenzialmente decisivo e avrebbe reso l’avversario politicamente ‘più avanzato’ una preda per l’invasione». Insomma, chi sciopera per primo avvantaggia il paese avversario, e alla fine i partiti socialisti decisero di stare ognuno con il proprio paese, il proprio governo, la propria borghesia, con i risultati che conosciamo. Il racconto è utile perché permette di tornare a ragionare su un’ipotesi di sciopero generale contro la guerra, non paese per paese, ma «sincronizzato» in tutta Europa. Stavolta non ci sono paesi europei schierati l’uno contro l’altro: l’unica obiezione potrebbe essere quella di indebolire l’Europa stessa di fronte all’invasione imminente di Mosca. Ma si tratta con tutta evidenza di un’obiezione risibile anche se, nel clima di corsa alla guerra, di riarmo certosino dell’Unione europea e di militarizzazione-repressione dei vari paesi d’Europa, l’argomento potrebbe essere speso davvero. Ma non sarebbe serio.  Quello che oggi l’Europa sta attraversando, di fronte a un’iniziativa militare della Russia in Ucraina che va certamente condannata e che costituisce una lesione del diritto internazionale, è una nuova costruzione politica che vuole farsi attorno al tema della guerra per creare quel collante, quella solidità interna e quel progetto unitario che altrimenti latita in ogni campo. C’è anche in molta classe dirigente europea, si veda in particolare il rapporto presentato da Mario Draghi, l’ipotesi-illusione che l’aumento delle spese militari, la solidificazione di un’industria militare europea e un’elasticità della spesa pubblica complessiva – il famoso «debito buono» che proprio Draghi ha ideato – possano costituire un volano positivo per la crescita economica in un continente che dalla fase post-Covid boccheggia su tutti i piani e arranca rispetto al protagonismo trumpiano e alla forza strutturale dei paesi dell’est asiatico. La guerra sta divenendo quindi l’orizzonte comune europeo e la sua centralità, oltre che gli storici calcoli geopolitici, comportano anche la non volontà dei paesi europei di prendere una posizione morale, o anche solo improntata al diritto internazionale, nei confronti del massacro di Israele verso il  popolo palestinese, quel genocidio che ormai nessun organismo internazionale indipendente ha più remore nel denunciare. A dare senso a un’ipotesi di sciopero generale, e che sia europeo, internazionale, aggiungiamo, sono stati ii portuali di Genova in occasione del corteo a fianco della Global Sumud Flotilla per Gaza del 31 agosto 2025: «Se anche solo per 20 minuti perdiamo il contatto con le nostre barche, noi blocchiamo tutta l’Europa, dal Porto di Genova non uscirà più nulla», ha detto il rappresentante del Calp (Collettivo autonomo lavoratori portuali) di Genova, pronunciando parole tanto nette quanto semplici e di ispirazione per qualsiasi sindacato europeo voglia davvero schierarsi a fianco di Gaza e contro la guerra. I portuali genovesi sono impegnati da settimane nella raccolta degli aiuti per Gaza: «Vogliamo dimostrare che il porto di Genova è un porto civile e non di guerra. Vogliamo mandare il segnale che non solo blocchiamo armamenti, ma portiamo anche fisicamente aiuti alla popolazione palestinese» hanno spiegato. La stessa sala, chiamata dei camalli, della Compagnia Unica a Genova è stata trasformata in magazzino per ospitare gli aiuti e squadre di portuali volontari hanno contribuito alla spedizione anche con mezzi e organizzazione. La parola d’ordine emersa nel vivo di una lotta e di un’azione di solidarietà internazionale – e anche nell’ambito di collettivi come i portuali che da sempre si distinguono per bloccare le navi che trasportano armi verso territori in guerra – dovrebbe diventare la parola d’ordine del sindacato europeo nonché delle forze di sinistra.  Ma al momento non sembra sia così. L’ultima volta che la Confederazione europea dei sindacati (Ces) ha proclamato un simile sciopero è stato il 14 marzo 2003, alla vigilia dell’attacco statunitense contro l’Iraq, in quella che è stata la guerra decisiva, nel nuovo secolo, per ridisegnare la mappa dei rapporti mondiali. Fu uno sciopero di soli 15 minuti a cui seguì una giornata di mobilitazione il 21 marzo, data di svolgimento del Consiglio europeo, in cui i sindacati manifestarono «non solo la difesa del modello sociale europeo ma anche la concreta mobilitazione per la pace e per l’Europa sociale».  Oggi non si parla nemmeno di questo, nemmeno di pochi minuti. Nel dibattito conosciuto della Ces non si fa cenno di iipotesi di mobilitazioni contro la guerra e solo la Cgil in Italia sembra impegnata sul serio su questo terreno. Eppure il sentimento di indignazione, per quello che sta accadendo a Gaza ovviamente, ma anche l’indifferenza o l’opposizione per l’aumento siderale delle spese militari deciso all’ultimo vertice Nato, indicano che esiste una volontà precisa per impedire che la guerra diventi la dominante dei prossimi anni. Certo, uno sciopero generale non si proclama per decreto, non si impone dall’alto. Si costruisce nel tempo, si discute a livello di base, si prepara con organismi unitari e plurali, tutte pratiche a cui siamo ormai poco abituati. Eppure il 10 settembre la Francia vivrà l’iniziativa del «Blocchiamo tutto» scaturita spontaneamente in ambiti sociali disparati, in parte eredità dei Gilet Gialli, in parte afferenti a forze della France insoumise o a forze diverse. Il sindacato e la sinistra hanno rilanciato la mobilitazione per il 18 settembre. In Italia la Cgil è già mobilitata per ottobre e comunque nel nostro paese esiste un calendario di manifestazioni d’autunno già molto ritmato (e forse affollato, con scarso coordinamento). La tensione verso mobilitazioni sociali c’è già, quello che sembra scarseggiare è una visione di insieme, uno sforzo di unità tra forze e opzioni diverse e la determinazione a individuare obiettivi unificanti ed emergenziali.  Il no al progetto di riarmo europeo, alla militarizzazione dei nostri paesi e delle nostre società, la condanna del massacro del popolo palestinese, l’opposizione alla guerra russa senza che questo significhi schierarsi con i progetti di riarmo europeo, sembrano dei punti decisivi. Se nascesse un movimento unitario, sovranazionale, che tramite la richiesta di uno sciopero generale europeo, la ponesse al centro, potremmo proporci di rimediare, per la prima volta dopo più di un secolo, al grave errore dell’Internazionale socialista del 1914. E anche di evitare che la guerra diventi di nuovo la stella polare di un capitalismo in cerca d’autore. *Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme). L'articolo Blocchiamo tutto. Anche in Europa proviene da Jacobin Italia.
Sentirsi parte di una narrazione a più voci
TRA MILLE DIFFICOLTÀ E CONTRADDIZIONI IL MONDO CONTADINO RACCOGLIE OGGI SEMPRE PIÙ ESPERIENZE DIVERSE DI RITORNO ALLA TERRA E DI CREAZIONE DI COMUNITÀ LEGATE ALL’AGRICOLTURA CONTADINA, COME PRATICHE CARICHE DI SENSO, RICCHE DI NUOVE E VECCHIE DOMANDE. QUESTO UNIVERSO È GIÀ IN GRADO DI INDICARE STRADE DI DISOBBEDIENZA, OFFRIRE SAPERI, ROMPERE L’INDIVIDUALISMO DELLA SOCIETÀ ATOMIZZATA. SI TRATTA PERÒ DI NON DIMENTICARE MAI CHE I CAMBIAMENTI CULTURALI NON AVVENGONO IN MESI O ANNI MA IN DECENNI E PER QUESTO QUALSIASI ECOSISTEMA DEVE RESTARE APERTO, MA SI TRATTA ANCHE DI NON DELEGITTIMARE, SCREDITARE, ISOLARE ESPERIENZE DIVERSE DALLA PROPRIA. ALCUNE RIFLESSIONI DALLA TRE GIORNI “STORIE E RESISTENZE CONTADINE” IN VAL PELLICE Raccolte d’autunno: Ortica per il pasto, Prugnolo-Sambuco&Biancospino per la composta. Foto di Daniela Di Bartolo -------------------------------------------------------------------------------- In giugno ho partecipato per un giorno e una notte all’incontro “Storie e resistenze contadine” in Val Pellice. Un luogo incantevole, una cornice bella e accogliente, fra uno spazio per le tende, un prato al centro che ospita un grande cerchio, un bellissimo torrente d’acqua fresca e cristallina che attraversa lo spazio comunitario quasi a rigenerarlo e a ricordare che nulla è fermo. E ancora: una cucina aperta e un operoso collettivo che sforna ottimo cibo, una spina di birra artigianale e un box di ottimo barbera a offerta libera stanno a ricordare che la fiducia è una pratica e un esercizio politico essenziale. Una comunità biodiversa si pone delle domande nella creazione di esperienze e pratiche di contadinanza a partire da una critica radicale al modello dominante che considera la città come il grande parassita, il mostro che tutto colonizza, tutto sussume, tutto mercifica, tutto intossica e abbruttisce fuori e dentro di noi. La critica alla città come fonte ed emblema del problema, contesto mortifico da lasciarsi alle spalle per dare vita ad altre forme di economia e di autonomia, a partire dalla cura della terra come cura di noi stessi e noi stesse e dall’autoproduzione di cibo, come primo passo di autosussistenza e autodeterminazione. Città come epicentro dell’inutile e del fittizio, che non risponde ad alcun bisgno se non a quello della sopravvivenza e delle perpetuazione del capitalismo. La città irradia modelli e gerarchie come fossero assiomi assoluti e immodificabili ed espande la dipendenza dal denaro e la cupidigia dell’accumulo come unica prospettiva che avviluppa tutto, a partire dal pensiero. Nella convivialità dell’incontro colpisce la presenza giovanile, che costituisce la maggioranza delle e dei presenti e l’eterogeneità dei partecipanti, tra chi da tempo lavora con la terra, chi si sta avvicinando, chi ne è affascinato e sta pensando a come lasciare la città, chi si muove in funzione di raccolte e lavori temporanei senza avere riferimenti fissi. C’è chi conduce piccole aziende agricole che di fatto sono piccole imprese, chi non ne vuole saperne di burocrazia e compromessi e si dedica a sviluppare progetti di sussistenza nell’informalità, chi in modo comunitario, chi in forma collettiva. Diverso anche il rapporto col denaro tra chi riceve contributi pubblici per portare avanti il proprio progetto e chi li rifiuta, chi ha contratto dei debiti per avere accesso a trattore e altre forme di tecnologia e vive fatiche e ansie legate a mole di lavoro, costi e debiti che allontanano dalle speranze originarie di una vita armonica e serena in natura e chi ha deciso di proseguire secondo un approccio rigorosamente low tech, vivendo diverse forme di fatiche. Una ragazza racconta il timore di lasciare la città e un lavoretto che le garantisce delle entrate certe anche solo per mantenersi una macchina e qualche minima tutela e certezza. Nella pluralità delle visioni e nell’apertura del confronto, un contadino della Val Pellice contesta il carattere antispecistico dato alla tre giorni e al relativo menu. La dimensione del rapporto con le bestie anche crudele ma non industriale fa parte dell’agricoltura, delle pratiche ancestrali e della storia dell’uomo (leggi anche ). Tra diversi racconti ed esperienze che esprimono soprattutto spinte embrionali e recenti tentativi di avvicinarsi alla terra, spiccano esperienze più solide, durature e con le idee chiare. Atelier Paysan con il suo articolatissimo lavoro “Liberare la terra dalle macchine” approfondisce nella storia i meccanismi politici, economici e culturali di espropriazione che hanno relegato il settore primario ai margini delle civiltà europee e denuncia le minacce e i pericoli di controproduttività insiti nell’agricoltura 4.0, dominata dall’alta tecnologia e dalla dipendenza da grandi capitali, dalla proprietà delle sementi e dai nuovi ogm. A fronte delle concrete minacce rivolte alla sovranità alimentare di tutti e tutte, Atelier Paysan propone la sfida di un ritorno diretto alla terra per un milione di contadini e del recupero delle pratiche, dei metodi e dei contenuti dell’educazione popolare per un cambiamento più profondo e integrale. Per la rivoluzione sociale sono necessarie alleanze e strategie con vari settori della popolazione, per cambiare i rapporti di forza a partire dal legame con la terra. Servono ecosistemi aperti e dinamici, non esistono isole felici: la comunità chiuse alla lunga implodono… Il livello e la portata della discussione si alza molto. A comprenderlo e reggerlo ci sono diversi contadini storici. Nonostante il Italia le realtà agricole, controllate da grandi organizzazioni di secondo livello molto colluse col sistema, stentino a dar vita a movimenti politici di massa, è rimasta viva dall’inizio del terzo millennio una rete di agricoltori che era riuscita nel 2013 a fare approvare una legge nazionale che definiva il concetto di “Contadinanza”, a protezione dalle politiche, dalle leggi e dalle normative che privilegiano le grandi imprese. L’impegno, seppur frastagliato, era quello di dar vita a cooperative territoriali integrali, che possano garantire sicurezza alimentare e sociale sui territori, con l’idea di uscire da una dimensione di minoritarietà e marginalità, per fondere i movimenti per i diritti politici e sindacali con quelli contadini, in nome della sovranità territoriale locale. Un tentativo che con molta fatica ha coinvolto circa 250 realtà agricole solo in Piemonte… A fronte di tante esperienze diverse e di nuove e vecchie domande quello che accomuna è vedere nel ritorno alla terra e nella creazione di comunità radicate nella terra una possibile via per resistere al dominio, e praticare sentieri generativi e in qualche modo carichi di senso, maggiore libertà e felicità mentre il futuro si fa sempre più tetro e il disastro intorno incombe. Accomuna il rifiuto di un mercato che penetra ogni ambito della vita in una escalation che porta inevitabilmente alla guerra, di un paesaggio dentro e fuori di noi che si uniforma, di un sistema normativo inibente e senza senso che atrofizza gusto e sensi, rende asettiche pratiche e relazioni e insapore il cibo, di un sistema di controllo che si articola in vari apparati e disegni concorrendo in modo coordinato alla devastazione. Espropriazione dell’acqua, della terra e della possibilità di coltivare e produrre cibo sono la prima forma di attacco e annichilimento, materiale e spirituale. In questo senso un pensiero non può che andare alla Palestina. In questo senso un movimento verso un ritorno reale alla terra pare l’unica forma di irriducibilità e resistenza. Nell’incontro emerge dunque la visione di un sistema totalitario e totalizzante che fa della mercificazione, dell’estrattivismo, del controllo e della paura le principali forme di dominio, dall’altra una molteplicità di esperienze e percorsi di lotta ed emancipazione a partire dal ritorno alla terra. In realtà quello che percepisco e che vorrei mettere in luce in questo testo è che il problema è non solo esterno ma anche interno al movimento. Il problema siamo anche noi. Mi riferisco, di fondo, a una mancanza di rispetto ai percorsi personali e collettivi. Quella biodiversità delle esperienze che sopra descrivevo, anziché essere un punto di forza diventa un terreno di conflitti, denigrazioni, screditamenti, diffamazioni, diaspore. Si erigono feudi per mettere in campo espressioni di narcisismo, edonismo, nichilismo per espiare drammi, fallimenti, frustrazioni, ambizioni e incapacità personali. Continuiamo a guardare, denunciare, colpevolizzare il nemico fuori senza riconoscere i limiti e blocchi che abbiamo dentro. “La mia o la nostra esperienza è sempre la più giusta, la più rivoluzionaria e radicale…”. Manca di fondo un’etica e una pratica fondata sul rispetto e il supporto ai percorsi altri. Uno dei principali ostacoli alla creazione di un movimento più allargato e al dipanarsi di alternative credibili è la tendenza interna ai movimenti di giudicare, delegittimare, screditare, isolare esperienze diverse dalla propria che rappresentano invece percorsi che ciascuno, secondo propri equilibri e sensibilità, intraprende per provare a vivere nel modo più libero e coerente possibile gestendo le proprie contraddizioni in una cornice oppressiva e in un momento storico deprimente ma proprio per questo colmo di domande e di possibili scelte radicali. In permacultura il concetto di omeostasi si riferisce alla capacità della natura di rafforzarsi e far fronte ai pericoli grazie alla capacita di creare relazioni tanto più solide quanto più agite da soggetti biodiversi. Noi facciamo esattamente il contrario e in questo modo ci indeboliamo. Si tratta invece di accogliere i precari equilibri e gli ecosistemi personali che ogni persona e realtà sta costruendo e di inventare forme creative di mutuo aiuto, fuori dal sistema e dal pensiero dominante. Evitare il reduzionismo che porta a vedere il mondo e le prospettive di cambiamento da un solo tema e angolatura, visto che tutto è collegato. Ciascuno di noi contiene moltitudine e si tratta di accettare che ognuno sceglie e riesce a gestire ambiti di antagonismo e radicalità e ambiti di negoziazione e convergenza perché non ne ha le forze o sente anche di impazzire e implodere nel combattere contro tutto e tutti. In qualche caso riesce ad agire senza denaro e secondo le pratiche che sente proprie dedicando tempo, energie e amore, in altri deve scendere a patti. Chi decide di occupare e chi ritiene aver più margine di azione tenendo aperto un circolo ARCI, chi decide di comprare la terra e chi valuta che la terra non può essere comprata, chi ritiene imprescindibile il rifiuto verso ogni pratica burocratica e chi decide di aprire una piccola impresa o cooperativa agricola per avere risorse per partire e riconoscersi un reddito, chi sceglie per la certificazione biologica e chi no… si tratta di porsi in una posizione di ascolto e apprendimento senza la pretesa di sentirsi più rivoluzionario e più radicale degli altri. Per essere più esplicito: si tratta di imparare a non romperci i coglioni e di perderci in quisquiglie e rivalità personali e di utilizzare tutte le energie a supportarci, a creare un ecosistema basato su rispetto e fiducia e una cornice versatile in cui tutti e tutte in diversi momenti possano trovare spazio e dare supporto, secondo una disciplina e delle pratiche condivise. Stefania Consigliere ci ricorda il valore della molteplicità. Siamo cresciuti nel dualismo dell’o/o, pro o contro, con me o contro di me invece dobbiamo imparare a ragionare con la categoria dell’e/e…. Più esperienze, più relazioni, più percorsi, più forme di intreccio, più esiti, più collaborazione. Di fondo più rispetto e supporto riconoscendo che non ci siano gerarchie ma nemmeno uniche certezze e verità o modelli validi per tutti. Servono disobbedienza, opposizione, massa critica, esperienze concrete che possano essere di riferimento. Servono saperi che rischiano di essere persi e depredati. Saperi tecnici legati alla natura e all’agricoltura ma anche saperi di base. Anche cooperare, come ci ricorda sempre Stefania Consigliere, è un sapere, una parte di noi da riprendere e coltivare in una società atomizzata che ha fatto dell’individualismo l’unica forma di sacralità fino a farci sentire tutti soli e divisi… Si tratta di interrogarsi sul lavoro: ripensare forme di lavoro basate sull’economia di sussistenza e centrate sul valore d’uso del nostro impegno e delle nostre relazioni di scambio e/o difendere i diritti conquistati dai nostri padri e nonni all’interno dei rapporti di lavoro salariato? Per quale approccio tendere considerando che ciascuno dei due approcci è portatore di un diverso modo di intendere il tempo, le relazioni, la proprietà? Si tratta di calibrare sforzi e fatiche legate al lavoro, stabilire un equilibrio nella gestione del tempo, mettendo al centro e calibrando il valore del limite e della misura che per ciascuno è soggettivo e diverso. Si tratta di provare a star bene ricostruendo un tessuto di relazioni resistenti, nella convivialità, secondo l’accezione di Ivan Illich, equiparando il più possibile mezzi e fini: liberarsi liberandosi! I cammini si tracciano camminando, caminando se hace il camino… Ma ci vuole tempo… Sempre Stefania Consigliere ci ricorda che i cambiamenti culturali non avvengono in mesi o anni ma in decenni. L’importante è che gli ecosistemi siano aperti nello sviluppo e nelle relazioni e che dibattito e confronto siano ricchi, generativi e trasformativi. Il potere si gongola della nostre divisioni, deride i nostri numeri, si beffa delle nostre fatiche ma non dorme sonni tranquilli quando sappiamo organizzarci, radicare delle pratiche e delle esperienze credibili che sappiano contaminare e avvicinare altri giovani (non a caso si discuteva a Monza come a Venaus come oggi i più giovani siano le principali vittime delle più severe repressioni, quasi in una logica preventiva e intimidatoria). Uno dei più grandi apprendimenti che possiamo acquisire oggi è l’importanza della centratura personale. La dimensione delle emozioni e dello spirito che aiutano nelle scelte. Forse non è tanto l’appartenenza alla classe, non sono gli slogan e le parole d’ordine di un movimento o di un’ideologia che ci portano a scelte e percorso coraggiosi ma è un profondo sentire personale, una connessione con se stessi, col pianeta, con la vita, col genius loci dei territori che abitiamo, le relazioni e le forme di armonia invisibili che ci legano agli altri, umani e non. Forse è questa parte del sentire, a volte estromessa dai movimenti più orientati a sensi di appartenenza basati su altre categorie e dimensioni, quella che può dare autenticità e profondità alle scelte e favorire tante contaminazioni liberatrici. Rassegnazione, disincanto, senso di inutilità sono tra le principali armi del potere per infondere passività, assuefazione e sottomissione. Come ci suggerisce Marco Deriu la rabbia non può essere l’unica emozione che ci muove. La rivolta passa dal reincanto del mondo, dal ritrovare meraviglia, gioia, magia, dal riappropriarsi della consapevolezza di sé, coltivando l’immaginazione del possibile. Sentirsi parte di una narrazione a più voci, che faccia del valore e della pratica della biodiversità il proprio paradigma, senza dover aderire a un modello monolitico o a delle certezze definitive e incontrovertibili da difendere, ci può aiutare a trovare lo spirito e il coraggio per affrontare sotto mille forme e prospettive l’attacco all’umano e al pianeta da cui insieme dobbiamo difenderci contrattaccando. La chiave della biodiversità ci può anche aiutare a vedere intorno a noi tanti e sempre nuovi possibili amici e alleati e a trovare nuove chiavi per interpretare incontri generativi ed esperienze significative come quelle vissute in Val Pellice. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Sentirsi parte di una narrazione a più voci proviene da Comune-info.