
Dietro il cristallo brillano i barbari
Jacobin Italia - Friday, November 21, 2025
Articolo di Alice RidolfiIl 24 Novembre dello scorso anno, a Milano, due ragazzi su un T-max non si fermano a un posto di blocco. Ramy Elgaml perde la vita a 19 anni, speronato da una gazzella dei carabinieri che li inseguiva, e che subito intimidiscono i testimoni e provano a cancellare video e tracce di quanto accaduto. Da subito i media mainstream si affrettano a giudicare i due ragazzi con toni stigmatizzanti, e a indagare di che nazionalità fossero i genitori di Ramy. Etichette e insinuazioni utili a creare un terreno fertile per confermare le paure e gli stereotipi alimentati dalla destra italiana ed europea.
Milano ama raccontarsi come una città moderna, dinamica, sempre proiettata verso il futuro.
Ma dietro le vetrine scintillanti dei nuovi quartieri e i grandi progetti urbanistici, continua a crescere un’altra Milano: quella che resta ai margini. Le politiche urbane, più attente all’immagine e all’attrattività che all’inclusione, finiscono spesso per aumentare le distanze sociali e geografiche, lasciando indietro le periferie e chi le vive. I giovani delle seconde generazioni si trovano a fare i conti con povertà, precarietà e lavori informali, mentre lo Stato sociale fa un passo indietro, quello penale avanza con la militarizzazione dei quartieri da parte delle forze dell’ordine.
Quello di Milano è un modello che può essere rappresentato da tre eventi che si sono susseguiti nel giro di un anno.
Quasi un anno fa, il 26 Novembre del 2024 nel quartiere Corvetto di Milano, centinaia di ragazzi per lo più di seconda generazione chiedono giustizia per Ramy: loro amico, fratello e vicino di casa. La loro rabbia esplode in una protesta che vede cassonetti dati alle fiamme e scontri con le forze dell’ordine.
La seconda immagine è quella dell’inchiesta sull’urbanistica della città che ha scosso l’amministrazione di Giuseppe Sala. Al di là degli esiti giudiziari a venire allo scoperto è quello che non era difficile intuire: dietro la valorizzazione di interi porzioni di città e gli scintillanti progetti di rigenerazione urbana c’è un dedalo di interessi precisi, sempre gli stessi.
La terza immagine è lo sgombero del centro sociale Leoncavallo alla fine dello scorso agosto. Un atto di forza inaspettato che ha fatto sapere che nella città vetrina che piace a Fratelli d’Italia non c’è posto per i tanti abitanti con consumi culturali e costumi sociali irriducibili alla destra di governo.
Se le ordiniamo gerarchicamente, da queste tre immagini emergono tre città: la città vetrina disegnata dall’Expo del 2015 a oggi; la città dell’emarginazione geografica e spaziale; e la città dei ceti produttivi impoveriti. La prima città si sta allargando fino a mangiarsi tutto, arrivando a lambire la città dei margini, basta pensare a quartieri come No.Lo o Isola e ai processi di gentrificazione che li hanno interessati.
Nell’ultimo anno ho vissuto, intrecciato affetti e amicizie nella parte marginale della città, quella che ormai si scontra direttamente con la sua versione patinata e da esposizione, e ho scelto di farne il terreno per la mia ricerca di tesi.
Come spiega il sociologo francese Loïc Wacquant nel suo libro I reietti della città. Ghetto, periferia e Stato, lo spazio urbano non è neutro, ma è il risultato di rapporti sociali, economici e politici. E lo stigma – il marchio negativo che pesa su certi quartieri o gruppi sociali – non nasce dal nulla, ma serve a mantenere in piedi un ordine diseguale. Questo meccanismo diventa una sorta di profezia che si autoavvera: lo stigma giustifica l’abbandono istituzionale e il ritiro del welfare locale, che vengono sostituiti da un maggiore intervento repressivo. In questo modo, il disagio si consolida e le disuguaglianze si riproducono, invece di essere eliminate. Non succede solo a Milano, ovviamente, ma oggi nel capoluogo lombardo è un processo visibile a occhio nudo.
A ribaltare questa prospettiva ci pensa la giornalista algerina Louisa Yousfi, nel suo libro Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, che scrive: «I barbari occupano le banlieue delle metropoli francesi ed europee e danno l’assalto al centro, sono incazzati qui perché frustati in Mississippi. I giovani figli dell’immigrazione urlano la loro rabbia attraverso i propri ritmi e linguaggi: con i suoi eccessi, la sua irriverenza nei confronti della grammatica convenzionale, soprattutto il rap dà alla scrittura la possibilità di respirare. Non solo parla dei barbari, ma parla per i barbari. E non parla solo ai barbari, ma a tutti. Perché il barbaro è l’altro, colui che non può essere addomesticato. Colui che non vuole inserirsi nel recinto dell’Impero e che rifiuta di giustificare la propria umanità. È il rovesciamento del cittadino e del soggetto civilizzato. I barbari non cercano di ritrovare ciò che erano, ma di resistere a ciò che stanno diventando».
È una visione potente, perché ci mostra come le persone con background migratorio, pur vivendo in condizioni di precarietà e marginalizzazione, rifiutano di essere raccontate come vittime. Al contrario, trasformano lo stigma in una forza, in una risorsa simbolica e politica. Invece di subire le etichette, se ne riappropriano, le ribaltano e le usano per ridefinire la propria identità e la propria posizione nel mondo.
Le parole di una delle ragazze che mi sono state amiche e compagne nell’ultimo anno spiegano questo concetto meglio di qualsiasi testo di sociologia:
Bisogna ribaltare la concezione o la descrizione che viene fatta di noi dagli altri, o la moda passeggera dei maranza che descrive quella categoria in maniera negativa. Per quanto mi riguarda essere di seconda generazione è un orgoglio, e lo è nella misura in cui voglio dare e lasciare qualcosa alle prime generazioni, a chi ha fatto la fatica e lo sforzo di venire qui, farci nascere qui, mantenerci regolari qui, ossia i nostri genitori. Gente che ha bruciato i propri passaporti per creare per noi un futuro migliore. A loro dobbiamo tutto e per questo motivo porto con orgoglio anche questo nome che, tendenzialmente, viene visto come roba negativa, mentre per me è tutt’altro.
La capacità di rielaborare lo stigma non fornisce ovviamente la garanzia di trovarsi di fronte a un nuovo soggetto antagonista o depositario di una qualche teleologia rivoluzionaria, e nemmeno di comportamenti consapevolmente antagonisti. Però l’incontro tra i barbari e gli spossessati delle nostre città-vetrina può essere dirompente.
La morte di Ramy non è stato un episodio isolato ma il frutto avvelenato di un sistema che uccide due volte: prima con l’emarginazione e poi con la brutalità poliziesca contro i giovani razzializzati. A Milano nei prossimi giorni ricorderemo Ramy con diverse iniziative, non solo per chiedere piena luce su quanto accaduto quel giorno di un anno fa ma soprattutto per vivere un momento di memoria condivisa caratterizzata dai suoi amici e dalla sua famiglia.
*Alice Ridolfi è laureata in sociologia e studia attualmente geografia e processi territoriali. È attivista dei movimenti sociali, transfemministi e antirazzisti.
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