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Maghismo, malattia senile dello stalino-razzismo
-------------------------------------------------------------------------------- unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Negli Stati Uniti precipita la guerra civile. Domenica 21 settembre a Glendale, Arizona, si terranno i funerali di un razzista bianco ucciso con una fucilata da un altro razzista bianco. Chi semina vento raccoglie tempesta. La sanguinosa guerra interna al popolo del Secondo Emendamento è iniziata, mentre viene cancellato il popolo del Primo Emendamento con misure di polizia che mettono a tacere chiunque dica la verità sull’assassinio di Kirk. Il funerale di Kirk sarà l’occasione per radicalizzare e portare a compimento il colpo di stato freddo scatenato dal Maghismo. Le caratteristiche del Maghismo si stanno delineando con chiarezza: Make America Great Again è un’onda reazionaria razzista che si innesta sulla tradizione del Ku Klux Klan e del Maccartismo, ma sta prendendo forme sempre più simili allo Stalinismo: repressione di ogni libertà di parola, controllo totale sugli apparati di stato, adorazione della Verità Indiscutibile del Capo. A questo il Maghismo aggiunge una venatura di mistificazione religioso-magica, un culto della personalità di uno stupratore mafioso. Scrive Jianwei Xun in un articolo dal titolo Kirk, la censura americana e la pedagogia dell’impotenza, (probabilmente l’analisi più interessante che io abbia letto su questo argomento): “La conoscenza diffusa dell’ingiustizia, combinata con l’impossibilità di porvi rimedio, genera uno stato di paralisi cosciente che è il cuore della trance ipnocratica… questa combinazione di consapevolezza e impotenza produce uno stato alterato di coscienza più profondo di qualsiasi manipolazione o inganno. Sapere e non poter agire frantuma la psiche in modo più efficace di qualsiasi propaganda…”. La campagna di aggressione sequestro e deportazione lanciata dall’amministrazione Maghista e l’occupazione armata delle città non allineate configurano da tempo le linee di una guerra civile. Ma si tratta di una guerra civile fredda, perché non esistono le condizioni politiche per un’opposizione armata all’aggressione. Né esistono le condizioni soggettive per un’opposizione sociale efficace. La generazione che sta emergendo è paralizzata cognitivamente, intrappolata nell’alienazione cellulare e psichicamente depressa. Dunque cosa possiamo attenderci per i prossimi mesi e anni? La mia opinione è che il Maghismo rappresenti una disperata reazione al declino demografico e psichico della civiltà bianca. L’avanzata del Maghismo appare inarrestabile in tutto l’Occidente (con l’eccezione del mondo ispanico che merita un discorso a parte). Ma non dobbiamo pensare che ci sarà una stabilizzazione di lungo periodo del Maghismo come accadde con il Fascismo italiano o il Nazismo tedesco o lo stalinismo russo. Credo che il Maghismo abbia messo in moto un processo di disintegrazione dell’Occidente che sta procedendo con estrema rapidità, mentre il sud del mondo si prepara sul piano economico e militare alla guerra. Intanto, venerdì 19 settembre mattina a New York undici rappresentanti del partito democratico sono stati arrestati perché chiedevano di poter visitare i locali in cui l’Immigration Custom Enforcement detiene i migranti in attesa di deportazione. In tutti i media, nelle università, nelle scuole, negli uffici del sistema pubblico, nella Sanità… vengono licenziati funzionari che non accettano l’umiliazione dei razzisti Maga. Sono quelli che, bene o male, hanno fatto e fanno funzionare il sistema. Qualche giorno fa sul New York Times è uscito We Are Watching a Scientific Superpower Destroy Itself, un articolo di Stephen Greenblatt che analizza le conseguenze dell’Inquisizione razzista e sionista sul futuro dell’Università statunitense e sul sistema della ricerca (mentre già oggi otto su dieci delle università più produttive secondo criteri di efficienza capitalistica, sono cinesi). Una sorta di Nazismo Barocco è l’espressione di una società profondamente bigotta, ignorante e psichicamente disastrata. Questa non può che produrre la disintegrazione della potenza americana e dell’intera società occidentale. So che molti dei miei lettori si rallegrano nel leggere queste mie previsioni. Ma c’è poco da rallegrarsi. La mia previsione è che l’occidente non accetterà il suo declino e dispone degli strumenti per scatenare l’Armageddon tanto atteso dai fanatici maghisti. La disintegrazione dell’Occidente è ormai in corso, e credo che di qui alla fine del 2025 assisteremo al suo precipitare. Ma questo non è che l’inizio di una guerra civile globale che non sarà più tanto fredda. È l’Europa? È irrilevante e divisa. Attaccata dal fascismo putiniano e disprezzata dagli Stati Uniti di Vance e di Trump, sta per essere risucchiata in una spirale auto-distruttiva perché non sa accettare di non esistere più. Secondo l’agenzia di informazioni Politico.eu è iniziato il secolo dell’umiliazione europea. Per fortuna (o per disgrazia) non ci sono molte probabilità che tra un secolo ci sia ancora qualcuno che possa testimoniarlo. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Maghismo, malattia senile dello stalino-razzismo proviene da Comune-info.
Scuole aperte partecipate
-------------------------------------------------------------------------------- Per raccontare cinque anni di progetto “Scuole aperte partecipate in rete” – promosso in scuole e associazioni di 8 regioni e selezionato dall’impresa sociale “Con i bambini” nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile – insieme all’inchiesta “Abbiamo aperto le scuole alle comunità”, è stato realizzato un documentario (curato dalla redazione di Territori Educativi e il regista Federico Triulzi di AMM, valorizzando video prodotti dai territori coinvolti) on line da metà novembre. Una versione breve del video è già disponibile: -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Abbiamo aperto le scuole alle comunità -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Scuole aperte partecipate proviene da Comune-info.
Pensare la politica al tempo di Gaza
I POPOLI E I SINGOLI NON UTILI A UN POTERE, LA CUI MATRICE È L’ECONOMIA DI MERCATO, POSSONO ESSERE ELIMINATI, CIOÈ SPOSTATI COME PACCHI OPPURE UCCISI. IL GENOCIDIO DI GAZA NE È LA MANIFESTAZIONE PIÙ FEROCE. MA GIÀ LA REPRESSIONE E L’INDIFFERENZA VERSO LE PERSONE CHE MIGRANO, SCRIVE GIAN ANDREA FRANCHI, HANNO PREPARATO NEGLI ULTIMI VENTI ANNI IL TERRENO VERSO IL SALTO ISRAELIANO NELL’ABISSO DI UN FUTURO CATASTROFICO. “DIRE CATASTROFICO, PERÒ, NON IMPLICA AGGIUNGERE ANCHE L’AGGETTIVO INEVITABILE: L’IMPEGNO, AD ESEMPIO, DI COLORO CHE SI RICONOSCONO INTORNO ALL’INCONTRO QUOTIDIANO CON I MIGRANTI DELLA ROTTA BALCANICA NELLA PIAZZA DELLA STAZIONE DI TRIESTE, “PIAZZA DEL MONDO”, VUOL PROPRIO ESSERE UN TENTATIVO DI INIZIARE UNA PRATICA MEDITATIVA DI COSTRUZIONE POLITICA DI RELAZIONI COMUNITARIE, NEL RIFIUTO DI OGNI FORMA DI DELEGA… SI TRATTA DI INIZIARE A COSTRUIRE RESISTENZA SOCIALE A PARTIRE DAL RAPPORTO CON L’ALTRO BASATO SULLA COSTRUZIONE DI FORME COMUNITARIE UNITE DALLA RECIPROCITÀ DELLA CURA… UN IMPEGNO CHE È POLITICO NELLA PRECISA MISURA IN CUI È DIVENTATO ORMAI, SIC ET SIMPLICITER, UN IMPEGNO PER LA VITA…” Trieste, “Piazza del mondo” (settembre 2025) -------------------------------------------------------------------------------- È oggi d’estrema evidenza la necessità di aprire cammini verso una dimensione comunitaria e collettiva della vita e non solo umana. Scrivo queste parole mentre cerco di compiere, a modo mio, questo cammino, anche se spesso mi viene il dubbio di segnar tracce sulla sabbia di fronte a un mare sempre più cupo… È in atto e ben visibile una distruzione della vita in quanto tale sotto la sferza del dominio assoluto del valore di scambio, nato nella Cultura europea fa XVI e XVII secolo per venir imposto ovunque. Il genocidio di Gaza ne è la manifestazione di fronte al mondo senza nessuna mediazione (e con troppo modeste forme di resistenza). Il ministro israeliano Bezalel Smotrich ha detto “La striscia è un Eldorado da spartire con gli Usa”. Si tratta di una frattura nella continuità storica mai avvenuta prima: l’eliminazione attuale e tendenziale di un intero popolo, giuridicamente chiamata genocidio1, viene eseguito di fronte al mondo intero. “Genocidio” è una parola ormai giornalisticamente banale. Primo Levi, nell’introduzione a I sommersi e i salvati, ricorda il “cinico ammonimento” dei militi SS: “E quando anche qualche prova dovesse rimanere [delle camere a gas], e qualcuno di voi sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono talmente mostruosi per essere creduti: dirà che sono esagerazioni della propaganda alleata, e crederà a noi che negheremo tutto”2. Quello che sta quotidianamente accadendo a Gaza dal 7 ottobre del 2023 proclama, invece, pubblicamente che le popolazioni e i singoli non utili a un potere, la cui matrice è l’economia di mercato, ovvero il capitalismo, possono essere eliminati: uccisi o spostati come pacchi inutili per essere abbandonati in qualche luogo remoto. Questa violenza radicale era in germe nella violenza originaria del nascente capitalismo in Europa, con la sottrazione dei beni di uso collettivo e la violenza contro tutti i gruppi sociali considerati improduttivi e, contemporaneamente, in forme ab origine largamente “genocidarie”, nella conquista europea del resto del mondo. Dopo la seconda guerra mondiale, questa consapevolezza si era attenuata e anche culturalmente rimossa, in quella fase storica che possiamo chiamare “socialdemocratica”, legata anche alla diffusione di dinamiche sociali di contestazione e di lotta. Oggi, senza più alcun velame giustificatorio, chi non è utile al sistema del potere economico può essere tolto di mezzo. Stiamo entrando in una nuova fase della storia del mondo, che indicherei come una sorta di atroce sintesi di vecchio e di nuovo. Vecchio: perché ultimo frutto velenoso dell’esasperazione della cultura dell’individualismo concorrenziale che porta alla lotta di tutti contro tutti; una società della concorrenza è una società concepita come lotta per vivere e sopravvivere, è una società che porta nelle sue viscere la solitudine e la guerra. Nuovo, perché è ormai scomparsa ogni copertura ideologica, ad esempio l’ideologia dei “diritti umani”, ma soprattutto perché il potere capillare intrinseco alle dinamiche economiche sta ormai palesemente distruggendo la vita intera, senza più contrasti efficaci, limiti o cautele. Ci sono qua e là resistenze, lotte e anche tentativi d’innovazione, ma al momento non in grado di contrastare veramente il processo distruttivo dell’equilibrio essenziale alla vita, così come la conosciamo, che appare sempre più inesorabile. L’intera natura – l’ambito del nascere per tutti i viventi – è coinvolta in un illimitato processo di mercificazione, ovvero di distruzione funzionale al capitalismo. Bisogna prendere atto che questa cultura, nel suo sviluppo incontrollato e che ormai appare incontrollabile, sta distruggendo le basi della vita. Occorre far risuonare nella sua profondità originaria una parola, resa banale, come “natura”: la vita è la temporalità del nascere, del crescere e del finire. Finisce un percorso di vita per dar seguito ad un altro: il nascere e il morire, l’iniziare e il finire, costituiscono due facce di una sola dinamica vitale e, nel caso umano, storica. Detto in termini più astratti, la vita si articola nel ciclo di riproduzione e produzione (produzione del necessario alla riproduzione, il nutrimento), ma è ormai storicamente lanciata verso la rottura dell’equilibrio fra queste due dinamiche fondanti. Siamo, infatti, catturati da un processo in cui la produzione si sta mangiando la riproduzione, perché il fine ultimo della riproduzione è diventato la produzione di oggetti che non sono necessari o anche utili alla riproduzione, al contrario, molto spesso nocivi, servono soltanto alla loro trasformazione in valore di scambio, in denaro, peraltro dissolto ormai in meccanismi finanziari. Potere allo stato puro, sganciato da ogni fine che non sia uno smisurato impulso ad invadere – a divorare – ogni anfratto vitale. Questa dinamica illimitata di potere ha oggi, nel genocidio pubblico di Gaza, la sua proclamazione, locale ma con valenza generale: non c’è più alcun limite a un potere che si manifesta come trasformazione della vita in merce, ossia in valore di scambio fine a sé stesso. È l’instaurazione di un illimitato dominio antropologico sulla vita – ma di cui responsabile è solo una piccola parte degli umani -, che sta mettendo in crisi l’equilibrio della vita stessa. Oggi noi non possiamo più avere un immaginario e quindi neanche delle rappresentazioni del futuro. Possiamo avere speranze e desideri per il futuro, senza però un rapporto con la dinamica storica effettiva e quindi con possibili alternative. Ciò significa che è avvenuta, per la prima volta nella storia, una rottura a livello mondiale della trasmissione fra le generazioni, una rottura della narrazione storica, cioè del senso stesso della vita, sociale e singolare: un genitore oggi non può prefigurare al figlio il mondo in cui vivrà da adulto. Oggi mettere al mondo un figlio è qualcosa di diverso da ieri: un bambino è gettato in un mondo, le cui dinamiche future ci sono ignote. In tal modo la vita storica tende a perdere senso: per quel che riguarda i singoli, sembra evaporare in un pulviscolo caotico di cunicoli individuali, di drammi di sopravvivenza, coinvolti e sconvolti da lotte mondiali di potere. È necessario allora, per ridare senso alla nostra vita e a quella dei nostri figli e delle generazioni future, scavare a fondo. Il compito antropologico, storico, politico di ridare senso alla vita deve partire dalla consapevolezza che la vita e la morte non sono contrapposte, come la cultura moderna dell’Occidente vuol imporre, ma sono complementari – altre culture dall’Occidente distrutte o recluse lo sapevano. Ciò significa fondare un orizzonte narrativo politico, quindi comunitario, nel quale accogliere il transito generazionale: la morte. È questo il fondamento di una vita storica comunitaria. Accogliere la finitezza di ogni singola vita come intrinseca portatrice di un messaggio del proprio transito vitale da lasciare agli altri, a chi resta e a chi nasce, vuol dire creare le condizioni della trasmissibilità fondamento della storia in quanto comunicazione fra le generazioni. Questo è il tratto, che si può chiamare “ontologico”, alla base della dimensione comunitaria della vita, che l’umano potrebbe e dovrebbe esaltare, mentre ha finito con l’esaltare un’altra dimensione, che pur nella vita esiste: la predazione. Il capitalismo, accentuando al massimo il fenomeno predatorio contenuto in natura entro limiti certi, ha finito con il contrapporre la morte al contesto della vita e della storia. Ha annullato la funzione culturale della morte: il passaggio del testimone nel tempo della narrazione storica, il passaggio comunicativo fra le generazioni. Ha reso la morte soverchiante e distruttiva per il tramite di una illimitata espansione dell’umana capacità di agire, divenuta predazione della vita stessa. Ha modificato, in tal modo, le basi stesse della vita, riducendola a materiale da predazione: consumare la vita invece di alimentarla: una dinamica tendenzialmente suicida. Questo è accaduto nel contesto di una complessa dinamica storica di rimozione dell’angoscia propria della condizione umana: l’angoscia per la morte che abita ogni vivente umano e la cui elaborazione è stata il fondamento di tutte le culture: dalle prime mitologie alle religioni più complesse. Rimozione è il contrario di elaborazione. Sembra opportuno un rapidissimo cenno storico. Questo percorso storico di rimozione è sorto in Europa, principalmente, nei meandri della corrente calvinista della Riforma del cristianesimo agli inizi di ciò che chiamiamo “epoca moderna” (XVI-XVII secolo). Sommariamente: sotto la spinta iniziale del bisogno di capire il misterioso disegno divino sulla condizione umana – chi sarà salvato e chi perduto3 – il calvinismo poneva il senso e lo scopo della vita nell’affermazione sociale, intesa ormai in termini individuali e non comunitari, che si veniva rapidamente identificando con il successo sociale, cioè in definitiva economico, sciolto infine da ogni connotazione religiosa. La vita e l’opera di Benjamin Franklin, il cui volto appare esemplarmente sulla banconota da cento dollari, offre una narrazione perfettamente adeguata di questo fondamentale passaggio storico nell’affermazione di una vita operosa tutta dedita, con incrollabile serenità, all’”onesto guadagno”. Nel 1787 scrive: “Più vivo, più colgo prove convincenti di questa verità, ovvero che è Dio a governare le umane faccende”; ma per il tramite del denaro quale controllo e misura del tempo4: “il tempo è denaro”, “il denaro è di sua natura fecondo e produttivo”. In Franklin, infatti, si può leggere con grande chiarezza il capillare lavoro di rimozione dell’angoscia nell’operatività quotidiana: il denaro usurpando e sterilizzando la misteriosa e drammatica fecondità della vita, riducendola alla misura quantitativa, produce un ordine astratto ma rassicurante e una garanzia di controllo del futuro che trova nella “Rivoluzione“ americana l’esempio più caratteristico5. Lo ribadisce molto bene un’ulteriore considerazione dei nostri giorni: “La Banca Mondiale ha fatto sua la teoria dell’economista peruviano Hernan de Soto secondo cui solo il denaro è produttivo, mentre la terra in sé è sterile e se utilizzata per la sussistenza è causa di povertà…”6. Il denaro viene visto come garanzia di vita e, almeno, sopravvivenza. Ma oggi possiamo capire che è vero esattamente il contrario. L’atteggiamento di sereno distacco di Franklin non è alternativo alla violenza più estrema. Ne possiamo trovare un esempio estremamente significativo un secolo prima, proprio nel pieno di quella rivoluzione calvinista in Inghilterra, che è alla base di questa dinamica storica, nell’invasione dell’Irlanda da parte del New Modern Army guidato da Cromwell. La violenza estrema, giunta fino al genocidio, e la serena operosità di ogni giorno sono perfettamente complementari, come il fascismo e la socialdemocrazia, dinamiche diverse ma che perseguono lo stesso scopo7. Oggi, nella fase di violento neoliberismo che sta imperversando senza più alcun limite, possiamo ben dire che, abbandonato ogni tipo di giustificazione, il mero potere del valore di scambio indica pienamente il valore, ovvero il grado di potere, di un individuo o di un gruppo. Importante, però, è cercar di comprendere le origini di un fenomeno storico che oggi sembra ormai privo di ogni capacità di autocontrollo. In tale contesto, di cui ho sommariamente accennato la matrice storica, l’impegno con il nuovo fenomeno migratorio, nato e sviluppato da circa un ventennio, è un punto fondamentale d’azione e d’osservazione. Dato che chi scrive è un cittadino europeo, mi riferisco soprattutto al comportamento degli Stati europei e “occidentali” in cui, – sotto l’affaticata egemonia degli Usa -, appaiono senza veli l’indifferenza per la vita e la supremazia indiscutibile del valore di scambio8, accompagnati dalla fine di tutto ciò che si raccoglieva storicamente sotto l’etichetta “diritto”. L’indifferenza per le decine di migliaia di morti migranti in Mediterraneo, e anche nei Balcani, il cinico ma tradizionale uso politico del razzismo – e, in particolare ricadendo in casa nostra, la complicità dell’attuale governo, con le bande criminali libiche, esemplificato dal “caso Almasri” – sono stati un passaggio fondamentale verso il salto israeliano nell’abisso di un futuro che si preannuncia catastrofico. Questi morti indifferenti sono un esercizio della libertà di uccidere il cui culmine “osceno” – ma di un fuori scena sbattuto brutalmente in scena – si manifesta quotidianamente a Gaza: Israele è l’avanguardia sperimentatrice di un capitalismo ormai pienamente epidemico. Dire “catastrofico”, però, non implica aggiungere anche l’aggettivo “inevitabile”: l’impegno, ad esempio, di coloro che si riconoscono intorno all’incontro quotidiano con i migranti della Rotta balcanica nella piazza della stazione di Trieste – la “Piazza del Mondo” – vuol proprio essere un tentativo di iniziare una pratica meditativa di costruzione politica di relazioni comunitarie, nel rifiuto di ogni forma di delega a qualsivoglia pretesa di rappresentanza. Si tratta di iniziare a costruire resistenza sociale a partire dal rapporto con l’altro basato sulla costruzione di forme comunitarie unite dalla reciprocità della cura, prevedendo in futuro anche possibili nuove forme di lotta: è necessario essere consapevoli che siamo ormai in una nuova diffusa forma di Terza guerra mondiale, che non è esagerato chiamare guerra contro la vita. Il nostro compito oggi, concreto e quotidiano, sta nel raccogliere il messaggio inciso dalla violenza delle frontiere sui corpi umiliati e offesi dei migranti, corpi memori delle violenze genocide di secoli di colonialismo, ma che ci indicano anche un futuro di devastazione dell’equilibrio vitale. Ciò implica il coinvolgimento in un impegno che è politico nella precisa misura in cui è diventato ormai, sic et simpliciter, un impegno per la vita. -------------------------------------------------------------------------------- 1 Ho qualche remora a usare il termine “genocidio”, nato in ambito giuridico e fortemente segnato da questa origine in termini di potere. 2 Primo Levi, I sommersi e i salvati, in Opere Complete, vol. II, Einaudi 2016, p. 1147. 3 Questa è la lettura di Weber nell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, 1904-1905. 4 D. Sassoon, Rivoluzioni. Quando i popoli cambiano la storia, Garzanti, Milano 2024, p. 110. 5 Un articolo di Francesco Raparelli, sul “Manifesto” del 13 marzo 2025, p. 15, intitolato “Musk innovatore nel solco della storia Usa”, tenta un collegamento storico fra una figura come quella di Elon Musk e la storia statunitense di cui Franklin è figura esemplare, proprio in riferimento al testo di Sassoon. 6 Silvia Federici, Reincantare il mondo. Femminismo e politica dei commons, Ombre corte, Verona 2018, p.28. LEGGI ANCHE: > Le insurrezioni delle donne 7 È necessario però ricordare che all’epoca di Cromwell sorsero anche i Levellers e altri movimenti di contestazione radicale e di scelte comunitarie. federici8 Da notare il lucido conciso articolo di Chiara Mattei ‘Austerità, militarismo, censura: Trump ci mostra il loro legame’ sul “Fatto quotidiano” del 18 agosto, p. 12 -------------------------------------------------------------------------------- Insegnante di filosofia, Gian Andrea Franchi è da anni impegnato con i migranti della cosiddetta rotta balcanica a Trieste. Il suo ultimo libro è Per un comunismo della cura (DeriveApprodi). Nell’archivio di Comune i suoi articoli sono leggibili qui. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Pensare la politica al tempo di Gaza proviene da Comune-info.
La paura
SU COMUNE NON CI STANCHIAMO DI SCRIVERLO: ANCHE IN QUESTO TEMPO ANGOSCIANTE, ESISTONO MODI DIFFERENTI CHE METTONO IN DISCUSSIONE LA PAURA CHE PARALIZZA. PER QUESTO ABBIAMO BISOGNO, PER DIRLA CON JOHN HOLLOWAY, DI IMPARARE A PENSARE LA SPERANZA. INTANTO PERÒ LA PAURA È OVUNQUE, INTORNO E DENTRO DI NOI E LE RAGIONI SONO TANTE. LA PAURA FUNZIONA SEMPRE PIÙ COME L’UNICA CERTEZZA IN UN MONDO CHE HA PERSO TUTTE LE CERTEZZE. IL VERO PROBLEMA È CHE SI GESTISCE LA PAURA SOCIALE PRATICANDO IL TERRORE POLITICO. LA POLITICA ISTITUZIONALE INSOMMA NON ELIMINA LA PAURA, SCRIVE MARCO REVELLI, MA LA RENDE FUNZIONALE A UNO SCOPO: ALLA PRODUZIONE DELL’ORDINE COME CONDIZIONE DI PACE. È QUESTO IL MURO NEL QUALE SIAMO CHIAMATI AD APRIRE CREPE. UN CAPITOLO TRATTO DA QUESTO LIBRO È ILLEGALE. CONTIENE PAROLE CHE INSIDIANO LA “SICUREZZA” (ALTRECONOMIA ED.), REALIZZATO DA OSSERVATORIO REPRESSIONE E VOLERE LA LUNA (CON CONTRIBUTI, TRA GLI ALTRI, DI LIVIO PEPINO, ALESSANDRA ALGOSTINO, ITALO DI SABATO, FEDERICA BORLIZZI, LUDOVICO BASILI, LORENZO GUADAGNUCCI…) Unsplash -------------------------------------------------------------------------------- La Paura entra a far parte con un ruolo centrale nella riflessione sulla Politica assai tardi: in quel punto di passaggio fondamentale tra il “mondo degli Antichi” e il “mondo dei Moderni” che ha come baricentro il XVII secolo. Un nome fra tutti ne sintetizza la valenza “costituente”: Thomas Hobbes, il pensatore a cui, secondo Norberto Bobbio – che gli ha dedicato un’infinità di studi –, può essere attribuita “la prima moderna teoria dello stato moderno”. Come ha scritto nell’opera specificamente a lui intitolata (“Thomas Hobbes”, 1989) “la teoria politica di Hobbes è l’autocoscienza dello stato moderno”. Ebbene, con Hobbes la Paura assume una posizione di assoluta centralità, come fattore fondante non solo della filosofia politica – il che è universalmente riconosciuto – o dell’antropologia, ma anche dell’etica e della gnoseologia. È cioè una categoria “di sistema”: del sistema di pensiero che, forse più di ogni altro, marca con nettezza il passaggio alla modernità. Il “Moderno”, potremmo dire, nasce con nel cuore la Paura. Carlo Galli, parlando di Hobbes, definisce la paura “l’operatore più potente” incorporato nella politica moderna fin dal suo “nucleo originario”. Roberto Esposito la qualifica come il “terribilmente originario”. Bobbio la pone come fundamentum regnorum, suggerendo che tale è ora “il Timore, non la Giustizia”, come invece aveva affermato una lunga tradizione di pensiero prima classico e poi cristiano. Siamo di fronte, senza dubbio, a una cesura. Di più: a una rivoluzione. Una rivoluzione copernicana, paragonabile a quella che appena un secolo prima aveva sostituito alla teoria geocentrica quella eliocentrica. Anche in questo caso, infatti, si assiste – nel campo delle cose umane – alla nascita di un nuovo “paradigma”. Nella riflessione filosofica precedente – nel “paradigma degli Antichi” – la Paura era relegata nel campo (secondario) dei vizi e delle passioni negative: delle debolezze umane e dei comportamenti a-sociali. La cosa è macroscopica nel “mondo degli eroi” omerico, in cui la paura – il “provar paura”, il “lasciarsi vincere” dalla paura – era una vera e propria “catastrofe dell’Io”. La peggior perdita possibile: la distruzione del Kleos (della gloria affidata al canto degli aedi che rende immortali). Ma anche nel modello “socratico-platonico-aristotelico” (chiamiamolo così, con una estrema semplificazione) la paura stava sul versante del negativo. Per Socrate (per il Socrate di Platone, nel Lachete) la paura è un difetto di virtù (la mancata applicazione della “scienza del bene” nelle circostanze date) così come il coraggio consiste nella “virtù tutta intera” (nella forza d’animo guidata dall’intelligenza sistemica di ciò che è “bene fare”). Aristotele – il vero sistematizzatore del modello in “paradigma” – ne tratta in più testi, in particolare nell’Etica a Nicomaco e nella Retorica (libro secondo). In entrambi i testi la Paura – con sfumature diverse: come Kakía (Vizio) in un caso, o come Lupe (Dolore o Sofferenza) nell’altro – aveva a che fare con il non essere “al proprio posto” o col non fare “la cosa giusta”. Non saper riconoscere o non riuscire a compiere ciò che, nell’ordine delle cose, è richiesto per essere all’altezza di ciò che si è (per agire, cioè, in modo “orientato al bene”). L’effetto di un qualche deficit (di abitudine, di volontà, di sapienza) che pone chi ne è preda fuori dall’ordine del mondo: ellittico rispetto al proprio “esserci”: all’essere adeguatamente nel mondo. Gli stoici radicalizzeranno questo concetto, considerando la paura – come quasi tutte le passioni – il frutto di un “errore di giudizio” e del conseguente allontanamento dall’ordine naturale (una rottura della sua armonia); mentre per gli epicurei la paura è un puro non-senso, derivante da ignoranza e irrazionalità dal momento che il sapere di Epicuro mostra che, in realtà, “non c’è nulla di cui aver paura”. Il cristianesimo, infine, porterà alle estreme conseguenze il concetto, leggendo nella Paura il segno del Peccato: essa fu considerata dal cristianesimo delle origini tra i “vizi capitali” in quanto contrapposta a quella tipica virtù teologale che è la Speranza, e dunque “peccato mortale” per sfiducia verso Dio e la Divina Provvidenza. Si può ben comprendere come l’irruzione dell’approccio hobbesiano abbia costituito un passaggio dirompente. In esso la Paura compare fin dalla radice prima del sistema di pensiero, come parte integrante della sua “antropologia meccanicistica” strutturata sul duplice conatus dell’Attrazione e dell’Avversione (le due determinanti fondamentali dei movimenti umani poste alla base della sua meccanica delle passioni). Dell’Appetito e dell’Avversione. Potremmo dire dell’Amore e dell’Odio o anche di ciò che è considerato Bene (l’oggetto dell’Appetito) e di ciò che è considerato Male (l’oggetto dell’Avversione). Una coppia, questa, che se considerata sul piano dell’Immaginazione (della facoltà umana di proiettarsi nell’aspettativa di cose future) configura l’alternativa tra Speranza e Paura: le due passioni fondamentali, destinate a orientare i comportamenti degli uomini, la prima come anticipazione mentale di un Bene, la seconda come anticipazione mentale di un Male. Una coppia potentissima, che affonda le radici, da una parte, nell’istinto di conservazione o di sopravvivenza (il conatus sese conservandi sive preservandi), dall’altra, nella “paura della morte” (la madre di tutte le paure, potremmo dire). Come scrive Hobbes: “La necessità di natura induce gli uomini a volere e desiderare il bonum sibi, ciò che è bene per loro stessi, e a evitare ciò che è nocivo, ma soprattutto quel terribile nemico di natura che è la morte, dalla quale ci aspettiamo la perdita di ogni potere, e anche la maggiore delle sofferenze temporali al momento del trapasso”. Due sentimenti primordiali, radicati nella natura dell’essere, che però non stanno esattamente sullo stesso piano. La seconda (la Paura) prevale emotivamente e logicamente sulla prima (la Speranza) per il semplice fatto che mentre non è immaginabile un Bene assoluto (un Summum bonum), è immaginabilissimo, anzi probabile, un Male assoluto (un Summum malum), che è appunto la scomparsa di sé. Proviamo a incrociare questa considerazione hobbesiana con una delle più note affermazioni socratiche sulla “paura della morte”, là dove si dice senza mezzi termini che “aver paura della morte non è nient’altro che sembrare sapiente senza esserlo, cioè credere di sapere quello che non si sa. Perché nessuno sa se per l’uomo la morte non sia per caso il più grande dei beni, eppure la temono come se sapessero bene che è il più grande dei mali. E credere di sapere quello che non si sa non è veramente la più vergognosa forma di ignoranza?”. Avremo allora la misura della distanza abissale che separa i due sistemi di pensiero e della profondità della cesura consumatasi nel passaggio alla modernità. Qualcosa deve davvero essere accaduto nello stato mentale del tempo per giustificare un simile rovesciamento. E viene a questo proposito illuminante la lucidissima affermazione di Carlo Galli, che, nel registrare questo inedito protagonismo della Paura alla metà del millennio, lo spiega col fatto che “la paura manifesta la propria strutturale produttività solo quando si assume antropologicamente che gli uomini siano ‘rei’ (Machiavelli) oppure timorosi e aggressivi (Hobbes), ovvero quando il legame sociale non consiste più nella eticità né nella naturalità né in un ordine dato”. Soprattutto quest’ultimo: la dissoluzione dell’idea di un “ordine dato”. Di un “cosmo ordinato” nel quale virtuoso è ciò che vi aderisce senza attrito, riproducendo un’armonia delle cose (dell’“ordine delle cose”) nel quale anche la morte, nell’assumere un senso, non si configura come un male (tanto più un “male assoluto”) per collocarsi “al proprio posto”. Non disarmonia estrema ma parte strutturale dell’armonia del tutto. Giocano, in questo passaggio, senza dubbio elementi inerenti alla biografia personale di Thomas Hobbes. Al suo scrivere nel pieno della guerra civile inglese, testimone (e potenziale vittima) di orrori inenarrabili. Lui stesso, nell’“Autobiografia”, ha scritto che “l’unica passione della mia vita è stata la paura”! E ha aggiunto che sua madre, durante la gravidanza, “s’intimorì tanto della minacciata invasione spagnola che partorì due gemelli, se stesso e la paura” (R. Esposito). Bobbio ci ricorda come l’ossessione hobbesiana per l’Unità politica nasca dalla paura e dal fatto che “l’età della formazione e della maturità di Hobbes, è anche l’età che prende il nome dalla più grande guerra religiosa della nostra storia, la guerra dei Trent’anni”. E, soprattutto, Corey Robin dedica pagine potentissime del suo “Fear” per descrivere quanto gli orrori e i terrori della civil war inglese avessero contribuito a plasmare la visione hobbesiana incentrata sul valore assoluto della pace (l’unico “mezzo” efficace contro la paura della morte precoce e violenta): il suo disprezzo e la sua deplorazione verso coloro (predicatori settari o gentiluomini di campagna, lettori sofisticati dei classici greci e latini e brutali uomini d’armi del new model cromwelliano assetati di gloria) che avevano precipitato il Paese in un bagno di sangue. Condizione, umanissima, del fragile “uomo qualunque”, l’individuo solo nella tempesta delle passioni: quello che appunto attira l’interesse in qualche modo inatteso, persino sproporzionato, di un sottile pensatore morale come Elias Canetti, che apprezza appunto in Hobbes il “coraggio di aver paura”. Di parlare – come annoterà Esposito – “dal profondo della sua paura”. Nasce in fondo di lì, da quell’esperienza esistenziale dell’orrore del bellum civilis, il “rovesciamento di tutti i valori” che Hobbes realizza, inaugurando un’“etica inversa”, in cui il vecchio vizio della Paura (diciamolo pure, della “viltà”) diventa virtù etica, e l’antica virtù del Coraggio, vizio (“declassato alla stupidità della vanagloria…, la cui assenza, perfino sul campo di battaglia, non è reato”). E questo perché l’ethos eroico greco, quello dell’Uomo che rifiuta la sottomissione, dell’eroismo della libertà, della Virtù come pratica dell’autonomia verso un Bene sistemico non incarnato in nessuna Autorità, ha prodotto la distruzione dell’Ordine e la Precarietà dell’esistenza. E ora si tratta, al contrario, di stipulare una “semantica dell’obbedienza”. Di elaborare quella che è stata definita la più compiuta teoria dell’obbedienza. Nel pensiero classico era stato il Coraggio a garantire, nella struttura dell’anima, il legame più stretto tra la Ragione e il Desiderio ponendo appunto la Passione dell’anima irascibile sotto il controllo dell’anima razionale (così per il Platone della “Repubblica”). Era stata quella virtù a costituire “il connotato più profondo dello stoicismo” trapassato poi nel cristianesimo, nell’apologia tomistica di Temperanza e Prudenza (forme anch’esse della Ragione). Nel Coraggio stava, d’altra parte, il Valore dell’“auto-affermarsi malgrado la minaccia del non-essere” (l’antidoto contro la resa al nulla). Qui invece, al contrario, è la Paura a fondare l’atto di Ragione, che non è più – lo annota Bobbio – la “capacità di vedere l’essenza delle cose” ma più modestamente capacità di calcolo (“ratiocinatio est computatio”). La quale consiste nella razionale valutazione dei rischi e nell’altrettanto razionale scelta dei mezzi per ridurli e neutralizzarli. Il primo atto umano di Ragione è prodotto dalla consapevolezza che la morte (propria, di sé come individuo) è il massimo dei mali possibili, e nel calcolo dei modi per sfuggirvi. Potremmo dire che, in questa luce, la Paura funziona come l’unica Certezza in un mondo che ha perduto tutte le certezze. O, se si preferisce, l’unico antidoto logicamente accettabile alla sfida dello scetticismo riemerso sulle ceneri del “paradigma degli antichi” bruciato dalla Rivoluzione scientifica del XVI e XVII secolo e dalla contemporanea Riforma protestante. Lo ricorda (ancora lui!) Corey Robin, nel capitolo intitolato appunto “Scetticismo e guerra civile”, in cui si mostra come la centralità della Paura nel suo sistema permettesse a Hobbes di risolvere il problema del fondamento della morale pur ammettendo “le inconciliabili differenze esistenti tra gli uomini a proposito del significato del Bene e del Male”. Hobbes non nega, infatti, anzi rivendica come un dato di fatto “inevitabile” dell’humana condicio, che “per parte sua, ogni uomo chiami BENE ciò che gli piace e gli da gioia; e MALE ciò che gli dispiace: per cui, come ogni uomo è diverso nell’aspetto fisico, tutti differiscono gli uni dagli altri in riferimento alla distinzione comune fra bene e male”. Ma, pur in questa eterogeneità assoluta, un dato residuo comune a tutti. Un comun denominatore (sia pur “minimo”). Ed è che tutti, pur nella diversità, temono la medesima cosa. Che esiste una Paura comune, ed è la Paura della morte. Questa Paura resiste alla soggettivazione perché attraversa orizzontalmente l’intero genere umano. È l’unica Passione che, uniformemente, muove l’essere umano (tutti gli esseri umani, e ognuno) verso la ricerca dell’autoconservazione. Che per tutti e per ognuno coincide con il Bene (proprio, e di ciascuno). Cioè verso la ricerca del mezzo più idoneo a raggiungere questo risultato. In questo senso la Paura è l’unica Passione a coincidere con la Ragione. Per questa via la Paura può “funzionare da codice etico comune” per un insieme di persone che ne siano altrimenti prive. È il nuovo “universale concreto” in un mondo in cui l’universo indistinto sembra aver dissolto tutti gli universali. Prende origine da qui la costruzione della teoria politica hobbesiana in cui la Paura dispiega tutta la propria geometrica potenza. Diventa appunto “l’operatore più potente”. In cui “la paura è incorporata nella Polis” (l’homo timens sostituisce lo Zoon Politikon). E si consuma la trans-sustanziazione della paura privata in forza pubblica svelandosi l’enigma del Leviatano, prodotto e insieme rimedio alla (altrimenti irriducibile) paura dell’uomo per l’uomo. Nel dispositivo hobbesiano che analizza genealogicamente “il Politico” (la sua genesi) la Paura gioca infatti un doppio ruolo: di presupposto della politica (di fattore produttivo dell’atto fondativo del potere politico, il Pactum) e di strumento della politica (mezzo specifico di quel potere). La paura è la condizione psicologica naturale degli uomini nello Stato di Natura: il prodotto dell’insicurezza generata dalla loro stessa eguaglianza e dal conseguente bellum omnium contraomnes, da cui nasce la decisione di stipulare il contratto di comune sottomissione all’Autorità. E insieme – una volta monopolizzata la facoltà di praticare la violenza, trasferita dai singoli appartenenti alla moltitudine nelle mani dell’autorità sovrana – trasformata in instrumentum regni. Risorsa capace di produrre una pace stabile grazie al potere di minaccia assoluto a garanzia del mantenimento del patto. In linguaggio tecnologico, potremmo dire che la Paura sta sia sul versante dell’input che su quello dell’output. In entrata e in uscita rispetto a quella machina machinarum che è lo Stato (il grande Leviatano). È una forma – per certi aspetti tra le più brutali, ma per questo anche tra le più convincenti – che assume la geometria delle passioni: quella variante tipica ancora una volta del moderno, dell’eterogenesi dei fini, per cui si opera perché da un Male (la violenza) si possa ottenere un Bene (la pace, assunta come assenza di conflitto). Da un male come mezzo possa risultarne un Bene come risultato. Con questo astuto meccanismo, si gestisce la paura sociale praticando il terrore politico. Come è stato scritto, si sostituisce una paura incerta (quella che caratterizza lo Stato di Natura e ne rende appunto la vita “solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve”, con una paura certa (quella della pena somministrata dal Sovrano). Cura una paura “incalcolabile” con una “calcolabile”. Non si elimina la paura, ma la si rende funzionale a uno scopo: alla produzione dell’ordine come condizione di pace. Lo esplicita bene Roberto Esposito quando ragiona dei residui che l’operazione hobbesiana sulla paura lascia sul terreno, perché in realtà, appunto, quella transustanziazione della paura non la consuma interamente. Non la rimuove dalla scena. Anzi, la paura rimane in scena, al suo centro: “Si trasforma – così scrive – da paura ‘reciproca’, anarchica, come quella che determina lo stato di natura (mutuus metus) a paura ‘comune’, istituzionale, come quella che caratterizza lo stato civile (metus potentiae communis). Ma non scompare, non si riduce, non regredisce. La paura non si dimentica… Fa parte di noi stessi. Siamo noi stessi fuori di noi. È l’altro da noi che ci costituisce come soggetti infinitamente divisi da noi stessi”. Se infatti – seguo ancora la pista di Esposito – lo “Stato moderno non solo non elimina la paura da cui originariamente si genera, ma si fonda precisamente su di essa fino a farne il motore e la garanzia del proprio funzionamento”, ciò significa, e comporta, che “proprio l’epoca – la modernità, appunto – che si autodefinisce in base alla rottura nei con- fronti dell’origine ne porta dentro un’indelebile impronta di conflitto e di violenza”. In questo consisterebbe appunto l’“arcaicità del moderno”: il suo essere segnato non dalla dissoluzione della violenza primordiale, ma dal suo incapsulamento nell’involucro artificiale del Leviatano. Avvolto come nucleo vitale dall’ingranaggio della machina machinarum. La quale – in quanto Stato – mette sì fine al disordine dello stato di natura, ma all’interno dello stesso presupposto. Trasformando la violenza da minaccia in risorsa. Da “male oscuro” in instrumentum reso razionale solo dal suo uso strumentale ma tale da mantenere intatta, dietro l’involucro istituzionale, la propria originaria wildness. La propria natura di anomalia selvaggia rispetto alla domanda di ordine e sicurezza della Vita. La quale, nel momento in cui l’apparato tecnico della statualità – il dispositivo istituzionale dello Stato Nazione – si indebolisce o si lacera, dilaga incontrollata riprendendosi per intero la propria spazialità orizzontale – come bellum omnium contraomnes – una volta abbattuta la mediazione verticale del “Politico”. Noi, oggi, siamo esattamente in questo punto. E viviamo, per intero, il ritorno ora incontrollato della paura non più come condizione dell’ordine ma come forma del disordine del mondo. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La paura proviene da Comune-info.
Come Eni vuole prendersi gli influencer italiani
-------------------------------------------------------------------------------- Alcuni screenshot dalle pagine Instagram e TikTok di Plenitude -------------------------------------------------------------------------------- Una popolare pagina Instagram italiana pubblica un carosello, cioè un post composto da più immagini. La notizia al centro del contenuto social è il nuovo record segnato nel 2024 dall’installazione di energia eolica e fotovoltaica, ma i toni del post sono inusuali. Sole e vento «non bastano per la transizione energetica – scrive la pagina, e – il gas e alcune fossili restano indispensabili». Per i divulgatori dietro il profilo, la soluzione sta nella «neutralità tecnologica». Si tratta del principio, da tempo dibattuto nella politica europea, per cui dovrebbe essere il mercato a decidere quali soluzioni tecnologiche siano più adatte a portare avanti la transizione ecologica, e non gli Stati. I partiti della destra e dell’ultradestra hanno fatto della neutralità tecnologica una battaglia simbolo all’interno delle istituzioni comunitarie, e anche le aziende dell’oil&gas ne parlano diffusamente. E proprio a queste ultime dobbiamo guardare per capire il post da cui siamo partiti. L’ultima slide rivela infatti il vero scopo della pubblicazione: promuovere MINDS, un master organizzato dalla multinazionale italiana Eni assieme al Politecnico di Torino. Plenitude Creator Bootcamp: la scuola per influencer di Eni La collaborazione tra la pagine Instagram in questione – Data Pizza, 226mila follower – ed Eni è correttamente segnalata e assolutamente lecita. Il tema dei legami tra una delle più grandi aziende del nostro Paese e l’universo dei content creator italiani, però, merita attenzione. Da anni Eni, anche tramite la sua controllata Plenitude, investe molto sulle collaborazioni con personaggi famosi sui social e pagine dedicate alla divulgazione. L’attore Paolo Ruffini (1,9 milioni di follower su Instagram), la travel blogger Manuela Vitulli (168mila follower), il gamer Jody Checchetto (282mila follower) sono solo alcune delle celebrità online che hanno prestato la loro immagine all’azienda. Andrea Perticaroli e Christian Cardamone, meglio noti come @iwouldbeandrea e @nonsonokristiano, sono diventati di fatto i volti di Plenitude su TikTok. Un’investimento sui social che si combina alla pubblicità tradizionale e alle sponsorship dei grandi eventi – il Festival di Sanremo e la Seria A su tutte, ma anche grandi occasioni straniere come la Vuelta di Spagna recentemente conclusa. L’ultima novità in questo scenario è che l’azienda con sede a San Donato Milanese ha fatto un passo ulteriore nel mondo della comunicazione online. Proponendosi come punto di riferimento per chi vuole fare carriera su nuovi media. Ha avuto inizio il 15 settembre a Milano, da quanto si apprende sul sito della multinazionale, il Plenitude Creator Bootcamp. Si tratta di «un programma di formazione pensato per aspiranti content creator». Chiunque tra i 20 e i 40 anni con un profilo Instagram o TikTok attivo ha potuto candidarsi per partecipare a questa scuola. L’obiettivo è «consolidare ulteriormente il dialogo con le nuove generazioni attraverso i loro linguaggi». L’idea, insomma, sarebbe quella di creare una nuova generazione di influencer sui temi dell’energia e dell’ambiente. Una generazione la cui formazione passi dalla principale impresa dell’oil&gas italiana. Tante emissioni e poca transizione: il futuro secondo Eni «Fin dalla nascita qualche anno fa, Eni ha sempre cercato di promuovere Plenitude con una strategia di marketing ben precisa: associare l’azienda dal logo verde agli eventi più amati dalle persone e più lontani dall’immaginario fossile, come il Festival di Sanremo o le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina. E sempre con il fine di ripulire la propria immagine e presentarsi come qualcosa di familiare, quotidiano e amichevole, ora Plenitude utilizza la voce dei content creator sui social media, come nella sua ultima accattivante iniziativa» ,dice a Valori.it Federico Spadini, campaigner clima di Greenpeace Italia. Da tempo le associazioni e i movimenti ecologisti accusano Eni di greenwashing. Ovvero, la pratica per cui delle aziende impegnate in settori inquinanti ripuliscono la loro immagine pubblica con piccole iniziative verdi o con campagne di marketing dal sapore ecologista. Un’accusa esplosa da quando la controllata Eni Gas&Luce ha cambiato nome in Plenitude: un rebranding volto proprio a mettere in evidenza l’impegno ambientale dell’azienda. Greenwashing e strategia social: così Eni punta sugli influencer Eni è il primo emettitore italiano, e il suo core business è l’estrazione e vendita di idrocarburi. Si tratta di un’azienda privata, ma i principali azionisti sono pubblici: ministero dell’Economia e delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti. Secondo le ong Greenpeace e Recommon, Eni da sola nel 2021 ha prodotto 456 Mt CO2eq. Cioè più dell’Italia nel suo complesso. Secondo uno studio di Reclaim Finance,  gli attuali piani aziendali prevedono  che la produzione di idrocarburi sarà superiore del 70% rispetto al livello richiesto dagli scenari di riduzione delle emissioni “Net Zero Emission” dell’Agenzia Internazionale dell’Energia. Sempre secondo le ong, al 2021 ad ogni euro che ENI investe in fossili corrispondono sette centesimi in rinnovabili. Non sappiamo se questo genere di dati vengano discussi durante la formazione che l’azienda del cane a sei zampe offre alla nuova generazione di content creator. «Il business di Eni si basa per la stragrande maggioranza su gas fossile e petrolio, principali cause della crisi climatica», dice ancora Spadini. «Insomma, di verde e amichevole Plenitude ha solo il logo, il resto è una grande copertura per continuare a emettere gas serra e a fare profitti sulle spalle delle persone e del Pianeta». -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Valori.it -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Come Eni vuole prendersi gli influencer italiani proviene da Comune-info.
L’accordo inadeguato
Foto tratta dal Fliker di Attac Austria La Commissione europea accelera sull’accordo Eu-Mercosur, che punta a incrementare gli scambi tra l’Ue e il blocco dell’America Latina composto da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay. L’esecutivo Ue ha mostrato grande soddisfazione per il risultato raggiunto. L’Alta rappresentante Kaja Kallas e il commissario al Commercio,Maroš Šefčovič, presentando alla stampa i documenti, hanno enfatizzato la geopolitica degli accordi: “L’Europa sta rafforzando le sue alleanze strategiche e ne sta stringendo di nuove”, con l’obiettivo di “rafforzare i partenariati globali dell’Ue”. Peccato che, come al solito, la Commissione professa una cosa ma ne fa un’altra. L’accordo, infatti, con un vero sfregio alle procedure ordinarie, è stato diviso in due testi. L’accordo di cooperazione, che contiene la cornice politica del partenariato, affronterà l’iter ordinario di ratifica dei trattati commerciali: dopo il voto in Consiglio dei governi europei, il voto del Parlamento europeo e poi la ratifica dei Parlamenti nazionali. La liberalizzazione commerciale, svincolata da ogni senso più generale, viene invece affidata ad un accordo ad interim cui non può essere opposto veto in Consiglio europeo, e che diventa legge con una maggioranza semplice del Parlamento Ue, tagliando fuori i livelli nazionali. Un vero e proprio schiaffo su un testo che sottopone a un grosso rischio un mercato comune già molto provato, per ragioni geopolitiche abbastanza indeterminate: l’Argentina, infatti, è legata a doppio filo all’amministrazione Trump e l’economia brasiliana alla Cina, principale acquirente estero delle sue merci, mentre Uruguay e Paraguay sono Paesi poco significativi per eventuali alleanze strategiche. C’è chi sostiene che, per l’Italia, esportare verso Argentina e Brasile potrebbe compensare i flussi in uscita ostacolati dai nuovi dazi di Trump. Significa paragonare la possibilità di acquisto di un mercato statunitense da 340 milioni di abitanti con reddito medio di 62mila dollari l’anno, con un Mercosur da circa 270 milioni di abitanti con reddito medio che non supera in Argentina i 6mila dollari l’anno, e in Brasile non raggiunge gli 8mila. La Commissione Ue, secondo alcuni giuristi, ai sensi dei Trattati costitutivi, avrebbe dovuto chiedere parere alla Corte europea di Giustizia prima di procedere allo scorporo del capitolo commerciale dalla cornice politica che lo motiva. Altri studiosi la ritengono comunque incompatibile con l’obbligo di leale cooperazione tra i diversi livelli dell’Unione, ai quali non è possibile sottrarre il voto sul complesso della misura con un semplice artificio procedurale. La Commissione europea, d’altronde, non è nuova all’omissione di atti dovuti: prima della conclusione dei negoziati avrebbe dovuto presentare una ‘Valutazione di impatto’ indipendente su economia, occupazione e ambiente europeo con dati aggiornati, come confermato dal Garante europeo nel 2020 e nel 2023, ma non l’ha mai fatto. Analisi indipendenti di associazioni e sindacati delle due parti, Cgil e sindacati europei in testa, prevedono una deforestazione esiziale dell’area amazzonica, l’acuirsi delle violazioni dei diritti umani e sugli indigeni con l’espansione delle esportazioni agricole e minerarie, una perdita significativa di posti di lavoro in ambito industriale, come pure in molti settori europei dell’agroalimentare. Il trattato vuole anche accelerare le procedure doganali, indebolendo i controlli di sicurezza e conformità nelle merci scambiate, e scaricando il rischio sui sistemi di controllo nazionali e i consumatori. La cosiddetta ‘procedura di salvaguardia’ che la Commissione ha presentato ai governi francese, polacco e italiano come risolutoria per tutelare i propri agricoltori e produttori, è, in realtà, una paginetta di impegni unilaterali, esterna al trattato quindi non vincolante. La Commissione promette controlli regolari, che già dovrebbe condurre, e interventi già previsti dai meccanismi antidumping in vigore. Quanto alle eventuali compensazioni, non ci sono risorse dedicate ma si rinvia al fondo che rimedia a tutti gli incerti della globalizzazione. Un salto nel vuoto, considerando che la prevista riduzione dei fondi della Pac, Politica agricola comune, già scaricherà sugli Stati l’assistenza diretta agli agricoltori, che costituisce dal 30% al 60% del loro attuale reddito. Secondo la Confederazione europea dei sindacati, Ces, “così com’è, l’accordo aprirebbe alle aziende europee la strada per investire in Paesi caratterizzati da condizioni di lavoro pericolose e dallo sfruttamento delle popolazioni indigene. Per come è ora, l’accordo è una fonte di concorrenza sleale che avrà conseguenze negative su mezzi di sussistenza, salari, condizioni di lavoro e occupazione dei lavoratori nei settori chiave dell’economia dell’Ue. L’accordo – conclude la Ces – è inadeguato per quanto riguarda il processo democratico e la legittimità, il suo impatto sull’economia e sull’occupazione in Europa, la sostenibilità e la diversificazione del commercio”. Una presa di posizione netta, che ora spetta al Parlamento europeo tradurre in voto. Articolo pubblicato sul blog sinistrasindacale.it L'articolo L’accordo inadeguato proviene da Comune-info.
Quel dimenticato appello di Antigone
-------------------------------------------------------------------------------- Roma, 6 settembre. Foto di Nilde Guiducci -------------------------------------------------------------------------------- Non sono nata per l’odio, ma per l’amore. Sono parole di duemila e cinquecento anni fa. Le scrisse Sofocle, per il personaggio di Antigone, la figlia di Edipo. Sono nata per condividere l’amore, non l’odio. Rilette oggi, risuonano di una sconvolgente contemporaneità.  Di fronte alle immagini che arrivano ormai da mesi e mesi dalla striscia di Gaza, e a quelle terribili di questi ultimi giorni, la trama di quell’antica tragedia rivive la sua ultima messinscena. Ma l’uso di questa parola, messinscena, è inappropriato, perché questa volta non si tratta di una rappresentazione ma della realtà. Il corpo del fratello di Antigone, condannato da Creonte, il re di Tebe, all’insepoltura, a essere cioè fatto a pezzi dai cani e dagli uccelli, è il corpo del popolo palestinese rinchiuso nella sua terra, senza vie di fuga, e costretto a morire di fame o a essere dilaniato dalle bombe e dai droni.  Creonte assume oggi le fattezze di Netanyahu, un despota intestardito nel male, che ascolta soltanto chi gli dà ragione, allontana ogni altro parere e oltraggia la saggezza e la condizione umana. È il campione del più volgare patriarcato, dice al figlio: “Proprio questo è il principio che devi tenere saldo dentro di te: assecondare in tutto la volontà paterna”. Un principio che è alla base di ogni regime totalitario e di ogni esercizio autoritario e sanguinario del potere. Anche per lui valgono le parole dell’indovino Tiresia: “Per tuo volere, la città è malata”. E valida è la profezia di una contaminazione morale che ricadrà sul suo popolo – è questo il suicidio di Israele – per i corpi insepolti o sfregiati dei bambini e delle donne palestinesi, dei vecchi e degli uomini, per tutta la carne innocente violentata. Prendere coscienza, ci ricorda il teatro greco, è un percorso tragico, costellato di lutto e di sofferenza, ma a cui non ci si può e non ci si deve sottrarre. Per tutto questo, la ribellione che Antigone porta già nel nome è la ribellione alla logica omicida del mondo, all’offesa e all’umiliazione insensate o mosse soltanto da fini economici o colonialisti o vendicativi. È in definitiva la ribellione alla mentalità della guerra, generatrice soltanto di sventura e di rovina, moltiplicatrice di altra violenza e innesco di altre guerre, all’infinito. Antigone è colei che si pone contro – contro il potere, contro la violenza, contro l’odio – perché già alla nascita è contronatura, essendo figlia di un incesto. Antigone è impura. Nasce dal lato della devianza. Antigone è la letteratura e la poesia. Ed è sola. Condannata a essere murata viva.  Se vogliamo uscire da questo circolo vizioso, dobbiamo accogliere il suo appello, l’appello di una donna, sorella di tutti, e provare ad avere il suo stesso coraggio nel difendere i diritti fondamentali che spettano a ogni persona, “senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”, come recita la Dichiarazione Universale dei diritti umani. In nome di un senso condiviso di giustizia. In nome di un senso condiviso di giustizia. Siamo tutti liberi ed uguali, in dignità e diritti. Abbiamo tutti diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza. Nessun individuo può essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù. Nessun individuo può essere torturato.  Ogni essere umano, in ogni luogo, ha diritto ai suoi diritti. Perché siamo tutti uguali di fronte alla legge e protetti dalla legge. Nessun individuo può essere arbitrariamente detenuto o esiliato. Ogni individuo ha libertà di movimento e diritto a chiedere asilo in altri paesi. Ogni individuo ha diritto a una cittadinanza.  E a formarsi una famiglia. Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero e di espressione, alla libertà di riunione e di pubblica assemblea. Ogni individuo ha diritto alla democrazia. Al lavoro. A un letto. A un salario. All’istruzione. E al gioco, al riposo, allo svago. Ogni individuo ha diritto a un mondo più libero e più giusto. Nessuno, nemmeno il più potente tra i potenti, può togliere a un altro essere umano i suoi diritti. Ma la pace è il primo dei diritti, perché è la condizione necessaria in cui tutti gli altri diritti potranno essere rispettati. -------------------------------------------------------------------------------- Tra gli ultimi libri di Fabio Stassi Bebelplatz. La notte dei libri bruciati e Notturno francese, entrambi editi da Sellerio. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Quel dimenticato appello di Antigone proviene da Comune-info.
Perché la Silicon Valley sostiene Trump
-------------------------------------------------------------------------------- Apple park, Silicon Valley (California). Foto unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Nei racconti della Silicon Valley scritti da sé medesima, tutti disponibili in rete o in libreria, si legge di un capitalismo eccezionale, guidato da uomini fuori dal comune. E di un ambiente di lavoro magnifico, dove l’alienazione è pregata di accomodarsi fuori della porta. Ma i volti sempre sorridenti, gli spazi condivisi e gli edifici a emissione zero nascondono due zone d’ombra. La prima è l’estrattivismo nei confronti di persone e territori. Nel 2023 in Kenya, per fare solo uno dei tanti esempi possibili, OpenAI fa ripulire i suoi modelli d’intelligenza artificiale a migliaia di “schiavi del clic”, impiegati in turni massacranti a meno di due dollari l’ora. L’estrazione forzosa di risorse opera anche sull’ambiente. Mentre enormi quantità d’acqua ed energia vengono consumate nei centri di calcolo necessari all’intelligenza artificiale, le cryptomonete, oggetto dell’amore maniacale dei tecno-capitalisti, bruciano nel solo 2023 tanta energia quanto l’intera Australia nello stesso periodo di tempo. La seconda zona oscura è la composizione demografica della dirigenza. Le donne rappresentano il 50,9% della popolazione totale degli Stati Uniti, gli ispanici il 19,5% e gli afroamericani il 13%. Nella Silicon Valley i tre gruppi occupano, rispettivamente, l’8,8%, l’1,6% e meno dell’1% di tutte le posizioni direttive. La Silicon Valley non è solo un posto dove persone, tecnologia e ricchezza sono straordinarie. È anche il luogo dove questa eccezionalità viene trasformata in buona novella. Peter Thiel, fondatore di PayPal e Palantir, è il tecno-capitalista più impegnato nel diffondere il Vangelo che sale dalla valle. Lo fa con esemplare chiarezza in un saggio del 2009, The Education of a Libertarian, in cui rivendica per sé, in quanto capitalista, una libertà assoluta. Essere liberi è la precondizione per raggiungere obiettivi più alti: sfuggire agli apparati fiscali, sconfiggere il collettivismo, battere l’ideologia dell’inevitabilità della morte. Ma Thiel aggiunge: “Non credo più che la libertà e la democrazia siano compatibili”. Non sopporta, in altri termini, che in democrazia esistano regole valide per tutti, poveri cristi o ricchi a palate che siano. L’ideologia della libertà assoluta del capitalista si accorda alla perfezione con il secondo punto dell’ideologia di Thiel, il capitalismo come sistema che non conosce limiti. Il nemico numero uno del capitale senza confini è l’ambientalismo, più pericoloso perfino della Sharia e del comunismo. Il simbolo di un possibile futuro autoritario diventa così Greta Thunberg, secondo Thiel l’Anticristo del nostro tempo. È l’idea stessa di bene comune, su cui si basa l’ambientalismo, a farne il primo nemico del capitalismo. Quest’ultimo non può tollerare l’esistenza di ricchezze che non appartengono agli individui ma alle comunità che vivono sui territori. Nel caso dell’aria che respiriamo e dell’acqua dei mari e dei fiumi, è la collettività di tutte e tutti noi abitanti della Terra ad esserne proprietaria. Nel suo odio per l’ambientalismo, Thiel si muove nel solco di Ayn Rand (1905-1982), teorica del capitalismo assoluto: il legame sociale è schiavitù perché l’unico rapporto possibile fra l’individuo e il mondo è la proprietà. Ma se possono esistere solo proprietari isolati, il principio dell’ambiente come casa comune, che nessun privato ha il diritto di possedere, non può che innervosire gli ideologi della libertà totale del capitalismo. Nel contesto appena delineato, la Silicon Valley fa propria l’auto-rappresentazione dei capitalisti come la migliore classe dirigente possibile, perché frutto di una selezione naturale. È un’idea con una tradizione lunga oltre un secolo. Andrew Carnegie, il più importante industriale dell’acciaio negli Stati Uniti di fine Ottocento, la spiega così: “Anche se la legge [della competizione] può a volte risultare dura per l’individuo, rappresenta la cosa migliore per la razza perché assicura la sopravvivenza dei migliori in ogni settore”. I dirigenti prodotti dal capitalismo sono i più capaci perché escono vincenti dalla corsa al possesso di beni e denaro: il migliore non è Van Gogh, ma il mercante che riesce a venderne i quadri. In quanto superiori a tutti nell’accumulare ricchezza, i capitalisti non ne sbagliano una. A sentire Alex Karp, amministratore delegato di Palantir, “Se qualcuno fa un sacco di soldi con qualcosa, allora deve aver ragione”. Posizioni come quelle appena descritte spiegano il sostegno a Donald Trump da parte di Silicon Valley in occasione delle elezioni presidenziali dello scorso novembre. Il passaggio al trumpismo dei tecno-capitalisti consente la pratica del capitalismo alla Thiel, libero da qualsiasi limite. Se la crescita del capitale oggi si scontra col riscaldamento del pianeta, Silicon Valley non può che riconoscersi con entusiasmo nel negazionismo climatico della presente amministrazione repubblicana. In secondo luogo, schierandosi con Trump, Silicon Valley salda il suo elitismo, fondato sul dominio della tecnologia, con quello basato sul genere e/o il colore della pelle, con il sessismo e il razzismo, in perfetta coerenza con la composizione demografica della sua dirigenza. Il tecno-capitalismo si arruola così nel conflitto del secolo, la guerra del Nord contro il Sud, combattuta nelle banlieux parigine come nei campi di concentramento per immigrati, nei quartieri ispanici delle metropoli statunitensi come nelle strade di Gaza. Un’oligarchia di ultraricchi cafoni, quella che noleggia Venezia per un matrimonio, pretende di dominare il mondo. Ma non può agire da classe dirigente perché è incapace di affrontare i problemi della collettività. Salta allora sul carro del fascismo. Starà alla nostra Resistenza impedire che il presente stato delle cose si cristallizzi in un mondo neofeudale, con un’aristocrazia di tecno-miliardari esenti dal fisco al comando, un clero di informatici a gestire il sapere e una massa di servi a tenere in piedi la baracca. -------------------------------------------------------------------------------- Originariamente pubblicato su Officina Primo Maggio -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Perché la Silicon Valley sostiene Trump proviene da Comune-info.
Dove siamo?
-------------------------------------------------------------------------------- Migliaia di persone sono in fuga in questi giorni da Gaza (Ph pixabay.com) -------------------------------------------------------------------------------- All’inferno. Ogni discorso che non parta da questa consapevolezza, siamo all’inferno, è semplicemente privo di fondamento. I gironi in cui ci troviamo non sono disposti verticalmente, ma disseminati nel mondo. Ovunque gli uomini si associano, producono inferno. I gironi e le bolge sono dappertutto intorno a noi, che riconosciamo, come nei caprichos di Goya, i mostri e i diavoli che li governano. Cosa possiamo fare in quest’inferno? Non tanto o non solo, come diceva Italo, custodire una parcella di bene, quello che nell’inferno non è inferno (riferimento alla citazione “Riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” provenente dal libro Le città invisibili di Italo Calvino, amico fraterno di Agamben, ndr). Poiché è stata anch’essa, tutta o in parte, contaminata – in ogni caso no te escaparas. Piuttosto fermati, taci, osserva, e, al giusto momento, parla, spezza la cortina di menzogne su cui riposa l’inferno. Perché lo stesso inferno è una menzogna, la menzogna delle menzogne che impedisce il varco al non inferno, al lietamente, semplicemente, anarchicamente esistente. Al mai stato che l’inferno ogni volta ricopre col suo stato, come se non ci fosse altra possibilità al di fuori delle bolge e i gironi in cui ti hanno già sempre necessariamente iscritto. Sii tu il punto, la soglia in cui lo stato viene meno, in cui sorgivamente sbuca il possibile, la sola vera realtà. Il pensiero non consiste nel realizzare il possibile, come i demoni ti invitano a fare, ma nel rendere possibile il reale, nel trovare una via di uscita dall’ineluttabilità dei fatti che l’ideologia dominante cerca di imporre in ogni ambito – e innanzitutto nella politica. Mentre nell’infernale vocio intorno a te tutti cercano di realizzare diabolicamente, tecnicamente a qualsiasi costo il possibile, per te ogni stato, ogni cosa, ogni filo d’erba, se li percepisci nella loro verità, diventano nuovamente, silenziosamente, lucidamente possibili. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Quodlibet (qui con l’autorizzazione della casa editrice). Tra i i libri più importanti di Giorgio Agamben: Homo Sacer. Edizione integrale 1995-2015, (Quodlibet) e L’uomo senza contenuto (Quodlibet). Il suo ultimo libro invece è Amicizie (Einaudi). -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Dove siamo? proviene da Comune-info.
Che cosa ha di inquietante l’autocoscienza maschile?
-------------------------------------------------------------------------------- Pixabay.com -------------------------------------------------------------------------------- Quelli che oggi chiamiamo “stereotipi di genere”, se li guardiamo più profondamente, ci accorgiamo che non si tratta di “differenze”, ma di un processo sempre in atto di “differenziazione”, la spaccatura che ha diviso, contrapposto nella loro complementarità, parti inscindibili dell’umano, come il corpo e il pensiero, la ragione e i sentimenti, la biologia e la storia, e che perciò stesso tende alla loro riunificazione. Femminilità e virilità parlano di rapporti e di gerarchie di potere, di sfruttamento e di violenza, ma è innegabile che ritornano, sotto un altro aspetto, come i volti di quel desiderio di unità, appartenenza intima, che è il sogno d’amore: “il miracolo che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso” (Sibilla Aleramo). Di questa ambiguità delle figure di genere, strette dentro logiche di desiderio e di paura, di amore e di odio, di vita e di morte, a dare conto è stata finora la pratica che il femminismo ha chiamato “autocoscienza”: un pensiero e una parola spinti fin dentro le acque insondate della persona, ai confini tra inconscio e coscienza, tanto da portare allo scoperto vissuti che sfuggono alle costruzioni teoriche e al discorso politico tradizionalmente inteso, o che restano “impresentabili”. Nei rari casi in cui sono stati uomini a vincere, nelle loro scritture, la ritrosia a parlare di sé, a esporre sentimenti, fantasie, ritenute “naturali” inclinazioni femminili, non sono mancate voci critiche anche nel femminismo. Il vissuto di un figlio, l’intreccio di sentimenti opposti di amore e odio, tenerezza e violenza, affidamento e autonomia, destano comprensibilmente inquietudini nella donna che, suo malgrado, ha fatta propria come portato “naturale” la maternità: madre sempre e comunque, che abbia o non abbia avuto figli. Se è stato storicamente lo sguardo dell’uomo, l’ideologia del patriarcato, a identificarla con la sessualità e la maternità, è nell’immaginario di un figlio maschio che prende corpo negli anni dell’infanzia e della adolescenza una relazione destinata a prolungarsi nella vita amorosa adulta, con tutte le sue contraddizioni e ambivalenze. “Non c’è rivoluzione senza la liberazione delle donne”, scrivevamo nei volantini degli anni Settanta. Oggi direi “Non c’è liberazione senza una rivoluzione della coscienza maschile”. Se invece pensiamo che le donne siano “innocenti”, toccate dal patriarcato solo come vittime, e gli uomini malvagi “per natura”, allora non resta che chiederci perché continuiamo a mettere al mondo dei mostri. -------------------------------------------------------------------------------- Tra gli ultimi libri di Lea Melandri Come nasce il sogno d’amore e Dialogo tra una femminista e un misogino (Bollati Boringhieri). Nell’archivio di Comune, gli oltre duecento suoi articoli sono leggibili qui. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Che cosa ha di inquietante l’autocoscienza maschile? proviene da Comune-info.
You have no idea
SOLTANTO NEL 2024 LE SPARATORIE DI MASSA NEGLI USA SONO STATE 503, LE STRAGI 30 E I MORTI PER ARMA DA FUOCO 16.725. EPPURE ADESSO RACCONTANO CHE SI TRATTA DI UN OMICIDIO POLITICO. “NON HAI IDEA DI CIÒ CHE HAI SCATENATO” HA DETTO LA MOGLIE DI KIRK, RIVOLGENDOSI AL RESPONSABILE DELL’OMICIDIO. CIÒ CHE ACCADE NEGLI USA È UN COLLASSO PSICO-POLITICO DI CARATTERE SUICIDARIO. MA IL VERO PROBLEMA, SCRIVE BIFO, È CHE ORA QUEL SUICIDE BY COP SI STA PROIETTANDO SU SCALA MONDIALE Unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Ventiquattro anni dopo l’attentato al World Trade Organization che segnò l’inizio della guerra civile globale, siamo di fronte a un salto che potrebbe precipitare definitivamente nel caos gli Stati Uniti. “You have no idea of what you have unleashed”, ha detto la moglie di Charlie Kirk (rivolgendosi al responsabile dell’omicidio). Cerchiamo allora di farcene un’idea poiché la cosa non riguarda solo gli statunitensi, – che forse entrano in una sanguinosa agonia -, ma tutti gli abitanti del pianeta poiché sappiamo che la guerra civile statuntense ha e avrà sempre più una proiezione globale. Il collasso psico-politico del gigante imperialista ha carattere suicidario, ma si tratta di un suicidio micidiale (suicide by cop), come quello che da anni compiono migliaia di giovani statunitensi. Prendono il fucile e vanno a sparare davanti a una scuola nella speranza che arrivi qualcuno armato per aiutarli a uscire dall’incubo che è stata la loro esistenza. Da Columbine in poi abbiamo imparato a riconoscere questo tipo di suicidio delegato come una particolarità della vita interna a questo paese disgraziato. Ora il suicide by cop si sta proiettando su scala mondiale. 11 settembre 2025 La pallottola che ha ucciso Charlie Kirk (pace all’anima sua) è partita proprio mentre lui stava dicendo che le vittime innocenti che capitano durante i mass shooting sono un piccolo sacrificio che dobbiamo sopportare per difendere la libertà di portare armi. Questa volta la vittima dello shooting non è innocente, dal momento che ha sempre difeso la proliferazione di armi da fuoco. Perciò è difficile unirsi all’ipocrita rammarico generale: chi di spada ferisce di spada perisce, e qui la spada è un fucile di precisione che ha sparato dalla distanza di duecento metri. Per un giorno e mezzo ci siamo chiesti chi fosse lo sparatore. Qualcuno ha fatto l’ipotesi che l’assassino fosse un tiratore scelto dello stato profondo, poi ci hanno detto che si chiama Tyler Robinson, ha ventidue anni, e sui proiettili aveva scritto Bella Ciao e “beccati questa fascista”. Hanno trovato quello che stavano cercando, e adesso racconteranno che si tratta di un omicidio politico. Non so se Tyler ha scritto davvero quelle frasi, ma so che secondo il Gun Violence Archive nel 2024 le sparatorie di massa sono state 503, le stragi sono state trenta e i morti per arma da fuoco 16.725. Tyler Robinson, come Thomas Crooks, il ventenne che mancò la testa di Donald Trump, come innumerevoli altri da Columbine (1999) ha preso il fucile per partecipare a questo sport nazionale: una guerra civile psicotica. Un popolo di bambini incattiviti ha sostituito la ragione politica con la demenza aggressiva amplificata dai media. La crisi psicotica della più grande potenza militare di tutti i tempi iniziò l’11 settembre 2001 con l’abbattimento delle due torri simbolo. Seguirono due guerre inconcludenti e catastrofiche, poi il suprematismo umiliato trovò in Donald Trump la sua vendetta. Poi un’armata caricaturale diede l’assalto al Campidoglio, e la grande democrazia fu incapace di reagire alla violenza e soprattutto al ridicolo. Infine Trump ha vinto di nuovo, e questa volta fa sul serio: ha condotto e sta conducendo una guerra contro le città governate dal Partito democratico. Una guerra ridicola se volete, ma c’è poco da ridere. Al contempo l’Immigration and Custom enforcement (ICE) è stato trasformata in una milizia finanziata dai contribuenti direttamente al servizio del presidente: un corpo di agenti incappucciati e armati che vanno in giro a minacciare malmenare e sequestrare persone per poi deportarle in campi di concentramento sul territorio nazionale e fuori del territorio nazionale. Il Ku Klux Klan come guardia pretoriana dell’Imperatore. Ross Douthat del NYT (Will Trump’s Imperial Presidency Last?) parla del cesarismo di Trump e si chiede se le sue riforme autoritarie sono destinate a cambiare la natura dello stato sul lungo periodo. Io direi che la questione non è di lungo periodo, perché nel breve periodo assisteremo a una disintegrazione politica, sociale e soprattutto psichica, del paese che con Israele si contende il primato di più violento del mondo. È questa disintegrazione ormai in corso che cambierà il lungo periodo, forse cancellandolo anticipatamente. Che fare in una tempesta di merda? Nel 2001 l’Occidente entrò in una sorta di guerra civile che l’ha progressivamente travolto. Da quel momento la democrazia venne liquidata. Il 20 luglio del 2001, a Genova, il governo di Berlusconi e Fini scatenò la violenza armata contro una manifestazione pacifica di trecentomila persone. Da allora capimmo che la vita sociale non sarebbe più stata la stessa. Nel ventesimo secolo, in Europa, il potere politico funzionava secondo le regole della “democrazia”: la politica si fondava sul consenso, e conviveva con il dissenso: l’oggetto del contendere era il “senso” della relazione sociale. Nel nuovo secolo il “senso” della relazione sociale è perduto: la legge ha lasciato il posto alla forza. La persuasione ideologica ha ceduto il posto alla pervasione mediatica. La ragione ha ceduto il posto alla psicosi di massa. Nelle condizioni del secolo passato “dimostrare” aveva una funzione utile: parlare, gridare, manifestare erano modi per spostare il senso condiviso della società: esprimere dissenso serviva a spostare il consenso, poiché l’esercizio del potere si fondava sulla mediazione e sul consenso. A Genova capimmo che questa dinamica era finita. Da quel momento il potere ha modificato la sua forma e la fonte della sua legittimità. La società, investita da una tempesta mediatica sempre più intensa, non ruotava più intorno alla persuasione – ma intorno alla pervasione, al dominio bruto. La psicosi ha preso il posto della politica, e si tratta di una psicosi omicida, con una fortissima vocazione suicida. Ma la questione è: che fare in questa tempesta di merda? Possiamo continuare a dimostrare finché ce lo permettono: possiamo essere contenti di essere tanti a protestare nelle piazze, ma dobbiamo sapere che la forza non si piega alla ragione. Dimostrare non è inutile: in piazza incontriamo amiche e amici, e testimoniamo l’esistenza di una resistenza etica al genocidio. Ma la resistenza etica non cambia i rapporti di forza. Siamo costretti a guardare lo spettacolo, attendiamo che la psicosi armata conduca alla disintegrazione del mostro occidentale. Ma intanto quanto costa alla società questa guerra civile psicotica? Una crisi di gelosia Mentre a Pechino si incontrano quelli che preparano la vendetta e le armi ultra della vendetta, Trump e Vance fanno i bulli ammazzando undici persone su una barchetta davanti alla costa venezuelana. Trump rappresenta la maggioranza del popolo americano, ma questo vuol dire solo che la maggioranza del popolo statunitense ha perduto ogni contatto con la realtà e che gli US sono precipitati in un vortice di demenza autodistruttiva. Tradito e dileggiato dall’amato Putin Trump potrebbe reagire come fanno talora gli amanti traditi: con un’aggressione suicida ovvero suicidio aggressivo. “You’ll see things happen”, ha minacciato il presidente rivolgendosi a Putin. E ha scritto un messaggio stizzito, stizzitissimo a Xi Jin Ping: “Please give my warmest regards to Vladimir Putin, and Kim Jong Un, as you conspire against The United States of America”, “ti prego di rivolgere i miei più calorosi saluti a Vladimir Putin e Kin Jong Un, mentre cospirate insieme contro gli Stati Uniti d’America”. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo You have no idea proviene da Comune-info.
Come difendersi dai droni
I DRONI SI SONO IMPADRONITI DEI CONFLITTI ARMATI. LA DIFESA DA QUESTI TERRIFICANTI OGGETTI TECNOLOGICI CARICHI PULSIONE DI MORTE CHE POSSONO ESSERE CONTROLLATI A DISTANZA NON PASSA PER STRATEGIE MILITARI O PER BUONE PRATICHE DI INTELLIGENZA ARTIFICIALE. PER PROTEGGERCI IN PROFONDITÀ DALLA CULTURA DI GUERRA E DAGLI ALGORITMI DI DISTRUZIONE UMANIZZATA OCCORRE RIEMPIRE LA VITA DI OGNI GIORNO DI RELAZIONI VERE CON PERSONE IN CARNE E OSSA, RIPORTARE L’UMANITÀ OVUNQUE, IMMAGINARE E PRATICARE MODI DIVERSI DI VIVERE Pixabay.com -------------------------------------------------------------------------------- I droni hanno ormai preso possesso delle notizie dei giornali. Viene considerato un successo il loro abbattimento, vedi i 221 droni ucraini neutralizzati dai russi, sono utilizzati in modo a dir poco incosciente per avvicinare ulteriormente la fiamma alla miccia della temuta fase di non ritorno nel conflitto mondiale, come è accaduto di recente in Polonia, sfruttati per un vile atto terroristico ai danni di iniziative del tutto pacifiche come quella della Global Sumud Flotilla, o addirittura esaltati per le loro potenzialità in tema di consegne rapide e precise. In ogni caso, a quanto si legge, i droni si sono impadroniti dei conflitti per alcune semplici ragioni: costano decisamente di meno rispetto ai tradizionali velivoli da combattimento, hanno un peso altrettanto inferiore e, soprattutto, si dimostrano letalmente efficaci. Dal punto di vista storico, i primi veicoli senza pilota furono sviluppati in Gran Bretagna e negli Stati Uniti durante la prima guerra mondiale. Il prototipo britannico, un piccolo aereo radiocomandato, fu testato per la prima volta nel marzo del 1917, mentre il modello statunitense in pratica era un siluro, noto come Kettering Bug, e volò per la prima volta nell’ottobre del 1918. Anche se entrambi mostrarono risultati promettenti nei test di volo, nessuno dei due fu utilizzato operativamente durante la guerra. Considerando l’esponenziale e, a mio modesto parere, in parte inquietante diffusione di tali ordigni e la loro micidiale pericolosità qualora azionati con intenzioni ostili, mi sorge la seguente domanda: come difendersi dai droni? Da cui, il logico quanto interrogativo corollario: come ci si difende da ciò che non si conosce? Ebbene, facciamo un po’ di chiarezza, a cominciare dalla mia testa: cosa sono i droni? Sono per definizione dei velivoli senza pilota, formalmente noti come veicoli aerei senza equipaggio (dall’acronimo UAV, Unmanned Aerial Vehicle) o anche sistemi di aeromobili senza equipaggio (UAS, Unmanned Aerial System), che possono essere controllati a distanza o volare autonomamente utilizzando piani di volo guidati da software e sensori di bordo. Ora, aprendo una conversazione più approfondita su come proteggerci, o in generale controllare, gestire e contenere qualsiasi innovazione tecnologica, gli studi universitari e i testi letti nel tempo, suggeriscono – oltre che di acquisire consapevolezza dello strumento in sé – di ragionare sul significato più ampio della funzione che essa svolge. Mi riferisco in particolare all’approccio generale che in molti casi indirizza a vario titolo il progresso tecnico, industriale e ovviamente economico, e in seconda battuta quello sociale, e finanche ideologico e politico. Alla luce di ciò – divenuta parte quindi di un disegno assai più vasto – ripeto a me stesso la domanda: cosa sono davvero i droni? Ebbene, credo siano in sintesi macchine, come detto nell’incipit, economiche, leggere e mortali che possono essere azionate a distanza tramite un programma informatico da qualcuno che non vedi e che ignori, che a sua volta sarà in grado di arrecare sofferenza o addirittura causare la morte di qualcun altro che al contrario vede e conosce alla perfezione. O anche no, ed è quest’ultimo a mio umile avviso uno degli aspetti più inquietanti. Anche perché, tenendo conto della velocità, e al contempo l’assenza di un effettivo controllo da parte nostra, con cui l’intelligenza artificiale sta occupando sempre più i ruoli che un tempo erano svolti unicamente dagli esseri umani, dovremo aspettarci un domani – o forse è già realtà – nel quale ad azionare il velivolo robot ci sarà un altro robot. In parole povere, è come se l’umanità stia facendo di tutto pur di eliminare se stessa dall’equazione che regola in ogni campo la sua esistenza. A tal punto, non posso fare a meno di tornare nuovamente alla domanda iniziale: come difendersi dai droni? Ovvero, in generale, come proteggerci dal ben più grande, controverso e ormai inevitabile orientamento che da decenni hanno scelto l’industria e i governi da essa dipendenti, e che sempre più sta investendo nel sopra citato algoritmo di distruzione disumanizzata? Credo che non ci sia migliore alternativa che fare la scelta opposta: puntare sempre più sulle persone in carne e ossa. Riempire il nostro fare e possibilmente la nostra quotidianità di interazioni reali nell’accezione tradizionale. Per dirla in modo altrettanto semplice, sforzandoci di riportare a ogni occasione l’umanità all’interno della suddetta equazione. Mi sbaglierò, ma forse, oltre che la migliore, credo sia l’unica strada che ci resta. Iscriviti per ricevere la Newsletter di Alessandro Ghebreigziabiher -------------------------------------------------------------------------------- 4 OTTOBRE: WORKSHOP TEATRALE E SPETTACOLO DI EDUCAZIONE ALLA PACE Alessandro Ghebreigziabiher, drammaturgo, attore, scrittore, ha studiato presso il Living Theatre di New York ed è autore di oltre venti libri, tra cui fiabe per ragazzi. Il suo ultimo libro è Specchi delle nostre brame (ed. Bette). Sabato 4 ottobre (a partire dalle 14,30), nell’ambito del Festival della lettura “Pezzettini” promosso dall’Associazione AltraMente a Roma (presso l’IC Laparelli, via F. Laparelli 60, Torpignattara), Alessandro Ghebreigziabiher proporrà uno straordinario workshop teatrale con spettacolo di narrazione (gratuito), rivolto a tutte le età, dedicato ai temi della pace. Chi fosse interessato a partecipare al workshop e/o allo spettacolo può scrivere a: carmosino@comune-info.net. L’iniziativa fa parte del ciclo di appuntamenti “Partire dalla speranza e non dalla paura” realizzato dall’Ass. Persone comuni, editore di Comune, in quattro quartieri di Roma, in collaborazione con diverse realtà sociali (tra cui l’Associazione AltraMente). Il progetto, promosso da Roma Capitale – Assessorato alla Cultura, è vincitore dell’Avviso Pubblico Artes et Iubilaeum – 2025, finanziato dall’Unione Europea Next Generation EU per grandi eventi turistici nell’ambito del PNRR sulla misura M1C3 – Investimento 4.3 – Caput Mundi”. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Come difendersi dai droni proviene da Comune-info.