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Per una politica della possibilità qui e ora
PROTEGGERE IL SENSO DI ATTIVITÀ MARGINALIZZATE DALL’ECONOMIA CAPITALISTA (IL LAVORO DI CURA, L’AUTOPRODUZIONE, L’AGRICOLTURA DI SUSSISTENZA, IL VOLONTARIATO, LE PRATICHE COMUNITARIE), RICONOSCERE L’IMPORTANZA DI UNA “POLITICA DELLA POSSIBILITÀ” QUI E ORA, VIVERE LA RICERCA COME ESPERIMENTO E NON SOLO MOMENTO VALUTATIVO, PENSARE IL CAMBIAMENTO SEMPRE A PARTIRE DAL CAMBIAMENTO DI SÉ. SONO PASSATI OLTRE TRE DECENNI DA QUANDO IL PENSIERO DI J.K. GIBSON-GRAHAM HA COMINCIATO A SCUOTERE LE FONDAMENTA DELLA RICERCA E DELLA PRATICA MARXISTA DA UNA PROSPETTIVA FEMMINISTA POST-STRUTTURALISTA. J.K. GIBSON-GRAHAM È LO PSEUDONIMO ACCADEMICO SCELTO DALLE GEOGRAFE ECONOMICHE KATHERINE GIBSON E JULIE GRAHAM. OLTRE IL CAPITALOCENTRISMO. PER UNA POLITICA DELLA POSSIBILITÀ QUI E ORA (MIMESIS ED.) È IL LIBRO CHE RACCOGLIE ALCUNI SUOI SCRITTI PIÙ SIGNIFICATIVI E INTRODUCE PER LA PRIMA VOLTA IN ITALIA IL PENSIERO DI J.K. GIBSON-GRAHAM. L’INTRODUZIONE DI OLTRE IL CAPITALOCENTRISMO Laboratorio di intreccio di materiali naturali presso Cascina Rapello (in una frazione di Airuno a 15 km da Lecco), un angolo di mondo di cui si prende cura la cooperativa Liberi sogni -------------------------------------------------------------------------------- Sono passati ormai oltre tre decenni da quando il lavoro di J.K. Gibson-Graham ha iniziato a scuotere le fondamenta della ricerca e della pratica marxista da una prospettiva femminista post-strutturalista. J.K. Gibson-Graham è lo pseudonimo accademico scelto dalle geografe economiche Katherine Gibson e Julie Graham. Le due si sono conosciute negli anni Settanta durante il dottorato alla Clark University, in Massachusetts e sono presto diventate amiche. Da questa amicizia è nata un’intesa intellettuale profonda che avrebbe dato origine a una delle collaborazioni più longeve e influenti nell’ambito del pensiero geografico contemporaneo. Le tesi dottorali di entrambe si basavano sull’economia politica marxista per analizzare i processi di ristrutturazione economica che stavano portando al declino di alcune regioni industriali “tradizionali” in Australia (Gibson) e negli Stati Uniti (Graham). Dopo il conseguimento del dottorato, Gibson è tornata a lavorare in Australia (prima all’Università Nazionale Australiana, poi all’Università di Sydney, alla Monash e infine alla Western Sydney) mentre Graham ha continuato il suo percorso negli Stati Uniti, all’Università del Massachusetts ad Amherst, dove è rimasta fino alla sua morta nel 2010, dopo essere anche stata a capo del Dipartimento di Geoscienze. Nonostante la notevole distanza fisica in tempi precedenti a Internet, l’impegno condiviso nei confronti dell’economia politica e della sperimentazione intellettuale è proseguito senza interruzioni per oltre trent’anni. Come affermato da loro stesse, “abbiamo percorso un cammino personale che si arricchisce continuamente, man mano che emergono nuove sfide nel relazionarsi e nel pensare/scrivere insieme”. Il risultato di questi sforzi è stata una geografia economica femminista post-strutturalista teoricamente sofisticata che ha messo al centro il ruolo del soggetto e la capacità trasformativa dei processi di ricerca, trasformando profondamente il dibattito su economia e sviluppo all’interno della geografia e delle scienze sociali più in generale. Il primo articolo co-firmato da Gibson e Graham (ma non ancora con lo pseudonimo Gibson-Graham) del 1986 era un intervento teorico marxista che sviluppava la loro teoria sulla ristrutturazione economica includendo nuove forme di migrazione internazionale di lavoro a contratto. In quegli anni, l’influenza dell’analisi strutturale marxista stava cominciando a essere messa in discussione all’interno della geografia economica; per Gibson e Graham, l’incontro col femminismo post-strutturalista e l’economia marxista anti-essenzialista di Stephen Resnick e Richard Wolff, colleghi di Graham ad Amherst, sembra aver rappresentato un punto di svolta fondamentale verso il tentativo di riteorizzare capitalismo e classe. La firma unica di “Gibson-Graham” è nata in una stanza di dormitorio durante una conferenza femminista alla Rutgers University nel 1992. Da qui ha preso vita il loro primo articolo a firma Gibson-Graham, dal titolo memorabile Waiting for the revolution, or how to smash capitalism while working at home in your spare time (“Aspettando la rivoluzione, o come distruggere il capitalismo lavorando da casa nel tempo libero”), pubblicato sulla prestigiosa rivista Rethinking Marxism nel 1993. È proprio con la traduzione di questo testo che si apre la presente antologia, il cui obiettivo principale è introdurre il pubblico in lingua italiana ad alcuni dei principali concetti e contributi analitici proposti da Gibson-Graham nel corso della sua prolifica produzione teorica. Sebbene il lavoro di Gibson-Graham abbia avuto un’influenza notevole su numerosi dibattiti contemporanei in diversi ambiti disciplinari non solo in lingua inglese, ma anche in italiano (tra i più recenti, si veda ad esempio quello sul pluriverso), esso non è tuttavia disponibile in traduzione italiana. La presente antologia rappresenta quindi il tentativo di rimediare a questa mancanza, raccogliendo una serie di contributi pubblicati tra il 1993 e il 2010, inclusi alcuni dei capitoli contenuti all’interno delle due monografie che hanno reso Gibson-Graham maggiormente nota a livello internazionale: The End of Capitalism (As We Knew It) del 1996 e A Postcapitalist Politics del 2006. Come la stessa Gibson-Graham osserva nell’introduzione alla seconda edizione, la prima edizione di The End of Capitalism è stata pubblicata nel pieno dell’ossessione accademica per la globalizzazione capitalista, e rappresentava una sfida profonda alle forme accettate di marxismo e neo-marxismo che allora dominavano la geografia economica. Del resto, come si evince dalla sua biografia, Gibson-Graham stessa era profondamente immersa in queste tradizioni intellettuali e disciplinari, e questo si rifletteva nel suo interesse per la teorizzazione della classe sociale, emerso già nei primi lavori firmati con lo pseudonimo collettivo. Il libro si proponeva di sfidare i discorsi teorici basati su forze economiche disincarnate, sull’egemonia capitalista e sull’omogeneizzazione legata alla globalizzazione. Ispirata in particolare dagli approcci anti-essenzialisti al marxismo, Gibson-Graham voleva mettere in discussione l’essenzialismo e il riduzionismo dei discorsi economici sia tradizionali che marxisti, decostruendo l’economia per dimostrare che non si tratta di uno spazio chiuso con un’identità capitalista fissa, ma può essere aperta ad altre interpretazioni. Per realizzare tale obiettivo, influenzata dalla teoria femminista di Elizabeth Grosz sul fallocentrismo, Gibson-Graham ha introdotto il concetto di capitalocentrismo, il quale descrive il binarismo dominante del discorso economico che tende ad assegnare caratteristiche positive di unità e totalità al capitalismo, mentre le pratiche economiche non-capitaliste vengono subordinate al capitalismo, in quanto mancanti o insufficienti e comunque sempre ricondotte nell’orbita del capitalismo. Secondo Gibson-Graham, il discorso capitalocentrico finisce per ridurre e cancellare la differenza economica, per cui ogni pratica viene ricondotta all’unità capitalista. Il capitalocentrismo si presenta quindi come una modalità, una struttura o una tendenza a organizzare la differenza economica in un modo tale per cui le categorie, le pratiche, i soggetti e gli spazi capitalisti (ad esempio, il lavoro salariato, la proprietà privata, l’impresa capitalista) vengono considerati più reali, centrali, coerenti e determinanti rispetto ad altri (come il lavoro domestico, l’agricoltura di sussistenza familiare, il lavoro schiavistico, le cooperative di produzione, la cura, il mercato nero, i beni comuni, il lavoro forzato). Avvicinarsi a queste differenze realmente esistenti senza presumere che esse debbano necessariamente allinearsi secondo logiche predeterminate o identità che le surdeterminano è al centro dell’ormai celebre strategia di Gibson-Graham di “leggere per differenza piuttosto che per dominanza” (si vedano i capitoli 4 e 6). Sfidare il capitalocentrismo significa, quindi, per Gibson-Graham, rendere visibile la molteplicità di processi di classe capitalisti e non-capitalisti presenti all’interno di qualsiasi formazione economica. Contestando la coerenza e la permanenza del capitalismo attraverso la teorizzazione dell’economia come molteplicità di forme coesistenti — tra le altre, feudalesimi, schiavitù, produzione indipendente di merci, produzione domestica e varie forme di capitalismo — il suo lavoro mira ad aprire spazi concettuali non solo per molteplici letture dell’economia, ma anche per una vasta gamma di lotte politiche. Un esercizio intellettuale di tale portata richiede uno sforzo concettuale importante, che ha portato, forse più di qualunque altro contributo, all’introduzione di approcci nuovi, combinati in maniera creativa, nell’ambito della geografia economica. Ciò ha significato andare ben al di là della tendenza diffusa a confrontarsi con visioni eterodosse dell’economia, promuovendo un intervento teorico primario radicale. Ecco, quindi, che in The End of Capitalism, trovano spazio, accanto ad Althusser, Engels e Marx, anche Derrida, Foucault, Grosz, Irigaray, Haraway e Sedgwick. Se questi nomi potevano essere familiari a chi si occupava di geografia culturale, essi erano profondamente lontani dai programmi di studio sull’economia e lo sviluppo. Sulla scia di tali influenze, la decostruzione era lo strumento metodologico principale adottato nel libro al fine di rompere le narrazioni consolidate che plasmavano l’analisi e la politica della sinistra. Questa fase iniziale segnava l’inizio di un progetto intellettuale più ampio, culminato nell’ambizione di produrre un linguaggio e una politica della differenza economica. Ciò ha comportato, innanzitutto, la rottura con le concezioni egemoniche del capitalismo come descrittore economico e sociale predeterminato, aprendo la strada alla ridefinizione di concetti chiave del marxismo come quelli di classe e surplus. Tale progetto si è basato fortemente sulla “teoria debole” (weak theory) così come concettualizzata da Sedgwick in opposizione alla “teoria forte” (strong theory). Secondo Gibson-Graham, la teoria forte rappresenta un approccio distaccato e critico, caratterizzato da una posizione paranoica in cui la diversità viene appiattita nell’uguaglianza, spinta dalla necessità di rendere generalizzabile e universale la conoscenza generata dai processi di ricerca. La “forza” di tale teoria non proviene dalla sua efficacia ma dall’ampiezza e dal tipo di dominio che essa organizza. Laddove la teoria debole è vista come “poco più che una descrizione” che si occupa solo di fenomeni vicini o situati, la teoria forte ordina fenomeni vicini e lontani in un unico sistema, riconducendoli a un’unica causa comune. Estendendo la propria portata, la teoria forte assume una posizione sempre più anticipatoria, finendo per rivelare poco più che i risultati già presunti. Ne consegue che “tutto finisce per significare la stessa cosa, solitamente qualcosa di grande e minaccioso”. Nel caso della ricerca sulle pratiche economiche, questo si traduce nel liquidare come insignificanti le pratiche definite “alternative” solo perché non rientrano nei modelli dominanti. Tuttavia, il progetto di Gibson-Graham non si è limitato a decostruire il capitalocentrismo del linguaggio, portando alla luce la diversità di pratiche e soggettività economiche che già esistono qui e ora. Esso ha fornito gli strumenti (pratici) per realizzare quella che Gibson-Graham ha definito “politica della possibilità”. Tale progetto inizia a essere realizzato appieno in A Postcapitalist Politics, dove Gibson-Graham propone di abbandonare le narrazioni cupe di sfruttamento capitalista e impotenza per promuovere pratiche di pensiero critico che ripensino le economie come multiple e differenziate, creando nuovi spazi per l’azione collettiva e nuove possibilità di soggettivazione che conducano alla realizzazione della politica della possibilità. A Postcapitalist Politics rappresenta quindi l’invito alla comunità accademica a riconoscere il potere costitutivo dei propri approcci analitici e a comprendere che, attraverso il proprio lavoro, essa contribuisce a creare e a mettere in scena i mondi che si abitano. Il progetto ontologico sull’economia diversa che viene a delinearsi si fonda su un orientamento sperimentale alla ricerca (nella forma della ricerca-azione). Nelle parole di Gibson-Graham, quest’orientamento sperimentale si caratterizza per un interesse verso l’apprendimento piuttosto che verso il giudizio. Trattare qualcosa come un esperimento sociale significa aprirsi a ciò che esso ha da insegnarci, un’attitudine molto diversa dal compito critico di valutare se qualcosa sia buono o cattivo, forte o debole, mainstream o alternativo. L’approccio sperimentale riconosce che ciò che stiamo osservando è in cammino verso qualcos’altro, e si interroga su come poter partecipare a questo processo di divenire. Questo non significa che le nostre raffinate capacità critiche non abbiano un ruolo nella ricerca, ma che la loro espressione passa in secondo piano rispetto all’orientamento sperimentale. In linea con l’influenza del femminismo post-strutturalista e della teoria queer, tale orientamento sperimentale (alla ricerca e alla pratica politica) non può che passare per il soggetto, ovvero non esiste cambiamento possibile che non parta dal cambiamento di sé. Infatti, recita uno dei passaggi del capitolo Coltivare soggetti per un’economia di comunità: “Se cambiare noi stesse significa cambiare i nostri mondi, e la relazione è reciproca, allora il progetto di fare la storia non è mai qualcosa di lontano, ma è sempre qui, ai margini dei nostri corpi che sentono, pensano, provano emozioni e si muovono”. Per produrre cambiamento, questo processo di soggettivazione deve essere, per Gibson-Graham, collettivo e basato sul riconoscimento imprescindibile del nostro essere in relazione con altri esseri umani e non umani per la difesa e la riproduzione dei beni comuni. In questo modo, il lavoro di Gibson-Graham offre strumenti fondamentali per teorizzare e praticare l’alternativa qui e ora partendo da sé, abbracciando gioia, sperimentazione, ottimismo e possibilità. -------------------------------------------------------------------------------- [Cesare Di Feliciantonio 
e Antonella Clare Vitiello] -------------------------------------------------------------------------------- Riferimenti bibliografici Gibson-Graham J.K., The End of Capitalism (As We Knew It), University of Minnesota Press, Minneapolis 1996. Gibson-Graham J.K., A Postcapitalist Politics, University of Minnesota Press, Minneapolis 2006. Gibson-Graham J.K., Diverse economies: performative practices for ‘other worlds’, in “Progress in Human Geography”, XXXII, n. 5, 2008, pp. 613-632. Gibson K., Graham J., Situating migrants in theory: the case of Filipino migrant contract construction workers, in “Capital and Class”, XXIX, n. 1, 1986, pp. 130-149. Kothari A., Salleh A., Escobar A., Demaria F., Acosta A. (a cura di), Pluriverso. Dizionario del post-sviluppo, ed. it. a cura di M. Benegiamo, A. Dal Gobbo, E. Leonardi, S. Torre, Orthotes, Napoli 2021 Sedgwick E.K., Touching feeling: Affect, pedagogy, performativity, Duke University Press, Durham 2003. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Per una politica della possibilità qui e ora proviene da Comune-info.
Alle soglie di una nuova era
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- “Alle soglie di una nuove era. Gustavo Esteva – Vita e opere di un intellettuale de-professionalizzato” è il nuovo libro di Elias González Gómez e Carlos Tornel uscito nella collana “Ripensare il mondo” (curata da Aldo Zanchetta) per la casa editrice Mutus liber. Un anno dopo l’uscita di Speranza forza sociale (ed. Mutus Liber), il libro di Gustavo Esteva che approfondisce il tema della speranza, questa nuova pubblicazione individua nei testi e nelle esperienze di Esteva le bussole con cui orientarsi in questi tempi cupi. Nella quarta di copertina, tra l’altro, si legge: “Stiamo vivendo un passaggio di era, un cambiamento epocale sempre più violento e caotico. Non è facile viverlo con lucidità. Non si tratta di una semplice crisi. È il crollo di tutti i riferimenti di base su cui era strutturato il nostro mondo. Quali saranno i paradigmi (cioè i valori di riferimento) della nuova era? C’è chi azzarda nuovi nomi che potrebbero caratterizzarla: antropocene, capitalocene, digitalocene, trans-umanesimo… Come vivere questa transizione perché non ci conduca – come aveva ammonito Ivan Illich – alla perdita definitiva dell’umano, almeno nella forma che abbiamo conosciuto fino ad oggi? Ragioniamone con Gustavo Esteva, «intellettuale de-professionalizzato e operatore sociale», amico e collaboratore di Ivan Illich. Prima di rinunziare a questa umanità, proviamo a sperimentare altri modi di essere umani, rinunziando al mito dell’uomo prometeico e riscoprendo l’uomo epimeteico (Illich). «Speranza, amicizia, sorpresa» sono le basi di un mondo nuovo, che Esteva ritiene possibile”. Nell’archivio di Comune sono leggibili oltre 150 articoli di Gustavo Esteva. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Alle soglie di una nuova era proviene da Comune-info.
Muoversi nel buio
L’ORRORE PRECIPITATO SULLA PALESTINA E SUL MONDO INTERO NON È SOLO UN PROBLEMA POLITICO, MA ESISTENZIALE, ANTROPOLOGICO: STIAMO PERDENDO LA CAPACITÀ STESSA DI ESSERE UMANI NEL SENSO PIENO, DI ENTRARE IN RELAZIONE AUTENTICA CON GLI ALTRI. CHI CI PUÒ GUIDARE FUORI DA QUESTO LABIRINTO? PER DIRLA CON SIMONE WEIL, NON SI TRATTA DI ATTENDERE GRANDE LEADER O DI INDIVIDUARE QUALCHE INTELLETTUALE DA SEGUIRE, IL NOSTRO SGUARDO DEVE CERCARE NELLA VITA DI OGNI GIORNI DI TANTE PERSONE COMUNI CHE SANNO PRENDERSI CURA DEGLI ALTRI SENZA CERCARE RICONOSCIMENTO, SANNO VIVERE PER LA GIUSTIZIA SENZA PROTAGONISMO. “NON È ROMANTICISMO INGENUO – SCRIVE EMILIA DE RIENZO – È LA SCOPERTA CHE IL CAMBIAMENTO PIÙ PROFONDO PASSA ATTRAVERSO LA TRASFORMAZIONE DELLA QUALITÀ DELLE RELAZIONI UMANE… È LÌ, IN QUELLA FEDELTÀ APPARENTEMENTE INSIGNIFICANTE, CHE PUÒ NASCERE QUALCOSA DI NUOVO…” Cucina popolare di al-Mawasi (Khan Younis), nel sud della Striscia di Gaza, promossa dalla campagna “SOS GAZA” (qui le informazioni per sostenere la campagna) -------------------------------------------------------------------------------- “Il presente è uno di quei periodi in cui svanisce quanto normalmente sembra costituire una ragione di vita e, se non si vuole sprofondare nello smarrimento o nell’incoscienza, tutto va rimesso in questione. Solo una parte del male di cui soffriamo è da attribuire al fatto che il trionfo dei movimenti autoritari e nazionalisti distrugga un po’ dovunque la speranza che uomini onesti avevano riposto nella democrazia e nel pacifismo: esso è ben più profonda e ben più vasto. Ci si può chiedere se esista un ambito della vita pubblica o privata dove le sorgenti stesse dell’attività e della speranza non siano avvelenate dalle condizioni nelle quali viviamo”. Queste parole di Simone Weil, scritte negli anni Trenta di fronte all’ascesa dei totalitarismi europei, risuonano oggi con una forza inquietante. Come allora, assistiamo al fallimento delle democrazie, al ritorno di nuovi fascismi. Ma Weil ci aveva avvertiti: il problema non è solo politico. È più profondo, più vasto. La crisi che viviamo è esistenziale e antropologica. Stiamo perdendo la capacità stessa di essere umani nel senso pieno: di pensare autonomamente, di entrare in relazione autentica con gli altri, di sentirci radicati in qualcosa che abbia senso. Il lavoro precario e frammentato, l’impossibilità di progettare il futuro, la sensazione di essere ingranaggi di meccanismi che ci sfuggono completamente – tutto questo corrode quelle che Weil chiamava le “radici” dell’anima umana. E chi ci può guidare fuori da questo labirinto? Gli intellettuali, anche quelli che proclamano belle idee, sembrano presi dai loro interessi personali, chiusi in circoli autoreferenziali, troppo lontani dalla gente comune. Weil lo aveva capito sulla propria pelle: aveva abbandonato l’insegnamento per andare a lavorare in fabbrica, convinta che la verità si trovasse nell’esperienza concreta, non nei discorsi su di essa. Forse la risposta non sta nel cercare guide esterne, ma nel ripartire da quella che lei chiamava “attenzione”: la capacità di vedere realmente ciò che ci sta davanti, senza filtri ideologici. Le guide, se esistono, sono quelle persone – spesso anonime – che nella loro vita quotidiana praticano forme autentiche di resistenza: chi si prende cura degli altri senza cercare riconoscimento, chi lavora per la giustizia senza protagonismo. Ma allora, viene da chiedersi, che senso ha? Diventare una piccola lucina nel buio totale non sembra forse inutile, insignificante? Eppure, chi di noi non ha sperimentato la gioia profonda che nasce quando incontriamo una persona che ci presta vera attenzione, che usa gentilezza nei nostri confronti? In quel momento il respiro si apre, qualcosa in noi si risveglia. È la prova che l’essere umano ha bisogno di questo riconoscimento autentico per esistere pienamente. E quando ringraziamo quella persona, quando le facciamo sapere che la sua gentilezza non è stata inutile, chiudiamo un cerchio prezioso. Non è più un gesto disperso nel vuoto, ma qualcosa che ha toccato un’altra vita umana, che probabilmente si moltiplicherà in altri gesti simili. Per Weil questi momenti di vera connessione umana erano preziosi. Perché è lì che si sperimenta concretamente cosa significa essere trattati come persone e non come oggetti, cosa vuol dire la giustizia nelle relazioni quotidiane. Non è romanticismo ingenuo. È la scoperta che il cambiamento più profondo passa attraverso la trasformazione della qualità delle relazioni umane, una persona alla volta, un incontro alla volta. È l’intuizione che ogni gesto autentico di attenzione, di verità, di giustizia, ha un valore assoluto, non perché produca effetti visibili, ma perché è l’unica risposta degna dell’essere umano di fronte al male: essere fedeli a ciò che sentiamo giusto. È lì, in quella fedeltà apparentemente insignificante, che può nascere qualcosa di nuovo. In un’epoca in cui le “sorgenti stesse dell’attività e della speranza” sembrano avvelenate, la piccola lucina che accendiamo nella nostra vita quotidiana non è un gesto consolatorio. È un atto di resistenza. È il modo in cui scegliamo di rimanere umani. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI JOHN HOLLOWAY: > Imparare a pensare la speranza -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Muoversi nel buio proviene da Comune-info.
I peggiori nemici degli ebrei
-------------------------------------------------------------------------------- Vicolo Luretta, Bologna -------------------------------------------------------------------------------- Il 29 luglio il Parlamento europeo ha respinto la proposta di sospendere il finanziamento delle startup israeliane. Si tratta di startup che preparano genocidi per il futuro, in quanto si occupano in gran parte di security. Continuiamo a finanziare il genocidio, perché come dice Friedrich Merz, gli israeliani fanno il lavoro sporco per noi, cioè sono i nostri Sonderkommando, aguzzini colonialisti alle dipendenze del razzismo sistemico europeo. Ma se siamo forti con i deboli, e assistiamo compiaciuti al genocidio dei popoli colonizzati, non smettiamo di piegarci davanti ai forti. Gli Stati Uniti hanno spinto l’Ucraina a una guerra che ha distrutto quel popolo (è di oggi la notizia che i sessantenni possono andare a combattere perché ormai gli uomini di quel paese sono decimati). L’Unione Europea ha assecondato la provocazione statunitense, che aveva come finalità principale la rottura del legame economico tra Germania e Russia. Poi il presidente del paese cui siamo sottomessi è cambiato. E allora Jack Vance è venuto a Monaco a dirci che gli europei gli fanno schifo, che l’Ucraina merita di morire e che il suo paese se ne fotte delle conseguenze della guerra che il suo paese ha provocato. Ma gli europei fanno finta di non capire, occorrerebbe uno psicoanalista per spiegarci perché. Mentre la razza bianca declinante ha scatenato una guerra globale contro i popoli del sud migrante, la guerra inter-bianca è in pieno svolgimento. Pare che il fascista Putin la stia vincendo, pare che il fascista Trump sia indispettito. Ma quel che è certo è che gli europei investiranno somme enormi per comprare armi da Trump, che nel frattempo impone dazi del 15% e pretende che le aziende high tech non paghino le tasse, ottenendo piena soddisfazione dalla signora Ursula. Il 29 luglio in una stazione di servizio del Nord Italia è stata aggredita una famiglia di turisti che portava la kippah, segno di appartenenza ebraico. Anche il mio amico e compagno Moni Ovadia porta la kippah. Anche l’editore brasiliano dei miei libri, Peter Pal Pelbart, probabilmente in questo momento gira con una kippah per le strade di Sao Paulo. Corre il rischio di essere aggredito da una folla di squilibrati fascistoidi? Certo che sì. Da sempre gli ebrei hanno dovuto fare i conti con la violenza razzista. A loro tocca la sorte che tocca (in misura assai maggiore) ai migranti di origine africana o nord-africana che sono facilmente riconoscibili anche se non portano la kippah. Il problema è che per le comunità ebraiche di tutto il mondo si sta avvicinando uno tsunami di odio e di violenza, pari all’immenso orrore che suscita il Sionismo nella sua fase genocidaria. Lo Stato di Israele nacque abusivamente con uno sterminio e deportazioni di massa che la comunità internazionale non ebbe la forza e neppure la volontà di fermare, perché i sionisti promettevano di creare un luogo sicuro per gli ebrei. Gli europei, responsabili diretti o indiretti dell’Olocausto, non potevano fare obiezioni. Inghilterra e Stati Uniti videro nella formazione di quello Stato uno strumento per controllare l’area petrolifera mediorientale. Ma oggi appare evidente che lo Stato di Israele ha costituito fin dal suo inizio una continuazione del Terzo Reich hitleriano. Israele è certamente il luogo più pericoloso per un ebreo, oggi. Ma quel che scopriremo presto è il fatto che le politiche di questo Stato, illegale e colonialista e disumano, sono destinate a riattivare l’odio per gli ebrei in ogni zona del mondo. La crisi psicotica che sta travolgendo Israele rende quel popolo assetato di sangue, e stravolge la mente di coloro che sono responsabili dell’orrore della fame della sete dello sterminio che si diffonde a pochi chilometri da casa loro. Intanto i suicidi nell’Israeli Defence Force si moltiplicano. I dati che possiamo trovare su Haaretz di ieri sono abbastanza chiari, anche se probabilmente non rendono con realismo le dimensioni del fenomeno. E soprattutto, pur fornendo informazioni sul numero di soldati che si uccidono durante il servizio, Israele non fornisce nessuna informazione su coloro che si uccidono dopo essere tornati a casa. Quanti ventenni israeliani, dopo avere sparato in faccia a un bambino di otto anni che stava chiedendo di poter avere un po’ di cibo, continuano a fare il loro sporco lavoro (così lo ha chiamato il cancelliere tedesco Merz) fin quando, tornati a casa loro, si guardano nello specchio, si fanno orrore e si sparano un colpo nella tempia? -------------------------------------------------------------------------------- Un articolo di Haaretz del 29 luglio: IDF Reservist Who Helped to Identify Fallen Soldiers During Gaza War Dies by Suicide Un articolo di Haaretz del 30 luglio: Netanyahu’s Forever War in Gaza Is Crushing Israel’s Soldiers and Their Families -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo I peggiori nemici degli ebrei proviene da Comune-info.
L’ipocrisia dei “riconoscimenti” dello stato di Palestina
VIENE DA PENSARE AGLI SCRITTI, TRA GLI ALTRI, DI EDWARD SAID SUL BISOGNO DI UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA CAPACE DI GARANTIRE AI SUOI CITTADINI EBREI E PALESTINESI UNA COMPLETA UGUAGLIANZA DI DIRITTI, QUANDO SI SENTE PARLARE DI RICONOSCIMENTO DELLO STATO DI PALESTINA. IN REALTÀ, DI FRONTE ALLA FURIA DISTRUTTRICE DI ISRAELE PARLARE DI STATO DI PALESTINA È SOLTANTO PROPAGANDA E CRUDELE IPOCRISIA. PERCHÉ LE CLASSI DIRIGENTI EUROPEE DI FRONTE AL GENOCIDIO NON FANNO QUELLO CHE POTREBBERO FARE, CIOÈ INTERROMPERE IMMEDIATAMENTE GLI INVII DI ARMI E LE COLLABORAZIONI MILITARI CON ISRAELE? PERCHÉ NON INTRODUCONO SANZIONI MIRATE CONTRO IL PREMIER, I SUOI MINISTRI E I PRINCIPALI GENERALI DELL’ESERCITO ISRAELIANO? PERCHÉ NON PROMUOVONO L’INVIO DI UNA FORZA DI INTERPOSIZIONE CHE PROTEGGA LA POPOLAZIONE PALESTINESE? LA VERITÀ È CHE L’EUROPA STA COLLABORANDO AL GENOCIDIO DI GAZA Foto di MilanoInMovimento -------------------------------------------------------------------------------- Ancora una volta, l’improvviso attivismo diplomatico di alcuni paesi europei – per ora Francia e Gran Bretagna, altri forse si aggiungeranno – sul genocidio a Gaza è rivelatore della crisi profonda, della débâcle delle attuali classi dirigenti. Il riconoscimento dello stato di Palestina, peraltro rinviato a settembre e sottoposto a varie condizioni, è concepito nelle cancellerie europee come un passo coraggioso, uno scatto in avanti che finalmente rompe gli indugi. E invece non è niente. A genocidio in corso, e mentre procedono sia la pulizia etnica sia i piani israeliani di annessione della Cisgiordania, compiere “passi” del genere e declamare il consunto slogan “due popoli due stati” senza fare nulla di concreto, è un misto di crudele ipocrisia e di insopportabile insipienza. I capi di stato e di governo europei non sono semplici attivisti o volenterosi intellettuali che possono limitarsi a fare enunciazioni di principio ché altri strumenti non hanno; capi di stato e di governo, se davvero hanno a cuore la sorte dei palestinesi, dello stesso popolo israeliano, della diplomazia internazionale, hanno il dovere di agire, di mettere in campo delle azioni concrete. Di fronte al genocidio occorre interrompere immediatamente gli invii di armi e le collaborazioni militari con Israele; devono essere introdotte sanzioni mirate contro il premier e i suoi ministri, contro i principali generali dell’esercito israeliano; le squadre sportive  israeliane devono essere escluse  dalle competizioni sportive internazionali; le forniture di materie prime utilizzabili militarmente devono essere interrotte; vanno intraprese azioni legali contro i dirigenti israeliani per crimini di guerra e contro l’umanità davanti alle corti internazionali; dev’essere programmato e preparato  – perché no? – l’invio di una forza di interposizione che separi l’esercito israeliano dai gazawi e che protegga la popolazione palestinese in Cisgiordania (Israele, che è alleato dell’occidente, non potrebbe dire di no a una coalizione europea). Sono questi i provvedimenti che dobbiamo aspettarci, le misure che dovremmo chiedere ai nostri governi. Tutto il resto – i proclami, le lettere di lamentela, le dichiarazioni e gli annunci – è pura propaganda, un modo ben conosciuto per pulirsi la coscienza di fronte allo smisurato orrore di quel che avviene a Gaza e in Cisgiordania con la complicità delle cancellerie occidentali, le quali nel disastro di Gaza stanno perdendo ogni credibilità democratica; stanno distruggendo dall’interno non solo la forma ma l’idea stessa di Europa, un progetto nobile che affondava le sue radici – dobbiamo ricordarlo ancora una volta? – nel rifiuto della forza come regolatrice dei rapporti internazionali e nell’affermazione che la dignità della vita, di ogni vita, è il principio cardine della nostra civiltà. La verità è che l’Europa sta collaborando al genocidio di Gaza, al punto che capì di stato e di governo europei, e anche i privati che forniscono l’esercito israeliano, potrebbero essere chiamati un giorno a rispondere in sede giudiziaria– se ancora esisterà un diritto internazionale con le sue Corti – della loro complicità. Le parole e gli annunci non bastano più, servono fatti concreti e servono subito. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI MASSIMILIANO SMERIGLIO: > Ci uccidono una vita alla volta -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’ipocrisia dei “riconoscimenti” dello stato di Palestina proviene da Comune-info.
Ci uccidono una vita alla volta
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- Quello davanti è Iacopo, mio figlio. Dietro di lui Awdah, in un giorno di pioggia a Roma. Erano amici. Una storia di dolore che sfregia il cuore di tanti e della nostra famiglia. Una storia tra centinaia di altre. Awdah veniva dalla Cisgiordania, dal villaggio dove è stato girato No Other Land, e insieme al regista Basel erano venuti a Roma la prima volta nel 2022 e poi ogni anno. Awdah è stato ucciso a sangue freddo nella sua casa, dalla violenza cieca di un colono armato rimasto completamente impunito. Perché in Cisgiordania la caccia al palestinese va in scena ogni giorno. In maniera sempre più brutale. Ma forse più dei numeri dovremmo raccontare le vite di ogni singolo assassinato. Ci uccidono una vita alla volta, scriveva qualche giorno un suo amico. Awdah era un insegnante di scuola elementare, lascia tre figli e tutti i suoi piccoli studenti. Era un leader non violento che credeva nei diritti, nella giustizia e nella libertà, nella speranza di un futuro migliore per il popolo palestinese. Costruiva dialogo e ponti con le comunità internazionali e con i gruppi di ebrei e israeliani contro l’occupazione. Ogni anno veniva in Italia, insieme ai suoi compagni che ora sono in carcere senza accuse, in via preventiva. Solo qualche giorno fa Iacopo e altri stavano lavorando ai permessi per farli venire in Italia per un progetto di scambio sull’educazione e le comunità resistenti. Il suo corpo, come spesso accade, è stato sequestrato dalle forze israeliane e il suo funerale è stato vietato dall’esercito. Oggi, mercoledì 30 luglio, verrà ricordato da tutti coloro che lo hanno conosciuto. Chiunque voglia portare un fiore lo potrà fare questa sera a Roma, alle 21 a piazza Sauli. Scriveva martedì 29 Iacopo: “Oggi a Roma pioveva. Come quel giorno in cui mi hai insegnato che nel deserto si vive per sentire l’acqua, benedizione sulla pelle”. Ci sono ferite più profonde di altre che fanno sanguinare a tempo pieno. Fai buon viaggio ragazzo gentile. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Ci uccidono una vita alla volta proviene da Comune-info.
Un’esperienza comunitaria grande come una valle
ANCHE QUEST’ANNO, LONTANO DALLE ATTENZIONI DEI GRANDI MEDIA, IL FESTIVAL ALTA FELICITÀ HA ACCOLTO IN VAL SUSA MIGLIAIA DI GIOVANI, LA LORO VOGLIA DI COLLABORARE, DI FARE DOMANDE, DI BALLARE. IL LORO GRIDO DI VITA ROMPE IL DOMINIO DI VIOLENZA E DENARO -------------------------------------------------------------------------------- Alcune foto della marcia No Tav del 26 luglio 2025. Qui il servizio completo di Luca Perino, che ringraziamo. -------------------------------------------------------------------------------- Dove si trova la vita? Ok partiti alti. Eppure è stato il pensiero continuo avendo negli occhi interminabili file di ragazzi e ragazze, da settimane intercettati dal sole di luglio, gambe e braccia abbronzati. Vestiti di poco. In coda per colazioni, bagni, pastasciutte, panini, prelibatezze spadellate dai “Fornelli in lotta”. E perché no anche polente, panini e grigliate. Siamo in Valle di Susa, al Festival Alta Felicità. File senza fine, sempre rispettate. Non uno spintone, uno scazzo, una deriva. Scrive su Fb Viviana una mamma: “Ho filmato la marcia dei ragazzi No Tav perché almeno tramite social si conoscesse la verità. Non sono teppisti, estremisti, terroristi. Chiedono a noi adulti di essere onesti, di dire la verità, di raccontarla giusta. Io li ho visti, li ho sentiti parlare e ridere e stare insieme e anche piangere. E ho pensato che il campeggio No Tav è una tra le esperienze di vita comunitaria migliori che possano fare i ragazzi”. Arrivano da tutta Italia e anche dall’estero, arrivano in auto fino a Susa, in treno, in moto e poi usano le navette gratuite per raggiungere il piccolo comune montano (900 abitanti). Arrivano con zaini, borracce. Si chiamano “tende a strappo” sono leggere, circolari e in un attimo sono montate sul prato, una accanto all’altra a formare un’onda enorme di teli blu. Un’onda come il grido che risuona per tutta l’area da centinaia di ragazzi che scandiscono: “Siamo tutti antifascisti”. Il Comune di Venaus è diventato famoso dopo le giornate di lotta e sgombero dell’8 dicembre 2005 (a fine anno saranno vent’anni e sono trent’anni da quando l’opposizione alla grande opera è iniziata): qui le navette da una corsa all’altra continuano a sfornare centinaia di ragazzi, sotto il sole o sotto la pioggia, niente li ferma. Nove anni fa il primo Festival Ad Alta Felicità. Quanto siamo cambiati? Quanti non ci sono più? È abbastanza normale chiederselo, eppure questo senso di smarrimento si scioglie e riprende carica riflettendosi nei loro visi, nelle loro domande, nella disponibilità a lavorare fianco a fianco con i gruppi di “anziani” che garantiscono i vari stand mangerecci. Tagliano la frutta a pezzi per la sangria senza sottrarsi a raffiche di domande di chi diventa per due ore zia, nonna, curiosi di conoscere il loro futuro. Sotto un grande tendone gli incontri iniziano venerdì e portano la voce di Gaza con il libro di Betta Tusset e don Nandino Capovilla, da oltre vent’anni presente nella Striscia, ed Enzo Infantino dell’associazione Sabra&Chatila. Segue un incontro sull’intelligenza artificiale con Alberto Puliafito e Stefano Barale. Cambio palco: si parla di lavoro con la lotta delle fabbriche: Raffaele Cataldi racconta la sua esperienza all’Ilva di Taranto e il suo libro Malesangue; con lui c’è Dario Salvetti (ex GKN) autore di Questo lavoro non è vita. Si guarda avanti per inventarsi un futuro. Sul profilo Instagram del Collettivo di Fabbrica GKN si legge: “Tre cargobike saranno messe a disposizione come mezzo navetta da Susa a Venaus. Come tutti gli esperimenti, non sappiamo come andrà. Sappiamo che è giusto provare. Poi riprovare. E dopo riprovare. Se non per riuscire, almeno per fallire meglio. Tutte le info sul progetto https://insorgiamo.org/cargo-bike/”. Conclude la giornata di venerdì ancora un incontro sulla Palestina e un collegamento con di Antonio Mazzeo dalla nave Handala fermata dagli israeliani. Impossibile elencare tutti gli eventi organizzati anche dall’altro palco postazione “autogestita”. Impossibile elencare tutti i gruppi musicali, gratuiti, che hanno riempito le serate fino a tardi. Sabato la parola va ai “Tetrabondi”, tetraplegici e vagabondi, per superare il pietismo legato alla disabilità. In valle sono molte le esperienze positive che interpretano bene il titolo dell’incontro: “A volte la disabilità è l’ultimo dei miei problemi”. Nella stessa mattinata la cooperativa Il Sogno di una cosa, con un gruppo di ragazzi porta il proprio contributo sistemando l’area concerti. La domenica mattina viene aperta da Angelo Tartaglia, Lorini e Roberto Aprile con una riflessione sul nucleare e sulle confluenze sempre più necessarie. Segue un partecipatissimo incontro: “Guerra alla guerra. Assemblea nazionale, un appello per la costruzione di un percorso contro la guerra, il riarmo il genocidio della Palestina”: un appello a tutti coloro che vogliono mettersi in dialogo e che vogliono convergere per curvare un destino che sembra ineluttabile. Ilaria Salis e Patrik Zaki hanno chiuso la tre giorni di incontri e musica parlando della loro esperienza. I giornali non hanno riportato un rigo su tutto quello che c’è stato di positivo. Più facile tornare a parlare di “frange” violente che non di ragazzi che hanno percorso la manifestazione ballando e cantando. Sui social è partito il dibattito sulla valle pacificata o no. E quali strumenti sia più giusto usare. Pensando di pareggiare i conti è stato dato fuoco al presidio No Tav di San Didero. E la storia continua. Altre due foto di Luca Perino, scattate durante il concerto di Francamente (25 luglio) Anni fa un articolo su “Carmilla” aveva sintetizzato i giorni del festival, non molto diversi da quelli appena trascorsi. “Portafogli e zaini smarriti, subito ritrovati. Risse per ubriachi molesti, zero. Retorica, zero. Malori per sostanze varie, zero. Partiti e sindacati, zero. Spacciatori di droghe pesanti, zero. Polizia, zero. Star, musicisti, autori altezzosi, zero. Ecco, forse su questo vale ancora la pena di fermarsi per una riflessione. Non si erano mai visti tanti artisti, alcuni persino inattesi, insieme prendere posizione sul NoTav…”. Non si erano mai viste generazioni così diverse collaborare insieme dando vita a una gigantesca “foresta di Sherwood” che si batte contro dei nemici molto molto più cattivi, pericolosi, violenti e squallidi dello “sceriffo di Nottingham” al servizio di un unico dio, il denaro. Sui social il dibattito è vivace. Quali strumenti usare per far sentire le proprie ragioni? Intanto domenica sera alle ore 22 dall’arena concerti Borgata 8 dicembre è stato fatto rumore aderendo all’appello: ”Disertiamo il silenzio” pensando a Gaza. -------------------------------------------------------------------------------- Inviato anche Volerelaluna.it -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Un’esperienza comunitaria grande come una valle proviene da Comune-info.
Crisi della città e crisi dell’arte
L’OMNIMERCIFICAZIONE DEL MONDO, COMPLEMENTO LOGICO DELLA SOCIETÀ DI CRESCITA, HA CONSEGUENZE DISTRUTTIVE SULLA QUALITÀ DELLA VITA IN TUTTE LE CITTÀ. MA AL FALLIMENTO DELLA «POLITICA URBANA» HA CONTRIBUITO ANCHE QUELLA CHE È STATA CHIAMATA LA «CRISI DELLA CULTURA», UNA DISTRUZIONE DEL GUSTO, DELLA SENSIBILITÀ, DELLO STILE DI VITA. L’INTRODUZIONE DEL LIBRO IL DISASTRO URBANO E LA CRISI DELL’ARTE CONTEMPORANEA (ELÈUTHERA) DI SERGE LATOUCHE: UNA RIFLESSIONE SULL’ESTETICA ACCOMPAGNATI DA BAUDRILLARD E CASTORIADIS Milano. Foto unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- All’origine di questo libro c’è anzitutto la pubblicazione, in Italia, di un saggio scritto su impulso e in collaborazione con Marcello Faletra, docente di Estetica all’Accademia di Belle Arti di Palermo, intitolato Hyperpolis. Architettura e capitale[1]. Il termine «Hyperpolis» che ho suggerito per il titolo allude all’opera Les Géants del grande romanziere francese J.M.G. Le Clézio, che rappresenta una delle critiche più feroci alla società dei consumi. Hyperpolis designa una sorta di città-supermercato gigante, simbolo del mondo della merce nel villaggio globale. «Quando si è dentro Hyperpolis è come se si fosse dentro l’universo. Tutt’a un tratto le mura sono così lontane che non si riesce a vederle, sono sparite ai confini dello spazio. Il soffitto è tanto alto, il pavimento tanto basso, che è come se non ci fossero limiti. Lo spazio si è espanso molto velocemente, ha respinto le superfici dure e piatte, largo, tanto largo, ha spostato i suoi muri e le sue finestre, e ora non se ne vedono più le frontiere. Si è in lui, si fluttua». Questo luogo inumano invoca la sua distruzione. Si presenta allora come un ritornello ossessivo il mantra «Bisogna bruciare Hyperpolis», cosa che il protagonista, Machines, compirà alla fine del romanzo[2]. L’omnimercificazione del mondo, complemento logico della società di crescita, ha conseguenze talmente distruttive sulla qualità della vita che in effetti si può perfino arrivare ad augurarsi la scomparsa di questo mondo. La deterritorializzazione, ovvero la dinamica extra suolo dell’attività umana, devasta sia la campagna sia la città e saccheggia il paesaggio, a dispetto della buona volontà e del talento di architetti, urbanisti e paesaggisti che, spesso consapevoli del disastro, tentano invano di porvi rimedio. Se la megapolis nella quale viviamo non è altrettanto inumana di Hyperpolis è perché eredita una storia e una cultura che hanno preceduto il regno della merce e perché la colonizzazione del nostro immaginario da parte dell’economia fatica a distruggere fino in fondo la nostra capacità di resistenza. L’analisi del disastro urbano non pertiene solo alla dimensione territoriale della logica di distruzione materiale compiuta dall’economia di crescita. Questa costituisce di certo un elemento importante nei disordini che hanno avuto luogo di recente nelle banlieues francesi e che hanno portato il presidente Macron a parlare di «decivilizzazione». Ma al fallimento della «politica urbana» ha contribuito anche quella che è stata chiamata la «crisi della cultura», ovvero una radicale perdita di valori, un’altrettanto radicale distruzione del gusto, della sensibilità, dello stile di vita. Tale distruzione, che si può qualificare come di natura estetica, deriva in ultima istanza dallo stesso processo di colonizzazione dell’immaginario da parte del fattore economico presente anche nella deterritorializzazione. La capacità di resistenza mentale al processo distruttivo si nutre e si rinforza grazie alle distruzioni materiali. Siamo coinvolti in una lotta titanica – dove è in gioco nientemeno che la sopravvivenza della specie – che a vari livelli e con modalità diverse investe tutti. Il caso ha voluto che questa riflessione sul disastro urbano sia avvenuta in concomitanza con una riflessione più generale sull’estetica, nata da un invito a partecipare al festival di Trani (cittadina pugliese, non lontana da Bari, ricca di storia), il cui tema era «la Bellezza». Dal momento che l’estetica non sfugge al collasso dei valori generato dal trionfo del valore economico, gli organizzatori del festival hanno pensato, non senza ragione, che la decrescita avesse qualcosa da dire al riguardo. Tanto la crisi dell’arte contemporanea, spesso denunciata, quanto il disastro urbano, risultano incontestabilmente da quel collasso. E il grande caos estetico tocca tutte le belle arti: l’architettura (e il suo prolungamento, l’urbanistica) così come la pittura o la musica, anche se la prima è toccata sia dall’impatto materiale della mercificazione sia dalle sue ricadute sull’estetica. Ecco verosimilmente la ragione per cui, nel progetto della decrescita, architetti e urbanisti sono stati interpellati molto più di pittori, musicisti o danzatori, anche se, in fin dei conti, tutti ne sono stati colpiti. L’ambizione di architetti e urbanisti è di risolvere la crisi sociale con l’utopia delle cités radieuses, mentre quella dei poeti, dei pittori, dei musicisti e degli altri artisti è di farci sognare, dimenticare la miseria del presente e reincantare il mondo. L’estetica si trova pertanto al crocevia delle riflessioni sulla decrescita. La si incontra sia quando ci si interroga sul ruolo del sacro o sull’arte di vivere, sia quando ci si preoccupa di pedagogia o di colonizzazione dell’immaginario3. Nonostante ciò, è ancora possibile ritrovare il senso e il gusto del bello? Ci si può inventare un’estetica adatta al progetto di costruire società di abbondanza frugale? Ne esistono già segni premonitori e anticipazioni? La decrescita non sfugge al malinteso dei progetti utopici, incastrati fra la pregnanza del presente e il futuro sognato: città di decrescita, abitazioni di decrescita ecc. Ci sono state anche rivendicazioni di decrescita nella pittura, nella musica, e perfino nella pedagogia. Si tratta di pretese largamente, se non totalmente, ingiustificate. Si può essere urbanisti, architetti, pittori o musicisti e aderire al movimento della decrescita, e certamente questa adesione può e deve avere un impatto sul modo di praticare la propria arte. Tuttavia, non bisogna mettere il carro davanti ai buoi. L’arte non può essere arruolata per un progetto sociale e politico, proprio come non può essere sottomessa agli imperativi del mercato. «Il tentativo di strumentalizzare l’arte» scrive Castoriadis «porta alla sua pura e semplice distruzione»[4]. Anche se è possibile tratteggiare quelle che potrebbero essere città sostenibili e conviviali alternative alla società di crescita, è un azzardo troppo grande pretendere di anticipare un’estetica del futuro, nonostante essa costituisca una dimensione centrale del progetto della decrescita. Questa riflessione sull’estetica nei suoi intrecci con il progetto della decrescita non ha la presunzione di presentare un’analisi esaustiva della crisi dell’arte contemporanea, tema che ha suscitato contributi molto approfonditi da parte degli specialisti, del cui novero non pretendiamo di fare parte[5]. Motivata dalla connessione con la decrescita, essa sfrutta largamente la critica poderosa di Jean Baudrillard enucleata nel suo pamphlet sul «complotto dell’arte», ma poggia al contempo sulle analisi della distruzione della cultura nella società capitalista condotte da Cornelius Castoriadis, disseminate nella sua opera e poi raccolte nel libro postumo Fenêtre sur le chaos[6]. Ovviamente l’analisi di Castoriadis, a differenza di quella di Baudrillard, non porta direttamente alla «nullità dell’arte contemporanea»: i giudizi che esprime sull’argomento, molto cauti[7], derivano dalla sua diagnosi della crisi della cultura occidentale, ovvero sostanzialmente dei suoi «valori». Tali valori – «consumo, potere, status, prestigio, espansione illimitata del governo della ‘razionalità’» – hanno esaurito il loro potere creativo e stanno ormai portando la civiltà occidentale al collasso. Seppur in forma diversa, la sua analisi si collega alla nostra sull’autodistruzione della società di crescita e sulla necessità di una «rivalorizzazione», ovvero di un’autentica rivoluzione culturale. Solo che la dialettica della cultura e della base materiale, che alcuni tentano perfino di negare, è tutto fuorché semplice. Nel momento in cui si tocca l’estetica, i giudizi inevitabilmente coinvolgono la soggettività del loro autore. E, per ben argomentati che siano, resteranno pur sempre molto discutibili. Al termine di un’analisi magistrale, in alcune pagine magnifiche nelle quali il suo acuto sguardo filosofico si combina con la finezza di chi ha a lungo frequentato la psicoanalisi, Castoriadis ammette la propria impotenza a penetrare tutti i misteri che l’estetica pone[8]. Noi non pretendiamo di fare di meglio… La rilettura di Castoriadis in occasione della pubblicazione francese dei suoi saggi mi ha portato tuttavia a prendere coscienza delle significative differenze tra le nostre analisi, cosa che mi ha spinto ad aggiungere in conclusione un breve «post scriptum». La decrescita, abbiamo scritto per parte nostra, è un’arte di vivere. L’arte di vivere bene, in sintonia con il mondo. L’arte di vivere con arte. L’obiettore di crescita è al contempo un artista. Qualcuno per il quale il godimento estetico è una parte importante della gioia di vivere. L’etica della decrescita implica dunque necessariamente un’estetica della decrescita, anche se l’etica della decrescita non si riduce a un’estetica. Fare della propria vita un’opera d’arte non è di per sé l’obiettivo primario della decrescita, ma piuttosto una delle sue conseguenze. È quindi naturale che, avendo presentato Castoriadis e Baudrillard come precursori della decrescita, questi saggi si iscrivano nel loro solco, come, in misura minore, in quello di altri precursori quali William Morris, Jacques Ellul o Pier Paolo Pasolini, nel tentativo di portare un po’ di luce «decrescente» sui misteri dell’estetica[9]. -------------------------------------------------------------------------------- Note all’Introduzione 1. Serge Latouche e Marcello Faletra, Hyperpolis. Architettura e capitale, Meltemi, Milano, 2019. 2. Ivi, p. 116. «All’ingresso di Hyperpolis non c’è nessuno. L’uomo che si chiama Machines avanza verso il centro e rovescia il primo bidone al suolo, vicino a una colonna. Accende un fiammifero e la fiamma gialla divampa alta. Un po’ più in là l’uomo Machines rovescia il secondo bidone. Già risuonano le sirene. L’uomo accende un secondo fiammifero e la fiamma divampa alta verso il soffitto. Poi l’uomo chiamato Machines arretra un po’, si siede, la schiena contro un pilastro. Guarda le fiamme che formano grandi onde verticali verso il soffitto, sente le sirene e i fischietti. Ma per lui fa lo stesso, attende» (Les Géants, Gallimard, Paris, 1973, p. 333). 3. Si vedano i nostri saggi: Penser un nouveau monde. Pédagogie et décroissance. Entretiens avec Simone Lanza, Payot & Rivages, Paris, 2023 [trad. it. Il tao della decrescita. Educare a equilibrio e libertà per riprenderci il futuro, Il margine, Trento, 2021]; L’Abondance frugale comme art de vivre. Bonheur, gastronomie et décroissance, Payot & Rivages, Paris, 2020 [trad. it. L’abbondanza frugale come arte di vivere. Felicità, gastronomia e decrescita, Bollati Boringhieri, Torino, 2022]; Comment réenchanter le monde. La décroissance et le sacré, Payot & Rivages, Paris, 2019 [trad. it. Come reincantare il mondo. La decrescita e il sacro, Bollati Boringhieri, Torino, 2020]. 4. Cornelius Castoriadis, Fenêtre sur le chaos, Seuil, Paris,15 2007, p. 45 [trad. it. Finestra sul caos, scritti su arte e società, elèuthera, Milano, 2007]. 5. I curatori dei testi di Castoriadis [Fenêtre sur le chaos, cit.] includono una bibliografia sulla questione, di cui si segnala in particolare l’opera di Yves Michaud La Crise de l’art contemporain, puf, Paris, 1997. Bisogna inoltre menzionare il libro più recente di Marc Jimenez, La Querelle de l’art contemporain, Gallimard, Paris, 2005. 6. Castoriadis, Fenêtre sur le chaos, cit. 7. «La riflessione è dunque piena di trappole e di rischi»; ivi, p. 12. 8. «Sono quarant’anni che questo interrogativo mi assilla: perché lo stesso pezzo, diciamo la Sonata n. 33 di Beethoven, composta da qualcuno oggi sarebbe considerata una sorta di scherzo, ma scoperta per caso in un solaio di Vienna sarebbe considerata un capolavoro immortale? […] Non ho visto nessuno riflettere seriamente sulla questione»; ivi, p. 33. 9. Si vedano questi autori nella collana Les précurseurs de la décroissance da me curata per le Éditions Le Passager clandestin. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Crisi della città e crisi dell’arte proviene da Comune-info.
Lascio il Niger, non il silenzioso grido dei poveri
CI SONO LUOGHI CHE NON PERMETTONO ALLE FERITE DI RIMARGINARSI COL RISCHIO DI DIMENTICARE IL SILENZIOSO GRIDO DEI POVERI. “EPPURE SOLO IN LORO SCORRE L’UNICA E DECISIVA TRASFORMAZIONE DEL MONDO…”. IN MAGGIO MAURO ARMANINO CI AVEVA ANNUNCIATO CHE AVREBBE LASCIATO IL NIGER, CROCEVIA DI ROTTE MIGRATORIE E UNO DEI PAESI PIÙ IMPOVERITI DEL MONDO, DOVE HA VISSUTO PER QUATTORDICI ANNI: QUESTO IL SUO ULTIMO ARTICOLO DA NIAMEY Unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Ogni volta mi dico che è l’ultima. L’ultima missione, l’ultimo Paese e l’ultimo popolo da lasciare. La storia si ripete e, senza saperlo o volerlo, cado nella stessa trappola. Si parte per un tempo, si vorrebbe e dovrebbe rimanere per sempre e poi, al solito, si torna. C’è una partenza in senso inverso. Dall’italico occidente al Sahel, dal Porto Antico di Genova alla porzione di Sahel riservata al Niger. Dalla sponda del Mediterraneo alla sponda del Sahara per un viaggio durato quattordici anni e qualche mese. Si passa, nel frattempo, dal Paese stampato sulla cartina geografica e dai confini ben definiti al Paese reale. Le strade, i volti, le storie di sabbia e i nomi di vento si mescolano come solo la polvere sa fare con consumata maestria. Ogni volta mi dico che è l’ultima e, senza capirlo, si recidiva. Fuggitivo, disertore, traditore, mercante, mercenario e allo stesso tempo creatura di sabbia attraversato dall’unica fragilità che accomuna gli umani che si chiama vita. I ricordi delle persone seppellite nel cimitero cristiano di Niamey. Ogni volta lo stesso pensiero che si affaccia alla mente perché una parte di me rimane in quella terra benedetta dalle lacrime di coloro che rimangono. Migranti con un nome imprestato dal destino, bambini che partono ancora prima di aver cominciato il viaggio e alcuni rifugiati che scoprono nella sabbia del camposanto la penultima dimora che, senza saperlo, cercavano. Nelle valigie di ritorno c’è tutto e non c’è nulla di quanto vissuto, amato, tradito e, in questo caso, abbandonato. Si affacciano alla memoria le parole che si avventurano nel deserto. Quanto è cambiato degli occhi e dello sguardo nel frattempo degli avvenimenti che accadono, passano, permangono e sono pronti a riapparire alla prima occasione propizia. Il passato non si accumula ma si seleziona e si organizza nella memoria del vissuto che si scava nei volti che indicano il cammino da seguire. “Se hace camino al andar“, camminando si scopre la via, scriveva Antonio Machado nell’altro millennio di un altro continente. Ci sono infatti ferite che non dovrebbero mai essere guarite perché solo aperte tengono desta l’attenzione ai protagonisti del transito in questo Paese e cioè i poveri. Inventano la storia che nessuno legge e raccontano storie che pochi ascoltano. Eppure proprio e solo in loro scorre l’unica e decisiva trasformazione del mondo. Le centinaia di migranti dalle avventure inverosimili, le comunità cristiane perseguitate, le chiese bruciate, il rapimento e la lunga prigionia dell’amico Pierluigi Maccalli, l’insicurezza per i contadini dei villaggi, il golpe dei militari e la retorica di una sovranità nazionale ad uso e consumo del potere. Le decine di dibattiti pubblici e l’amicizia con alcuni militanti della società civile che non si è fatta espropriare. Il cammino imprevedibile con una comunità di periferia e infine la nostalgia del tempo che, sostengono in molti, è il secondo nome di Dio. Soprattutto però il privilegio di guardare la realtà dal sud, dalla Grande Periferia del mondo. Sono luoghi di verità che non permettono alle ferite di rimarginarsi col rischio di dimenticare il silenzioso grido dei poveri. Si parte dal sud, senza sapere se il net funziona, quando ci sarà prossimo black out, l’appuntamento mancato senza dire nulla, lo stupore della pioggia, gli asini re della strada e i semafori a stagioni coi bambini da ogni parte si cammini e l’eleganza dei poveri nei giorni di festa. Ogni volta mi dico che è l’ultima e allora parto e poi cado nella trappola che la sabbia sapientemente nasconde. Torno soprattutto col NO che l’amico e compagno di viaggio Moussa Tchangari, attore storico della società civile di Niamey, ha ripetuto a chi voleva accaparrarne l’adesione al sistema. Si trova in galera dal 3 dicembre dell’anno scorso con la mani nude e libere di scrivere l’unica parola per la quale si può dare anche la vita. Si tratta della dignità che nessuno potrà rubargli e che, con riconoscenza, ho deposto nel mio bagaglio di ritorno. Niamey, luglio 2025 -------------------------------------------------------------------------------- Operaio in Liguria, prete (presso la Società delle Missioni Africane), antropologo, Mauro Armanino ha vissuto in Costa d’Avorio, Argentina, Liberia. Negli ultimi 14 anni ha lavorato in Niger, a Niamey, nell’accoglienza ai migranti. Nell’archivio di Comune sono leggibili oltre 250 suoi articoli. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Lascio il Niger, non il silenzioso grido dei poveri proviene da Comune-info.
Staccare la spina alla guerra
I MILITARI HANNO BISOGNO DI MOLTA ENERGIA, NON SOLO PER COSTRUIRE ARMI. PER FERMARE LA GUERRA DOVREMMO PROVARE A STACCARGLI LA SPINA. COME? METTENDO IN DISCUSSIONE NON SOLO QUALE ENERGIA PRODURRE, MA CHI LA PRODUCE E PER FARNE COSA Foto Una città in comune di Pisa -------------------------------------------------------------------------------- L’intreccio tra guerra ed energia è molto stretto. Per diversi motivi. I militari hanno bisogno di molta energia, non solo per costruire armi sempre più sofisticate ad alta potenzialità distruttiva e per trasportare velocemente mezzi e truppe, ma anche per le reti di controllo, sorveglianza e di puntamento a distanza (“armi autonome”, le chiamano) che abbisognano di colossali apparati satellitari, informatici e l’uso di enormi data base. Tutte attività fameliche di energia. Davvero interessante un passaggio della appassionante ricostruzione che fa Pietro Greco della corsa alla costruzione della bomba atomica tra Stati Uniti e Germania (Pietro Greco in L’Atomica e le responsabilità della scienza, edizioni L’Asino d’oro, 2025). Secondo il grande giornalista scientifico l’attenzione dei fisici nucleari nazisti era più orientata a capire come controllare la reazione atomica per produrre energia finale utile, piuttosto che a farne una bomba. Sappiamo da alcune stime (peraltro tutt’altro che realistiche) che le attività militari assieme alla filiera dell’industria bellica, “in tempo di pace”, consumano il 10% dell’energia mondiale e, secondo altre stime, emettono tra il 5 e il 6% delle emissioni globali di gas climalteranti. Se fossero uno stato si situerebbero al quarto posto, dopo US, Cina e India. (Federica Frazzetta e Paola Imperatore, Clima di guerra, in Sbilanciamoci! 2025). Da notare che i dati sono segretati. Non vi è obbligo di comunicazione da parte delle forze armate, ma solo con l’Accordo di Parigi del 2015 gli stati sono invitati a fornire una rendicontazione volontaria. Ma è davvero possibile scorporare i dati sul consumo di energia tra i settori militari e civili? Per il nucleare l’intreccio è – per definizione – inestricabile. Sia per come funziona la filiera produttiva, sia per i requisiti di gestione. Una centrale nucleare è di fatto un sito militare. Ma l’ignobile e perverso “dual use” è oramai una realtà in tutti i settori tecnologici e della ricerca scientifica. Sappiamo che le industrie belliche e le attività militari sul campo hanno bisogno dei servigi delle grandi aziende tecnologiche globali (tra cui IBM, Microsoft, Google, Amazon, Palantir e Hewlett Packard). Sappiamo da quello che sta accadendo a Gaza (vedi i rapporti di Francesca Albanese) come la guerra sia il campo di sperimentazione delle innovazioni tecnologiche in ogni settore. Non è del resto una novità nella storia dell’umanità. I militari hanno bisogno di usare i ritrovati della scienza, così come la scienza e la tecnica hanno bisogno delle commesse militari per potersi sperimentare e sviluppare. Una questione questa di enorme importanza su cui gli scienziati, i centri di ricerca, le università dovrebbero riflettere, a proposito della neutralità della scienza e di altri miti bugiardi che allontano l’agire etico e delle responsabilità individuali (vedi l’Appello degli scienziati contro il riarmo, firmato da Carlo Rovelli e non molti altri). Le grandi innovazioni nella chimica (esplosivi che diventano fertilizzanti e viceversa), nell’ingegneria (aviazione), nelle telecomunicazioni, nella biologia, della geoingegneria, nella stessa informatica sono quasi sempre il frutto della volontà di conquista degli stati esercitata attraverso gli eserciti. La questione non è tanto o quanto si spende per le armi (come se il 2,1% sia più sostenibile del 5% del Pil), ma tutto ciò che permette agli industriali di costruire e ai militari di usare le armi. Quando si dice siamo in una “economia di guerra” non si dice solo che la spesa per gli eserciti è eccessiva, ma che il sistema sociopolitico ruota attorno alla guerra, dipende dai rapporti di forza armati (deterrenza) e dalla capacità di usarli in qualsiasi omento e in qualsiasi luogo (“prontezza”, la chiama Ursula von der Leyen). Letta e Draghi nei loro rapporti/suggerimenti alla UE affermano che la competizione economica (a partire dalla superiorità tecnologica) la si vince o la si perde nella misura in cui gli appartati industriali militari saranno superiori a quelli dei competitori. Mi pare che Israele lo stia dimostrando alla grande con l’IDF. La spirale tra militarizzazione del pianeta, accaparramento delle materie prime e controllo delle rotte commerciali moltiplica i conflitti armati (mai così tanti dalla fine della Seconda guerra mondiale, 57) e aumenta spaventosamente i fabbisogni energetici. Possiamo fermare la guerra? Come fare, allora, a fermare la guerra? Potremmo provare a staccargli la spina. Non è uno scherzo. Attenzione, anche loro sanno di avere qualche problema di sostenibilità nell’uso dell’energia. Sembra che gli Stati maggiori del generale Crosetto stiano lavorando a una “Strategia Energetica della Difesa”, il cui obiettivo è: “raggiungere più elevati livelli di efficienza e indipendenza energetica, al fine di perseguire concreti obiettivi di […] tutela ambientale […] e di sviluppare una nuova mentalità energy oriented nell’ambito dei settori della logistica, delle operazioni e delle infrastrutture della Difesa”. Ci sono anche progetti per “Caserme Verdi a basso impatto ambientale”, “Basi (navali) Blu” e “Aeroporti Azzurri”. L’ex ministro alla fu Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ora ad della Leonardo saprà certamente inventarsi un carro armato con vernice green biologica, perfettamente riciclabile e dotato di motori elettrici. C’è un magistrale discorso di papa Bergoglio, che andrebbe sempre ricordato: “Gli aerei inquinano l’atmosfera ma con una piccola parte dei soldi del biglietto piantano alberi per compensare parte del danno arrecato. Le società del gioco d’azzardo finanziano compagnie per i giocatori patologici che creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è ipocrisia!” (Vaticano 4 febbraio 2017). La Leonardo ci ha provato a donare 1,5 milioni di euro all’ospedale di Roma Bambin Gesù, ma non li hanno voluti. Se nell’economia di guerra tutto ruota inestricabilmente attorno all’apparato militare industriale e se l’intero sistema industriale dipende dal controllo dell’energia, allora rivendicare un controllo democratico sull’uso delle fonti energetiche può essere una giusta e buona strategia per i movimenti pacifisti ed ecologisti (ecopacifisti). In fondo l’energia è una sola, è il flusso che alimenta ogni processo naturale. È il primo bene comune. È la forza preesistente della vita, sia quella miracolosamente sprigionata direttamente dal sole, sia quella racchiusa nei giacimenti fossili, sia quella meravigliosamente rigenerata in continuazione dal processo biochimico della fotosintesi clorofilliana, sia quella rara e misteriosa contenuta nell’atomo di uranio. Ha un valore primario in sé, il cui uso dovrebbe essere regolato da un semplice principio: i benefici che se ne possono trarre, senza danneggiare il bene, devono essere messi a disposizione, condivisi e goduti da tutti gli esseri viventi. Non solo gli esseri umani. Poiché il flusso dell’energia è il principale regolatore e indicatore (il “medium”) del metabolismo uomo/natura, nella storia dell’umanità intervengono delle regolazioni sociali che trasformano un dono gratuito della natura in uno di più potenti strumenti di controllo e di dominio politico. Accade così che nei regimi del capitale (nell’“ecologia del capitale”) le fonti di energia primaria vengano privatizzate attraverso la costruzione di apparati tecnologici e regimi giuridici proprietari di cattura, estrazione, trasformazione, distribuzione, erogazione, consumo. Si formano così enormi asimmetrie di potere nel disporre del bene comune, concentrazioni ed esclusioni, sprechi vergognosi e disuguaglianze intollerabili (povertà energetica, magari tra quelle popolazioni dal cui suolo si estraggono idrocarburi; 800 mln di africani non hanno accesso all’elettricità). Queste strutture e questi apparati sono pensati allo scopo di realizzare profitti e accumulare capitali, trasformano l’energia (un dono gratuito) in una merce e oscurano l’origine naturale dell’energia. Mettere in discussione l’intero sistema energetico Per avere la pace, per pacificare il mondo dovremmo quindi mettere in discussione il sistema energetico nel suo complesso. Non solo il tipo di tecnologie usate per trasformare l’energia primaria in energia utilizzabile, non solo gli impatti ambientali sulle diverse matrici naturali lungo tutta la filiera, non solo l’equa ridistribuzione delle utilità, ma anche quali sono i fabbisogni autentici e davvero necessari al benessere umano (e non solo) che devono essere garantiti. Insomma, dovremmo riuscire a mettere in discussione non solo quale energia produrre, ma chi la produce e per farne cosa. La questione fondamentale è il tipo di controllo sociale delle fonti e dei sistemi di distribuzione dell’energia. Non siamo – mi pongo all’interno dei movimenti che sognano una società della decrescita – mossi da furore ideologico anticapitalistico o da nichilismo tecnologico. A me piace il solare perché è una fonte ben distribuita e si può usare senza appropriarsene. Amo le Comunità energetiche rinnovabili perché penso che siano una forma di autogestione consapevole e replicabile. Ma so anche quanto facile sia la loro sussunzione nel mercato tramite i collegamenti alla rete e la bancarizzazione dei ricavi. Mi rivolgo quindi a quanti in ottima buona fede sostengono la “transizione energetica”, le energie pulite, la neutralità climatica, l’elettrificazione, le green tech… per metterli in guardia sul fatto che questi sacrosanti obiettivi rimarranno una chimera (come lo è tutto il Green Deal europeo) se a controllare produzione e distribuzione continueranno ad essere le forze di mercato, i gruppi industriali interessati a ricavare più profitti a prezzi vantaggiosi. Mi auguro e spero che non un raggio di sole, non un soffio di vento, non una goccia d’acqua possa mai finire in mani armate. -------------------------------------------------------------------------------- Testo preparato per l’incontro La transizione ecologica va in guerra: il ritorno del falso mito del nucleare, promosso da Confluenza (progetto nato per connettere le lotte territoriali nel Piemonte) all’interno del Festival dell’Alta Felicità, a Venaus. -------------------------------------------------------------------------------- Nell’archivio di Comune, sono leggibili oltre 250 articoli di Paolo Cacciari. Tra gli ultimi suoi libri Re Mida. La mercificazione del pianeta. Lavoro e natura, economia ed ecologia (ed. La Vela). -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > La guerra organizza l’accumulazione del capitale -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Staccare la spina alla guerra proviene da Comune-info.
La guerra minaccia i semi
-------------------------------------------------------------------------------- Unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Nel 2025, in un mondo scosso da crisi geopolitiche, anche i semi diventano vittime della guerra. Da Khartoum a Charkiv, da Gaza ai monti dell’Afghanistan, le banche genetiche che custodiscono la biodiversità agricola mondiale subiscono attacchi, saccheggi, chiusure forzate. E con loro rischiano di scomparire le varietà tradizionali di cereali, legumi e ortaggi adattate nei secoli a climi estremi, suoli poveri e parassiti locali. Veri e propri tesori genetici oggi più che mai preziosi, in un mondo sempre più caldo e instabile. Per salvare questo patrimonio, gli scienziati si affidano a un luogo remoto e gelido. Da 2008 il Global Seed Vault alle isole Svalbard, scavato nel permafrost artico norvegese, conserva in condizioni sicure milioni di semi provenienti da ogni angolo del Pianeta. Una sorta di Arca di Noè vegetale pensata per resistere a guerre e disastri naturali. I semi minacciati dalla guerra in Sudan, Ucraina e Palestina Il caso più drammatico è forse quello del Sudan. Come racconta il giornalista Fred Pearce su Yale Environmental 360, a Wad Medani, lungo il Nilo Azzurro, la banca nazionale dei semi custodiva varietà ancestrali di sorgo e miglio perlato, coltivate da millenni e fondamentali per l’adattamento ai climi aridi. Ma nel dicembre 2023, all’inizio della guerra civile, le milizie paramilitari delle Rapid Support Forces (Rsf) hanno invaso il centro. Quando i ricercatori sono riusciti a tornare, tredici mesi dopo, hanno trovato congelatori svuotati e semi sparsi ovunque. Il direttore delle risorse genetiche, Ali Babiker, ha recuperato quel che restava da una stazione di ricerca a Elobeid e, nel febbraio scorso, ha spedito i semi alle Svalbard. Ma solo un quarto della collezione sudanese è stato finora messo in salvo. Simile la sorte dell’Ucraina. Prima della guerra, il Paese era tra i maggiori esportatori di grano al mondo grazie anche alla banca genetica di Charkiv, tra le dieci più grandi a livello globale. Nel 2022, però, un bombardamento russo ha colpito l’istituto. Parte della collezione è stata salvata e trasferita in un luogo segreto a ovest, ma molte varietà restano in territori occupati. Solo 2.780 campioni — su 154mila totali — sono oggi duplicati alle Svalbard. In Palestina, invece, la banca dei semi di Hebron — gestita dalla Union of Agricultural Work Committees (Uawc) — continua a operare nonostante le pressioni israeliane. Dal 2003 raccoglie varietà locali di ortaggi coltivati tra Cisgiordania e Gaza. Nonostante nel 2021 Israele abbia designato la Uawc come organizzazione terroristica, l’Unione europea e le Nazioni Unite continuano a collaborare con i suoi ricercatori. Nell’ottobre scorso i primi semi palestinesi sono arrivati al Global Seed Vault: un segnale di speranza in un contesto altamente instabile. Le banche dei semi a rischio: cause e territori coinvolti Molti dei centri di origine delle colture mondiali — luoghi dove i primi agricoltori hanno addomesticato grano, orzo, lenticchie — coincidono oggi con zone di conflitto. Afghanistan, Iraq, Siria, Yemen. In questi territori i semi non sono solo cibo: sono memoria, cultura, resilienza. In Afghanistan, ad esempio, le banche genetiche sono state sistematicamente distrutte sin dagli anni ’70. Le collezioni sono state rubate, disperse, bruciate. Anche in Iraq la guerra ha fatto il suo corso, con la distruzione nel 2003 del centro di Abu Ghraib. Ma alcuni ricercatori, prevedendo che qualcosa di simile potesse accadere, avevano già inviato i campioni all’Icarda (International Center for Agricultural Research in the Dry Areas) di Aleppo, in Siria. Quei semi hanno poi attraversato nuove guerre e, poco prima dell’assalto dell’Isis, sono stati trasferiti in Libano, Marocco e alle isole Svalbard. Un viaggio travagliato che ha permesso di preservare varietà di grano, orzo e legumi antichissimi, ora usati per selezionare nuove piante resistenti alla siccità. Come se non bastasse la guerra, anche i cambiamenti climatici causati dall’uomo e i conseguenti eventi meteorologici estremi stanno minacciando la sopravvivenza dei semi a livello globale. Lo scorso anno, riporta Pearce, le isole Svalbard hanno prelevato semi duplicati dalla banca genetica nazionale filippina di Los Baños. Quest’ultima ha perso più di metà della sua collezione due volte, prima a causa di un tifone nel 2006 e poi a causa di un incendio nel 2012. Le banche dei semi minacciate anche dai tagli ai finanziamenti La rivoluzione verde degli anni ’60 ha permesso di sfamare miliardi di persone, introducendo – specie nei Paesi del Sud del mondo – sementi ad alta resa, fertilizzanti chimici e tecniche moderne di irrigazione. Ma ha anche ridotto drasticamente la varietà genetica delle colture. Oggi la maggior parte dei campi coltivati nel mondo si basa su poche varietà selezionate per produrre il massimo con l’uso intensivo di fertilizzanti e irrigazione. Senza la ricchezza genetica dei semi tradizionali, però, sarà impossibile affrontare le nuove sfide: parassiti, malattie, siccità, ondate di calore.  Era il 1921 quando il famoso agronomo Nikolai Vavilov fondò la prima banca dei semi al mondo, in Russia. Oggi la maggior parte delle nazioni dispone delle proprie strutture, supportate da 11 banche internazionali gestite nell’ambito di una partnership nota come Cgiar (Consultative Group on International Agricultural Research), finanziata in gran parte dai governi. Eppure, proprio oggi, questo sistema globale vacilla. Gli Stati Uniti, attraverso Usaid, erano tra i principali donatori della rete Cgiar. Ma, con i tagli alla cooperazione internazionale stabiliti dal presidente Donald Trump, molte banche dei semi che fanno parte di questa alleanza rischiano la chiusura. Il centro statunitense di Fort Collins ha subito licenziamenti, ad esempio, e il Regno Unito, attraverso il Millennium Seed Bank, denuncia un clima crescente di sfiducia. A proposito di sfiducia, persino la Norvegia, sede del “caveau dell’Apocalisse” (come è chiamato il centro di conservazione delle Svalbard), comincia a essere vista con sospetto dagli altri Stati. Lo storico interesse russo sulle isole Svalbard sta alimentando i timori: alcuni governi esitano a inviare i propri semi, temendo per la loro sovranità genetica. I semi come patrimonio da proteggere dalle guerre Conservare i semi del passato significa garantire cibo nel futuro. Significa poter selezionare piante più resilienti, più adatte ai cambiamenti climatici, meno dipendenti da input chimici. Significa difendere la biodiversità agricola, che è alla base della nostra sopravvivenza. Le guerre bruciano archivi genetici che hanno richiesto secoli per formarsi. Ma, ogni volta che un ricercatore riesce a salvare un campione e spedirlo alle Svalbard, quella memoria vegetale trova rifugio tra i ghiacci. Finché ci saranno semi da proteggere, ci sarà ancora una possibilità di riscrivere la storia. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Valori -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI DANIELA DI BARTOLO: > Salviamo i semi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La guerra minaccia i semi proviene da Comune-info.
La via delle scelte disarmanti
-------------------------------------------------------------------------------- Foto Mondeggi Bene Comune -------------------------------------------------------------------------------- Come ogni brava sentinella addetta a segnalare il pericolo, da cinquantaquattro anni l’istituto statunitense Global Footprint Network vigila per avvertirci quando oltrepassiamo il limite di sicurezza imposto dalla capacità biologica del pianeta. Quest’anno il nostro ingresso in zona insicura è scattato il 24 luglio, un record mai raggiunto prima. Più precisamente il 24 luglio segna la data in cui l’umanità ha esaurito tutto ciò che il sistema naturale è stato capace di fornire per il 2025 attraverso il meccanismo della rigenerazione biologica: nuovi raccolti agricoli, nuove piante da taglio, nuovi animali per alimentarci, nuovo sistema fogliare per sbarazzarci dell’anidride carbonica. Il Global Footprint Network chiama questo giorno “overshootday”, in inglese “giorno del sorpasso”, ad indicare la data in cui nostra voracità supera la capacità di rigenerazione della natura. E se ci pare che il problema non esista è perché finiamo l’anno a spese del capitale naturale, un po’ come quella famiglia che avendo finito la legna da ardere, continua a scaldarsi gettando nel cammino suppellettili o addirittura travicelli del tetto. Lì per lì sembra che tutto tenga, ma se l’operazione si ripete ogni anno, finisce che quella famiglia si ritrova senza legna e senza casa. L’umanità corre lo stesso rischio, precisando che la responsabilità dello squilibro non ricade su tutti nella stessa misura. Qualcuno, addirittura, non ha colpa alcuna. Il Global Footprint Network ci ricorda che per rimanere in equilibrio con la capacità rigenerativa del pianeta ognuno di noi dovrebbe avere un’impronta ecologica non superiore a 1,6. In altre parole dovremmo mantenere i nostri consumi annuali di cibo, legname, prodotti energetici, entro livelli compatibili con 1,6 ettari di terra fertile. In realtà gli abitanti del Lussemburgo hanno consumi che richiedono la disponibilità pro capite di 12,8 ettari, gli statunitensi di 7,9, gli italiani di 4,5 ettari. Solo tre paesi (Sudan, Senegal, Sud Sudan), per un totale di appena 80 milioni di abitanti, sono in linea con l’impronta sostenibile di 1,6. Ma poi ce ne sono altre decine con un’impronta inferiore. Schematicamente potremmo dividere l’umanità in tre gruppi: un terzo con un’impronta di molto superiore a quella sostenibile, un terzo di poco superiore, un terzo al di sotto. Il terzo con un’impronta di molto superiore è quella che conserva la responsabilità maggiore dello squilibrio planetario e quindi deve tagliare di più i propri consumi. La riduzione dei consumi richiama tre livelli: quello d’impresa, di famiglie e di collettività. A livello d’impresa la grande sfida è cambiare filosofia. Più che in termini di denaro, le imprese devono ragionare in termini di risorse, quelle concrete: minerali, acqua, energia, rifiuti. Oggi il loro obiettivo è spendere meno soldi possibile. Domani dovranno chiedersi come fare per ottenere prodotti col minor impiego di risorse e la minor produzione di rifiuti possibile. I loro bilanci non dovranno essere solo economici, ma soprattutto idrici, energetici, ambientali. Più che di ragionieri dovranno dotarsi di esperti che sappiano calcolare i consumi di risorse, le emissioni di veleni, non solo durante la fase produttiva di loro diretta pertinenza, ma durante l’intero arco di vita del prodotto. L’ufficio per l’eco-efficienza dovrà essere il comparto più sviluppato di ogni singola azienda, sapendo che le strategie della sostenibilità produttiva passano per quattro vie: il risparmio come capacità di ridurre al minimo la quantità di energia e di materiale impiegato; la rinnovabilità come capacità di ottenere energia e materie prime da fonti rinnovabili; il recupero come capacità di sfruttare al meglio ogni unità di energia, di acqua, di materiale, attraverso operazioni di sinergia e riciclo; il locale come capacità di privilegiare approvvigionamento, scambi e vendita a livello territoriale. Come famiglie, la sfida è cambiare stili di vita cominciando ad eliminare l’inutile e il superfluo. Nei nostri armadi accumuliamo troppi vestiti e ne diamo troppi allo straccivendolo. Sprechiamo l’acqua e usiamo l’automobile anche quando potremmo andare a piedi o in bicicletta. In concreto dobbiamo convertirci alla sobrietà che non significa vita di stenti, ma meno quantità più qualità, meno auto più bicicletta, meno mezzo privato più mezzo pubblico, meno carne più legumi, meno prodotti globalizzati più prodotti locali, meno cibi surgelati più prodotti di stagione, meno acqua imbottigliata più acqua del rubinetto, meno cibi precotti più tempo in cucina, meno recipienti a perdere più prodotti alla spina. Significa anche capacità di diventare “prosumatori”, ossia produttori di ciò che consumiamo, come succede quando dotiamo le nostre case di pannelli solari o produciamo da soli la nostra insalata. Ci sono aspetti del modo di vivere che tutti possono cambiare senza difficoltà, anzi traendone benefici per il portafogli e la salute. Valga come esempio la riduzione del consumo di carne. Ma ci sono cambiamenti a volte impossibili a causa della propria condizione economica o del contesto in cui si vive. I più poveri, ad esempio, difficilmente potranno fare gli investimenti che servono per migliorare l’efficienza energetica della propria abitazione o convertirsi alle rinnovabili. Allo stesso modo risulterà difficile sbarazzarsi dell’auto se si vive in una periferia sprovvista di servizi e di trasporti pubblici. Per questo è importante chiamare in causa la collettività l’unico soggetto in grado di rimuovere gli ostacoli che impediscono anche ai più deboli di compiere scelte di tipo sostenibile. Una funzione che la collettività può svolgere garantendo ovunque buoni trasporti pubblici, una buona connessione internet, un forte sostegno agli investimenti di transizione energetica, ma soprattutto buoni servizi sanitari, sociali e scolastici. Si è a lungo parlato dell’esigenza di consumo critico e responsabile da parte delle famiglie. Ma ora dobbiamo chiedere anche alla sfera pubblica di adottare criteri di spesa critica e responsabile. Tanto più oggi che si parla insistentemente di aumento delle spese militari. La peggiore delle spese possibili non solo perché finalizzata alla morte, ma perché gravida di conseguenze negative anche da un punto di vista finanziario, sociale, ambientale. Il sistema militare si basa su un uso massiccio di combustibili fossili che lo pongono fra i maggiori produttori di gas a effetto serra. Secondo le organizzazioni Conflict and Environment Observatory (CEOBS) e Scientists for Global Responsibility (SGR), il sistema bellico contribuisce al 5.5% delle emissioni globali, tanto che se fosse una nazione sarebbe al quarto posto della graduatoria mondiale. Senza contare ciò che viene rilasciato durante le guerre. Un gruppo di esperti ha calcolato che durante i primi tre anni di guerra fra Russia e Ucraina sono state prodotte 230 milioni di tonnellate di anidride carbonica, l’equivalente di quante ne emettono in un anno Austria, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca, messi insieme. L’Unione Europea ha lanciato un piano di riarmo europeo del valore di 800 miliardi di euro, che se venisse applicato farebbe aumentare considerevolmente le emissioni del settore, in aperto contrasto con l’Accordo di Parigi del 2015 e con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. I nostri governanti sostengono che bisogna armarsi per prevenire la possibile morte indotta da potenziali aggressioni. Ma ha senso esporsi a rischi certi per evitare rischi potenziali? O non sarebbe più intelligente seguire la via della pace disarmata e disarmante indicata da papa Leone? -------------------------------------------------------------------------------- Inviato anche ad Avvenire -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI ALEX ZANOTELLI: > Disobbedienza civile contro il riarmo -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La via delle scelte disarmanti proviene da Comune-info.