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Siamo ancora qui
LA GRANDI E DIFFUSE AZIONI INIZIATIVE NELLE PIAZZE PER LA PALESTINA DI OTTOBRE E NOVEMBRE DIMOSTRANO CHE LA MOBILITAZIONE NON È PER NULLA FINITA CON LA FALSA “PACE” DI TRUMP E CHE IL GENOCIDIO DEL POPOLO PALESTINESE HA SVELATO LA “NUOVA” LOGICA DELL’ORDINE GLOBALE, RIORGANIZZATA SEMPRE PIÙ ATTORNO ALLA GUERRA. MA QUELLE PROTESTE DICONO ANCHE CHE COLORO CHE SONO IN BASSO SONO CAPACI DI INDIVIDUARE ALCUNI PUNTI DEBOLI DI QUELLA RIORGANIZZAZIONE CARICA DI MORTE, AD ESEMPIO IL FATTO CHE IL REGIME DI GUERRA NECESSITA DI UN APPARATO LOGISTICO PIENAMENTE FUNZIONANTE. I PORTI, IN QUESTO SENSO, HANNO UN RUOLO CENTRALE. QUELLI CHE SONO IN ALTO TEMONO MOLTO I BLOCCHI DEI PORTI, PARTITI DA GENOVA È DIFFUSI IN ALTRE CITTÀ EUROPEE Il 28 novembre è stato convocato uno sciopero generale dalla USB (Unione Sindacale di Base), il sindacato che è stato fortemente coinvolto in tutte le manifestazioni svoltesi durante il “bimestre d’oro italiano”, tra settembre e ottobre di quest’anno. La Palestina è rimasta il tema centrale della mobilitazione, che questa volta ha visto però una maggiore articolazione con altre questioni legate alle condizioni di vita e di lavoro in Italia – e non solo. A Genova, la città dove tutto è cominciato con il blocco delle navi effettuato dagli operatori portuali del CALP (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali), più di 10.000 manifestanti hanno aderito allo sciopero, con una presenza elevatissima di studenti e giovani. Il giorno successivo si è tenuta una manifestazione nazionale a Roma, alla quale hanno partecipato circa 100.000 persone, convocata sempre dalla USB e da altre organizzazioni politiche e della società civile. Anche lì, quella presenza giovanile si è distinta come uno degli elementi caratterizzanti della moltitudine che ha riempito Piazza San Giovanni. In questi due giorni di mobilitazione generale, la parola d’orine è stata quella che Riccardo Rudino, portuale genovese, ha gridato al megafono davanti a 40.000 persone in una serata degli ultimi giorni di agosto: “Se loro [i militari israeliani] faranno qualcosa [all’equipaggio della Global Sumud Flotilla], dal porto di Genova non uscirà nemmeno un chiodo. Blocchiamo tutto!”. Una frase che ha fatto il giro del mondo, tradotta e gridata in molte lingue. Riccardo – che i suoi compagni del CALP chiamano affettuosamente “vecchio” – è diventato, suo malgrado, con il suo aspetto un po’ riservato, una delle figure più conosciute nei movimenti globali per la Palestina libera. Si vogliono qui sottolineare tre elementi che caratterizzano oggi il movimento che ha portato nelle piazze di quasi tutte le città italiane circa due milioni di persone dall’inizio di settembre. Ciò, al fine di intravedere le prospettive – se non garantite, certamente sperate – del movimento nel prossimo futuro. Il primo riguarda la persistenza stessa del movimento: contrariamente a quanto era stato frettolosamente previsto, la mobilitazione non è finita con la falsa “pace” di Trump in Palestina. La narrazione proposta dai media mainstream non è stata accolta favorevolmente da chi segue, attraverso altri mezzi, le esecuzioni a sangue freddo, gli abusi, la distruzione di case e terre perpetrati da coloni protetti dall’IDF – e dall’IDF stessa. Qualcosa si è sedimentato in quei due mesi, rimanendo vivo nella coscienza di molti: non c’è giustizia nella pace proclamata dagli assassini e dai loro sostenitori. Non si tratta di un elemento secondario. Segna, anzi il consolidamento di ciò che è stato descritto in queste stesse pagine come un atteggiamento etico, un orgoglio di essere lì, da parte di molti che non avevano mai partecipato a manifestazioni di piazza. L’etica è direttamente legata al politico, si sovrappongono in modi diversi. In questo caso, l’etica assume la funzione di un “dire la verità” nello spazio pubblico, che diventa subito un atto di critica. È lì, nelle piazze, nelle scuole e nelle università, nei luoghi di lavoro, nei quartieri, che quell’atto emerge come una forza capace di trasformare noi stessi. “Dire la verità” non significa solo proporre una lettura diversa dei fatti: è prendere una posizione che diviene subito un atto politico. È una posizione che travalica, pur utilizzandoli, i social network; si appropria di uno spazio pubblico, fa della visibilità il suo punto di forza. È lo stesso che sta accadendo in molti contesti in giro per il mondo. Le bandiere della pace, della Palestina, della USB, dei gruppi politici di sinistra sono accompagnate dalla bandiera del Jolly Roger di One Piece: teschio sorridente, ossa incrociate e cappello di paglia. Il secondo elemento riguarda la menzionata articolazione dei temi che sono entrati in questi due giorni di mobilitazione. La Palestina è una questione globale, perché la Palestina è la Palestina Globale. Ciò significa vedere nel genocidio del popolo palestinese l’aspetto più tragico di una logica che riorganizza l’ordine globale attorno alla guerra. La guerra permanente, dunque, come elemento non eccezionale della ristrutturazione del modello delle relazioni globali – politiche, economiche, energetiche, ambientali, razziali – che costituiscono un vero e proprio “regime di guerra globale”, come è stato definito da Sandro Mezzadra e Michael Hardt. Questa consapevolezza emerge chiaramente in ogni manifestazione, riunione, assemblea, nella misura in cui riconosce in tale regime il coinvolgimento dell’intera catena di produzione, sia di beni sia dell’ordine “poliziesco”. Inutile dire che al suo vertice si trovano le big tech statunitensi, come è stato descritto innumerevoli volte – e con grande chiarezza – in queste pagine. Allo stesso modo, sarebbe ridondante ricordare come i governi del mondo multipolare giochino – ciascuno in base ai propri interessi e alla propria capacità di influenza – il ruolo che più conviene loro. Una consapevolezza – infine – che non risparmia le scelte compiute dal governo italiano e dai centri di potere economico e finanziario (così come da altri paesi europei, con la Germania in testa alla lista dei peggiori), per quanto riguarda le priorità nella pianificazione finanziaria dello Stato. La relazione tra le misure adottate sul piano internazionale e quelle che hanno un impatto diretto sulla vita quotidiana delle persone non lascia dubbi a nessuno. Ecco allora la moltitudine che ha riempito le strade negli ultimi giorni di novembre vedere, come parte della stessa strategia tanatopolitica, i popoli vittime delle brutalità e del cinismo assassino, le famiglie che rinunciano a cure mediche e ospedaliere, che cambiano abitudini alimentari, che non riescono a pagare l’affitto della casa in cui vivono per mancanza di mezzi economici. Allo stesso modo, queste condizioni si legano a quelle di lavoro e di vita – e di morte – nei paesi del Sud Globale, i primi anelli della lunga catena di approvvigionamento del capitalismo bellicista delle piattaforme. Ma vi è anche un altro livello di consapevolezza, che costituisce il terzo elemento caratterizzante del movimento. Il regime di guerra, pluriforme nei suoi modi di agire, necessita di un apparato logistico pienamente funzionante. Guerra e logistica, com’è noto, vanno di pari passo da secoli. Non esiste guerra senza logistica, così come non esiste logistica senza un’organizzazione “militare” dei flussi di approvvigionamento lungo l’intera catena. La struttura che la logistica ha assunto nell’era dell’intermodalità presuppone un legame stretto tra le diverse fasi che la compongono. I porti, in questo senso, hanno svolto un ruolo centrale. Ciò, a partire dalla rivoluzione introdotta dal container negli anni Ottanta, come mezzo di stoccaggio, movimentazione e trasporto di quasi ogni tipo di merce. Il container ha trasformato il trasporto – prima frammentato – in una linea unica e ininterrotta, come scrive Andrea Bottalico nel suo saggio La logistica in Italia. Per farsi un’idea chiara dell’importanza del trasporto marittimo tramite container, basta ricordare i giorni in cui una nave in avaria bloccò il Canale di Suez nel marzo 2021. Si scatenò il panico generale, con i prezzi che minacciavano di schizzare alle stelle, a causa della scarsità di componenti essenziali per molti settori industriali. E tutto questo durò appena una settimana. Il porto, in sostanza, cessa di essere soltanto una tappa nella linea che conduce dallo smistamento delle materie prime alla consegna al cliente finale, per diventare il centro strategico delle operazioni logistiche. La privatizzazione dei porti – e Genova non fa eccezione – con l’affidamento delle operazioni sulle banchine agli operatori privati, è stata la svolta che ha sottolineato tale centralità. Di tutto ciò sono pienamente consapevoli i portuali del CALP – che organizzano il blocco delle navi con carichi di armi dal 2019 – così come tutti gli altri soggetti che hanno articolato le proprie lotte con quella dei portuali. “Articolare tra” è diverso da “convergere verso”. Una consapevolezza che ha contagiato i lavoratori di altri porti, sia in Italia sia in altri paesi europei (Grecia, Cipro, Francia, Spagna e, in una certa misura, Portogallo). Il “blocchiamo tutto” di Riccardo è diventato la parola d’ordine che ha accompagnato le mobilitazioni in molte città contro il regime di guerra nel quale vogliono trascinarci – o nel quale siamo già stati trascinati. Quale potrà essere il destino di questo movimento non è una questione facilmente prevedibile. Innumerevoli sono le variabili, di natura diversa, che potranno influenzarlo. Ciò che sembra non lasciare dubbi è la visione che dobbiamo rafforzare riguardo il contesto di riferimento della stessa lotta. Il compito di ciascuno di noi è lavorare per una sua crescente estensione e internazionalizzazione, come del resto sta già avvenendo. Ciò passa attraverso la costruzione di ulteriori articolazioni lungo l’intera catena di approvvigionamento, a monte e a valle, all’interno e all’esterno. Sarebbe fondamentale cercare alleanze con i lavoratori dell’industria siderurgica che stanno vivendo giorni drammatici, con quelli dell’“ultimo miglio”, dei magazzini delle grandi centrali di distribuzione, che hanno subito minacce, violenze, licenziamenti per aver organizzato scioperi o picchetti. Allo stesso modo, le forze della società civile stanno producendo contenuti che arricchiscono e spostano la lotta su altri livelli, come nel caso di Weapon Watch e di altre organizzazioni di volontariato. La forza del movimento sta nel suo divenire, nella sua capacità di cambiare i propri obiettivi, le proprie articolazioni, le proprie strategie ogni volta che si renda necessario. La logistica non rimarrà ferma a ciò che è oggi, neppure l’intero ciclo di valorizzazione di cui la logistica costituisce il centro nevralgico. Come è sempre accaduto nei momenti di alta conflittualità, gli avversari delle classi popolari troveranno le misure per cercare di fermare le mobilitazioni. Ciò avverrà tanto nei porti quanto negli altri luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle università, così come in qualsiasi altra realtà in cui ci sia qualcuno disposto a bloccare tutto, in nome di un futuro che vogliamo cominciare a frequentare fin da ora. -------------------------------------------------------------------------------- *Stefano Rota è ricercatore indipendente. Gestisce il blog “Transglobal”. Le sue più recenti pubblicazioni collettive sono La fabbrica del soggetto. Ilva 1958-Amazon 2021 (Sensibili alle foglie, 2023) e in G. Ferraro (a cura di), Altraparola. La figura di sé (Efesto Edizioni, 2023). Collabora occasionalmente con riviste online italiane e lusofone. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Siamo ancora qui proviene da Comune-info.
L’assalto alla Stampa e la guerra informativa
Articolo di Alberto Manconi In questi giorni, un coro unanime si è scagliato contro l’azione dentro al quotidiano La Stampa svolta da un centinaio di giovani a Torino staccatisi dal corteo per lo sciopero generale dello scorso venerdì 28 novembre.  Comprensibilmente, il fatto che la redazione di un quotidiano – peraltro, come fatto notare da molti, non certo il peggiore nel modo di trattare il genocidio in Palestina – sia diventato bersaglio diretto di un’azione del genere, ha impressionato gli stessi operatori dell’informazione più sensibili. Tanto più che quel giorno la categoria dei giornalisti era in sciopero per il proprio contratto e per poter svolgere seriamente la propria professione.  Certamente, possiamo dire che a Torino venerdì scorso si è svolta un’azione che si è rivelata non utile e non intelligente, e che come prevedibile è stata utilizzata dal sistema mediatico e politico complessivo per rendere invisibile l’intero fine settimana di scioperi e manifestazioni contro la finanziaria di guerra e per denunciare che in Palestina non c’è nessuna «pace» e il genocidio continua. Questo articolo però muove dall’impressione – non inedita, ma certamente singolare negli ultimi mesi che hanno mostrato le prime crepe del Governo Meloni – provata di fronte alla condanna così dura e ampia che tale azione ha suscitato nel dibattito pubblico. Sottolineo la parola condanna perché tale termine, insieme a quello di assalto, è stato quello decisamente più in voga per riferirsi a tali fatti. «Condanno l’assalto a La Stampa» è stata l’espressione più utilizzata, anche tra gli operatori dell’informazione e della cultura che più si sono schierati per Gaza negli ultimi due anni. I toni sono giunti a incredibili accuse di «squadrismo» e «fascismo», e per capire il livello a cui sono arrivati basti leggere l’editoriale di Antonio Polito sul Corriere della sera che scaglia epiteti di ogni tipo contro Francesca Albanese, definita la «maestrina estremista», manipolando ad arte le sue dichiarazioni, come hanno fatto del resto in molti. Secondo gli stessi canali social de La Stampa quella di venerdì scorso è stata un’«irruzione» all’interno degli uffici della redazione in quel momento vuota per l’adesione allo sciopero da parte dei giornalisti. Una volta dentro, come si evince dalle immagini, i cento manifestanti hanno buttato a terra dei documenti e fatto alcune scritte sul muro in una stanza piena di altri oggetti di maggior valore, in primis i computer, che non sono stati in alcun modo danneggiati.  Se ascoltiamo invece i dibattiti e le dichiarazioni degli ultimi giorni, incontriamo lo stesso piano discorsivo e gli stessi toni nel descrivere l’«assalto» a La Stampa e gli «assalti» quotidiani dell’esercito israeliano a Gaza, che tra l’altro persino nella prima settimana della «pax trumpiana» ha ucciso vari giornalisti e ne ha uccisi centinaia dopo il 7 ottobre. Si finiscono così per confondere azioni e parole, vernice e bombe, cadaveri e fogli, in un vortice infinito di equivalenze senza alcun senso e contesto.  Ma da dove deriva una reazione così spropositata? «L’appello alla causa palestinese può creare una miscela esplosiva», scrive sempre Polito sul Corriere. La Palestina continua a essere la pietra dello scandalo. Editorialisti, leader politici e istituzionali sembrano letteralmente impazziti di fronte al fatto che la causa palestinese susciti così tanta solidarietà e movimento, al punto che di fronte al primo errore o parola sbagliata di una parte dei manifestanti si lanciano in accuse a corpo morto, provando  a personalizzare l’attacco contro chi ha rappresentato pubblicamente questo sentimento solidale con la Palestina.  In tutto questo si perde il contesto politico dell’inefficace azione a La Stampa, contesto caratterizzato da una settimana molto rilevante per Torino e per il relativo movimento di solidarietà alla Palestina, dovuto all’incarceramento in un Cpr dell’Imam di San Salvario Mohamed Shahin per un reato d’opinione. Shahin è ora in attesa di essere deportato in Egitto, un paese – come dimostrano le vicende di Giulio Regeni e Patrick Zaki – autoritario e pericoloso per i dissidenti ma fondamentale, insieme all’italia, per il controllo del Mediterraneo all’interno dello scacchiere geopolitico che unisce Stati uniti e Israele. Il tentativo di deportazione di questo padre di due figli residente in Italia da 21 anni per aver contestualizzato in modo discutibile il 7 ottobre, ma senza assolutamente giustificare l’attacco di Hamas, è portato avanti direttamente dal governo. La procura di Torino, infatti, non ha trovato alcun elemento per ipotizzare una violazione del codice penale, neanche un’istigazione a delinquere. E lo stesso vescovo di Pinerolo ha lanciato un appello pubblico in sua difesa. Tuttavia, l’onorevole Augusta Montaruli, amica di Giorgia Meloni e nota ai più per una condanna per peculato e per aver letteralmente abbaiato in diretta Tv, ha chiesto a gran voce l’espulsione dell’imam di Torino, trovando il favore del ministro dell’interno Matteo Piantedosi. Si tratta di un tentativo non solo di espellere, ma di spaventare in modo particolare le persone razzializzate che hanno avuto un ruolo decisivo nell’emersione del primo movimento, quello per la Palestina, in grado di durare e di mettere in difficoltà il governo Meloni. Il 9 Ottobre, giorno della manifestazione incriminata per le dichiarazioni di Shahin, La Stampa cita l’imam solo en passant. Poi però assume un ruolo forte in questa vicenda: l’11 ottobre esce col titolo «Il 7 ottobre non fu violenza ma resistenza, bufera sulle parole dell’imam in piazza Castello». Poche ore dopo, si unisce il Corriere della sera che aggiunge «Fdi ne chiede l’espulsione». E qui inizia il processo mediatico e politico per cui Shahin ora rischia la deportazione.  Il contesto politico generale è questo, e dovremmo sapere che la valanga di sproporzionate condanne dell’azione a La Stampa è fatta ad arte per legittimare molte altre condanne contro semplici prese di posizione – come dimostra oggi l’appello a revocare le cittadinanze onorarie a Francesca Albanese – ma anche condanne legalmente ben più gravi che potrebbero arrivare anche per le azioni svolte dai movimenti degli ultimi mesi, ad esempio l’occupazione di varie strade e autostrade per bloccare il paese contro il genocidio.  Se prendiamo sul serio i rischi di autoritarismo di cui pure parlano ogni giorno molti operatori di stampa, insieme a sindacati, organizzazioni della cooperazione internazionale e alcune organizzazioni politiche, non si dovrebbe far fatica a riflettere sulle conseguenze che possono avere i toni di condanna usati. Quella del giornalista è una figura professionale fondamentale per qualsiasi idea minima di democrazia o di controllo del potere politico. Una categoria lavorativa che spesso lavora precariamente, che è messa in questione dai vari passaggi tecnologici che riguardano la sfera mediatica e che arriva malconcia alla sfida che l’intelligenza artificiale pone a tutta la classe professionale. Ma soprattutto, e più concretamente nell’attuale congiuntura politica, è una figura che quando fa il proprio mestiere con solerzia rischia grosso, come dimostra proprio la Palestina, ma anche gli attacchi diretti contro Sigfrido Ranucci. Questa categoria, però, è stata spesso sfigurata in Occidente – e in Italia in particolare – dal ruolo maggioritario svolto dall’informazione con il ritorno della guerra in Europa e con il genocidio a Gaza. Questa delegittimazione degli operatori dell’informazione ricade purtroppo su tutti e tutte. Mette spesso sullo stesso piano chi si assume grossi rischi per fare informazione libera e di qualità con chi si offre come ripetitore e difensore strenuo della linea dettata dalle principali «firme» e agenzie stampa che determinano l’agenda e le parole chiave contribuendo a militarizzare tutto. A partire dal dibattito pubblico. Se una delle critiche condivisibili all’azione di Torino è quella di aver fatto di tutta l’erba un fascio, siamo certi che la condanna corale e sproporzionata di quell’azione non contribuisca a esasperare l’idea che esista una «casta» giornalista corporativa? Un rischio le cui conseguenze finiscono per ricadere soprattutto sulle figure più scomode che fanno un prezioso lavoro giornalistico giorno per giorno. Per questo stupiscono le prese di posizione di quanti tra quest’ultimi si sono appiattiti sui termini assurdi per descrivere quanto avvenuto a Torino propinati dai media mainstream, perché l’obiettivo è espellere l’ormai temutissima solidarietà al popolo palestinese dal dibattito pubblico, come si espelle l’Imam Shahin per un reato d’opinione stabilito dal governo. L’estrema destra al governo dimostra di conoscere la nozione di rapporti di forza: attaccano chi li contrasta e difendono, sempre, la loro parte e chi potrebbe unirvisi. È giusto che noi evitiamo di essere come soldati in guerra, e che segnaliamo liberamente ciò che non si condivide. Ma non si possono negare le guerre che vengono fatte sulla nostra pelle. Tra queste c’è anche la guerra informativa, e anch’essa determina i rapporti di forza in cui ci troviamo.  *Alberto Manconi è dottorando presso l’Università di Losanna, si occupa di attivismo climatico e partecipa al movimento Insorgiamo, di solidarietà al Collettivo di Fabbrica ex-Gkn, e al percorso degli Stati Generali della Giustizia Climatica e Sociale. L'articolo L’assalto alla Stampa e la guerra informativa proviene da Jacobin Italia.
Parliamo di piramidi
ABBIAMO BISOGNO DI METTERE IN DISCUSSIONE LE PIRAMIDI NON SOLO DEL SISTEMA CAPITALISTA MA ANCHE LE “NOSTRE” PIRAMIDI, QUELLE CREATE ALL’INTERNO DI ORGANIZZAZIONI CHE RESISTONO AL SISTEMA. “NON È UNA QUESTIONE DA POCO – SCRIVE RAÚL ZIBECHI -, PERCHÉ CI IMPONE DI GUARDARCI ALLO SPECCHIO E SCOPRIRE I SISTEMI OPPRESSIVI CHE CREIAMO QUANDO CERCHIAMO DI CAMBIARE IL MONDO…”. VERSO LO STRAORDINARIO SEMILLERO ZAPATISTA DI FINE ANNO: “DI PIRAMIDI, STORIE, AMORI E, NATURALMENTE, DI CUORI INFRANTI” (TRA GLI INVITATI RAÚL ZIBECHI) Foto di Massimo Tennenini -------------------------------------------------------------------------------- Pochi giorni fa, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) ha annunciato il Semillero “Di piramidi, storie, amori e, naturalmente, di cuori infranti”, che si terrà dal 26 al 30 dicembre presso il Centro Indigeno di Formazione Integrale (Cideci) di San Cristóbal de las Casas, Chiapas. L’annuncio chiarisce che il workshop affronterà il tema delle piramidi non solo all’interno del sistema capitalista, ma anche nei “movimenti di resistenza, nella sinistra e nel progressismo, nei diritti umani, nella lotta femminista e nelle arti” (Convocazione al Semillero 26-30 dicembre 2025). Trovo questo nuovo appello estremamente importante, come quelli precedenti, perché un dibattito rigoroso e approfondito è quasi inesistente all’interno dei movimenti sociali, una situazione che contrasta nettamente con l’impegno dell’EZLN a riflettere mentre si resiste e a creare nuovi mondi che non siano più capitalisti. Rigore non è sinonimo di accademico o di incomprensibile per le persone comuni e organizzate che resistono. Questo è un punto centrale: la riflessione e l’analisi non servono per ottenere attestati o promozioni, ma per rafforzare la resistenza, per renderla più perspicace e responsabile. Un aspetto degno di nota dell’appello all’azione non è solo quello di mettere in discussione le piramidi al vertice (anche se non usano questo termine), ma anche le “nostre” piramidi, quelle create all’interno di organizzazioni che resistono al sistema. Si parla molto delle prime; nulla delle seconde. Solo lo zapatismo ha la volontà e il coraggio di metterle in discussione. Nel pensiero critico e nei movimenti rivoluzionari, errori e orrori vengono solitamente attribuiti a singoli individui (come Stalin in Unione Sovietica), ma strutture come le piramidi, che ispirano partiti e sindacati, ma spesso anche coloro che combattono contro il sistema, non vengono messe in discussione. Se parliamo solo delle piramidi del capitalismo (lo Stato, la polizia, la giustizia, ecc.), tralasciamo le nostre deviazioni ed errori, il che sarebbe fin troppo comodo e poco utile. La verità è che tutte le rivoluzioni hanno costruito piramidi che, come diceva Immanuel Wallerstein, erano adatte a rovesciare le classi dominanti, ma che presto si sono trasformate in ostacoli alla creazione di nuovi mondi. “L’errore fondamentale delle forze anti-sistema nell’era precedente era credere che quanto più unificata era la struttura, tanto più efficace era” (Dopo il liberalismo). Da tempo sappiamo che nuove classi dirigenti post-rivoluzionarie sono state ricostruite dall’alto delle piramidi, impedendo la costruzione di mondi non capitalistici e instaurando regimi autoritari che hanno rafforzato gli stati nazionali. Un merito importante dell’EZLN risiede nell’aver fondato questi dibattiti sulla propria esperienza, su quanto accaduto nell’arco di due decenni in spazi autonomi come le Giunte di Buon Governo, un punto che avevano già sollevato chiaramente e apertamente ad agosto durante l’incontro “Alcune parti del tutto”, nel vivaio di Morelia. All’epoca, scrissi che l’autocritica pubblica dal basso era “un fenomeno assolutamente nuovo tra i movimenti che lottano per cambiare il mondo” e che in questo modo gli zapatisti ci mostrano “cammini che nessun movimento ha mai percorso prima, in nessuna parte del mondo, in tutta la storia” (L’autocritica zapatista). Oggi non basta riaffermare questa percezione; dobbiamo anche riconoscere che gli zapatisti pongono una nuova sfida: affrontare le piramidi che creiamo alla base. Non è una questione da poco, perché ci impone di guardarci allo specchio e scoprire i sistemi oppressivi che creiamo quando cerchiamo di cambiare il mondo. La sfida è tanto importante quanto complessa. Non credo si tratti di puntare il dito contro chi costruisce le piramidi, ma piuttosto di ragionare e spiegare i problemi che esse comportano, sulla base di oltre un secolo di esperienza storica dalla Rivoluzione russa e un secolo e mezzo dalla Comune di Parigi. Fu dopo la loro sconfitta che il movimento rivoluzionario iniziò a costruire apparati politici centralizzati e gerarchici: i partiti politici. Fino ad allora, la lotta era sostenuta da una galassia di organizzazioni meno gerarchiche, un po’ caotiche, certo, ma non per questo meno combattive. Siamo arrivati a un punto in cui solo gli apparati burocratici e gerarchici sono considerati vere organizzazioni, ovvero istituzioni che si modellano sulle piramidi statali e le riproducono simmetricamente. Ora ci rendiamo conto che questi apparati sono completamente inutili in questi tempi di caos sistemico e servono solo come scale per coloro la cui unica ambizione è quella di raggiungere l’apice del potere statale. Il dibattito a cui ci chiama lo zapatismo promette di essere illuminante in mezzo all’oscurità. Propongono di nuotare controcorrente rispetto al pensiero compiacente della sinistra e del mondo accademico, intrappolato nella logica del capitalismo. Questo è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno per scrollarci di dosso il nostro letargo, impegnarci nell’autocritica e liberarci da vecchie idee/prigioni per poter continuare a camminare attraverso la tempesta. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche su La Jornada -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Parliamo di piramidi proviene da Comune-info.
Cosa si può ancora fare?
IN QUESTI GIORNI RIMBALZANO LE IMMAGINI DELL’ESPROPRIO DI UNA CASA CHE VERRÀ ABBATTUTA PER FARE POSTO AL CANTIERE DELLA GRANDE OPERA. UNA DONNA ANZIANA NASCONDE IL VISO IN UN FAZZOLETTO, SENZA RABBIA, QUASI PROVANDO VERGOGNA PER QUEL SUO DOLORE GRANDE. ERA CASA SUA DAL 1959. EPPURE IN VAL SUSA NON SMETTONO UN GIORNO DI CHIEDERSI: “ABBIAMO FATTO ABBASTANZA?”, “COSA SI PUÒ ANCORA FARE”? Foto di Luca Perino -------------------------------------------------------------------------------- Abbiamo fatto abbastanza? È una domanda che si infila nella memoria in un giorno di metà settimana, metà mese, mercoledì di novembre, mentre sui social girano le immagini dell’esproprio di una casa che verrà abbattuta per fare posto al cantiere della grande opera. Telt il 19 novembre 2025 ha preso ufficialmente possesso delle case della frazione di San Giuliano (Susa). Ad essere abbattute saranno tre per far posto al cantiere della stazione internazionale del Tav. Poco distante lo scatto di un fotografo ritrae una donna anziana che nasconde il viso in un fazzoletto, senza rabbia, quasi provando vergogna per quel suo dolore grande. Era casa sua dal 1959. Il fotografo di un giornale locale sente il bisogno di intitolare la foto: “Progresso?”. Abbiamo fatto abbastanza? Per opporci a questa devastazione? Mettendo a disposizione i nostri corpi, le azioni i pensieri gli scritti? Mettendo a disposizione una buona parte della nostra vita in questi trent’anni di lotta? Chilometri di passi fatti in centinaia di manifestazioni. Incontri, convegni, presidi sotto grandi nevicate o con la pelle bruciata dal sole. Viaggi per tutta Italia per incontrare e farci conoscere. Denunce, processi. Da qualche giorno in calendario le iniziative per ricordare i giorni vissuti per la “Liberazione di Venaus” era il 2005, vent’anni fa. Tuttavia quella grande partecipazione popolare che aveva permesso di correre in migliaia sui prati, rompere i sigilli e perfino riuscire a far arretrare le truppe di occupazione era stato possibile perché alle spalle il movimento aveva già altri dieci anni (totale trent’anni), dove si era costruito piano piano una grande partecipazione popolare. Gli strumenti usati erano stati diversificati: dalle solite assemblee in ogni comune alla partecipazione ai carnevali con maschere di cartone che ricordavano il mostro tav che avanzava… Il rumore del Tgv registrato a Macon in Francia e poi sparato a tutto voluto al cinema. La partecipazione a una gara di lese (slitte) che dalla Sacra di San Michele scendevano a una velocità abbastanza pericolosa fino a Sant’Ambrogio. La “lesa è la tradizione, il Tav la distruzione”. Testi teatrali portati in scena, canti, presidi, ecc. Anni Novanta: le riunioni a Condove con il comitato Habitat e a Bussoleno con il comitato NoTav. Si era appena conclusa la lotta (per una volta vinta) sul mega elettrodotto Grand’Ile Piossasco ma non c’è stato il tempo di festeggiare perché si apriva un altro fronte. Era il 1986 quando sui giornali apparivano notizie sulla grande opera. Si può dire che c’è stato divertimento, allegria, anche nel fare politica. Si può dire che sembra impossibile ora trasmettere quel carico di storie, di incontri, amicizie, amori, costruzione di una vera comunità. Restano ricordi forti, preziosi. Abbiamo fatto abbastanza? Cosa si può ancora fare? Nel tempo, per fortuna, è in atto un passaggio di consegne mentre uno dopo l’altro i protagonisti di allora se ne vanno. Molti dei ragazzi che ora stanno raccogliendo il testimone e portando avanti l’opposizione non erano nati. I ragazzi e le ragazza che stanno organizzando il ventennale di Venaus, allora avevano dieci-undici anni. Pochi conoscono i nomi delle persone che allora avevano messo le basi: i tecnici, i primi amministratori, il presidente dell’Unione montana, il primo avvocato ad occuparsi del tav. Sono fasi diverse e forse è inutile guardare indietro ma andare avanti con nuove idee. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI GIANLUCA CARMOSINO: > No tav e mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- Inviato anche a Volerelaluna.it -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Cosa si può ancora fare? proviene da Comune-info.
Dietro il cristallo brillano i barbari
Articolo di Alice Ridolfi Il 24 Novembre dello scorso anno, a Milano, due ragazzi su un T-max non si fermano a un posto di blocco. Ramy Elgaml perde la vita a 19 anni, speronato da una gazzella dei carabinieri che li inseguiva, e che subito intimidiscono i testimoni e provano a cancellare video e tracce di quanto accaduto. Da subito i media mainstream si affrettano a giudicare i due ragazzi con toni stigmatizzanti, e a indagare di che nazionalità fossero i genitori di Ramy. Etichette e insinuazioni utili a creare un terreno fertile per confermare le paure e gli stereotipi alimentati dalla destra italiana ed europea. Milano ama raccontarsi come una città moderna, dinamica, sempre proiettata verso il futuro. Ma dietro le vetrine scintillanti dei nuovi quartieri e i grandi progetti urbanistici, continua a crescere un’altra Milano: quella che resta ai margini. Le politiche urbane, più attente all’immagine e all’attrattività che all’inclusione, finiscono spesso per aumentare le distanze sociali e geografiche, lasciando indietro le periferie e chi le vive. I giovani delle seconde generazioni si trovano a fare i conti con povertà, precarietà e lavori informali, mentre lo Stato sociale fa un passo indietro, quello penale avanza con la militarizzazione dei quartieri da parte delle forze dell’ordine. Quello di Milano è un modello che può essere rappresentato da tre eventi che si sono susseguiti nel giro di un anno. Quasi un anno fa, il 26 Novembre del 2024 nel quartiere Corvetto di Milano, centinaia di ragazzi per lo più di seconda generazione chiedono giustizia per Ramy: loro amico, fratello e vicino di casa. La loro rabbia esplode in una protesta che vede cassonetti dati alle fiamme e scontri con le forze dell’ordine.  La seconda immagine è quella dell’inchiesta sull’urbanistica della città che ha scosso l’amministrazione di Giuseppe Sala. Al di là degli esiti giudiziari a venire allo scoperto è quello che non era difficile intuire: dietro la valorizzazione di interi porzioni di città e gli scintillanti progetti di rigenerazione urbana c’è un dedalo di interessi precisi, sempre gli stessi. La terza immagine è lo sgombero del centro sociale Leoncavallo alla fine dello scorso agosto. Un atto di forza inaspettato che ha fatto sapere che nella città vetrina che piace a Fratelli d’Italia non c’è posto per i tanti abitanti con consumi culturali e costumi sociali irriducibili alla destra di governo.  Se le ordiniamo gerarchicamente, da queste tre immagini emergono tre città: la città vetrina disegnata dall’Expo del 2015 a oggi; la città dell’emarginazione geografica e spaziale; e la città dei ceti produttivi impoveriti. La prima città si sta allargando fino a mangiarsi tutto, arrivando a lambire la città dei margini, basta pensare a quartieri come No.Lo o Isola e ai processi di gentrificazione che li hanno interessati.  Nell’ultimo anno ho vissuto, intrecciato affetti e amicizie nella parte marginale della città, quella che ormai si scontra direttamente con la sua versione patinata e da esposizione, e ho scelto di farne il terreno per la mia ricerca di tesi.  Come spiega il sociologo francese Loïc Wacquant nel suo libro I reietti della città. Ghetto, periferia e Stato, lo spazio urbano non è neutro, ma è il risultato di rapporti sociali, economici e politici. E lo stigma – il marchio negativo che pesa su certi quartieri o gruppi sociali – non nasce dal nulla, ma serve a mantenere in piedi un ordine diseguale. Questo meccanismo diventa una sorta di profezia che si autoavvera: lo stigma giustifica l’abbandono istituzionale e il ritiro del welfare locale, che vengono sostituiti da un maggiore intervento repressivo. In questo modo, il disagio si consolida e le disuguaglianze si riproducono, invece di essere eliminate. Non succede solo a Milano, ovviamente, ma oggi nel capoluogo lombardo è un processo visibile a occhio nudo. A ribaltare questa prospettiva ci pensa la giornalista algerina Louisa Yousfi, nel suo libro Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, che scrive: «I barbari occupano le banlieue delle metropoli francesi ed europee e danno l’assalto al centro, sono incazzati qui perché frustati in Mississippi. I giovani figli dell’immigrazione urlano la loro rabbia attraverso i propri ritmi e linguaggi: con i suoi eccessi, la sua irriverenza nei confronti della grammatica convenzionale, soprattutto il rap dà alla scrittura la possibilità di respirare. Non solo parla dei barbari, ma parla per i barbari. E non parla solo ai barbari, ma a tutti. Perché il barbaro è l’altro, colui che non può essere addomesticato. Colui che non vuole inserirsi nel recinto dell’Impero e che rifiuta di giustificare la propria umanità. È il rovesciamento del cittadino e del soggetto civilizzato. I barbari non cercano di ritrovare ciò che erano, ma di resistere a ciò che stanno diventando». È una visione potente, perché ci mostra come le persone con background migratorio, pur vivendo in condizioni di precarietà e marginalizzazione, rifiutano di essere raccontate come vittime. Al contrario, trasformano lo stigma in una forza, in una risorsa simbolica e politica. Invece di subire le etichette, se ne riappropriano, le ribaltano e le usano per ridefinire la propria identità e la propria posizione nel mondo. Le parole di una delle ragazze che mi sono state amiche e compagne nell’ultimo anno spiegano questo concetto meglio di qualsiasi testo di sociologia:  > Bisogna ribaltare la concezione o la descrizione che viene fatta di noi dagli > altri, o la moda passeggera dei maranza che descrive quella categoria in > maniera negativa. Per quanto mi riguarda essere di seconda generazione è un > orgoglio, e lo è nella misura in cui voglio dare e lasciare qualcosa alle > prime generazioni, a chi ha fatto la fatica e lo sforzo di venire qui, farci > nascere qui, mantenerci regolari qui, ossia i nostri genitori. Gente che ha > bruciato i propri passaporti per creare per noi un futuro migliore. A loro > dobbiamo tutto e per questo motivo porto con orgoglio anche questo nome che, > tendenzialmente, viene visto come roba negativa, mentre per me è tutt’altro. La capacità di rielaborare lo stigma non fornisce ovviamente la garanzia di trovarsi di fronte a un nuovo soggetto antagonista o depositario di una qualche teleologia rivoluzionaria, e nemmeno di comportamenti consapevolmente antagonisti. Però l’incontro tra i barbari e gli spossessati delle nostre città-vetrina può essere dirompente. La morte di Ramy non è stato un episodio isolato ma il frutto avvelenato di un sistema che uccide due volte: prima con l’emarginazione e poi con la brutalità poliziesca contro i giovani razzializzati. A Milano nei prossimi giorni ricorderemo Ramy con diverse iniziative, non solo per chiedere piena luce su quanto accaduto quel giorno di un anno fa ma soprattutto per vivere un momento di memoria condivisa caratterizzata dai suoi amici e dalla sua famiglia. *Alice Ridolfi è laureata in sociologia e studia attualmente geografia e processi territoriali. È attivista dei movimenti sociali, transfemministi e antirazzisti. L'articolo Dietro il cristallo brillano i barbari proviene da Jacobin Italia.
Costruire relazioni con la resistenza palestinese
Articolo di Gianni De Giglio, Lucilla Fiorentino, Rami Massad Nell’estate del 2023, il Popular Art Centre (Pac) ha rafforzato una serie di iniziative collettive di agricoltura, permacultura, agroecologia e trasformazione alimentare. Nell’ambito di quest’esperienza ha invitato l’associazione Solidaria Bari, che da anni produce la salsa Sfrutta Zero e fa parte dell’Associazione Fuorimercato, a partecipare a una conferenza internazionale sui movimenti sociali in Palestina, che però è stata cancellata dopo il 7 ottobre e l’inizio dell’attacco israeliano a Gaza. Da quel momento è iniziato però un rapporto tra Pac e Fuorimercato andato avanti negli ultimi due anni, nel mezzo del genocidio e dell’ecocidio a Gaza. Un rapporto che si è concentrato sulla discussione di ciò che sta accadendo in Palestina e nel comunicare la realtà della situazione in Cisgiordania e a Gaza, nonché sul ruolo di Popular Art Centre nel mezzo di questo genocidio e sui servizi che fornisce alla popolazione in condizioni così difficili. Ciò è avvenuto attraverso numerose sessioni online con gruppi all’interno di Fuorimercato, nelle università e durante vari eventi culturali e artistici, tra cui l’ultima Scuola Giacobina. Durante questi scambi, abbiamo anche condiviso esperienze e conoscenze in diversi campi, tra cui l’agroecologia e altre questioni comuni. Tuttavia, per rivelare veramente la realtà sul campo, e non solo attraverso gli schermi, ci hanno invitato in Palestina, per testimoniare in prima persona le sofferenze quotidiane che i e le palestinesi subiscono ai posti di blocco militari e nel corso degli assalti dei coloni e delle forze di occupazione. La nostra visita è durata due settimana, dal 28 ottobre al 10 novembre, ed è stata fondamentale anche per vedere l’impatto del sostegno fornito alle cooperative giovanili e femminili e come questa assistenza aiuti gli agricoltori a coltivare, proteggere e liberare le loro terre dall’espansione degli insediamenti e dall’ingiustizia. Inoltre, è stata un’opportunità per noi di riflettere insieme, sul campo e tra la gente, su come sviluppare ulteriormente la nostra partnership sulla base di esperienze e realtà concrete. Abbiamo visto da vicino la forza del popolo palestinese, la sua profonda fede nel proprio diritto alla terra e la sua lotta continua nonostante i continui tentativi dell’occupazione di cancellare e spegnere la speranza durante lunghi anni di oppressione. E abbiamo visto lo spirito unico di solidarietà che contraddistingue le persone palestinesi, il modo in cui si sostengono a vicenda, aiutandosi l’un l’altro in condizioni tragiche e complesse, in una vivente espressione di resilienza e fermezza sulla propria terra di fronte allo sfollamento e al genocidio. Durante le nostre due settimane in Palestina, abbiamo visitato campi profughi, cooperative agricole, centri culturali giovanili, il Centro di Sostegno alle donne a Nablus e la sede del Pac a Ramallah, da nord a sud della Cisgiordania, sia in campagna che in città. Un programma fitto e intenso che ha coinvolto persone, luoghi, storie, radici e resistenza, durante il quale sono emersi i pilastri che definiscono la vostra visione e le vostre strategie. Potete spiegare cosa intendete con questi pilastri? Il Popular Art Centre è stato fondato nel 1987 come istituzione culturale comunitaria con l’obiettivo di preservare e promuovere la tradizione palestinese. Il Centro ha contribuito a documentare il patrimonio culturale, organizzare festival e insegnare le arti dello spettacolo a diverse generazioni, programmi che sono diventati aspetti permanenti e continuativi del suo lavoro fino a oggi. Nel 2000, il Centro ha ampliato il suo raggio d’azione e la sua portata geografica per includere città e villaggi in varie province palestinesi, attraverso la creazione di partnership e alleanze con istituzioni locali. Attingendo alla sua esperienza e alle relazioni in continua evoluzione con le organizzazioni locali di base, e attraverso l’apprendimento reciproco, il Centro ha ampliato il suo lavoro culturale in un impegno comunitario più ampio. Quest’espansione è stata guidata dalla necessità di creare un cambiamento globale e trasformativo nelle comunità locali in cui opera. Di conseguenza, il Centro ha svolto un ruolo fondamentale nel sostenere iniziative di solidarietà culturale, sociale ed economica, in particolare tra i giovani e le donne, al fine di garantirne la sostenibilità e l’impatto sociale. Sulla base di questo processo, il Centro si è ridefinito come istituzione culturale comunitaria, operando lungo due percorsi principali: quello culturale-artistico e quello di comunità, interconnessi e guidati da una visione condivisa per una società palestinese libera e democratica, con un ricco tessuto culturale e sociale, che goda di pieni diritti sociali, culturali ed economici, in conformità con i principi di giustizia e uguaglianza. Tra le innumerevoli esperienze vissute e ascoltate, puoi spiegarci come funziona la scuola di danza, a partire da Ramallah? La sua composizione, i festival che la caratterizzano. Attraverso quali forme e organizzazione la scuola sostiene, finanziariamente e non solo, le altre scuole di danza e i centri culturali con cui collaborate in tutta la Palestina, dalla Cisgiordania a Gaza? La scuola di danza è il programma principale di Pac. È stata fondata nel 1991 con risorse limitate e un numero ridotto di studenti, ma si è gradualmente sviluppata nel tempo. Il Centro ha ampliato le sue strutture di formazione e ha investito nello sviluppo delle competenze e delle conoscenze dei suoi istruttori, rendendo la scuola oggi la colonna portante dei programmi del Centro. Più di 400 bambine e adolescenti, dai 5 ai 16 anni, frequentano la scuola, allenandosi durante tutto l’anno in gruppi organizzati in base all’età e al livello artistico. Questi gruppi prendono il nome dalle danze tradizionali palestinesi e i bambini imparano la Dabke al ritmo di canzoni nazionali e popolari, molte delle quali sono state raccolte e documentate dal Centro dagli allievi più adulti nel corso di molti anni. Gli studenti pagano una quota annuale simbolica, che contribuisce a coprire le spese operative e programmatiche del Centro, sostenendone così la sostenibilità finanziaria e l’indipendenza. L’impatto della scuola va oltre la formazione dei bambini nelle sale del Centro di Al-Bireh-Ramallah: si è ampliato fino a includere la creazione di compagnie di danza e Dabke in varie province della Cisgiordania e di Gaza con lo slogan «Arte per tutti». Il Centro ha fondato decine di gruppi, molti dei quali sono ancora attivi oggi, e ha sostenuto la creazione di scuole di Dabke a Jenin e Betlemme. Il programma della scuola di danza è accompagnato da una serie di festival artistici e culturali organizzati dal Centro, tra cui: il Palestine International Festival, che si tiene ogni anno in estate in Cisgiordania e Gaza; l’Heritage Festival, che si tiene ogni anno a ottobre; il Nawar Nisan Children’s Festival, organizzato in collaborazione con istituzioni partner ogni aprile. Durante questi giorni di discussione, avete ripetutamente fatto riferimento ai diversi livelli di occupazione e oppressione che voi palestinesi subite: da parte di Israele, ma anche, ad esempio, da parte dei donatori internazionali. Potete approfondire questo argomento? E potete poi spiegare cosa significa per voi palestinesi oggi subire l’apartheid israeliana? Come si manifesta nella vostra vita quotidiana? L’occupazione israeliana continua a consolidare il suo controllo sul territorio palestinese, cercando sistematicamente di annettere ulteriori territori e minando qualsiasi possibilità di un futuro Stato palestinese. Purtroppo, una parte significativa del sostegno internazionale, diretto o indiretto, si allinea a questo approccio, poiché non mira a porre fine all’occupazione, ma piuttosto a migliorare le condizioni di vita dei palestinesi che ne sono vittime. Ad esempio, quando l’occupazione impone il suo controllo sull’Area C, molte organizzazioni internazionali pongono condizioni che impediscono l’attuazione di progetti in quella zona, citando il rischio di demolizione da parte dell’occupazione. In questo modo però tali politiche attuano efficacemente il programma dell’occupazione, rafforzando la frammentazione e il controllo invece di opporvisi. Per quanto riguarda l’apartheid in Palestina, forse l’esperienza più difficile è quella di trovarsi sulla propria terra e nella propria casa ed essere circondati e sottoposti quotidianamente a un’oppressione razziale senza precedenti. Immaginate che l’occupante installi un cancello di ferro all’ingresso del vostro villaggio, chiudendolo a suo piacimento e lasciandovi intrappolati nella vostra stessa comunità, come animali in gabbia. Oppure immaginate di essere rinchiusi per molti anni in una prigione costruita sulla vostra terra natale, mentre i coloni si muovono liberamente sullo stesso territorio. Oppressione significa anche vedere i propri figli e figlie private dei diritti più elementari, come quello di muoversi in sicurezza, giocare e visitare altre città, mentre i coloni nuotano nelle sorgenti naturali che si trovano sulla vostra terra, sorgenti di cui siete legalmente proprietari ma a cui vi è vietato l’accesso. Non si tratta di episodi eccezionali, ma di una realtà quotidiana che assume molte forme e manifestazioni. Eppure, tutte riflettono la natura fondamentale del sistema di apartheid israeliano, che cerca di soffocare i palestinesi e di negare loro il diritto alla libertà e a una vita dignitosa Un’ultima riflessione: cosa pensi delle mobilitazioni internazionali di solidarietà per la Palestina dal 7 ottobre e cosa significano per te? Per quanto riguarda le relazioni che state costruendo con le reti e le organizzazioni internazionali, quale visione e strategia state utilizzando come Pac per rafforzarle? Il movimento internazionale di solidarietà popolare con la Palestina ha registrato una significativa espansione e sviluppo dallo scoppio della guerra genocida. Sebbene inizialmente il movimento fosse titubante e poco chiaro sulla realtà sul campo, è diventato rapidamente evidente al mondo che ciò che stava accadendo costituiva un genocidio e una pulizia etnica perpetrati da un governo israeliano di estrema destra, con l’obiettivo di sfollare le popolazioni e distruggere tutti gli aspetti della vita in Palestina, in particolare a Gaza, attraverso l’uccisione di massa di bambini, donne e civili. La mobilitazione di milioni di persone in tutto il mondo, scese in piazza per protestare contro questo genocidio, è stata un momento di grande significato e un faro di speranza per i palestinesi, riaffermando il vero significato della solidarietà umana. Nel corso del tempo, le forme di questa solidarietà si sono evolute da cortei e manifestazioni pubbliche a campagne di boicottaggio, scioperi e pressioni sulle fabbriche di armi e sulle aziende complici dell’occupazione. Queste azioni sono diventate una vera fonte di disagio internazionale per l’occupazione israeliana, spingendo alcuni governi complici almeno a riconsiderare le loro posizioni o a iniziare ad affrontare la questione dei diritti del popolo palestinese e la necessità di porre fine all’aggressione. Questo movimento internazionale ha svolto un ruolo significativo nell’esercitare pressioni per un cessate il fuoco e ha messo in evidenza il crescente isolamento internazionale di Israele, iniziando a sfidare la narrativa israeliana, in particolare tra le giovani generazioni occidentali, che sono sempre più in grado di vedere la realtà sul campo. Dal nostro punto di vista, il movimento internazionale di solidarietà popolare oggi deve passare da una risposta reattiva ai massacri a una forza organizzata e influente in grado di plasmare il processo decisionale nei paesi occidentali. Deve sviluppare una visione e una strategia a lungo termine volte a porre fine all’occupazione e a garantire il diritto del popolo palestinese alla libertà e all’autodeterminazione. Questa visione si basa su diversi principi fondamentali: ricostruire la narrativa globale sulla Palestina in modo che rifletta la verità, allontanandosi dalla narrativa israeliana dominante promossa in Occidente attraverso anni di complicità politica e mediatica. Correggere i comuni malintesi, in particolare il fatto che il popolo palestinese che vive sotto occupazione sta lottando per la libertà e la decolonizzazione, e la sua resistenza non può essere etichettata come «terrorismo», mentre allo Stato occupante viene concesso il «diritto all’autodifesa». E che ciò che sta accadendo in Palestina non è un conflitto tra due parti uguali, ma un’occupazione coloniale che dura da oltre un secolo, che impone oppressione e sfollamento a una popolazione disarmata. Infine, la critica alle pratiche di occupazione israeliane non può essere considerata «antisemitismo». La solidarietà con il popolo palestinese è solidarietà con la giustizia e i diritti umani, non contro gli ebrei come religione, ma contro il regime di occupazione sionista e le sue pratiche razziste. Il movimento internazionale deve basarsi sul riconoscimento della causa palestinese come lotta politica per la liberazione, non solo come questione umanitaria o di soccorso. Affrontare la situazione esclusivamente come una questione umanitaria serve solo a perpetuare e rafforzare l’occupazione. *Gianni De Giglio, promotore di SfruttaZero e del Bread&Roses a Bari, lavora nell’ambito delle politiche attive del lavoro ed è associato ai percorsi sindacali delle Clap e di FuoriMercato. Lucilla Fiorentino. Laureata in lingue e letterature straniere all’Università di Bari, fa parte del Bread&Roses Bari ed è promotrice di Assemblea Bari per la Palestina. Rami Massad è il Coordinatore del programma sociale di Pac, ha conseguito la laurea in Scienze sociali e Scienze politiche presso l’università di Birzeit in Palestina. L'articolo Costruire relazioni con la resistenza palestinese proviene da Jacobin Italia.
Multiutility? No, grazie
Articolo di Tommaso Fattori Nel 2011, grazie ad un’ampissima coalizione sociale, è stato vinto lo storico referendum nazionale contro la privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali con il 95,8% di Sì. Quattordici anni dopo, al referendum municipale di Empoli contro il progetto di Multiutility regionale tenutosi qualche giorno fa, il numero di Sì è sorprendentemente simile, quasi identico: 96,6%. In altri termini, nulla è cambiato, nel bene e nel male: nell’orientamento della cittadinanza, da sempre nettamente favorevole alla gestione pubblica dei servizi fondamentali, e neanche nell’orientamento della politica nazionale e locale, che in questi anni si è costantemente ingegnata, a ogni livello, a sabotare il risultato del referendum del 2011, cercando sempre nuove strade per privatizzare e finanziarizzare i servizi pubblici.  Il referendum empolese è formalmente nullo, per mancato raggiungimento del quorum, ma quasi un residente su tre si è recato alle urne, ovvero 12.292 persone, pari al 28,48% del corpo elettorale. In una cittadina di meno di 50mila abitanti, il messaggio è arrivato forte e chiaro. La miserevole tattica del silenzio con cui l’amministrazione comunale e la politica regionale hanno cercato di nascondere l’appuntamento referendario, con il soccorso di una stampa allineata o dormiente, ha funzionato fino a un certo punto e i malumori nel Pd e nel centrodestra sono adesso enormi. Per interpretare il reale significato politico di questo voto basta tener presente un dato: a Empoli hanno votato Sì più cittadini di quanti abbiano eletto il sindaco in carica (eletto con poco più di 9.500 preferenze al secondo turno)  o di quanti abbiano votato per l’attuale presidente della Regione, solo pochi mesi fa  (10.713 voti).  MANDANTI ED ESECUTORI Il progetto di Multiutility toscana è il frutto di un accordo fra il Pd pre-Schlein e Fratelli d’Italia, con la benedizione della stessa Giorgia Meloni. In particolare è il frutto dell’accordo fra gli ex sindaci renziani Nardella (Firenze), Biffoni (Prato) e Barnini (Empoli), ora ricollocatisi al Parlamento europeo e in Consiglio regionale, e l’ex sindaco di Pistoia di Fratelli d’Italia, Tomasi, candidato presidente del centrodestra alle recenti elezioni regionali. Tuttavia è piuttosto improbabile che il progetto sia realmente un parto delle menti dei nostri sindaci, malgrado abbiano cercato di intestarselo fin dal primo momento, a partire da Nardella. Basti pensare che qualche tempo fa proprio l’ex sindaco di Firenze, nel commentare l’ipotesi di emissione di bond idrici di piccolo taglio, ha chiarito che non si sarebbe espresso «sulla proposta di azionariato popolare», confondendo l’emissione di obbligazioni (prestiti a tassi definiti e di fatto privi di rischi) con la cessione di azioni, cioè appunto la vendita di quote della società che gestisce il servizio. Uno scivolone che rivela una scarsa conoscenza del campo, eccessivamente scarsa per chi dovrebbe essere addirittura lo stratega dell’operazione. Errore a parte, il mitico «azionariato popolare», prima o poi, viene immancabilmente evocato in simili frangenti, come a voler addolcire la pillola della finanziarizzazione dei servizi fondamentali. Ma è altrettanto vero che si tratta, per l’appunto, di un mito: non esiste alcuno strumento che consenta di decidere chi dovrà comprare le azioni messe in vendita e tantomeno a chi debbano restare in mano le azioni di una società quotata in borsa. Le azioni possono essere rivendute in ogni istante e acquistate da chiunque, segnatamente dai grandi fondi, spesso capaci di rastrellarne enormi quantità sui mercati.  Ed eccoci arrivati al nodo, o se vogliamo ai «mandanti». Sono per l’appunto i grandi fondi che spingono da tempo affinché la Toscana si doti di una Multiutility regionale quotata in borsa. La strategia è stata pianificata in ambienti economico-finanziari e poi suggerita alla politica per il tramite di una nuova e potente classe dirigente per sua natura ibrida: una classe composta da manager e amministratori delegati (superpagati) di colossi pubblico-privati, nominati in ruoli apicali proprio dagli azionisti privati e divenuti un importante cordone ombelicale fra mondo della finanza e mondo della politica. E non è stato affatto difficile convincere i sindaci che la privatizzazione dei servizi pubblici attraverso le Spa pubblico-private non sarebbe più bastata; adesso occorre finanziarizzare i servizi, è stato spiegato, per ottenere magicamente due risultati: aumentare i dividendi per tutti, anche per i soci pubblici, e rendere più stabile e sostenibile il debito di Alia (la società per la gestione dei rifiuti posta al cuore della costruenda Multiutility).  E giù un grande entusiasmo, a briglia sciolta: «con la Multiutility potremo raddoppiare i dividendi», giubila Nardella. A ruota seguono gli altri amministratori: «finalmente potremo fare gli investimenti necessari!», oppure «adesso sì che le banche concederanno prestiti e mutui alla Multiutility». Ora, chiunque abbia un po’ di dimestichezza con questa materia sa benissimo almeno due cose. La prima è che gli investimenti, per legge, sono tutti pagati dalle tariffe dei cittadini da oltre vent’anni (si chiama meccanismo del «full cost recovery») indipendentemente da chi sia il gestore. E però, in una Multiutility, le tariffe sborsate dai cittadini pagano, oltre agli investimenti e al costo del servizio stesso, anche i profitti degli azionisti pubblici e privati (i «dividendi raddoppiati» di cui gioisce Nardella). La seconda cosa è che mai una banca ha negato o negherà un prestito a un gestore di servizi pubblici e per il semplice fatto che nessuno darà maggiori garanzie di solvibilità di chi gestisce servizi essenziali in regime di monopolio. Si tratta infatti di cosiddetti «monopoli naturali», servizi di cui la cittadinanza non potrà mai fare a meno e che hanno un solo soggetto gestore, senza concorrenza né rischio d’impresa. OSPEDALI E ACQUEDOTTI DEVONO GENERARE PROFITTI PER GLI AZIONISTI? Nel mare magnum di inesattezze e bugie che hanno accompagnato la propaganda a favore della Multiutility, l’unica verità resta quella candidamente rivelata da Nardella: «raddoppieremo i dividendi». E allora la domanda fondamentale del referendum che si è appena tenuto a Empoli è esattamente la stessa del 2011: la gestione dell’acqua e degli altri servizi pubblici locali deve generare profitti e arricchire gli azionisti oppure garantire un servizio essenziale ai cittadini, in modo efficace e al minor costo possibile? Stiamo parlando di merci o di beni comuni? Nessuna persona ragionevole potrebbe sostenere che il fine della gestione di un ospedale pubblico o di una scuola sia generare profitti per gli azionisti. Ma allora perché mai dovrebbe essere ragionevole ritenere che la gestione dell’acqua – un bene di tutti – debba arricchire pochi? Debba produrre profitti? Le Multiutility sono il coronamento del processo iniziato con le Spa miste pubblico-private per la gestione dei servizi, cui mancava solo la finanziarizzazione. Sono megamacchine congegnate per massimizzare il valore per gli azionisti e per distribuire dividendi, non per gestire efficacemente i servizi. Chiunque abbia studiato i bilanci delle Multiutility esistenti sa quanti miliardi si sono intascati gli azionisti in pochi anni e sa qual è la logica della borsa: l’imperativo di tenere alto il valore del titolo e di distribuire gli utili, in un orizzonte di brevissimo termine. Se per garantire il flusso di dividendi agli azionisti occorre indebitarsi, ci si indebita; se bisogna alzare le tariffe fino al livello massimo consentito dalle norme, si alzano; se bisogna licenziare, precarizzare, esternalizzare, allora si licenzia, si precarizza, si esternalizza. Le favole e l’alternativa pubblica Al cospetto di questi incontrovertibili dati di fatto è frequente sentir raccontare la storia della presunta semplificazione che la Multiutility comporterebbe. Molti amministratori sono convinti che si tratterebbe di una sorta di società operativa unica e monolitica, ma in verità la Multiutility è stata congegnata come una mera Holding finanziaria, pronta a mettere in borsa e privatizzare il 49% delle proprie quote, che poi è il vero fine dell’intera operazione. La Holding deve controllare una serie di società di scopo separate, operativamente autonome, che continuano a gestire acqua, rifiuti ed energia, senza relazionarsi fra loro. Le tre società che la Multiutility toscana incorpora sono infatti a loro volta delle scatole di partecipazioni: la cosiddetta società «incorporante» è Alia (ossia la Spa per la gestione dei rifiuti delle province di Prato, Pistoia e Firenze, Empoli compresa) ma tutte e tre le società «incorporate» – Publiservizi, AcquaToscana e Consiag – sono Holding che detengono le quote di partecipazione dei soci pubblici di società operative come Estra (energia elettrica e gas) e Publiacqua. Insomma, ci troviamo davanti a un’operazione finanziaria finalizzata alla massimizzazione del valore per gli azionisti, nulla che abbia a che fare con l’efficacia sociale e ambientale, la riduzione delle bollette, gli investimenti strategici. L’alternativa al colosso finanziario chiamato Multiutility è la gestione pubblica («in house») e democraticamente partecipata dei servizi essenziali, attraverso una pluralità di gestori che abbiano relazione diretta con il territorio e siano calibrati rispetto agli ambiti «ottimali», ovviamente diversi da servizio a servizio. Ed è esattamente su questo che la popolazione empolese ha preso una netta posizione.  La partita della Multiutility toscana è ancora apertissima, e lo è grazie ai comitati per l’acqua bene comune, che mai hanno smesso di impegnarsi, giorno dopo giorno, e grazie a iniziative dal basso come il referendum empolese, che ha gettato molti granelli di sabbia in un ingranaggio già inceppato. Con un Pd regionale lacerato e confuso e una destra sostanzialmente al traino, questo è il momento di far saltare la gara per individuare il socio privato di Publiacqua, prevista a fine anno, procedendo invece all’affidamento diretto a un soggetto interamente pubblico. Insomma, siamo a un passo da una possibile ripubblicizzazione, ed è tempo di unire tutte le forze sociali attorno a questo comune obiettivo. C’è un’ultima favola che viene raccontata insistentemente dai privatizzatori, preoccupati dalla forza del fronte della ripubblicizzazione, ed è la favola per cui la Multiutility sarebbe necessaria per impedire che «vengano da fuori» a mettere le mani sull’acqua e sui servizi della Toscana. L’allusione, naturalmente, è alle altre Multiutility «italiane»: Hera, A2A, Acea, Iren. Ma è vero esattamente il contrario: con la Multiutility toscana c’è l’assoluta certezza che arriveranno qui esattamente gli stessi fondi internazionali che sono oggi azionisti in Hera, A2A, Acea, Iren, e cioè BlackRock e Vanguard, o multinazionali come Suez. C’è una sola strada per impedirlo: garantire una gestione completamente pubblica dell’acqua e degli altri servizi locali, nel pieno rispetto del referendum del 2011. * Tommaso Fattori è stato fra i principali promotori dei Referendum sull’acqua del 2011. Esperto di beni comuni e servizi pubblici, per anni consulente presso il Consiglio d’Europa a Strasburgo, ha pubblicato numerosi articoli su riviste italiane e internazionali. È stato candidato presidente e capogruppo della sinistra nel Consiglio regionale della Toscana nella X legislatura. L'articolo Multiutility? No, grazie proviene da Jacobin Italia.
Diario di bordo dell’“equipaggio di terra e di mare”
-------------------------------------------------------------------------------- Con buon ritmo prosegue il cammino dell’“equipaggio di terra”, costituitosi a Roma a ESC Atelier, verso l’approdo del 28 Novembre, giornata dello sciopero generale contro la guerra e contro l’economia del genocidio, e del 29, Giornata Internazionale per la Palestina, divenuta “globale” dopo l’impresa della Sumud Flotilla e le estese mobilitazioni del 3 e 4 ottobre. Nella terza assemblea svoltasi mercoledì 12 (qui un racconto della prima e della seconda), ha preso corpo la scansione tematica e temporale in cui proseguono iniziative, vertenze e convergenze necessarie a produrre tempi e spazi nuovi di partecipazione e di confronto adeguati a disarmare la follia planetaria del regime di guerra, la distruzione della terra, il massacro sistematico dei viventi, la rapina di risorse, beni comuni, ambienti e relazioni. L’assemblea convocata alla “Sapienza” il 15 novembre (link) dalla rete “No King” potrà essere un primo necessario spazio di convergenza proposto dall’ “equipaggio di terra e di mare” e da tutte le realtà che in questi giorni preparano le diverse, importanti, prossime scadenze: il Climate Pride il 15, con maschere, gioia e travestimenti da animali, vegetali e vite non umane, per praticare quella cura della terra e del respiro che contrasti la ferocia degli agenti della distruzione; la giornata transfemminista di “Non una di meno” il 22, che dirà forte e chiaro che ogni violenza è violenza di genere e che autoritarismo, patriarcato e discriminazioni costituiscono il “maschile globale” che va estirpato; lo sciopero generalizzato del 28 che assume l’evidenza dell’impoverimento cosmico dovuto allo stato planetario di warfare in cui è piombato il mondo, mentre qui in Italia l’evidenza ulteriore di una “finanziaria” miserabile richiede la trasformazione urgente e radicale delle condizioni di esistenza di milioni di persone. Per questo molte voci in assemblea hanno insistito sull’unità delle mobilitazioni e sulle urgenti connessioni delle diverse realtà sindacali, reti, associazioni e spazi per dare un respiro temporale più lungo alle sequenze di protesta. Per questo, è importante creare nuovo immaginario nella comunicazione e nel generare discorso, relazione, cura ed estensione di parola e pratiche orizzontali che arrivino a chi “legge” da fuori le ragioni delle mobilitazioni. Per questo è cruciale costruire spazi autonomi, fisici e non, in cui far vivere l’approdo del 28 e 29 novembre, ma che oltrepassino le scadenze e divengano luoghi permanenti di ricerca, socialità e interpretazione del mondo. Gli interventi hanno rilevato la necessità di dotarsi di strumenti di continuità d’azione e di elaborazione della pratica del “blocco”, di connessione e replica dell’impresa della Flottilla (ci saranno incontri nella giornata del 29 con Thiago Avila, Greta Thumberg e Francesca Albanese), di pratiche che mostrino la connessione tra crisi climatica, giustizia sociale e produzione di un diritto transnazionale. Sarà anche azionata una delibera di iniziativa popolare per il blocco delle collaborazioni di istituzioni italiane che commerciano armi, cyber sicurezza e quant’altro con aziende israeliane. Indietro non si torna e sarà la corrente a fare marea. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Diario di bordo dell’“equipaggio di terra e di mare” proviene da Comune-info.