La pauraSU COMUNE NON CI STANCHIAMO DI SCRIVERLO: ANCHE IN QUESTO TEMPO ANGOSCIANTE,
ESISTONO MODI DIFFERENTI CHE METTONO IN DISCUSSIONE LA PAURA CHE PARALIZZA. PER
QUESTO ABBIAMO BISOGNO, PER DIRLA CON JOHN HOLLOWAY, DI IMPARARE A PENSARE LA
SPERANZA. INTANTO PERÒ LA PAURA È OVUNQUE, INTORNO E DENTRO DI NOI E LE RAGIONI
SONO TANTE. LA PAURA FUNZIONA SEMPRE PIÙ COME L’UNICA CERTEZZA IN UN MONDO CHE
HA PERSO TUTTE LE CERTEZZE. IL VERO PROBLEMA È CHE SI GESTISCE LA PAURA SOCIALE
PRATICANDO IL TERRORE POLITICO. LA POLITICA ISTITUZIONALE INSOMMA NON ELIMINA LA
PAURA, SCRIVE MARCO REVELLI, MA LA RENDE FUNZIONALE A UNO SCOPO: ALLA PRODUZIONE
DELL’ORDINE COME CONDIZIONE DI PACE. È QUESTO IL MURO NEL QUALE SIAMO CHIAMATI
AD APRIRE CREPE. UN CAPITOLO TRATTO DA QUESTO LIBRO È ILLEGALE. CONTIENE PAROLE
CHE INSIDIANO LA “SICUREZZA” (ALTRECONOMIA ED.), REALIZZATO DA OSSERVATORIO
REPRESSIONE E VOLERE LA LUNA (CON CONTRIBUTI, TRA GLI ALTRI, DI LIVIO PEPINO,
ALESSANDRA ALGOSTINO, ITALO DI SABATO, FEDERICA BORLIZZI, LUDOVICO BASILI,
LORENZO GUADAGNUCCI…)
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La Paura entra a far parte con un ruolo centrale nella riflessione sulla
Politica assai tardi: in quel punto di passaggio fondamentale tra il “mondo
degli Antichi” e il “mondo dei Moderni” che ha come baricentro il XVII secolo.
Un nome fra tutti ne sintetizza la valenza “costituente”: Thomas Hobbes, il
pensatore a cui, secondo Norberto Bobbio – che gli ha dedicato un’infinità di
studi –, può essere attribuita “la prima moderna teoria dello stato moderno”.
Come ha scritto nell’opera specificamente a lui intitolata (“Thomas Hobbes”,
1989) “la teoria politica di Hobbes è l’autocoscienza dello stato moderno”.
Ebbene, con Hobbes la Paura assume una posizione di assoluta centralità, come
fattore fondante non solo della filosofia politica – il che è universalmente
riconosciuto – o dell’antropologia, ma anche dell’etica e della gnoseologia. È
cioè una categoria “di sistema”: del sistema di pensiero che, forse più di ogni
altro, marca con nettezza il passaggio alla modernità. Il “Moderno”, potremmo
dire, nasce con nel cuore la Paura.
Carlo Galli, parlando di Hobbes, definisce la paura “l’operatore più potente”
incorporato nella politica moderna fin dal suo “nucleo originario”. Roberto
Esposito la qualifica come il “terribilmente originario”. Bobbio la pone come
fundamentum regnorum, suggerendo che tale è ora “il Timore, non la Giustizia”,
come invece aveva affermato una lunga tradizione di pensiero prima classico e
poi cristiano. Siamo di fronte, senza dubbio, a una cesura. Di più: a una
rivoluzione. Una rivoluzione copernicana, paragonabile a quella che appena un
secolo prima aveva sostituito alla teoria geocentrica quella eliocentrica. Anche
in questo caso, infatti, si assiste – nel campo delle cose umane – alla nascita
di un nuovo “paradigma”.
Nella riflessione filosofica precedente – nel “paradigma degli Antichi” – la
Paura era relegata nel campo (secondario) dei vizi e delle passioni negative:
delle debolezze umane e dei comportamenti a-sociali. La cosa è macroscopica nel
“mondo degli eroi” omerico, in cui la paura – il “provar paura”, il “lasciarsi
vincere” dalla paura – era una vera e propria “catastrofe dell’Io”. La peggior
perdita possibile: la distruzione del Kleos (della gloria affidata al canto
degli aedi che rende immortali). Ma anche nel modello
“socratico-platonico-aristotelico” (chiamiamolo così, con una estrema
semplificazione) la paura stava sul versante del negativo. Per Socrate (per il
Socrate di Platone, nel Lachete) la paura è un difetto di virtù (la mancata
applicazione della “scienza del bene” nelle circostanze date) così come il
coraggio consiste nella “virtù tutta intera” (nella forza d’animo guidata
dall’intelligenza sistemica di ciò che è “bene fare”). Aristotele – il vero
sistematizzatore del modello in “paradigma” – ne tratta in più testi, in
particolare nell’Etica a Nicomaco e nella Retorica (libro secondo). In entrambi
i testi la Paura – con sfumature diverse: come Kakía (Vizio) in un caso, o come
Lupe (Dolore o Sofferenza) nell’altro – aveva a che fare con il non essere “al
proprio posto” o col non fare “la cosa giusta”. Non saper riconoscere o non
riuscire a compiere ciò che, nell’ordine delle cose, è richiesto per essere
all’altezza di ciò che si è (per agire, cioè, in modo “orientato al bene”).
L’effetto di un qualche deficit (di abitudine, di volontà, di sapienza) che pone
chi ne è preda fuori dall’ordine del mondo: ellittico rispetto al proprio
“esserci”: all’essere adeguatamente nel mondo.
Gli stoici radicalizzeranno questo concetto, considerando la paura – come quasi
tutte le passioni – il frutto di un “errore di giudizio” e del conseguente
allontanamento dall’ordine naturale (una rottura della sua armonia); mentre per
gli epicurei la paura è un puro non-senso, derivante da ignoranza e
irrazionalità dal momento che il sapere di Epicuro mostra che, in realtà, “non
c’è nulla di cui aver paura”. Il cristianesimo, infine, porterà alle estreme
conseguenze il concetto, leggendo nella Paura il segno del Peccato: essa fu
considerata dal cristianesimo delle origini tra i “vizi capitali” in quanto
contrapposta a quella tipica virtù teologale che è la Speranza, e dunque
“peccato mortale” per sfiducia verso Dio e la Divina Provvidenza.
Si può ben comprendere come l’irruzione dell’approccio hobbesiano abbia
costituito un passaggio dirompente. In esso la Paura compare fin dalla radice
prima del sistema di pensiero, come parte integrante della sua “antropologia
meccanicistica” strutturata sul duplice conatus dell’Attrazione e
dell’Avversione (le due determinanti fondamentali dei movimenti umani poste alla
base della sua meccanica delle passioni). Dell’Appetito e dell’Avversione.
Potremmo dire dell’Amore e dell’Odio o anche di ciò che è considerato Bene
(l’oggetto dell’Appetito) e di ciò che è considerato Male (l’oggetto
dell’Avversione). Una coppia, questa, che se considerata sul piano
dell’Immaginazione (della facoltà umana di proiettarsi nell’aspettativa di cose
future) configura l’alternativa tra Speranza e Paura: le due passioni
fondamentali, destinate a orientare i comportamenti degli uomini, la prima come
anticipazione mentale di un Bene, la seconda come anticipazione mentale di un
Male. Una coppia potentissima, che affonda le radici, da una parte, nell’istinto
di conservazione o di sopravvivenza (il conatus sese conservandi sive
preservandi), dall’altra, nella “paura della morte” (la madre di tutte le paure,
potremmo dire). Come scrive Hobbes: “La necessità di natura induce gli uomini a
volere e desiderare il bonum sibi, ciò che è bene per loro stessi, e a evitare
ciò che è nocivo, ma soprattutto quel terribile nemico di natura che è la morte,
dalla quale ci aspettiamo la perdita di ogni potere, e anche la maggiore delle
sofferenze temporali al momento del trapasso”. Due sentimenti primordiali,
radicati nella natura dell’essere, che però non stanno esattamente sullo stesso
piano. La seconda (la Paura) prevale emotivamente e logicamente sulla prima (la
Speranza) per il semplice fatto che mentre non è immaginabile un Bene assoluto
(un Summum bonum), è immaginabilissimo, anzi probabile, un Male assoluto (un
Summum malum), che è appunto la scomparsa di sé. Proviamo a incrociare questa
considerazione hobbesiana con una delle più note affermazioni socratiche sulla
“paura della morte”, là dove si dice senza mezzi termini che “aver paura della
morte non è nient’altro che sembrare sapiente senza esserlo, cioè credere di
sapere quello che non si sa. Perché nessuno sa se per l’uomo la morte non sia
per caso il più grande dei beni, eppure la temono come se sapessero bene che è
il più grande dei mali. E credere di sapere quello che non si sa non è veramente
la più vergognosa forma di ignoranza?”. Avremo allora la misura della distanza
abissale che separa i due sistemi di pensiero e della profondità della cesura
consumatasi nel passaggio alla modernità. Qualcosa deve davvero essere accaduto
nello stato mentale del tempo per giustificare un simile rovesciamento. E viene
a questo proposito illuminante la lucidissima affermazione di Carlo Galli, che,
nel registrare questo inedito protagonismo della Paura alla metà del millennio,
lo spiega col fatto che “la paura manifesta la propria strutturale produttività
solo quando si assume antropologicamente che gli uomini siano ‘rei’
(Machiavelli) oppure timorosi e aggressivi (Hobbes), ovvero quando il legame
sociale non consiste più nella eticità né nella naturalità né in un ordine
dato”. Soprattutto quest’ultimo: la dissoluzione dell’idea di un “ordine dato”.
Di un “cosmo ordinato” nel quale virtuoso è ciò che vi aderisce senza attrito,
riproducendo un’armonia delle cose (dell’“ordine delle cose”) nel quale anche la
morte, nell’assumere un senso, non si configura come un male (tanto più un “male
assoluto”) per collocarsi “al proprio posto”. Non disarmonia estrema ma parte
strutturale dell’armonia del tutto.
Giocano, in questo passaggio, senza dubbio elementi inerenti alla biografia
personale di Thomas Hobbes. Al suo scrivere nel pieno della guerra civile
inglese, testimone (e potenziale vittima) di orrori inenarrabili. Lui stesso,
nell’“Autobiografia”, ha scritto che “l’unica passione della mia vita è stata la
paura”! E ha aggiunto che sua madre, durante la gravidanza, “s’intimorì tanto
della minacciata invasione spagnola che partorì due gemelli, se stesso e la
paura” (R. Esposito). Bobbio ci ricorda come l’ossessione hobbesiana per l’Unità
politica nasca dalla paura e dal fatto che “l’età della formazione e della
maturità di Hobbes, è anche l’età che prende il nome dalla più grande guerra
religiosa della nostra storia, la guerra dei Trent’anni”. E, soprattutto, Corey
Robin dedica pagine potentissime del suo “Fear” per descrivere quanto gli orrori
e i terrori della civil war inglese avessero contribuito a plasmare la visione
hobbesiana incentrata sul valore assoluto della pace (l’unico “mezzo” efficace
contro la paura della morte precoce e violenta): il suo disprezzo e la sua
deplorazione verso coloro (predicatori settari o gentiluomini di campagna,
lettori sofisticati dei classici greci e latini e brutali uomini d’armi del new
model cromwelliano assetati di gloria) che avevano precipitato il Paese in un
bagno di sangue. Condizione, umanissima, del fragile “uomo qualunque”,
l’individuo solo nella tempesta delle passioni: quello che appunto attira
l’interesse in qualche modo inatteso, persino sproporzionato, di un sottile
pensatore morale come Elias Canetti, che apprezza appunto in Hobbes il “coraggio
di aver paura”. Di parlare – come annoterà Esposito – “dal profondo della sua
paura”. Nasce in fondo di lì, da quell’esperienza esistenziale dell’orrore del
bellum civilis, il “rovesciamento di tutti i valori” che Hobbes realizza,
inaugurando un’“etica inversa”, in cui il vecchio vizio della Paura (diciamolo
pure, della “viltà”) diventa virtù etica, e l’antica virtù del Coraggio, vizio
(“declassato alla stupidità della vanagloria…, la cui assenza, perfino sul campo
di battaglia, non è reato”). E questo perché l’ethos eroico greco, quello
dell’Uomo che rifiuta la sottomissione, dell’eroismo della libertà, della Virtù
come pratica dell’autonomia verso un Bene sistemico non incarnato in nessuna
Autorità, ha prodotto la distruzione dell’Ordine e la Precarietà dell’esistenza.
E ora si tratta, al contrario, di stipulare una “semantica dell’obbedienza”. Di
elaborare quella che è stata definita la più compiuta teoria dell’obbedienza.
Nel pensiero classico era stato il Coraggio a garantire, nella struttura
dell’anima, il legame più stretto tra la Ragione e il Desiderio ponendo appunto
la Passione dell’anima irascibile sotto il controllo dell’anima razionale (così
per il Platone della “Repubblica”). Era stata quella virtù a costituire “il
connotato più profondo dello stoicismo” trapassato poi nel cristianesimo,
nell’apologia tomistica di Temperanza e Prudenza (forme anch’esse della
Ragione). Nel Coraggio stava, d’altra parte, il Valore dell’“auto-affermarsi
malgrado la minaccia del non-essere” (l’antidoto contro la resa al nulla). Qui
invece, al contrario, è la Paura a fondare l’atto di Ragione, che non è più – lo
annota Bobbio – la “capacità di vedere l’essenza delle cose” ma più modestamente
capacità di calcolo (“ratiocinatio est computatio”). La quale consiste nella
razionale valutazione dei rischi e nell’altrettanto razionale scelta dei mezzi
per ridurli e neutralizzarli. Il primo atto umano di Ragione è prodotto dalla
consapevolezza che la morte (propria, di sé come individuo) è il massimo dei
mali possibili, e nel calcolo dei modi per sfuggirvi.
Potremmo dire che, in questa luce, la Paura funziona come l’unica Certezza in un
mondo che ha perduto tutte le certezze. O, se si preferisce, l’unico antidoto
logicamente accettabile alla sfida dello scetticismo riemerso sulle ceneri del
“paradigma degli antichi” bruciato dalla Rivoluzione scientifica del XVI e XVII
secolo e dalla contemporanea Riforma protestante. Lo ricorda (ancora lui!) Corey
Robin, nel capitolo intitolato appunto “Scetticismo e guerra civile”, in cui si
mostra come la centralità della Paura nel suo sistema permettesse a Hobbes di
risolvere il problema del fondamento della morale pur ammettendo “le
inconciliabili differenze esistenti tra gli uomini a proposito del significato
del Bene e del Male”. Hobbes non nega, infatti, anzi rivendica come un dato di
fatto “inevitabile” dell’humana condicio, che “per parte sua, ogni uomo chiami
BENE ciò che gli piace e gli da gioia; e MALE ciò che gli dispiace: per cui,
come ogni uomo è diverso nell’aspetto fisico, tutti differiscono gli uni dagli
altri in riferimento alla distinzione comune fra bene e male”. Ma, pur in questa
eterogeneità assoluta, un dato residuo comune a tutti. Un comun denominatore
(sia pur “minimo”). Ed è che tutti, pur nella diversità, temono la medesima
cosa. Che esiste una Paura comune, ed è la Paura della morte. Questa Paura
resiste alla soggettivazione perché attraversa orizzontalmente l’intero genere
umano. È l’unica Passione che, uniformemente, muove l’essere umano (tutti gli
esseri umani, e ognuno) verso la ricerca dell’autoconservazione. Che per tutti e
per ognuno coincide con il Bene (proprio, e di ciascuno). Cioè verso la ricerca
del mezzo più idoneo a raggiungere questo risultato. In questo senso la Paura è
l’unica Passione a coincidere con la Ragione. Per questa via la Paura può
“funzionare da codice etico comune” per un insieme di persone che ne siano
altrimenti prive. È il nuovo “universale concreto” in un mondo in cui l’universo
indistinto sembra aver dissolto tutti gli universali. Prende origine da qui la
costruzione della teoria politica hobbesiana in cui la Paura dispiega tutta la
propria geometrica potenza. Diventa appunto “l’operatore più potente”. In cui
“la paura è incorporata nella Polis” (l’homo timens sostituisce lo Zoon
Politikon). E si consuma la trans-sustanziazione della paura privata in forza
pubblica svelandosi l’enigma del Leviatano, prodotto e insieme rimedio alla
(altrimenti irriducibile) paura dell’uomo per l’uomo. Nel dispositivo hobbesiano
che analizza genealogicamente “il Politico” (la sua genesi) la Paura gioca
infatti un doppio ruolo: di presupposto della politica (di fattore produttivo
dell’atto fondativo del potere politico, il Pactum) e di strumento della
politica (mezzo specifico di quel potere). La paura è la condizione psicologica
naturale degli uomini nello Stato di Natura: il prodotto dell’insicurezza
generata dalla loro stessa eguaglianza e dal conseguente bellum omnium
contraomnes, da cui nasce la decisione di stipulare il contratto di comune
sottomissione all’Autorità. E insieme – una volta monopolizzata la facoltà di
praticare la violenza, trasferita dai singoli appartenenti alla moltitudine
nelle mani dell’autorità sovrana – trasformata in instrumentum regni. Risorsa
capace di produrre una pace stabile grazie al potere di minaccia assoluto a
garanzia del mantenimento del patto. In linguaggio tecnologico, potremmo dire
che la Paura sta sia sul versante dell’input che su quello dell’output. In
entrata e in uscita rispetto a quella machina machinarum che è lo Stato (il
grande Leviatano).
È una forma – per certi aspetti tra le più brutali, ma per questo anche tra le
più convincenti – che assume la geometria delle passioni: quella variante tipica
ancora una volta del moderno, dell’eterogenesi dei fini, per cui si opera perché
da un Male (la violenza) si possa ottenere un Bene (la pace, assunta come
assenza di conflitto). Da un male come mezzo possa risultarne un Bene come
risultato. Con questo astuto meccanismo, si gestisce la paura sociale praticando
il terrore politico. Come è stato scritto, si sostituisce una paura incerta
(quella che caratterizza lo Stato di Natura e ne rende appunto la vita
“solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve”, con una paura certa (quella
della pena somministrata dal Sovrano). Cura una paura “incalcolabile” con una
“calcolabile”. Non si elimina la paura, ma la si rende funzionale a uno scopo:
alla produzione dell’ordine come condizione di pace.
Lo esplicita bene Roberto Esposito quando ragiona dei residui che l’operazione
hobbesiana sulla paura lascia sul terreno, perché in realtà, appunto, quella
transustanziazione della paura non la consuma interamente. Non la rimuove dalla
scena. Anzi, la paura rimane in scena, al suo centro: “Si trasforma – così
scrive – da paura ‘reciproca’, anarchica, come quella che determina lo stato di
natura (mutuus metus) a paura ‘comune’, istituzionale, come quella che
caratterizza lo stato civile (metus potentiae communis). Ma non scompare, non si
riduce, non regredisce. La paura non si dimentica… Fa parte di noi stessi. Siamo
noi stessi fuori di noi. È l’altro da noi che ci costituisce come soggetti
infinitamente divisi da noi stessi”.
Se infatti – seguo ancora la pista di Esposito – lo “Stato moderno non solo non
elimina la paura da cui originariamente si genera, ma si fonda precisamente su
di essa fino a farne il motore e la garanzia del proprio funzionamento”, ciò
significa, e comporta, che “proprio l’epoca – la modernità, appunto – che si
autodefinisce in base alla rottura nei con- fronti dell’origine ne porta dentro
un’indelebile impronta di conflitto e di violenza”. In questo consisterebbe
appunto l’“arcaicità del moderno”: il suo essere segnato non dalla dissoluzione
della violenza primordiale, ma dal suo incapsulamento nell’involucro artificiale
del Leviatano. Avvolto come nucleo vitale dall’ingranaggio della machina
machinarum. La quale – in quanto Stato – mette sì fine al disordine dello stato
di natura, ma all’interno dello stesso presupposto. Trasformando la violenza da
minaccia in risorsa. Da “male oscuro” in instrumentum reso razionale solo dal
suo uso strumentale ma tale da mantenere intatta, dietro l’involucro
istituzionale, la propria originaria wildness. La propria natura di anomalia
selvaggia rispetto alla domanda di ordine e sicurezza della Vita. La quale, nel
momento in cui l’apparato tecnico della statualità – il dispositivo
istituzionale dello Stato Nazione – si indebolisce o si lacera, dilaga
incontrollata riprendendosi per intero la propria spazialità orizzontale – come
bellum omnium contraomnes – una volta abbattuta la mediazione verticale del
“Politico”. Noi, oggi, siamo esattamente in questo punto. E viviamo, per intero,
il ritorno ora incontrollato della paura non più come condizione dell’ordine ma
come forma del disordine del mondo.
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L'articolo La paura proviene da Comune-info.