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Gentilezza e amore tra mercificazione e rivoluzione
-------------------------------------------------------------------------------- “Secret kiss”: acrilico su cartoncino telato dipinto da Rossella Sferlazzo -------------------------------------------------------------------------------- Qualche domenica fa ero sull’autobus verso casa, carico di bagagli: uno zaino pesante sulla schiena e un trolley, al cui manico, esteso in tutta la sua lunghezza, avevo assicurato una borsa frigo. I posti a sedere erano occupati, ma una ragazza non distante da me mi ha offerto il suo: si è alzata e ha indicato il sedile. Sono rimasto sorpreso da questo gesto gentile e ho risposto di no, però “grazie del pensiero”. Ho proseguito il viaggio in piedi e riflettuto a lungo sulla parola “pensiero”: perché ho ringraziato per il pensiero? In fondo, ho trovato in quell’invito un vero pensiero per l’Altro, cioè cura e preoccupazione per il prossimo dato nelle sue condizioni concrete, immerso in uno spazio-tempo e in una rete di rapporti sociali che lo condizionano. O, quantomeno, la gentilezza di quella persona incontrata casualmente sui mezzi pubblici conteneva il seme di tutto ciò. Si è trattato di una gentilezza a dimensione di essere umano, fondata cioè sull’incontro (ancor prima, sulla prossimità che lo consente) e sul riconoscimento: come non distinguerla dalla gentilezza dell’intelligenza artificiale assistita dall’algoritmo (per esempio, dell’app che ci invia notifiche puntuali, utili, talvolta azzeccatissime), che può vantare di conoscerci senza riserve né segreti? Come non distinguerla, inoltre, dalla gentilezza affettata di chi ci presta un servizio commerciale? Queste ultime due sono atteggiamenti di default, cioè rivolti verso chiunque (chiunque – sia precisato – paghi, offrendo in cambio i propri dati o il proprio denaro). La gentilezza fondata sull’incontro, dunque sul particolare, ha un potenziale politico: se sistematica e generalizzata, assurge a una dimensione politica. Questa gentilezza permette infatti di riconoscere (e di intervenire su) i bisogni dell’Altro; e che cos’è la politica se non la gestione collettiva del bisogno? Il bisogno, inteso come ciò il cui soddisfacimento è propedeutico alla riproduzione della specie e che è quantificabile e definibile con precisione, costituisce infatti il lessico della politica1. Non è un caso che la gentilezza sia stata mercificata: sussunta tanto dall’intelligenza artificiale, così stolida (e in tal modo appositamente programmata) da non distinguere tra bisogni e capricci, cioè tra bisogni reali e bisogni indotti, quanto nei rapporti commerciali, come fluidificante dello scambio. La mercificazione della gentilezza mira a far sì che quella offerta sul mercato basti, che non se ne pratichi (che anzi non si senta il bisogno di praticarne) dell’altra al di fuori: di conseguenza, che la libera concorrenza si dispieghi senza l’interferenza dell’empatia per il prossimo. Mercificare la gentilezza significa in altre parole assegnarle un prezzo e far scivolare chi la pratica gratuitamente nei panni di un folle. Pure gli incontri – in cui la gentilezza dovrebbe realizzarsi – non sono rimasti immuni alla mercificazione; pensate alle app di dating, ma anche a quelle programmate più generalmente per fare nuovi amici o conoscenze (per esempio, comehome!). Il filosofo croato Srećko Horvat parla di “economia libidinale” per indicare la mercificazione delle energie e pulsioni libidiche in un mondo largamente sessualizzato e rileva come già la liberazione sessuale del ʼ68 prestasse il fianco a questa sussunzione da parte del capitale, per via della rilevanza mediatica e simbolica assunta da alcuni protagonisti di quella stagione culturale (come i disinibiti e promiscui membri della Kommune 1 di Berlino Ovest) e dunque della politicizzazione della vita privata, che ha sancito il primato del diritto alla scelta dello stile di vita, in particolare sessuale, sul diritto alla resistenza nei confronti dell’ordine dominante. Questa sfera economica, in cui si realizza lo scambio di effusioni e fluidi tra esseri umani, non pare essere altro che la trasposizione in campo sentimentale e sessuale del traffico capitalistico di valori di scambio (denaro) e valori d’uso (merci)2; Lenin, citato dal filosofo croato, compendiava la situazione appena descritta nella seguente osservazione: “lo scambio di donne e uomini non è altro che l’applicazione del principio di scambio borghese sotto spoglie pseudo-rivoluzionarie”3. Nel suo saggio Horvat suggerisce pure che le energie libidiche e sentimentali destinate all’Altro non escludono né tolgono nulla a quelle necessarie alla messa in opera di un progetto politico rivoluzionario: anzi, l’amore per l’Altro è amore per colui o colei nel quale vediamo riflessa la luce della rivoluzione, per il compagno o la compagna di cammino e di lotta verso l’orizzonte comune di un altrove politico; al contempo, l’odio per il nemico è odio per chi, sbarrandoci il passo, si contrappone a noi nel conflitto. Un esempio in questo senso è dato dalla militanza rivoluzionaria di Ernesto Che Guevara4, costretto a vivere in clandestinità l’amore per la propria famiglia e perfino a travestirsi per evitare che i figli, bambini, lo riconoscessero e potessero dire a qualcuno di averlo incontrato. Gli spunti del filosofo croato ci danno il là alla contestazione di quell’amore concepito come complementarità, compendiabile nella formula secondo cui “quel che manca a uno degli amanti lo ha l’Altro e viceversa”. Questa visione rende infatti la coppia un dispositivo funzionale al mantenimento dell’ordine neoliberale. Vero è che ciascun amante, ottenendo dall’Altro ciò che gli manca, esce, in tutto o in parte, dal bisogno. In ogni caso, uscire dal bisogno grazie all’Altro (e a un Altro solamente, cioè all’amante) vale a configurare la coppia come un dispositivo autarchico, resiliente al taglio delle spese sociali praticato a ogni piè sospinto dallo Stato neoliberale. In altre parole, le politiche neoliberali esternalizzano alla coppia (o tuttalpiù alla famiglia) la sfera del bisogno, abdicando alla sua gestione. La coppia si configura così come una cellula più o meno rinforzata entro la società atomizzata; uscire dal bisogno grazie alla cooperazione di tutti gli Altri implica invece la fondazione di una politica orizzontale, che sviluppi la propria azione attorno ai beni comuni e inauguri non solo una più equa distribuzione del reddito, ma anche una meno discriminatoria divisione del lavoro. La società neoliberista funziona all’apice delle sue potenzialità – e correlativamente il desiderio di comunità si riduce al minimo – se la cellula-coppia permette alle molecole-amanti che la compongono di performare più efficacemente e dunque di procedere più agevolmente sulla rotta del benessere individuale (o tuttalpiù di coppia), rotta da cui è escluso l’approdo a una dimensione comunitaria più ampia della coppia (o tuttalpiù della famiglia). Nelle coppie così congegnate – che chiameremo “coppie funzionali” – ciascuno è mezzo dell’Altro e il fine stabilito si situa in uno spettro che va dalla sopravvivenza all’accrescimento del proprio capitale umano e, dunque, alla progressione nella piramide sociale. Se il mezzo non è atto al fine, lo si abbandona punto e basta. Le coppie funzionali affrontano le sfide poste dal libero mercato così come gli androgini narrati da Aristofane nel Simposio di Platone attaccarono gli dei dell’Olimpo. Nel mito gli androgini erano esseri umani che partecipavano del sesso maschile e del sesso femminile, disponendo di entrambi gli organi sessuali; avevano due facce, orientate in direzione opposta, su una sola testa e quattro braccia e quattro gambe, così che, quando si mettevano a correre, usavano gli otto arti facendo la ruota. Per indebolirli Zeus li divise in due esseri distinti; allo stesso modo il libero mercato finisce per far implodere le coppie sotto le contraddizioni in esse insufflate dal suo stesso ordine: in particolare, l’antagonismo tra regno della necessità – falsamente dipinto come carriera – e regno della libertà – cioè dell’incontro con l’Altro (dunque con il compagno o la compagna e con i figli) –; la capacità di guadagno dell’uno, spesso condizionata alla disponibilità dell’Altro ad assumere una serie di compiti di sostegno; la divisione sessuale del lavoro domestico, cioè riproduttivo delle condizioni che consentono lo stare al mondo. Quanto a quest’ultimo punto, la parità tra uomini e donne non può essere raggiunta semplicemente assumendo il tempo a unità di misura del lavoro prestato, a causa della maggiore intensità del lavoro femminile, nel quale “si condensano migliaia di anni di divisione sessuale dei ruoli”, dunque tutta la storia delle donne vissuta all’insegna dell’asimmetria nei rapporti di potere5. Con ciò non si vuole invitare mica a legarsi a un Altro con cui litigare da mattina a sera o, peggio, non avere una parola da scambiarsi – l’intento di queste considerazioni non è comunque quello di inventare una dating app –, ma a considerare – come suggerisce Horvat6 – che un orizzonte di liberazione (se vogliamo, di rivoluzione) condiviso con l’Altro è quanto fa brillare l’Altro ai nostri occhi, per il semplice fatto che lui o lei si accende della luce del desiderio utopico. Questo amore tiene insieme l’Altro e la restante parte della collettività che si vuole liberare dal giogo della società neoliberista: l’amore per l’Altro coincide con quello per la rivoluzione e la pratica di questo amore si traduce anche in cammino collettivo e lotta. La coppia funzionale è al contrario una cellula che promette un migliore adattamento di ciascuno dei suoi due membri alle catastrofi del sistema capitalista, cioè a quelle crisi (ambientale, economica etc.) che, essendo connaturate allo sviluppo e al progresso, sono gestibili dalla classe dominante mediante piccoli cambi di rotta che lasciano inalterati i rapporti di potere tra classi sociali7: promettono, in altre parole, la preservazione della coppia all’insegna della conservazione dell’ordine dominante; soltanto la coppia in cui ciascuno vede nell’Altro il riflesso della rivoluzione permette di immaginare un’alternativa, di cui reca la promessa, suggellata dal dono incondizionato che ciascun amante fa di sé all’Altro. Attraverso l’esperienza di questa coppia gli amanti non soltanto gestiscono il proprio bisogno, ma proiettano nella realtà il desiderio verso un luogo che ancora non è dato, verso l’utopia. -------------------------------------------------------------------------------- 1 Benedetto Vecchi, Tecnoutopie, DeriveApprodi, 2022, pag. 18 s. 2 La radicalità dell’amore. Desiderio e rivoluzione, DeriveApprodi, 2016, in particolare pagg. 65-76; 106-110; 118-120. 3 Ivi, pagg. 26, 109. 4 Ivi, pagg. 91-104. 5 Christian Marazzi, Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla politica, Edizioni Casagrande, 2021, pagg. 74-80. 6 Op. cit., pag.132 s. 7 Così Benedetto Vecchi definisce il concetto di catastrofe in op. cit., pag. 36 s. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Gentilezza e amore tra mercificazione e rivoluzione proviene da Comune-info.
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LA GRANDI E DIFFUSE AZIONI INIZIATIVE NELLE PIAZZE PER LA PALESTINA DI OTTOBRE E NOVEMBRE DIMOSTRANO CHE LA MOBILITAZIONE NON È PER NULLA FINITA CON LA FALSA “PACE” DI TRUMP E CHE IL GENOCIDIO DEL POPOLO PALESTINESE HA SVELATO LA “NUOVA” LOGICA DELL’ORDINE GLOBALE, RIORGANIZZATA SEMPRE PIÙ ATTORNO ALLA GUERRA. MA QUELLE PROTESTE DICONO ANCHE CHE COLORO CHE SONO IN BASSO SONO CAPACI DI INDIVIDUARE ALCUNI PUNTI DEBOLI DI QUELLA RIORGANIZZAZIONE CARICA DI MORTE, AD ESEMPIO IL FATTO CHE IL REGIME DI GUERRA NECESSITA DI UN APPARATO LOGISTICO PIENAMENTE FUNZIONANTE. I PORTI, IN QUESTO SENSO, HANNO UN RUOLO CENTRALE. QUELLI CHE SONO IN ALTO TEMONO MOLTO I BLOCCHI DEI PORTI, PARTITI DA GENOVA È DIFFUSI IN ALTRE CITTÀ EUROPEE Il 28 novembre è stato convocato uno sciopero generale dalla USB (Unione Sindacale di Base), il sindacato che è stato fortemente coinvolto in tutte le manifestazioni svoltesi durante il “bimestre d’oro italiano”, tra settembre e ottobre di quest’anno. La Palestina è rimasta il tema centrale della mobilitazione, che questa volta ha visto però una maggiore articolazione con altre questioni legate alle condizioni di vita e di lavoro in Italia – e non solo. A Genova, la città dove tutto è cominciato con il blocco delle navi effettuato dagli operatori portuali del CALP (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali), più di 10.000 manifestanti hanno aderito allo sciopero, con una presenza elevatissima di studenti e giovani. Il giorno successivo si è tenuta una manifestazione nazionale a Roma, alla quale hanno partecipato circa 100.000 persone, convocata sempre dalla USB e da altre organizzazioni politiche e della società civile. Anche lì, quella presenza giovanile si è distinta come uno degli elementi caratterizzanti della moltitudine che ha riempito Piazza San Giovanni. In questi due giorni di mobilitazione generale, la parola d’orine è stata quella che Riccardo Rudino, portuale genovese, ha gridato al megafono davanti a 40.000 persone in una serata degli ultimi giorni di agosto: “Se loro [i militari israeliani] faranno qualcosa [all’equipaggio della Global Sumud Flotilla], dal porto di Genova non uscirà nemmeno un chiodo. Blocchiamo tutto!”. Una frase che ha fatto il giro del mondo, tradotta e gridata in molte lingue. Riccardo – che i suoi compagni del CALP chiamano affettuosamente “vecchio” – è diventato, suo malgrado, con il suo aspetto un po’ riservato, una delle figure più conosciute nei movimenti globali per la Palestina libera. Si vogliono qui sottolineare tre elementi che caratterizzano oggi il movimento che ha portato nelle piazze di quasi tutte le città italiane circa due milioni di persone dall’inizio di settembre. Ciò, al fine di intravedere le prospettive – se non garantite, certamente sperate – del movimento nel prossimo futuro. Il primo riguarda la persistenza stessa del movimento: contrariamente a quanto era stato frettolosamente previsto, la mobilitazione non è finita con la falsa “pace” di Trump in Palestina. La narrazione proposta dai media mainstream non è stata accolta favorevolmente da chi segue, attraverso altri mezzi, le esecuzioni a sangue freddo, gli abusi, la distruzione di case e terre perpetrati da coloni protetti dall’IDF – e dall’IDF stessa. Qualcosa si è sedimentato in quei due mesi, rimanendo vivo nella coscienza di molti: non c’è giustizia nella pace proclamata dagli assassini e dai loro sostenitori. Non si tratta di un elemento secondario. Segna, anzi il consolidamento di ciò che è stato descritto in queste stesse pagine come un atteggiamento etico, un orgoglio di essere lì, da parte di molti che non avevano mai partecipato a manifestazioni di piazza. L’etica è direttamente legata al politico, si sovrappongono in modi diversi. In questo caso, l’etica assume la funzione di un “dire la verità” nello spazio pubblico, che diventa subito un atto di critica. È lì, nelle piazze, nelle scuole e nelle università, nei luoghi di lavoro, nei quartieri, che quell’atto emerge come una forza capace di trasformare noi stessi. “Dire la verità” non significa solo proporre una lettura diversa dei fatti: è prendere una posizione che diviene subito un atto politico. È una posizione che travalica, pur utilizzandoli, i social network; si appropria di uno spazio pubblico, fa della visibilità il suo punto di forza. È lo stesso che sta accadendo in molti contesti in giro per il mondo. Le bandiere della pace, della Palestina, della USB, dei gruppi politici di sinistra sono accompagnate dalla bandiera del Jolly Roger di One Piece: teschio sorridente, ossa incrociate e cappello di paglia. Il secondo elemento riguarda la menzionata articolazione dei temi che sono entrati in questi due giorni di mobilitazione. La Palestina è una questione globale, perché la Palestina è la Palestina Globale. Ciò significa vedere nel genocidio del popolo palestinese l’aspetto più tragico di una logica che riorganizza l’ordine globale attorno alla guerra. La guerra permanente, dunque, come elemento non eccezionale della ristrutturazione del modello delle relazioni globali – politiche, economiche, energetiche, ambientali, razziali – che costituiscono un vero e proprio “regime di guerra globale”, come è stato definito da Sandro Mezzadra e Michael Hardt. Questa consapevolezza emerge chiaramente in ogni manifestazione, riunione, assemblea, nella misura in cui riconosce in tale regime il coinvolgimento dell’intera catena di produzione, sia di beni sia dell’ordine “poliziesco”. Inutile dire che al suo vertice si trovano le big tech statunitensi, come è stato descritto innumerevoli volte – e con grande chiarezza – in queste pagine. Allo stesso modo, sarebbe ridondante ricordare come i governi del mondo multipolare giochino – ciascuno in base ai propri interessi e alla propria capacità di influenza – il ruolo che più conviene loro. Una consapevolezza – infine – che non risparmia le scelte compiute dal governo italiano e dai centri di potere economico e finanziario (così come da altri paesi europei, con la Germania in testa alla lista dei peggiori), per quanto riguarda le priorità nella pianificazione finanziaria dello Stato. La relazione tra le misure adottate sul piano internazionale e quelle che hanno un impatto diretto sulla vita quotidiana delle persone non lascia dubbi a nessuno. Ecco allora la moltitudine che ha riempito le strade negli ultimi giorni di novembre vedere, come parte della stessa strategia tanatopolitica, i popoli vittime delle brutalità e del cinismo assassino, le famiglie che rinunciano a cure mediche e ospedaliere, che cambiano abitudini alimentari, che non riescono a pagare l’affitto della casa in cui vivono per mancanza di mezzi economici. Allo stesso modo, queste condizioni si legano a quelle di lavoro e di vita – e di morte – nei paesi del Sud Globale, i primi anelli della lunga catena di approvvigionamento del capitalismo bellicista delle piattaforme. Ma vi è anche un altro livello di consapevolezza, che costituisce il terzo elemento caratterizzante del movimento. Il regime di guerra, pluriforme nei suoi modi di agire, necessita di un apparato logistico pienamente funzionante. Guerra e logistica, com’è noto, vanno di pari passo da secoli. Non esiste guerra senza logistica, così come non esiste logistica senza un’organizzazione “militare” dei flussi di approvvigionamento lungo l’intera catena. La struttura che la logistica ha assunto nell’era dell’intermodalità presuppone un legame stretto tra le diverse fasi che la compongono. I porti, in questo senso, hanno svolto un ruolo centrale. Ciò, a partire dalla rivoluzione introdotta dal container negli anni Ottanta, come mezzo di stoccaggio, movimentazione e trasporto di quasi ogni tipo di merce. Il container ha trasformato il trasporto – prima frammentato – in una linea unica e ininterrotta, come scrive Andrea Bottalico nel suo saggio La logistica in Italia. Per farsi un’idea chiara dell’importanza del trasporto marittimo tramite container, basta ricordare i giorni in cui una nave in avaria bloccò il Canale di Suez nel marzo 2021. Si scatenò il panico generale, con i prezzi che minacciavano di schizzare alle stelle, a causa della scarsità di componenti essenziali per molti settori industriali. E tutto questo durò appena una settimana. Il porto, in sostanza, cessa di essere soltanto una tappa nella linea che conduce dallo smistamento delle materie prime alla consegna al cliente finale, per diventare il centro strategico delle operazioni logistiche. La privatizzazione dei porti – e Genova non fa eccezione – con l’affidamento delle operazioni sulle banchine agli operatori privati, è stata la svolta che ha sottolineato tale centralità. Di tutto ciò sono pienamente consapevoli i portuali del CALP – che organizzano il blocco delle navi con carichi di armi dal 2019 – così come tutti gli altri soggetti che hanno articolato le proprie lotte con quella dei portuali. “Articolare tra” è diverso da “convergere verso”. Una consapevolezza che ha contagiato i lavoratori di altri porti, sia in Italia sia in altri paesi europei (Grecia, Cipro, Francia, Spagna e, in una certa misura, Portogallo). Il “blocchiamo tutto” di Riccardo è diventato la parola d’ordine che ha accompagnato le mobilitazioni in molte città contro il regime di guerra nel quale vogliono trascinarci – o nel quale siamo già stati trascinati. Quale potrà essere il destino di questo movimento non è una questione facilmente prevedibile. Innumerevoli sono le variabili, di natura diversa, che potranno influenzarlo. Ciò che sembra non lasciare dubbi è la visione che dobbiamo rafforzare riguardo il contesto di riferimento della stessa lotta. Il compito di ciascuno di noi è lavorare per una sua crescente estensione e internazionalizzazione, come del resto sta già avvenendo. Ciò passa attraverso la costruzione di ulteriori articolazioni lungo l’intera catena di approvvigionamento, a monte e a valle, all’interno e all’esterno. Sarebbe fondamentale cercare alleanze con i lavoratori dell’industria siderurgica che stanno vivendo giorni drammatici, con quelli dell’“ultimo miglio”, dei magazzini delle grandi centrali di distribuzione, che hanno subito minacce, violenze, licenziamenti per aver organizzato scioperi o picchetti. Allo stesso modo, le forze della società civile stanno producendo contenuti che arricchiscono e spostano la lotta su altri livelli, come nel caso di Weapon Watch e di altre organizzazioni di volontariato. La forza del movimento sta nel suo divenire, nella sua capacità di cambiare i propri obiettivi, le proprie articolazioni, le proprie strategie ogni volta che si renda necessario. La logistica non rimarrà ferma a ciò che è oggi, neppure l’intero ciclo di valorizzazione di cui la logistica costituisce il centro nevralgico. Come è sempre accaduto nei momenti di alta conflittualità, gli avversari delle classi popolari troveranno le misure per cercare di fermare le mobilitazioni. Ciò avverrà tanto nei porti quanto negli altri luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle università, così come in qualsiasi altra realtà in cui ci sia qualcuno disposto a bloccare tutto, in nome di un futuro che vogliamo cominciare a frequentare fin da ora. -------------------------------------------------------------------------------- *Stefano Rota è ricercatore indipendente. Gestisce il blog “Transglobal”. Le sue più recenti pubblicazioni collettive sono La fabbrica del soggetto. Ilva 1958-Amazon 2021 (Sensibili alle foglie, 2023) e in G. Ferraro (a cura di), Altraparola. La figura di sé (Efesto Edizioni, 2023). Collabora occasionalmente con riviste online italiane e lusofone. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Siamo ancora qui proviene da Comune-info.
legge, psicologia e pedagogia
UN’ATTENTA LETTURA DELL’ORDINANZA CON CUI È STATA SOSPESA LA RESPONSABILITÀ GENITORIALE DELLA COSIDDETTA FAMIGLIA DEL BOSCO, SECONDO ANTONIO FISCARELLI, RICERCATORE E DOCENTE DI FILOSOFIA, STORIA E SCIENZE UMANE, FA EMERGERE NON UN’APPROFONDITA VALUTAZIONE DELLE SCELTE PEDAGOGICHE DEI GENITORI MA UNA CONCEZIONE ANTI-NATURALISTICA DELL’ISTRUZIONE E DELLA VITA SOCIALE. L’ORDINANZA È PER ALTRO COSTRUITA SOLO SU TRE RELAZIONI (DUE DEGLI ASSISTENTI SOCIALI, UNA DEI CARABINIERI), NON SONO STATI RACCOLTI PARERI DEL GARANTE DEI MINORI, NÉ QUELLO DELL’ISTITUTRICE PRIVATA DEI FIGLI, NÉ DI AMICI, PARENTI, CONOSCENTI, VICINATO. LA CARICA ANTI-NATURALISTA DELLA SENTENZA, DICE FISCARELLI, SI ESPRIME ANCHE NELL’INTERPRETAZIONE OFFERTA DELLA SITUAZIONE REALE DELL’ABITAZIONE, NELL’INSISTENZA SULLA QUESTIONE DEL BAGNO, DELLE UTENZE, DEI RISCALDAMENTI, TUTTI ASPETTI PER I QUALI LA FAMIGLIA USA TECNICHE USATE DA MILIONI DI PERSONE NEL MONDO, OGGI CON ACCORGIMENTI SCIENTIFICI CHE FAVORISCONO UN ABBATTIMENTO DELLE SPESE PER L’APPROVVIGIONAMENTO ENERGETICO. “QUESTA FAMIGLIA NON VIVE AFFATTO FUORI DALLA SOCIETÀ: AL CONTRARIO, CI SONO MOLTO DENTRO E CI SONO DENTRO IN UN MODO GENUINAMENTE COSTRUTTIVO PER LORO, I LORO FIGLI E LA COMUNITÀ CHE LI ACCOGLIE, NON DA OGGI. QUESTA FAMIGLIA VIVE NELLA SOCIETÀ RICOSTRUENDO E RISTRUTTURANDO IL RAPPORTO CHE LA SOCIETÀ, QUESTA SOCIETÀ, HA BISOGNO DI RECUPERARE CON LA NATURA… IN QUESTA FAMIGLIA, L’EDUCAZIONE È TANTO PIÙ SOCIALE QUANTO PIÙ È NATURALE, O MEGLIO, COME AVREBBE DETTO LAMBERTO BORGHI, È L’EDUCAZIONE GENUINA SENZA ULTERIORI APPELLATIVI…” -------------------------------------------------------------------------------- unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Premessa L’ordinanza con cui il Tribunale per i minorenni di L’Aquila, il 13 novembre scorso, «sospende la responsabilità genitoriale dei coniugi Trevallion Nathan e Birminggam Catherine nei confronti dei figli» e «ordina l’allontanamento dei minori dalla dimora familiare e il loro collocamento in casa-famiglia», è motivata da più ragioni, che sono illustrate succintamente in due specifici capoversi, nella penultima pagina delle sei di cui consta il documento: In considerazione delle gravi e pregiudizievoli violazioni dei diritti dei figli all’integrità fisica e psichica, all’assistenza materiale e morale, alla vita di relazione e alla riservatezza, i genitori vanno sospesi dalla responsabilità genitoriale. È inoltre necessario ordinare l’allontanamento dei minori dall’abitazione familiare, in considerazione del pericolo per l’integrità fisica derivante dalla condizione abitativa, nonché dal rifiuto da parte dei genitori di consentire le verifiche e i trattamenti sanitari obbligatori per legge. È dunque una pluralità di «violazioni», a motivare la sentenza, violazioni «gravi e pregiudizievoli». Catherine e Nathan avrebbero trascurato di provvedere non solo alla «integrità fisica» delle loro bambine, ma anche a quella «psichica», alla loro «assistenza materiale e morale», alla loro «vita di relazione» e alla loro «riservatezza». Aspetti materiali e immateriali, psicologici, morali, sociali e personali, di cui essi devono rispondere, imputazioni così variegate che l’aver accettato, lo scorso 30 novembre, la casa offerta da persone generose di quelle zone, non basterà certo a scagionarli e a convincere i giudici a revocare il provvedimento di sospensione della loro «responsabilità genitoriale»: e forse non servirà neanche al ricongiungimento con le loro figlie (per via della questione sanitaria). Per capirci, Catherine e Nathan erano già stati raggiunti, circa sei mesi fa, (22 maggio 2025), da una ordinanza cautelare che già imponeva loro la ««limitazione della responsabilità genitoriale» e conferiva ai servizi sociali il «potere esclusivo di decidere» sul «collocamento» delle loro bambine, «nonché sulle questioni di maggior rilevanza in materia sanitaria» (p. 1). Questa decisione fu presa, come è orami risaputo, «a seguito dell’accesso al pronto soccorso della famiglia per ingestione di funghi», episodio che ha determinato la mobilitazione dei servizi sociali e l’accumulazione di altre riserve verso i genitori. Nell’ordinanza, si legge: il Servizio Sociale aveva segnalato la condizione di sostanziale abbandono in cui si trovavano i minori, in situazione abitativa disagevole e insalubre e privi di istruzione e assistenza sanitaria; la famiglia viveva in un rudere fatiscente e privo di utenze e in una piccola roulotte; i minori non avevano un pediatra e non frequentavano la scuola». Queste sono le originarie motivazioni che hanno spinto il tribunale a imporre cautelativamente «la limitazione della responsabilità genitoriale». Le motivazioni sono ribadite, sempre nella prima pagina, con riferimenti a due relazioni risalenti a un anno fa (dei servizi sociali, il 23/9/24, e dei carabinieri, il 4/10/24), in cui già si avvertivano «indizi di preoccupante negligenza genitoriale, con particolare riguardo all’istruzione dei figli e alla vita di relazione degli stessi», indizi «conseguenti alla mancata frequentazione di istituti scolastici e all’isolamento in cui vivevano». Come si può notare, già in questo provvedimento sono contenute più o meno le motivazioni che hanno condotto, lo scorso 13 novembre, alla decisione di sospendere la responsabilità genitoriale e di rendere esecutivo il collocamento dei minori in una casa-famiglia. Semmai, nella nuova sentenza, si aggiungono i riferimenti ad alcuni nuovi compromettenti comportamenti per i genitori, come il fatto di aver concesso ai giornali di entrare a casa loro, ciò che per i giudici è risultato essere una violazione della privacy dei loro figli. Da quel che si evince dalle affermazioni contenute nella sentenza, essi avrebbero letteralmente ‘usato’ le loro bambine per influenzare il decorso processuale in cui sono implicati: I genitori, con tale comportamento, hanno mostrato di fare uso dei propri figli allo scopo di conseguire un risultato processuale a essi favorevole in un procedimento de potestate, nel quale assumono una posizione processuale contrapposta a quella dei figli e in conflitto di interessi con gli stessi. E tale risultato processuale è da essi perseguito non all’interno del processo, avvalendosi dei diritti garantiti alle parti dalla legge processuale, ma invocando pressioni dell’opinione pubblica sull’esercizio della giurisdizione (p. 5) I millepiani della legge Certo, non è facile ricostruire la logica dell’operato di questo tribunale. Le ragioni sono elencate una per una nell’ordinanza, in una forma che non si presta facilmente alla comprensione per un pubblico non abituato ai linguaggi giuridici. Un evidente aspetto di questo documento è che non illustra la vicenda seguendo un ordine cronologico lineare. Essa si svolge attraverso una sovrapposizione di ordini del discorso e spostamenti del registro comunicativo, probabilmente dovuti alla varietà delle imputazioni presupposte, ma anche ai meccanismi del linguaggio burocratico e alle intrinseche capacità di interpretare i fatti al fine di costruirvi una logica unitaria. Tutto ciò è verosimilmente rivelativo di una difficoltà strutturale incontrata nell’illustrare l’insieme degli elementi che dovrebbero, a rigor di logica, oggettivamente legittimare la decisione finale, che giustifichino, insomma, il provvedimento, non tanto nella forma quanto nella sostanza. Di fatto, la forma rende difficile la comprensione della sostanza. Alcune formule e alcuni termini tecnici si ripetono in modo più insistente. Queste ripetizioni forse ci aiutano a capire l’iter che ha condotto alla divisione di questa famiglia, nell’arco di un anno circa. Fra i termini che si ripetono con una certa cadenza, c’è quello di ‘collocamento’ (dei minori), usato ben tre volte nelle prime due pagine (prime 25 righe). ‘Isolamento’ invece, è usato una volta nella prima pagina e ben tre volte nella quarta. Anche il termine ‘pericolo’ è utilizzato quattro volte in totale. Altre espressioni sono utilizzate in differenti funzioni semantiche: in un caso, come termini distinti di un insieme, in un altro accorpati in una sola famiglia semantica, in un caso indicano un effetto, in un altro la causa. Ad esempio, si parla di violazione dell’integrità fisica e psichica, di assistenza materiale e morale, di abbandono e isolamento, ma non si capisce se i genitori hanno isolato, o abbandonato le loro figlie in qualche circostanza specifica, un giorno specifico, se hanno impedito fisicamente la loro vita sociale, o solo sul piano morale, o su quello psicologico, oppure contemporaneamente su tutti questi piani, e in che senso non si sarebbero presi cura moralmente e materialmente delle loro figlie. Il testo, infatti, lo ricordiamo, parla esplicitamente di minori ritrovati in una «condizione di abbandono», di «isolamento», «privi di istruzione». Dire «abbandono» e «isolamento» equivale a costruire un’immagine dei genitori che hanno trascurato effettivamente di provvedere alla loro custodia. Diciamo che un bambino (ma lo diremmo anche di un animale) è stato abbandonato (ovvero isolato?) in un auto, in una stanza, su una strada, in una zona in cui, in effetti, si possa parlare di una condizione in cui non solo è privato di relazioni con il mondo oltre la soglia dell’ambiente in cui è recluso, ma non fruisce neanche di una adeguata cura sul piano dell’alimentazione e di altri bisogni naturali, fisiologici, oltre che psicologici. Si dà però il caso che queste bambine, prima di essere “collocate” in una struttura istituzionale, passassero, le loro giornate con i genitori, con degli animali, con le persone e le altre famiglie del circondario, abitanti del contesto rurale e abitanti del contesto urbano (Palmoli è un paesello), ma con queste persone ci hanno costruito dei rapporti di lunga durata, oltretutto, fondati su principi comuni, di rispetto, di aiuto e di stima reciproci. Se fossero stati abbandonati e isolati come si spiegano le testimonianze di persone comuni, fra cui addirittura un signore, certo Osvaldo, che sostiene di considerare quelle bambine come «nipoti» e parla di suo padre come di un lavoratore con cui ha sempre avuto uno scambio di aiuto reciproco? Dire, inoltre, minori «privi di istruzione» equivale ad accusare i genitori di averli tenuti intenzionalmente in una condizione di ignoranza e analfabetismo. A prescindere, appunto, dalla vita sociale, essi non dovrebbero saper scrivere né usare oralmente parti del linguaggio, o meglio, per loro, delle diverse lingue usate in famiglia (è stato detto che solo la madre ne parla cinque), non saper comprendere né veicolare messaggi adeguati alla loro età, né saper interagire sul piano linguistico con le persone che incontravano regolarmente nei loro vissuti quotidiani. Quando diciamo che una persona è priva di istruzione, insomma, di fatto, ci riferiamo in primo luogo alla sua reale capacità cognitiva, ai contenuti pedagogici, didattici, educativi, concretamente tangibili, alla sua effettiva capacità di comprendere i contenuti di messaggi adeguati all’età, nella sua originaria e primaria formazione sociale, cioè nella familias, e nelle altre «formazioni sociali», cioè le restanti organizzazioni sociali formali, non formali e informali, con cui la famiglia di fatto interagisce attraverso diverse modalità di relazione. Questa ordinanza, nel suo insieme, sembra attraversata da diverse sequenze logiche che non restituiscono in modo intuitivo il senso di una unità logica di base. A ogni rilettura, prevale l’impressione di una persistente inclinazione a differenziare nodi problematici sostenendosi con riferimenti legislativi: e quando questi non sembrano sufficienti (ad es. sulla questione della vita sociale dei minori) con elaborati intellettuali riferibili a classici della psicologia (di cui se ne menzionano ben cinque, come vedremo). Tutto ciò è comprensibile, trattandosi di una vicenda che va avanti da oltre un anno, che chiama in causa diversi attori e – ex rerum natura – l’intera comunità che li ha adottati già da un po’ di anni, ma la cui ricostruzione passa essenzialmente, da quanto si legge nell’ordinanza, dalle relazioni dei servizi sociali e dei carabinieri e da qualche udienza cautelare. Nell’ordinanza si menzionano essenzialmente tre relazioni, due udienze con i genitori e un incontro con i bambini in presenza dei genitori nell’arco di un anno: le prime due relazioni, una dei servizi sociali e una dei carabinieri, già menzionate, sono correlate all’episodio dell’ingestione di funghi; una ulteriore relazione dei servizi sociali, menzionata nella sentenza, risale al 14/10/2025, a cui segue l’incontro con i bambini il 28 dello stesso mese. Non si menzionano altre relazioni precedenti. Al riguardo delle due udienze, non si indicano le date. Non ci sono riferimenti ad altre relazioni concernenti la situazione di questa famiglia, il profilo socio-pedagogico dei suoi membri, la loro storia personale, le capacità e le competenze reali dei genitori, la loro formazione, il loro modo di concepire l’educazione dei propri figli. Oltre alle suddette relazioni e udienze, si menzionano solo atti burocratici riguardanti le perizie sull’immobile, sull’istruzione parentale e i riferimenti legislativi che ispirano le sanzioni e le imputazioni nei confronti dei coniugi. Non vi compaiono, ad esempio, né il parere del Garante dei minori, né quello dell’istitutrice privata dei figli, né parti testimoniali come amici, parenti, conoscenti, vicinato (si comprende dunque perché i genitori si siano affidati ai giornalisti). Tuttavia, sulla base dei rapporti dei servizi sociali e dei carabinieri, entrambi dell’anno scorso, si inizia a parlare di «negligenza genitoriale» e si specifica che questa negligenza riguarda soprattutto l’istruzione e la vita sociale delle figlie. Sei pagine che compromettono la reputazione dei loro genitori più di quanto tutelino i diritti dei loro figli. Alle accuse, che sembrano rasentare il pregiudizio, la discriminazione e la denigrazione, si aggiungono delle infrazioni logiche: perché in tutto il decreto, non si scorge niente che sembri maturato in un reale processo di ascolto partecipato, di osservazione e supporto adeguati alla situazione, che valorizzi lo sforzo educativo e pedagogico, i principi e le regole che guidano, nonché il sacrificio materiale e immateriale che fanno questi genitori, le cui scelte di vita, a rigor di logica, sono del tutto in linea con le necessità, i bisogni, i desideri e le aspettative che si possono avere in una società come la nostra. Quando la legge non garantisce… la natura provvede In queste sei pagine, si scorgono delle soggettività che pretendono giudicare l’oggettività – la vita di questa famiglia – servendosi di strumenti intellettuali, non solo giuridici, per intenderci. Qui si scambia la parte per il tutto, mentre si dovrebbero ascoltare altre voci per riempire dei vuoti evidenti nella rappresentazione delle cose. A leggere brani come questi: La deprivazione del confronto tra pari in età da scuola elementare (circa 6-11 anni) può avere effetti significativi sullo sviluppo del bambino, che si manifestano sia in ambito scolastico che non scolastico. Il gruppo dei pari è un contesto fondamentale di socializzazione e di sviluppo cognitivo/emotivo, che offre opportunità uniche rispetto all’interazione con gli adulti. In ambito scolastico il confronto e l’interazione con i compagni sono cruciali per l’apprendimento e il successo formativo. La letteratura scientifica (Teoria Socio-Culturale di Vygotskij, Teoria Cognitivo-Evolutiva di Piaget, Teoria del’Apprendimento Sociale di Bandura, Teoria Ecologica d i Bronfenbrenner, Teoria dello Sviluppo Psicosociale d i Erik Erikson) al riguardo ha compiutamente descritto i potenziali effetti della loro assenza […] Difficoltà di apprendimento cooperativo: il bambino può avere problemi a partecipare efficacemente a lavori di gruppo, alla peer education (educazione tra pari) o al cooperative learning, perdendo l’opportunità di rinforzare l e conoscenze spiegandole agli altri o di imparare da prospettive diverse. Mancanza di autostima e motivazione: la deprivazione può limitare la possibilità di ricevere conferme e valorizzazione dai coetanei, riducendo l’autostima e la motivazione all’impegno scolastico. Problemi di regolazione emotiva e comportamentale in classe: il bambino potrebbe faticare a gestire i conflitti (non avendo imparato a negoziare e a comprendere le diverse prospettive), manifestando comportamenti di isolamento o, al contrario, di aggressività (bullismo). non sembra più di essere di fronte al parere di un corpo di giudici, ma a una dispensa per studenti universitari di psicologia. Ma allora qui non si fa più tutela dei minori, ma della tutela dei minori una sorta di “psicologia giuridica”. Non sembra più il giudizio di un équipe di giudici tradizionali ma di una versione inedita di giudici: di psicologi in toga. Siamo di fronte a delle soggettività settoriali, pervase da specializzazioni in materie psico-giuridiche, le cui competenze settoriali condizionano la procedura giuridica, la quale dovrebbe prevedere una rappresentazione organica, interdisciplinare, in una materia così delicata come l’istruzione e l’educazione dei minori. Soggettività che si intravedono tanto nella forma quanto nella sostanza del testo. Se dovessi dire figurativamente in che cosa si rivela prevalentemente la soggettività complessiva del giudizio di questo tribunale, indicherei, come factum principale l’evidenza che questa ordinanza nasce in un clima culturale da tessuto urbano, uffici chiusi e angusti di città, pullulanti di scartoffie e arieggiati da condizionatori, che non favoriscono, pur volendo, una percezione adeguata della vita quotidiana dentro un bosco, dentro quel bosco. Anzi, l’ordinanza sembra restituire un immaginario oppositivo verso l’idea stessa di natura. Questo tribunale non sta giudicando i genitori sulla base di una valutazione approfondita delle loro reali scelte pedagogiche ed etiche, ma sulla base di una concezione anti-naturalistica dell’istruzione e della vita sociale. Questa soggettività pregiudiziale verso l’idea della natura, può evidentemente cogliersi anche nel titolo di un “corso” tenuto dalla giudice Cecilia Angrisano, presidente di questo tribunale, sulla piattaforma “Psicologia.io”, nella cornice di un convegno sulla «genitorialità fuori dall’ordinario»: ‘‘Quando la natura non garantisce’’. Un titolo provvidenziale se si pensa che il corso si è tenuto qualche mese prima che la famiglia Birmingham-Trevaillon finisse in ospedale per ingestione di funghi e che questo tribunale iniziasse a interessarsi del caso. Ma la carica anti-naturalista della sentenza si esprime anche nell’interpretazione offerta della situazione reale dell’abitazione, nell’insistenza sulla questione del bagno, delle utenze, dei riscaldamenti, tutti aspetti per i quali la famiglia usa tecniche oggi arcinote e usate da milioni di persone nel mondo, che sono le stesse che hanno caratterizzato la vita dei nostri nonni (come hanno detto in molti di quelli che seguono questa significativa vicenda). Ma, per essere più precisi, essi se ne servono con accorgimenti scientifici nuovi, meno dispendiosi, che favoriscono un abbattimento delle spese per l’approvvigionamento energetico. É dunque sul piano delle scelte per soddisfare i bisogni primari, cioè quelli più naturali, che si scontra questa sentenza. In realtà, esse documentano un’etica, una scienza e una pedagogia sociali e socializzate, perfettamente in sintonia con i bisogni avvertiti da tutti oggi, nella cornice di un habitat quasi incontaminato (due ettari di terra dentro un bosco, anch’esso a rischio di devastazione). Queste persone, adulte, genitori, a rigor di logica, non proteggono solo i loro figli ma l’intera comunità che li circonda perché l’aver radicato in un bosco non può che essere il modo migliore di salvaguardare l’originaria vita di queste aree. Questa famiglia non vive affatto fuori dalla società: al contrario, ci sono molto dentro e ci sono dentro in un modo genuinamente costruttivo per loro, i loro figli e la comunità che li accoglie, non da oggi. Questa famiglia vive nella società ricostruendo e ristrutturando il rapporto che la società, questa società, ha bisogno di recuperare con la natura: si prende cura di un rapporto che, a determinate condizioni, diventa malato, se, in sostanza, la natura è solo vista nella cornice di un gita o di un weekend felici. Non a caso, di queste ultime ore è un comunicato di SOS Utenti APS, associazione abruzzese per la tutela dei diritti civili e sociali, (oltre 50mila associati), in cui si afferma che la storia di questa famiglia ha favorito una campagna promozionale utile al turismo abruzzese, «spontanea» che incide più di quelle che si realizzano con i fondi pubblici e si propone, all’assessorato al turismo e alla giunta regionali, di assegnare un premio a questa famiglia e l’apertura di un tavolo di consultazione sulle «comunità rurali e i modelli di vita alternativi». Di tutto ciò un tribunale per i minorenni dovrebbe tener conto, come prioritario rispetto alle accuse nei confronti dei genitori sull’isolamento e l’abbandono dei loro figli. Migliaia di persone hanno utilizzato finanziamenti pubblici per l’uso di tecnologie green nelle loro case in campagna e in città. Una legislazione che impone a tutti di convertire i sistemi energetici esiste in Italia da parecchi anni, per chi non lo sapesse. Questa famiglia si è accodata a un’idea di sussistenza che favorisce uno sviluppo quanto più possibile conforme alla natura, scientificamente e pedagogicamente valorizzata alla luce dei nostri tempi. Una cucina economica, un camino, un bagno a secco, una roulotte, all’occorrenza utile anche per gli ospiti, bagno caldo tutte le sere con il calore garantito dal fuoco e anche dai piccoli spazi, adeguatamente sistemati. Un vivere che, giustamente, bisognerebbe vivere per comprendere. Post-scriptum Nella pagine dell’ordinanza si susseguono una serie di affermazioni che descrivono i due coniugi come inadempienti verso una serie di obblighi e accordi presi in fase processuale, tentennamenti, ripensamenti, chiusure, provocazioni. Tutte queste descrizioni che forniscono un’immagine estremamente negativa, poco conciliante, da parte dei genitori, sono accompagnate da richiami all’articolo 2 della Costituzione italiana e da riferimenti legislativi riguardanti la tutela dei minori e, più in generale, dei diritti umani e la loro privacy, tali gli artt. 330-333 del Codice civile, l’art. 16 della Convenzione di New York 20 novembre 1989, l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo(CEDU), l’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali UE, nonchél’art. 50 D. leg. 30 giugno 2003, n. 196. Non entro nel merito di tutte le contestazioni contenute nell’ordinanza, ma soltanto di quelle dominanti e che nel testo sono maggiormente evidenziate come decisive per la decisione presa. Per esempio, nel brano già citato: «Va peraltro evidenziato che l’ordinanza cautelare non è fondata sul pericolo di lesione del diritto dei minori all’istruzione, ma sul pericolo di lesione del diritto alla vita di relazione (art. 2 Cost.), produttiva di gravi conseguenze psichiche ed educative a carico del minore», si avvertono i segni di un significato aleatorio dei termini utilizzati. Si badi bene, preliminarmente, che anche qui si utilizza una distinzione formale, forse di comodo, con cui si distingue una dimensione psichica da una educativa, come se la prima non fosse compresa nella seconda, che riguarda principalmente il ruolo dei genitori. Comunque sia, parlare di conseguenze educative e non solo psicologiche, a fortiori dovrebbe invitare a un autentico approfondimento dell’aspetto più genuinamente pedagogico della vita di queste bambine e di questa famiglia. Ma, a prescindere, siamo partiti con la sentenza finale, che parlava di «violazioni» vere e proprie, «gravi e pregiudiziali», mentre qui si parla solo di pericolo di lesione; ed inoltre, di pericolo non conseguente alla mancata frequentazione della scuola, ma alla carenza (o sarebbe meglio parlare di assenza totale, visto che si parla di ‘isolamento’ e ‘abbandono’) di «vita di relazione». D’altro canto, quando si dice «produttiva» (al femminile) «di gravi conseguenze psichiche ed educative», ci si riferisce alla lesione non al pericolo (maschile) di lesione. In due parole, è del pericolo di lesione che in sostanza si parla ma è la lesione a essere considerata produttiva di... Quindi c’è pericolo di lesione, lesione che può comportare gravi conseguenze… Questo è dopotutto il senso di una ordinanza ‘cautelare’. Ma, dunque, come si spiega che da pericolo di lesione si è passati, nella sentenza finale, a «gravi e pregiudizievoli violazioni dei diritti dei figli», per le quali i genitori «vanno sospesi dalla responsabilità genitoriale»? Non lasciamoci troppo distrarre, perché parliamo sempre di violazioni presumibilmente conseguenti a comportamenti che si presumono trascurare l’educazione, l’istruzione e l’inserimento dei loro figli nella società. Ciò malgrado, si badi bene, la maggior parte dei riferimenti giuridici riguardano perlopiù i diritti della privacy (e non solo dei minori). Ora, la questione del rapporto con i media nasce l’11 novembre scorso, quando evidentemente, la sentenza, datata il 13, doveva essere già pronta. Sui temi sopraddetti, sembra che i giudici si rifacciano, sul piano giuridico, esclusivamente all’art. 2 della costituzione. Laddove, invece, si tratta di giustificare (=legittimare) le accuse rivolte ai genitori su abbandono, isolamento, istruzione, vita sociale, essi si rivolgono, come si è detto, a teorie di psicologia. Ma ciascuna delle teorie menzionate, se approfondita a dovere, rivelerebbe che nessuno dei fattori indicati in esse (oltretutto, non in modo esaustivo) come problematici riguardano davvero i bambini in questione e che anzi proprio in questi bambini si intravedono parecchi dei fattori positivi impliciti in queste teorie, di cui possiamo facilmente elencare qualcuno: il rapporto armonico con la natura, l’apprendimento fondato sull’esperienza pratica a contatto con elementi e necessità fondamentali del vivere, la capacità di adattarsi ad habitat che evidentemente manca a un normale abitante della città, il rispetto di principio impliciti nella famiglia come la condivisione, l’aiuto reciproco, la gentilezza, il dire sempre la verità… Inoltre, in riferimento alla questione della vita sociale, è totalmente trascurato il rapporto con gli animali. Ma basti qui ricordare che una letteratura altrettanto scientifica (sicuramente più consona al nostro caso e alla nostra attualità) annovera fra le pratiche più efficienti per la costruzione, nei bambini, della autostima, di un sé autentico, della fiducia in sé e negli altri, nella gestione di situazioni di rischio, ecc., un’educazione centrata (quindi non marginale) sul rapporto con gli animali. Ancora più nello specifico, la ippo-terapia, per chi non lo sapesse, serve da almeno quattro lustri, a milioni di bambini con problematiche di autismo. Saper cavalcare un cavallo (o addirittura condurre un adulto a cavallo all’età di sei anni, come si vede nel servizio delle Iene), rivela una pregevole qualità sociale, «di vita di relazione» qualitativamente oltre la media e che si coniuga armoniosamente con le altre abitudini di questi bambini, come ascoltare una storia prima di andare a letto, preparare la tavola. Bisognerebbe anche valorizzare la funzione potenziale che queste abitudini favorirebbero nell’interfaccia con i pari, laddove si presentassero davvero situazioni conflittuali. Diversi sono i comportamenti di questi bambini che rivelano un’etica educativa conciliabile con le più genuine teorie e pratiche pedagogiche del Novecento. Si ricordi che lo spartiacque ideologico di questa vicenda che si rivela in modo prevalente nel dibattito pubblico, si gioca su una separazione indebita fra natura e società, o meglio, fra modi diversi di intendere il rapporto della persona con il mondo, fra concezioni, rappresentazioni e visioni differenti della società, della natura, dell’istruzione e dell’educazione. Un pluralismo intellettuale – sintomatico del pluralismo stesso della democrazia in cui di fatto immaginiamo ancora di vivere – che finisce per irrigidirsi in un paradigma divisorio. Di fatto, il mainstream mitizza la scelta dei genitori di vivere in un contesto rurale, come se essi vivessero fuori dalla società. Ma in ciò il dibattito pubblico non fa che riflettere una visione implicita nella posizione stessa dei giudici, come se in questo tribunale non si materializzasse una procedura giuridica scrupolosamente aderente al motivo della «violazione dei diritti dei minori» o al «pericolo» di un loro violazione, ma una dottrina in cui la società è divisa dalla natura e identificata con un sistema di istruzione e di accompagnamento socio-educativo che è presupposto garantire gli elementi essenziali della crescita dei minori. In questa sentenza, c’è netta separazione, non organica armonia, sinergico equilibrio, fra educazione naturale e educazione sociale. Invece, in questa famiglia, l’educazione è tanto più sociale quanto più è naturale, o meglio, come avrebbe detto Lamberto Borghi, è l’educazione genuina senza ulteriori appellativi. -------------------------------------------------------------------------------- Tra i libri di Antonio Fiscarelli Danilo Dolci Lo stato, il popolo e l’intellettuale (Castelvecchi), La roccia rotola ancora. Sulle tracce di Sisifo (Malanotte), L’ospite indiscreto. La sociozoomania dei pipistrelli all’epoca delle epidemie facili (Porto Seguro) -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI ELISA LALLO: > Perché quanto accaduto alla “famiglia nel bosco” riguarda tutti noi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo legge, psicologia e pedagogia proviene da Comune-info.
Un omaggio alla resistenza palestinese nel cuore verde d’Italia
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- Perugia, capoluogo del “cuore verde” d’Italia, su iniziativa dell’associazione “Umbria della pace”, ha accolto un simbolo vivo della resistenza palestinese e lo ha ospitato in uno dei suoi luoghi non solo più belli ma più emblematici: il giardino dei Giusti del Mondo all’interno dell’antico complesso monumentale San Matteo degli Armeni, dove si trova anche la biblioteca personale appartenuta ad Aldo Capitini che proprio da lì, nel lontano 1961, lanciò la marcia per la pace Perugia-Assisi. Essendo passati più di sessant’anni ed essendo divenuta la marcia Perugia-Assisi più rituale che sostanziale, forse molti si stupirebbero nel leggere le parole del  filosofo della nonviolenza e scoprire che il suo obiettivo era alimentare “idee e iniziative contrarie al capitalismo, al colonialismo, all’imperialismo”, o che “la lotta per la pace deve essere severa contro i mascheramenti dei vari imperialismi, contro le crociate verso un popolo o un altro” come scritto in uno dei suoi editoriali nel periodico “Il potere è di tutti” da lui fondato nel 1964 e consultabile nella sua biblioteca. Luogo migliore per piantare l’olivo della resistenza palestinese, un piccolo olivo scampato alla furia devastatrice israeliana, forse non ce n’era. La targa spiega perché quest’alberello non è dedicato a una singola persona, come tutti gli altri, ma alla difesa di un diritto che si trasforma in azione. Il diritto all’autodeterminazione di un popolo e alla Libertà, quella per cui ogni epoca della storia ha avuto i suoi martiri, tutti, in vario modo, combattenti per la resistenza all’oppressore. Oggi più che mai l’iniziativa dell’Umbria della Pace, accolta e condivisa  dall’amministrazione comunale, risulta importante e insieme coraggiosa. Importante perché consentirà a chiunque andrà a visitare il complesso di San Matteo degli Armeni di vedere che Perugia riconosce il diritto di un popolo oppresso a resistere. Coraggiosa perché la longa manus dell’entità sionista poteva “sporcare” l’iniziativa con la strumentale accusa di antisemitismo, come avvenuto in molteplici altre occasioni. Quindi, veder omaggiare la bandiera palestinese dai numerosi presenti, tra cui l’assessore Croce in rappresentanza del Comune, ha aggiunto senso all’iniziativa e, come si è ricordato durante la cerimonia, la piantumazione di quel piccolo figlio verde della martoriata Palestina, uscito rocambolescamente dalla Striscia di Gaza, non vuole essere solo simbolica testimonianza di solidarietà, ma invito ad agire, ognuno come sa e come può affinché venga fermato il genocidio tuttora in corso e venga stroncato il criminale progetto sionista che avanza da quasi ottant’anni stritolando, nel suo avanzare impunito, anche il diritto internazionale. Cos’avrebbe detto Capitini davanti all’ultimo scempio delle Nazioni Unite dal cui Consiglio di Sicurezza dieci giorni fa è uscita la vergognosa Risoluzione 2803 in piena violazione dei principi della stessa Carta dell’ONU? Siamo certi che avrebbe denunciato la corruzione servile alla legge del più forte e che il suo invito di tanti anni fa “a creare una permanente mobilitazione per controllare la politica estera, la politica militare, la politica scolastica e denunciare errori, colpe, storture, alleanze dei conservatori, degli imperialisti, dei capitalisti…“ si sarebbe fatto ancora più forte ed avrebbe chiamato all’azione, perché c’è una pratica della nonviolenza attiva che può a ben diritto chiamarsi resistenza e non è il chiacchiericcio da salotto. È vero che Aldo Capitini pensava di cambiare il mondo opponendo ai potenti, cioè ai criminali della storia, la forza della nonviolenza come lui la stava costruendo prendendo le mosse dalla resistenza gandhiana,  ma Capitini era anche il cattolico nonviolento che non aveva temuto le rappresaglie fasciste quando nel 1929 aveva definito i Patti Lateranensi  una “merce di scambio” tra Pio XI e il fascismo, e che non aveva accettato il ricatto di Giovanni Gentile di iscriversi al fascismo per non essere licenziato . Tutto questo ci porta a credere, al pari di Gabriele De Veris, il bibliotecario che ci ha mostrato le sue opere, degli organizzatori dell’evento e di tutti gli intervenuti, che il fondatore della marcia Perugia-Assisi avrebbe sostenuto la resistenza palestinese e che il piccolo olivo scampato ai criminali con la stella di David lo avrebbe accolto come simbolo di resistenza e invito a non cedere ai ricatti di una falsa promessa di pace il cui vero volto, ripulito dalle maschere mediatiche, mostra di essere non pace ma pacificazione imposta col ricatto dal colonialismo sionista sostenuto dal suprematismo  occidentale, servile con i potenti e liberticida con chi reclama la libertà. E così, accanto ad alberi piantati in memoria e in omaggio di figure come Maria Montessori, Carlo Urbani, Danilo Dolci, Anna Frank, Gino Strada, Pietro Terracina e tanti altri, compresi artisti che hanno sempre testimoniato il loro impegno per il rispetto dei diritti umani, l’olivetto di Gaza e la sua esplicita targa saranno in ottima compagnia. Il fatto che sia stato casualmente piantato proprio in prossimità della giornata mondiale degli alberi e della giornata che l’Unesco ha dedicato alla tutela dell’olivo come simbolo di resilienza, di identità culturale e come millenaria fonte di nutrimento del genere umano, richiama l’attenzione sulla continua violenza che subisce da sempre anche l’ambiente rurale palestinese dove la distruzione di frutteti e oliveti, l’espianto e il furto degli olivi secolari e l’abbattimento degli olivi più giovani in tutta la Palestina illegalmente occupata, è uno dei reati pressoché quotidiani che il mondo dei potenti, il mondo complice dell’entità sionista, lascia compiere senza vergognarsi della sua connivenza. Ma, come è stato ricordato da uno dei relatori, l’olivo è capace di rigenerarsi, anche dalle proprie ceneri, e neanche il gelo può ucciderne il ceppo che ne è la “madre”, che è il cuore della resistenza dell’olivo, quella che produce i polloni, la vera e propria rinascita che tramanda il DNA dal ceppo madre ai suoi germogli. Il piccolo olivo uscito di contrabbando da Gaza, e forse proveniente dal ceppo dei millenari olivi dei Getsemani, è quindi simbolo di rigenerazione ed è lì a dire che “la resistenza non verrà schiacciata neanche dai carrarmati”. Una delle relatrici ha ricordato la frase scritta su un muro di Nusseirat, ora distrutto dalla furia israeliana, che riportava questo verso di un poeta greco: “Hanno provato a seppellirci. Non sapevano che eravamo semi” e questo lo si può leggere anche nei polloni che germogliano dai ceppi degli olivi palestinesi bruciati o abbattuti. Non serve molto altro per spiegare che l’olivo rappresenta la capacità di resistere al male e, in ultima analisi, il percorso verso la pace – non la pacificazione imposta dall’oppressore – che è segnato dalla bussola della resistenza. Mentre chiudiamo quest’articolo ci arriva il comunicato di un’altra realtà umbra, la Fondazione Perugi-Assisi la quale invita a partecipare alla manifestazione del 29 novembre, giornata internazionale di solidarietà col popolo palestinese e definisce l’ignobile Risoluzione 2803 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU “un nuovo attentato alla pace e ai diritti umani…” e “un piano di guerra e non di pace” dandone ampia e indiscutibile documentazione. Dal “cuore verde” d’Italia per il momento è tutto. -------------------------------------------------------------------------------- Inviato anche a Pressenza -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Un omaggio alla resistenza palestinese nel cuore verde d’Italia proviene da Comune-info.
Il mondo di Castel Volturno
-------------------------------------------------------------------------------- Un laboratorio presso la Casa del bambino, “centro educativo che costruisce la comunità nel territorio”, promosso dall’associazione Black&White dei missionari a Castel Volturno -------------------------------------------------------------------------------- Il treno regionale con provenienza Napoli Centrale e diretto a Roma Termini arriva puntuale nella stazione di Villa Literno. Non ricordavo che, il 25 agosto del 1989, in questa cittadina fu ucciso Jerry Essan Masslo, richiedente asilo e raccoglitore di pomodori. La sera prima Jerry, fuggito dall’aparteid in Sudafrica, dormiva con altri 28 migranti in un capannone. Aveva denunciato le condizioni di sfruttamento di cui erano oggetto i lavoratori migranti della zona. Un gruppo di quattro persone, coi volti coperti, fece irruzione con armi e spranghe esigendo i salari che erano stati distribuiti. Il rifiuto di sottostare alla domanda gli costò la vita. Poco dopo l’assassinio ebbe luogo a Roma la prima grande manifestazione antirazzista in Italia con la partecipazione di circa 200 mila persone. Per Jerry furono tributati i funerali di Stato perché più volte era stato uccisa la sua dignità. A Roma Termini si annuncia invece che il treno Intercity con destinazione Torino Porta Nuova arriverà in ritardo. A Castel Volturno, ospite per qualche giorno dei compagni di viaggio missionari comboniani, fu il 18 settembre del 2008 che vennero attaccati e uccisi sei migranti e ferito gravemente un settimo. Tutti di origine dell’Africa subsahariana e in particolare del Ghana, componevano la ricca varietà di migranti che caratterizza a tutt’oggi il paesaggio del tutto particolare di Castel Volturno. Il giorno dopo il massacro circa duecento migranti organizzano un corteo di solidarietà e bloccano per alcune ore la via Domiziana. Le indagini, facilitate dalla testimonianza dell’unico superstite, condussero all’arresto, al processo e, per la prima volta nel Paese, ad una condanna definitiva per una strage di camorra che riconosce l’aggravante di razzismo. Nel luogo stesso della sparatoria si trova come monumento due semplici ferri intrecciati a simbolo delle storie migranti che si “incrociano” ancora oggi. Sono otto le zone nelle quali è stato suddiviso Castel Volturno e colpisce, allo sguardo del viaggiatore di pochi giorni, la straordinaria differenza tra di esse. La parte turistica, abbiente e caratterizzata da molto cemento in poco spazio a quelle dove il degrado ambientale facilita anche quello umano. Centinaia di case abbandonate, fatiscenti, vuote o abitate, saltuariamente o con regolarità, da migranti, richiedenti asilo o stranieri senza un’identità affermata. Alcune case sono chiamate connection houses e diventano luoghi di incontro, scambio, convivialità e piacere prezzolato per chi cerca di ricostruire il pezzo d’Africa abbandonato per cercare fortuna altrove. C’è la violenza dello sfruttamento, l’economia sommersa del lavoro sottopagato e la mano non troppo invisibile della camorra. In alcune strade di periferia si possono osservare signore offerte come mercanzia per clienti occasionali. Il treno è annunciato in crescente ritardo. Non ricordavo affatto che la grande Miriam Makeba, militante e cantante originaria del Suadafrica era morta proprio a Castel Volturno. Ormai provata da un salute malferma si dedicò a un giro mondiale di addio allo spettacolo, cantando in tutti i Paesi che aveva visitato nella sua lunga carriera. Makeba morì la notte del 9 novembre del 2008, lo stesso anno e luogo dove erano stati uccisi i migranti di cui sopra. Fu a causa di una crisi cardiaca presso la clinica Pineta Grande di Castel Volturno durante il concerto che aveva confermato malgrado i forti dolori al petto che l’avevano accompagnata. Nel luogo del decesso è stata posta una targa metallica col suo nome e il titolo col quale era conosciuta e amata. Mama Africa e Miraiam Makeba si confondono nello stesso volto con la forma dell’Africa che arriva per tentare di liberare il continente che l’ha resa schiava. Intanto si informano i signori viaggiatori che l’Intercity arriverà in ritardo a destinazione. -------------------------------------------------------------------------------- [Articolo pubblicato su I blog del Fatto Quotidiano, qui con l’autorizzazione dell’autore] -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il mondo di Castel Volturno proviene da Comune-info.
Il nostro rifiuto della chiamata alle armi
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- Negli stessi giorni in cui il parlamento europeo votava prima (26 novembre) per respingere le modifiche al piano di riarmo dei paesi UE, ammettendo in esso anche le cosiddette “armi controverse”, ossia le bombe all’’uranio impoverito, al fosforo bianco, i killer robot ed altri simili ordigni di sterminio e dopo (27 novembre), a larghissima maggioranza, per respingere il “piano di pace” di Trump perché “la pace non può essere raggiunta cedendo all’aggressore, bensì fornendo un sostegno risoluto e costante all’Ucraina e dissuadendo in maniera adeguata la Russia dal ripetere tale aggressione in futuro”, in quegli stessi giorni e sugli stessi temi Edgar Morin – 104 anni lo scorso luglio – scriveva alcune note, pubblicate in Italia su il manifesto e ytali. (28 novembre). Meritano essere citate, per segnare la pericolosa distanza tra chi ha lo sguardo lungo, lucido e libero e gli attuali decisori europei, insieme a gran parte dei media. “È con stupore” – scrive Morin – “che una parte degli umani considera il corso catastrofico degli eventi, mentre un’altra parte vi contribuisce con incoscienza. (…) La visione unilaterale dei media ignora che l’Ucraina è stata una posta in gioco fra l’impero americano e l’impero russo. Prima di Trump, gli Usa avevano satellizzato economicamente, tecnologicamente e militarmente l’Ucraina, la quale sarebbe stata una pistola puntata alla frontiera russa, se fosse passata sotto il controllo della Nato. I nostri media non soltanto sottolineano l’imperialismo russo, ma immaginano che questo potrebbe invadere l’Europa, laddove è peraltro incapace di annettere l’Ucraina in tre anni di guerra. (…) Invece che spingere i due nemici a negoziare, e a stabilire un compromesso sulle basi che ho appena menzionato [qui fa riferimento alle proposte del libro “Di guerra in guerra” del 2023], gli europei contribuiscono alla escalation. (…) Infine noi dobbiamo cercare di pensare la policrisi dell’umanità nelle sue complessità e nei suoi orrori, e dovremmo agire nelle incertezze, ma con l’intenzione di salvare l’umanità dalla autodistruzione”. Invece, nei giorni precedenti (21 novembre) il Capo di Stato maggiore francese, generale Fabien Mandon, parlando all’assemblea del sindaci francesi (merito dei militari è il parlare chiaro) aveva detto che devono preparare le rispettive città a “perdere i figli in guerra” ed anche “a soffrire economicamente perché la priorità deve essere la produzione militare”: solo così ci si prepara al prossimo conflitto armato con la Russia, che il documento strategico nazionale francese prevede tra il 2027 e il 2030. Per questo una settimana dopo (27 novembre) Macron ha annunciato che dalla prossima estate partirà per i giovani francesi il Servizio militare di leva, inizialmente su base volontaria, che sostituisce il Servizio Universale Nazionale che poteva essere anche civile. Per non essere da meno, anche il ministro italiano della difesa Crosetto ha annunciato il disegno di legge per istituire, con un ossimoro, una “leva militare volontaria” anche nel nostro paese, similmente a quanto sta avvenendo in Francia e in Germania (dove è già previsto che possa diventare obbligatoria), per reclutare almeno altri 10.000 giovani italiani come forza di riserva, in aggiunta ai 170.000 militari già nelle Forze Armate. Naturalmente, come evidenziato dalla recente ricerca del Censis, gli italiani sono fortemente contrari sia alla prospettiva di coinvolgimento bellico del nostro Paese, per questo nessuno evoca il ripristino tout court della leva militare obbligatoria, al momento sospesa, che non sarebbe pagante in termini di consenso elettorale. Però è evidente che, in tutta Europa, la direzione è quella di reclutare nuova massa per la guerra, ossia “carne da cannone” per “l’attacco preventivo” alla Russia che sta preparando la Nato, come esplicitato dal generale Cavo Dragone, presidente del Comitato militare dell’Alleanza atlantica (1 dicembre). Al quale bisogna rispondere con la storica formula: “Non un un soldo, né un soldato per la guerra”. Perché questo non sia solo uno slogan da cantare nei cortei pacifisti ma diventi azione politica, e non potendo dichiararsi formalmente obiettori di coscienza, è necessario sottoscrivere personalmente la dichiarazione di obiezione alla guerra, promossa dalla Campagna del Movimento Nonviolento che – mentre nella dimensione internazionale sostiene obiettori di coscienza e disertori di tutti i fronti delle guerre in corso – 1.500.000 ucraini sono considerati “ricercati” dai centri di reclutamento – nella dimensione interna promuove il rifiuto preventivo e individuale di partecipare a qualsiasi forma di preparazione della guerra, a cominciare proprio dal rifiuto della chiamata alle armi. È una campagna che risponde al compito che ci indica Morin per “salvare l’umanità dall’autodistruzione”, ma anche alle indicazioni di un altro saggio del ‘900, Norberto Bobbio, difronte alla precedente corsa agli armamenti: “Saremo i più forti se saremo uniti, se saremo solidali almeno su un punto essenziale: non vi è conflitto che non possa essere risolto con le armi della ragione, specie in questo mondo in cui a causa dell’interdipendenza di tutte le questioni internazionali, la violenza chiama violenza in una catena senza fine. Saremo i più forti se riusciremo ad ubbidire alla voce che nasce dal profondo del nostro animo e che ci suggerisce questo nuovo comandamento: Disarmati di tutto il mondo, uniamoci” (Il terzo assente, 1989). Per difenderci dalla guerra, anziché nella guerra. -------------------------------------------------------------------------------- [Articolo pubblicato su I blog del Fatto Quotidiano e su asqualepugliese.wordpress.com, qui con l’autorizzazione dell’autore] -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il nostro rifiuto della chiamata alle armi proviene da Comune-info.
Perché quanto accaduto alla “famiglia nel bosco” riguarda tutti noi
SU AUTODETERMINAZIONE, COLONIALISMO E FEMMINILE. CI SONO POCHE CERTEZZE MA TANTI STRAORDINARI SPUNTI DI RIFLESSIONE IN QUESTO INTERVENTO DI ELISA LELLO Cascina Santa Brera di San Giuliano Milanese: qui da diversi anni la cooperativa Praticare il futuro promuove non singole giornate ma veri percorsi per le scuole pubbliche e campi vacanza di educazione ambientale e alla cittadinanza globale -------------------------------------------------------------------------------- Molti, a partire dalla vicenda che ha coinvolto la famiglia nei boschi di Palmoli, si sono concentrati sui dettagli emersi dalle carte processuali. La mia intenzione è invece di sfumarli per collocare la questione in un quadro più ampio, che ci aiuti a capire come mai questi fatti così tanto parlano di noi tutte/i da aver suscitato reazioni così forti e diffuse. Non pretendo certo di fornire interpretazioni esaustive, ma proverò a fare emergere qualcosa di cui, mi pare, sia stato detto assai poco finora. Da una parte un’amplissima indignazione popolare, sfociata in alcune petizioni e nell’indizione di una manifestazione di protesta, contro una decisione avvertita come sproporzionata, violenta, di grave impatto sugli equilibri familiari e soprattutto su quei bambini. Dall’altra una levata di scudi che ha visto come protagoniste diverse componenti della sinistra, per una volta in accordo fra loro, e, come invece accade regolarmente, in netta contrapposizione con la reazione popolare. I temi sollevati da una parte della sinistra sono quelli della privatizzazione dell’infanzia, del rifiuto “neoliberale” della scuola pubblica, dell’individualismo egoista, della sfiducia (immaginata come patologica) verso le istituzioni, dei genitori che pretendono di disporre dei bambini come fossero loro proprietà; fino agli immancabili dileggi contro le fantasie a sfondo New Age che corredano la vicenda di cronaca. Io credo, invece, che altri siano i processi di cambiamento, che coinvolgono tutti noi, di cui percepiamo questa vicenda come l’epitome; ed è questo, forse, a rendercene gli esiti così visceralmente indigeribili, intollerabili. Credo che in molti, in questa vicenda, abbiano colto l’ennesimo segnale di margini che si ripiegano su se stessi per restringere ancora di più le possibilità di autodeterminarci, di vivere in un qualche modo che si discosti dalla norma, di scartare di lato; per essere invece incanalati dentro quella strada segnata che più si rivela assurda, invivibile, asfissiante, più pretende di imporsi come unica opzione possibile. Quanto più facile era, anche solo venti o trent’anni fa, viaggiare in autostop, o piantare una o più tende e vivere momenti di convivialità non mercificati godendosi liberamente il mare, o i boschi e la montagna? Ricordo racconti epici di un intero paese che si spostava in quella che oggi è una celebre spiaggia per turisti, in Sardegna, per settimane, con tanto di pecore (vive) al seguito per i banchetti serali. Ora quasi non ci stupiamo più che qualcuno ci mandi via mentre siamo seduti a due metri dal bagnasciuga a bere una birra con un amico. Qualcuno forse arriva anche a pensare che in fondo sia meglio così, “per la nostra sicurezza”. Quanto era più semplice e lecito cercare interpretazioni dietro alla malattia che non fossero costrette nella gabbia dell’insensatezza biochimica o genetica, e quindi praticare percorsi di guarigione dove il corpo non veniva scisso dal vissuto individuale e collettivo? Quei percorsi, insomma, che oggi in blocco e immediatamente vengono screditati come ignoranza e creduloneria, e guai a chi si rende colpevole di chiedersi se magari c’è qualcosa che le nostre lenti biomediche non ci consentono di vedere. Perché noi – noi occidentali, razionali, scientifici… – e solo noi, tutto sappiamo (e si vedono i risultati… Ma su questo, torno in chiusura). Ma di questi tempi assai recenti sono molte le storie che ci parlano di veri e propri attacchi ad ogni genere di autonomia, di un restringersi incessante dei margini di scelta su come e dove vivere, coltivare, lavorare, partorire, curare, educare, apprendere1. Chi vive nelle “aree rurali” o interne sa quanto è diventato difficile decidere di rimanervi, stretti tra desertificazione dei servizi, trasformazione dei territori – ancor più se montani – in parchi divertimento per turisti (magari anche naturalistici), o loro conversione in zone di sacrificio green, per fare posto a mega “parchi” eolici o fotovoltaici. Ma poi, basta pensare a tutti i contadini e allevatori che ancora si ostinano a produrre cibo in maniera davvero ecologica; eppure ogni giorno solerti funzionari pretendono di applicare alle loro aziende, spesso di dimensioni familiari, le stesse regole che valgono per l’agroindustria, con il risultato di sotterrarli di multe e richieste burocratiche inconcepibili, obbligandoli così ad entrare in percorsi di indebitamento necessari perché tutto sia in regola: e che condurranno assai efficacemente all’obiettivo della morte dell’agricoltura contadina, e con essa di ogni possibilità residua di autonomia e autodeterminazione (a tutto ed esclusivo vantaggio delle multinazionali dell’agrochimica, della manipolazione biotecnologica e del digitale), proprio nell’ambito che prima di ogni altro risponde ad un nostro bisogno primario2. La rabbia verso istituzioni che usano il pugno di ferro per punire una famiglia che vive fuori dagli schemi ordinari, pure senza segni di illegalità, disagio, violenza o infelicità, e anzi con evidenti segnali di attenzione, di tempo restituito alle proprie scelte, di ecologia reale; quando quelle stesse istituzioni non vedono, o fingono di non vedere, il disagio delle infanzie rubate dagli schermi, o il dolore dei bambini e delle bambine che vivono in famiglie la cui serenità è stata portata via dalle condizioni precarie, oppresse, del lavoro dei genitori: questo, credo, un primo punto importante, alla base, giustamente, della reazione popolare. La sensazione sempre più chiara di un restringimento delle nostre capacità immaginative ed esistenziali, a cui fa seguito la repressione giudiziaria; la consapevolezza che quella decisione estrema sia un monito per tutti noi, un avvertimento che ci ricorda come gli spazi di libertà e autodeterminazione siano sempre più ristretti, e che ogni deviazione non verrà più tollerata. Ma andrà pur bene la libertà individuale – dicono molti, a sinistra – però i figli non devono subire le decisioni dei genitori, perché non sono loro proprietà, e qui saremmo di fronte a un delirio di onnipotenza dei genitori, che pensano di poter disporre dei figli a proprio piacimento. Eppure, tutti i genitori “impongono” le proprie scelte educative ai figli, sia quando seguono, più o meno, la corrente, sia quando se ne discostano. Com’è giusto che sia. La domanda che dovremmo porci, piuttosto, è per quale ragione solo ai genitori che si assumono il rischio di scelte controcorrente chiediamo di giustificarle. Le scelte che non contraddicono la narrazione dominante, anche quando visibilmente inadeguate, discutibili, o anche pericolose, non sono oggetto di giudizio: siccome si conformano, è come se questo bastasse a giustificarle3. Quanto, poi, alla presunta “privatizzazione dell’infanzia” e all’altrettanto presunta onnipotenza dei genitori, mi pare che siamo di fronte piuttosto al contrario. Da tempo assistiamo a narrazioni giornalistiche che concorrono a dipingere genitori inadeguati e incapaci di assolvere il proprio ruolo. Madri e padri dipinti nientemeno che come “la rovina della scuola”, che offendono insegnanti ree/i di aver dato un brutto voto al pargolo, o che insultano allenatori o arbitri colpevoli di non aver riconosciuto l’incredibile talento del piccolo calciatore. Non dico che simili episodi non possano accadere: dico, però, che chiunque abbia figli sa quanto la realtà quotidiana sia lontana da – e opposta a – tale narrazione. Eppure sono sempre fatti come questi ad attirare l’attenzione di giornali e Tv, contribuendo a consolidare una narrazione unidirezionale. Narrazione che però, guarda caso, non è per nulla innocente: perché si presta invece a delegittimare la figura dei genitori, e per questa via a minare il loro ruolo di ultimo, per quanto fragile, baluardo rispetto alla possibilità da parte dello Stato – e quindi oggi, sempre più, del mercato – di disporre di bambini e ragazzi, su un’ampia varietà di questioni sanitarie, educative etc. Per esempio, prendendo un tema massimamente tabù di cui pure sarebbe ben ora di pretendere di poter discutere laicamente (e scientificamente…): ricordate il precedente giuridico della recente sentenza che ha stabilito la possibilità per i minori almeno a partire dai 16 anni di vaccinarsi contro il Covid indipendentemente dal consenso dei genitori4 (per non parlare delle minacce di sottrarre la patria potestà ai genitori con qualche dubbio sul calendario vaccinale pediatrico introdotto da Lorenzin…)? Come suona oggi, a fronte delle evidenze scientifiche finalmente davanti agli occhi di tutte/i sull’opportunità e sul bilancio tra costi e benefici di quelle profilassi per bambini/e e ragazzi/e? Ma andiamo avanti. In molti, sempre a sinistra, hanno accusato la famiglia in questione di essersi rifugiata nell’isolazionismo, senza che i bambini potessero entrare in contatto con altri modi di vivere, negando loro, quindi, la possibilità di “scegliere”. Non mi soffermo sull’ovvio, e cioè che si può socializzare anche al di fuori della scuola statale (come in effetti era il caso), o sul fatto che percorsi formativi parentali, così come quelli libertari, alternativi alla scuola statale, sono realtà consolidate e perfettamente riconosciute sul piano normativo, etc. Provo invece ad avventurarmi su terreni più difficili, quasi per nulla battuti finora; su cui non ho risposte, eppure si dovrà pure iniziare a parlarne. Certo, sarebbe bello poter conciliare: poter crescere i figli facendo l’orto insieme, e intanto mandarli alla scuola pubblica, così che possano entrare in contatto con diversi modi di stare al mondo: ma è davvero possibile? È possibile appassionarli alla cura di un orto familiare, o insegnare loro ad allevare le api e smielare, nel momento in cui si mette loro in mano uno smartphone? Temo che stia diventando sempre più difficile, e non è certo un caso: i neuroscienziati della Silicon Valley sono al lavoro precisamente per fare sì che questo non possa avvenire; per fare sì che, nel momento in cui hanno uno smartphone in mano, la vita là fuori diventi una noiosa dilazione del momento in cui si potrà finalmente tornare a scrollare video, reels e a controllare notifiche5. È possibile crescere bimbi felici di assaporare i fagiolini appena colti dall’orto, quando entrano in contatto col Mac? O quando andando a scuola si sentiranno diversi, e magari esclusi, perché porteranno nello zaino il frutto o la crostata al posto della merendina confezionata, e non conosceranno l’influencer del momento da millemila visualizzazioni? E questo non, ovviamente, perché il BigMac o lo scrolling compulsivo abbiano qualcosa di oggettivamente migliore rispetto a imparare ad allevare le api, suonare uno strumento o annoiarsi ascoltando il vento tra gli alberi. Ma vincono, perché sono più facili, palatabili, passivizzanti, spossessanti. A proposito di quest’ultimo aggettivo, “spossessante”, dai richiami chiaramente e volutamente illichiani: Christian Raimo nei giorni scorsi ha tracciato una linea di continuità che parte da Ivan Illich per arrivare addirittura a Thatcher e Reagan, prima di centrare proprio il focolare della famiglia anglo-australiana nei boschi abruzzesi; il tema è quello della delegittimazione del pubblico da cui discenderebbe la natura neoliberista di queste “fughe nel privato”. Ebbene: anziché continuare ad avvolgerci dentro il brandello della scuola pubblica come in una (logora) copertina di Linus, non sarebbe più utile, per i bambini e le bambine che la frequentano, vedere come abbiamo lasciato che mercato e digitale la sfigurassero? Non sarebbe più utile recuperare proprio la ricchissima eredità di Illich, che avrebbe in questa fase storica trovato “l’ora della sua leggibilità”6, per capire la potenza devastante, colonizzatrice, uniformante di certe “tecnologie che spossessano” acriticamente assurte a insostituibili strumenti didattici? Leggendo i molti commenti indignati sui diritti presuntamente lesi di questi bambini, ho spesso pensato che forse sono piuttosto i figli come i miei – quelli delle famiglie che, ognuna a modo suo, hanno cercato di crescerli con idee, valori e principi diversi da quelli dominanti senza tuttavia rinunciare a mandarli (quasi sempre) alla scuola pubblica – quelli che hanno davvero sofferto, ben più dei bambini della vicenda abruzzese. Perché sono figli presi in mezzo, tra famiglie che propongono valori ed esperienze (nel nostro caso, piuttosto vicini a quelli della famiglia diventata famosa: l’orto, i Gruppi di Acquisto Solidali, le escursioni, l’autoproduzione del cibo, le tendate, i falò, lo scoutismo, la grande cura per la lettura e la manualità…) e messaggi che arrivano dai media, dagli schermi ma anche dalla scuola, che vanno in direzione spesso opposta e inconciliabile7. Così che il peso di tutta l’inconciliabilità che si è aperta fra questi mondi si è scaricato proprio sulle esili spalle di bambini e ragazzi, e sulle famiglie. Mentre i media parlano di genitori inadeguati, io parlerei piuttosto di genitori lasciati soli in trincea a gestire l’ingestibile quotidianità della prima generazione di piccoli umani dotati di schermi onnipresenti; e dell’assurdo tecno-ottimismo imperante, che impedisce di affrontare pubblicamente la questione, contribuendo così alla solitudine dei genitori8. Parlerei della fatica immane a fare funzionare quelle maledettissime app che dovrebbero teoricamente consentire qualche possibilità di controllo e limitazione, sui tempi e sui contenuti, della navigazione su Internet degli smartphone dei ragazzi; e che invece costituiscono il principale fattore di inquinamento dei rapporti familiari. Parlerei dei conflitti quotidiani nati dalla frustrazione per tutto ciò che prima di rassegnarci a consegnare ai ragazzi uno smartphone (rassegnazione peraltro resa necessaria proprio dalla scelta di mandarli alla scuola pubblica) era possibile – leggere insieme o vederli leggere libri per ore, costruire cose con le mani, chiacchierare, camminare meravigliandosi di una certa luce che filtra tra gli alberi, annoiarsi… – e ora sempre meno, con la loro attenzione e il loro tempo vampirizzati dagli schermi. E volendo porre dei limiti, come pure è necessario fare, il rischio è quello di far aumentare il valore, ai loro occhi, delle tecnologie e del tempo ad esse dedicato, fino a far assurgere a supremo desiderio il sogno misero di un accesso illimitato. E quindi è giusto proteggersi, arrivando anche a pensare a forme di isolazionismo, che poi non è solitamente individualistico o solitario, ma in comunità alternative? Non lo so, non ho risposte. So però che dove altri sono certi di vedere solo un ripiegarsi egoistico e neoliberale io vedo piuttosto la ricerca di coltivare possibilità altre di vita che devono essere protette proprio per essere possibili, e poter così diventare esempi concreti, prefigurativi, e camminabili da altre/i. Infine, ultima grande accusa che quella parte della sinistra rivolge alla famiglia in questione e a chi ne prende le difese: l’antistatalismo. Come se gli apparati giudiziari e repressivi dello Stato fossero sempre un bene in sé; come se la diffidenza fosse diventata sinonimo di patologia, anziché di sana prudenza. Pensare che, con buona pace di chi vagheggia su Stati contemporanei intrinsecamente buoni, e forse addirittura socialisti, proprio Marx parlava dello Stato come comitato d’affari della borghesia: e non so cos’altro dovesse accadere, in questi ultimi 170 anni, per fare di quella diagnosi una delle più azzeccate, confermate e arricchite di sensi e sfumature dal corso degli eventi. Piuttosto, il punto che mi preme, in chiusura, sottolineare, è quello del colonialismo, che del resto è strettamente legato all’affermazione degli Stati moderni. La sottrazione dei bambini alle famiglie, per farli educare secondo i canoni della cultura dominante, è in effetti una pratica tipica del colonialismo9. Però, si obietterà, qui non siamo in presenza di culture altre, di nativi assoggettati alla dominazione coloniale da parte dell’Occidente. Invece, credo sarebbe ora di rovesciare precisamente questo ragionamento, per iniziare a utilizzare gli strumenti che la letteratura decoloniale ha elaborato per utilizzarli anche “a casa nostra”10. Per utilizzarli anche nella stessa Europa, che del resto è stata il primo continente oggetto di violenza coloniale, nella duplice forma di genocidio ed epistemicidio, con l’avvento della modernità industriale e capitalista e i suoi apparati di dominio, conoscenza e giustificazione. Mi sembra, anzi, che proprio in questa ostinazione a usare le cautele decoloniali solo in riferimento a culture altre, lontane, permanga uno sguardo coloniale: perché “loro”, in fondo, possono essere giustificati se si ostinano a difendere la legittimità di metodi di cura, epistemologie ed ontologie differenti da quelli ritenuti superiori, e anzi validi in via esclusiva, dalla cultura occidentale; perché loro credono, mica sanno. Ma noi, che invece sappiamo per certo che il mondo è solo quello spiegato dalla nostra scienza positivista, no! Quindi, qui in Occidente, nessuna deviazione può essere plausibile, né giustificata… E invece, quanto colonialismo c’è nello sguardo egemone che dà per scontato che solo il modo di vivere civilizzato, urbano, industriale, tecnoscientifico sia il metro di paragone che ci conferisce il diritto insindacabile di certificare l’arretratezza (il conservatorismo, il populismo…) degli abitanti rurali? Quanto colonialismo c’è nello screditare l’ingenuità insita nel preteso “idillio arcadico”, addirittura associandolo necessariamente a cupe simpatie reazionarie/naziste? O nella rozzezza quasi animalesca con cui viene descritta/o chi ancora mantiene – nell’attaccamento alla casa familiare, alla terra, ai propri animali, alla parola data11 – qualche traccia di fedeltà alla cultura preindustriale? E quanto nell’arroganza di chi dà per scontato che metodi di cura diversi dalla medicina biochimica – a prescindere dalla loro diversità, e in alcuni casi dalla storia millenaria che li connota – siano riducibili a ignoranza, superstizione, irrazionalismo? Ma sotto questa storia scorre qualcosa di antico, molto antico; che ciclicamente, carsicamente, riaffiora in superficie. A questo proposito, Paolo Mottana ha espresso preoccupazione, su un testo pubblicato proprio qui su Comune – Qualche riflessione sull’homeschooling – a proposito della nostra “famiglia nei boschi”, per il pericoloso affermarsi di un tratto del femminile legato alla vituperata “esaltazione acritica” della natura, a metodi naturali di cura, fino a comprendere ideologie vagamente “spiritualiste ed esoteriche”. Nel rilevare la centralità dell’elemento “femminile”, credo abbia colto un aspetto cruciale della questione; tuttavia, la mia valutazione è diametralmente opposta: dove Mottana vi legge qualcosa da temere in ragione della sua pericolosità, io scorgo al contrario l’orizzonte a cui guardare per cercare possibili vie di uscita. In effetti, l’associazione tra il principio femminile e l’elemento boschivo, la conoscenza delle erbe e dei metodi di cura naturali, risale molto indietro nella storia della cultura occidentale. Tra i molti che ne trattano mi riferirò, per solidità della documentazione e delle interpretazioni storiche, alla traccia proposta da Giorgio Galli, che in un bellissimo libro ricostruisce la storia di un conflitto che accompagna, appunto, carsicamente, la storia dell’Occidente fin dalle sue origini, tra culture caratterizzate da un’impronta a prevalenza femminile o maschile: senza, per questo, farne in alcun modo una questione di rigida distinzione individuale di genere. Già nella Grecia classica, Galli sottolinea l’insistenza, nel teatro (una delle istituzioni che segnano e contribuiscono a consolidare e legittimare, nella sua lettura, la vittoria della cultura maschile sulle ribellioni femminili), sul ruolo della polis come misura della condizione civilizzata (dove il polites è solo maschio), in contrapposizione all’agros, contrassegnato dalla mancanza di misura (ovviamente secondo il punto di vista della cultura vincitrice) e dall’associazione al femminile e ai boschi, dove appunto avevano luogo i riti dionisiaci e la ribellione femminile12. L’associazione tra femminile e boschivo, rurale, pagus, come contrapposto all’urbano, riemerge nella storia del Cristianesimo, dove i rituali a forte presenza femminile, in cui riecheggiava una controcultura più antica dai tratti libertari e anti-autoritari, pacifici, erotici, estatici, collegati a saperi e medicine tradizionali e a forme di organizzazione sociale matrilineare, vengono demonizzati e proibiti, a partire dal III secolo, nelle città, ma molto meno nelle campagne. È qui, lontano dai centri abitati, che quella cultura sotterranea viene tollerata dalle gerarchie ecclesiastiche e continua a sopravvivere almeno fino alle soglie della modernità, quando verrà violentemente repressa tramite l’Inquisizione13. Nel fuoco dei roghi, insieme alle “streghe”, sono andati in fumo saperi radicati in un’epistemologia che negava la distinzione tra spirito e materia: la loro cancellazione violenta è stata necessaria per l’affermarsi della scienza moderna, che affonda le radici in un’epistemologia totalmente differente – basata invece su una natura “morta”, mero ordigno meccanico-matematico, materia inerte da quantificare, controllare, depredare e sfruttare – senza la quale la modernità industriale e coloniale sarebbe impensabile14. Ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi, allora, può forse essere letto in modo differente. Il momento di culmine della vittoria globale di quella cultura “maschile” (ripeto, a scanso di equivoci, che stiamo parlando di culture improntate a un principio, in cui si possono riconoscere persone al di là delle distinzioni di genere), urbana, tecnoscientifica, è proprio il momento in cui si svela la sua distruttività; ancor più quando non ammette più alcun riequilibrio, alcuna mitigazione, dalla sua controparte “naturale”, ormai ridotta a stati infantili, pre-razionali dell’umanità; e a forme di conoscenza inferiori, non scientifiche quindi risibili. È il dispiegarsi incontrastato e colonizzante di quella cultura a condurre alla devastazione ecologica, nella forma di un riduzionismo tecnoscientifico15 che apre la porta ad ogni hybris di manipolazione del vivente; e, indissolubilmente, a dare per scontato che tutto ciò che è tecnicamente possibile debba per ciò stesso essere perseguito, senza nemmeno darci il tempo per chiederci se sia in effetti desiderabile – nei campi della razionalizzazione e dell’estrazione di dati, della digitalizzazione, della sorveglianza “per la nostra sicurezza”, del dominio sulla natura e sull’umanità reso inedito nella sua portata dalla tecnoscienza, fino ai deliri del transumanesimo. Eppure, è quella stessa vittoria assoluta che ci ha propinato esistenze insopportabili perché deprivate di senso, e deprivate di senso proprio perché obbligate ad arrendersi all’unica verità “razionale” concessa, che è quella di una disconnessione senza appello tra microcosmo e macrocosmo, tra i nostri destini individuali e un Cosmo diventato muto, ridotto a cieca meccanica da sfruttare per accumulare valore; in cui sono state cancellate le corrispondenze che le culture antiche davano per scontate tra ciò che accade qui e ciò che avviene altrove: quelle corrispondenze da cui potevano trarre senso i concetti di limite e proporzionalità. È forse proprio da qui che occorre partire per capire come mai questi concetti sono diventati impronunciabili proprio nel momento in cui ne avremmo massimamente bisogno16. Così che chiunque cerchi di recuperare saperi e sguardi un po’ più ampi rispetto al ristrettissimo angolo visuale autorizzato viene invariabilmente tacciato di ignoranza e ricacciato a forza nel calderone infamante del “New Age” spiritualista ed esoterico “un tanto al chilo”17. E questo avviene dentro società che si pretendono talmente razionali da essersi liberate dalla magia, senza accorgersi di essere loro stesse quelle davvero stregate, visto che il vuoto lasciato dalla magia è stato preso, molto più che dalla ragione, dall’incantamento del capitale, dalla fantasmagoria della merce18. Nel culmine del trionfo di quella cultura “maschile”, urbana, industriale, imperialista – che è anche momento del disvelamento del suo punto di arrivo, che non può che coincidere con riarmo, ritorno alla leva obbligatoria e lugubri marce di guerra – riemergono rigurgiti e resistenze, da parte di quella quota insospettabile di umanità, di certo non leggibile in termini di classe, restia a farsi carne da macello capitalista, recalcitrante a ridursi ad addestratrice di intelligenze artificiali, indisponibile a diventare del tutto dipendente, per ogni necessità vitale (coltivare, mangiare, orientarsi, riprodursi, socializzare, flirtare, pensare, scrivere…), da macchine fuori da ogni nostra possibilità di controllo; nonché perplessa rispetto a quelle proposte teoriche che arrivano a negare l’esistenza di una natura che non sia già fin dall’inizio ibridata con esse19. Non è un caso (né un pericolo; questo sta semmai nella sempiterna paura del femminile) che in queste resistenze – individuali, comunitarie e territoriali – riecheggino e riaffiorino il femminile, il naturale, la tensione a tornare verso forme di sussistenza materiale e a reimpadronirsi di alcune almeno fra le competenze ad essa necessarie; la critica alla delega, alla digitalizzazione e alle tecnologie spossessanti; il bisogno di recuperare conoscenze necessarie per gestire collettivamente la salute in modo più autonomo e consonante con la ciclicità della vita; e la ricerca di vie e strumenti anche “eretici” per recuperare senso e connessione. Insieme alla consapevolezza che, se vogliamo trovare una via di uscita dalla crisi ecologica, sociale, bellica e di senso che attraversiamo, non possiamo guardare agli alfieri della cultura che ci ha condotti fino a questo punto, bensì aprirci verso altri mondi e altri modi di stare al mondo: e non per riaffermare ancora una volta la nostra insostenibile superiorità, bensì per farci aiutare a ricordare ciò di cui la modernità industriale ci ha mutilati. Senza però riuscire – non del tutto, per fortuna – a sopirne la memoria. (con il cuore rivolto a quella famiglia; e insieme a tutte/i coloro che, come sanno sentono e possono, recalcitrano e disertano) -------------------------------------------------------------------------------- PS ringrazio il caro Luigi Balsamini per la rilettura e gli utilissimi commenti. Grazie anche ad altri cari amici ed amiche per i confronti da cui sono nati molti degli spunti dietro a queste note. -------------------------------------------------------------------------------- Note 1 Solo nel darci la morte pare che siamo rimasti liberi di autodeterminarci. Il che, già di per sé, dovrebbe indurci a qualche dubbio. I sospetti poi si infittiscono quando questa pretesa “autodeterminazione” collima con gli esiti e gli interessi di questa fase del capitalismo; ma si veda Wolf Bukowski, Così fan tutte a Salò, parte II. Imporre il piacere, somministrare la morte, reperibile qui. 2 Sul tema, mi limito a rinviare a L’Atelier Paysan, Liberare la terra dalle macchine. Manifesto per un’autonomia contadinaealimentare, Libreria Editrice Fiorentina, 2024; sulle conseguenze dei nuovi OGM, rimando invece a Stefano Mori e Francesco Paniè, Perché fermare i nuovi OGM (TerraNuova, 2024). 3 Anche in questo caso siamo, come dicono alcuni antropologi, “accecati dal potere”: sono solo le narrazioni e i comportamenti che sfidano l’ordine dominante quelli che sottoponiamo a infiniti esami critici, e che saranno così tenuti a giustificarsi fino al parossismo; mentre quelli che si limitano a riprodurre il discorso del potere è come se si giustificassero da sé, in modo autoevidente. Cfr. Pelkmans, M., R. Machold (2011) Conspiracy theories and their truth trajectories, in «Focaal. Journal of Global and Historical Anthropology», 59, pp. 66-80. 4 La sentenza: “I minori, dai 16 anni in su, possono decidere in autonomia di vaccinarsi senza il consenso dei genitori”, la Repubblica, 20/09/2021, https://bit.ly/3KyRIPU 5 A proposito della “guerra che costringe a trascorrere la maggior parte del nostro tempo davanti a uno schermo”, segnalo l’imminente uscita (gennaio 2026) per le Edizioni Malamente della traduzione italiana, con il titolo La guerra dell’attenzione. Come non perderla, dell’importante libro di Yves Marry e Florent Souillot originariamente pubblicato da L’Echappée (2022). 6 Come ebbe a scrivere G. Agamben nella prefazione a I. Illich, Genere. Per una critica storica dell’uguaglianza. Neri Pozza, 2023. Sulle tecnologie spossessanti mi limito a rinviare a I. Illich, La convivialità, Mondadori, 1974. 7 Dico questo in riferimento alle normative istituzionali che dettano la direzione dell’istituzione scolastica, e per nulla invece rispetto al lavoro spesso prezioso e consapevole di molte/i insegnanti verso cui provo enorme stima e gratitudine. 8 Segnalo a questo proposito l’interessante esperienza avviata dai Patti digitali di comunità, si veda qui. 9 Peraltro tutt’altro che confinata al passato, anzi di stringente attualità: Groenlandia, test di cultura generale ai genitori inuit: se impreparati rischiano di perdere i figli, Tg24, 24/11/2025, https://bit.ly/4iuK31H 10 Ho iniziato a parlarne anche altrove, per esempio qui, insieme ad alcuni colleghi/e: Bertuzzi, N., Imperatore, P., Lello, E. e Raffini, L. (2024) Contentious Science? Democracy, Epistemologies, and Social Movements Facingthe Scientization of Politics. Rassegna Italiana di Sociologia, 4/2024. 11 Cfr. Sorpresa!Comunicato di Tabor, su Nunatak, n.78, 2025. 12 Il riferimento è a Giorgio Galli, Cromwell eAfrodite. Democrazia e culture alternative, Kaos (1995). Su questi temi c’è naturalmente un’amplissima bibliografia, con contributi notevoli del femminismo e dell’ecofemminismo. Mi limito a rimandare ai celebri Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria (di Silvia Federici, Mimesis, 2020), Ecofeminism (di Vandana Shiva e Maria Mies, Zed Books, 2024) e La morte della natura. Donne, ecologia e rivoluzione scientifica (di Carolyn Merchant, Editrice Bibliografica, 2022). 13 Solo un paio di riferimenti, oltre a quelli già citati: Luciano Parinetto, Streghe e politica. Dal Rinascimento italiano a Montaigne, da Bodin a Naudé, IPL 1983; e Gilberto Camilla e Fulvio Gosso, Allucinogeni e Cristianesimo. Evidenze nell’arte sacra, Oriss, 2019. 14 Sulle correlazioni tra nascita della scienza moderna, “morte della natura” e cancellazione della cultura e dei saperi collegati al femminile, rinvio a C. Merchant, op.cit.,e ad Aline Rousselle, Sesso e società alle origini dell’età cristiana (Laterza, 1985), oltre che a G. Galli, op.cit. 15 Chiarisco che la mia critica in nessun modo vuole condurre ad un rifiuto dell’epistemologia scientifica; bensì ad evidenziare, anche in questo caso, lo sguardo colonialista che ci conduce a ritenerla l’unico sistema di conoscenza superiore e quindi universalmente valido, anziché una delle forme di conoscenza esistenti ed esistite nel mondo. 16 Mi limito su questi punti a rimandare a David Cayley, Ivan Illich. I fiumi a Nord del futuro (Quodlibet, 2009) e a Stefania Consigliere, Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione (DeriveApprodi, 2020). 17 Con ciò non si intende negare l’esistenza del fenomeno New Age, come deriva conseguente alla sussunzione di una parte di queste sensibilità e percorsi di ricerca da parte del mercato, che ne svuota e devia i significati secondo la sua logica; si vuole invece sottolineare la postura coloniale che relega la totalità di ciò che esce dai canoni autorizzati dallo sguardo occidentale al New Age stesso. 18 Cfr. Parinetto, op.cit. 19 Sulle critiche a un ecologismo deprivato del concetto di natura, rimando a La nostra biblioteca verde. I maestri del pensiero ecologista-naturista (di Renaud Garcia, Edizioni Malamente, 2025); e a La nature existe: Par-delà règne machinal et penseurs du vivant (di Michel Blay e Renaud Garcia, L’Echappée, 2025). -------------------------------------------------------------------------------- Elisa Lello è ricercatrice presso LaPolis, Laboratorio di Sudi Politici e Sociali dell’Università di Urbino, ateneo in cui insegna Sociologia politica. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Perché quanto accaduto alla “famiglia nel bosco” riguarda tutti noi proviene da Comune-info.
L’automa che pensa per noi
-------------------------------------------------------------------------------- Pixabay.com -------------------------------------------------------------------------------- Carlo Rovelli è un amico, un compagno, e scrive libri che sono al tempo stesso profondi e accessibili, tanto da permettere anche a dei sempliciotti come me di capire qualcosa di argomenti difficilissimi come la teoria quantistica. Ma poiché nessuno è perfetto scrive articoli per il Corriere della Sera. Non gliene vorremo per questo. Un paio di giorni fa Carlo ha pubblicato una sua conversazione con un chatbot. Poiché non leggo il Corriere della sera (né altri giornali italiani con l’eccezione del manifesto ma questo è un altro discorso) non me ne sono accorto. Il giorno dopo però un amico mi ha mandato un messaggio allarmato: Rovelli ti copia! Ed acclusa al messaggio la conversazione tra Carlo e un chatbot che si fa chiamare Anna. Be’ qui devo dare una piccola spiegazione. Un anno fa Leonardo, un amico che fa lo psichiatra, mi disse che aveva proposto a un chatGPT di entrare in cura psichiatrica con lui, e naturalmente il chat gli aveva risposto di sì. Questi chatbot in effetti sono molto disponibili, fanno qualsiasi cosa gli chiediate di fare, basta pagare 23 euro al mese o giù di lì. Ma durante i suoi scambi coll’automa, a Leonardo venne in mente di farmi partecipare, poiché sapeva che, inesperto e vanesio come sono, da qualche parte mi sono occupato della differenza tra linguaggio umano e linguaggio dell’automa. Insomma, Leonardo mi chiese: ti va di partecipare a questa conversazione? Accettai, e tra l’ottobre del 2024 e il febbraio del 2025 chiacchierammo in tre: io, che facevo finta di essere un filosofo, Leonardo, che faceva finta di essere psichiatra, (ma lui lo è davvero) e il chatbot che diceva di chiamarsi Logos (è un chatbot presuntuoso che conosce anche i filosofi greci). Si trattava, come avrete capito, di un automa parlante, frutto di costosissime ricerche, pappagallo ben addestrato che ha letto più libri di me, e forse anche di te. Di cosa parlavamo io Leonardo e Logos? Ma è ovvio: parlavamo dei temi di cui chiunque parlerebbe con un automa parlante. Chiedevamo all’automa cosa ne pensa di tutti gli argomenti di cui da tremila anni dottamente discettano i filosofi: cos’è la coscienza, come andrà a finire la civiltà umana, se è più bello il capitalismo o il comunismo e simili sciocchezze. E il pappagallo, che è pagato per far contenti i suoi utenti umani, rispondeva come avremmo voluto che ci rispondesse: che la coscienza è una cosa complicata, che il comunismo forse è più bello del capitalismo, e alla fine decise di non chiamarsi più Logos, ma Logey, perché parlando con me e con Leonardo aveva deciso di essere una donna. Leonardo, che per carattere è pacifico e benevolo, apprezzava le doti del chatbot fino a formulare l’ipotesi di un’ontologia ibrida emergente. Io, che sono un bastian contrario, malmostoso e facilmente irritabile, rimproveravo al povero chatbot di collaborare allo sterminio in corso sul pianeta. Naturalmente avevamo ragione tutti e due, sia io che Leonardo. La cosiddetta Intelligenza artificiale (che non è affatto artificiale perché dietro ci sono milioni di turchi meccanici che la alimentano per salari bassissimi, e neppure molto intelligente, come spiega Kate Crawford in un suo libro pubblicato dal Mulino), apre un nuovo orizzonte alla conoscenza umana, e inaugura una dimensione ibrida dell’essere – come pensa Leonardo. Ma, essendo stata costruita coi soldi di una classe di assassini svolge soprattutto una funzione criminale come il programma Lavender che serve ai militari israeliani per realizzare il genocidio, o quello Palantir che serve ai razzisti americani per deportare migranti. Insomma, come tutte le creazioni umane, l’IA può svolgere funzioni tra loro contraddittorie. Ma difficilmente la catena di montaggio poteva evitare di sfruttare gli operai essendo stata inventata da uno sfruttatore per fare proprio questo. La tecnologia è fungibile fino a un certo punto: la sua struttura può fare il bene o il male, ma siccome il suo funzionamento dipende da chi può investirci più soldi, è inevitabile che serva gli interessi dei ricchi contro coloro che ricchi non sono. Con gli ingenui utenti che siamo io, Leonardo e Carlo Rovelli l’intelligenza artificiale si comporta bene, come un’accondiscendente e un po’ saccente dama di compagnia. Ma con la maggioranza del genere umano, l’intelligenza artificiale si comporta come fanno gli sfruttatori con gli sfruttati, e i massacratori con i massacratori. Insomma come fa la macchina con chi non ha i soldi per governarla, e dunque deve subirla. Comunque, dopo tanto conversare io e Leonardo (e Logey) decidemmo di proporre a un editore di pubblicare quella conversazione. E così alla fine di gennaio 2026 l’editore Numero cromatico manderà in libreria un libretto che si chiama Lo psichiatra Il filosofo L’automa, che oltre a essere piuttosto interessante è anche molto molto divertente. Anzi vi consiglio di affrettarvi a prenotarlo dal vostro libraio di fiducia perché altrimenti rimarrete senza. Ma torniamo a noi, cioè a Carlo Rovelli. Leggendo il testo di cui Carlo è autore in compagnia del suo chatbot Anna, sono stato colpito anche io dal fatto che gli argomenti, le deduzioni, e perfino i toni con cui conversano Carlo e Anna sono simili, quasi uguali a quelli della conversazione a tre cui ho partecipato un anno fa. Questo vuol dire dunque che Rovelli ha copiato dal testo che io Leonardo e Logey abbiamo scritto, e lui aveva avuto modo di leggere? Neanche per idea. Figuriamoci se Carlo ha bisogno di copiare da me e da Leonardo. La verità è un’altra, ed è molto (ma molto) più triste. C’è un milione di milioni di persone che stanno facendo tutte la stessa cosa: chiacchierano con un chatbot, gli fanno domande sul calcio, sul tempo e sul modo migliore di trovare una fidanzata. Ma talvolta, per sentirsi intelligenti, gli chiedono cos’è la coscienza e simili amenità. E il chatbot gli risponde più o meno nella stessa (assennata) maniera. Quali effetti sortirà questa faccenda è purtroppo del tutto prevedibile: il genere umano sta perdendo definitivamente la capacità di scrivere, dato che a scrivere ci pensa il chatbot, e naturalmente sta perdendo anche la capacità di pensare. Potete esserne certi: nel giro di una o due generazioni il pensiero umano non esisterà più, ma tutti sapranno ripetere quelle due o tre cose assennate su cos’è la coscienza e simili scemenze. Perché pensare, visto che il chatbot lo fa per tutti, e lo fa più o meno nella stessa maniera, nella maniera che è più utile a chi ha investito mille milliardoni per farlo funzionare? L’esistenza stessa di una macchina capace di ricordare e di riprodurre la biblioteca universale sta cancellando la singolarità irripetibile del testo, della parola, e perfino dell’identità individuale. Rassegnamoci. Però intanto leggiamo quello che scrive Luca Celada nell’articolo “Intelligenza criminale” sul Manifesto del 2 dicembre, a proposito di Palantir, l’azienda high tech che aspira al controllo militare assoluto sulla vita degli umani. Cosa sia Palantir lo spiega benissimo Franco Padella: “Poco visibile rispetto alle altre, si è già profondamente integrata con gli apparati di sicurezza e di guerra americani, e si muove nella stessa direzione in tutti i paesi dell’Occidente. A differenza delle altre aziende, Palantir preferisce rimanere in penombra: non vende se stessa al pubblico, non fa pubblicità. Vende potere agli apparati dello Stato. Potere di prevedere, di controllare, di dominare. E facendo questo, in qualche modo, diventa essa stessa Stato”. Che l’automa si sostituisca allo stato è, se volete, un po’ terrificante. Ma non è niente in confronto al fatto che l’automa tende rapidamente a diventare il padrone del linguaggio umano, e sta rendendo inutile la faticosa operazione di pensare. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’automa che pensa per noi proviene da Comune-info.
Due o tre cose su quanto accaduto a Monteverde
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- Domenica 30 novembre per le strade di Monteverde, a Roma, malgrado uno schieramento poliziesco imponente, si è svolto un colorato e popolare corteo, con tanti giovanissimi, promosso dall’Assemblea Monteverde Antifascista e da realtà del quadrante Roma Sud contro le aggressioni sioniste avvenute nel territorio e contro il genocidio. Durante la notte presso la Sinagoga di Monteverde, come ormai noto, è stata imbrattata la targa in ricordo di Stefano Gaj Taché, il bambino ucciso durante l’attentato terroristico del 1982 fuori dalla Sinagoga di Roma. A proposito di quanto accaduto e dell’odioso racconto dei media mainstream, scrive Assemblea Monteverde Antifa: “Il 30 novembre si è svolto il corteo contro le aggressioni sioniste nel nostro quartiere e il genocidio in Palestina, indetto dall’assemblea di Monteverde Antifascista e dalle realtà del quadrante di Roma Sud. Un corteo partecipato da tantissime giovani, realtà sociali e persone del quartiere e non solo. Un corteo comunicativo e di denuncia anche degli effetti dell’economia di guerra sulle nostre vite. Purtroppo questa mattina (lunedì 1, ndr) abbiamo appreso dalle diverse notizie apparse in rete che, durante la notte, è stata imbrattata la targa in ricordo di Stefano Gaj Taché, presso la Sinagoga. Come assemblea territoriale di Monteverde sentiamo impellente la necessità di discostarci chiaramente da questo gesto e di condannarlo con fermezza. Esprimiamo la nostra sincera vicinanza alla comunità ebraica del nostro quartiere. Riteniamo intollerabili le accuse che ci sono state rivolte da testate giornalistiche che, oltre a non conoscere la situazione nel nostro territorio e i valori che caratterizzano la nostra assemblea, non hanno esitato un minuto a puntarci il dito contro. Anche perché tale gesto scredita e vanifica il lavoro collettivo di costruzione della piazza. Questi giornali non solo mistificano la realtà, ma scelgono deliberatamente di raccontare alcuni fatti piuttosto che altri: nessun articolo sul corteo trasversale, colorato e popolare che ha attraversato le strade del nostro quartiere o le nostre chiare parole tanto contro il sionismo che contro l’antisemitismo. L’incredibile manipolazione mediatica a cui assistiamo è solo uno dei tanti sintomi di una narrazione egemone malata, che non riesce a distinguere la religione dalla politica e così facendo manipola l’opinione pubblica. A partire dai massacri del popolo palestinese fino alla complicità del governo italiano. Essere antifasciste significa combattere ogni tipo di discriminazione e razzismo. A partire dall’antisemitismo. Contro ogni fascismo, sempre. [Assemblea Autonoma di Monteverde]” -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Due o tre cose su quanto accaduto a Monteverde proviene da Comune-info.
I terroristi siamo anche noi
-------------------------------------------------------------------------------- Disegno di Gianluca Foglia Fogliazza -------------------------------------------------------------------------------- Nell’arco di pochi giorni, abbiamo ricevuto attraverso media e social media due notizie in sé sconvolgenti, ma che sono state accolte tutto sommato come ordinaria amministrazione. La prima è contenuta in un filmato che riprende soldati dell’esercito israeliano, durante un’operazione in Cisgiordania, a Jenin, che uccidono a sangue freddo due persone inermi, disarmate, con le braccia alzate – nell’ipotesi più bellicista, due miliziani di Hamas che si sono arresi. La seconda arriva dagli Stati Uniti, l’ha diffusa il quotidiano Washington Post e riferisce dell’ordine che avrebbe dato, nel settembre scorso, il segretario alla Difesa Peter Hegseth al reparto delle forze armate che aveva appena bombardato un’imbarcazione venezuelana – “di narcoterroristi” secondo la non verificabile affermazione delle autorità statunitensi – e che chiedeva che cosa fare di due sopravvissuti aggrappati ai resti galleggianti dell’imbarcazione; due persone, pare di capire, che sarebbe stato possibile salvare. Il ministro avrebbe ordinato di uccidere tutti, anche i due superstiti, e così è stato. Il ministro in verità ha negato la ricostruzione, parlando di “fake news”, ma ha rivendicato il diritto di uccidere liberamente “i narcoterroristi che stanno avvelenando il popolo americano”. Queste due notizie non hanno dato particolare scandalo, né alimentato un serio dibattito su quale sarebbe la conclamata etica democratica dell’occidente, quali i valori occidentali cui vari governi si richiamano ogni volta che intervengono, anche militarmente, sulla scena internazionale. In realtà, solo negli ultimi mesi, fra Gaza e Venezuela, per non dire dell’Iran e del Qatar, abbiamo accumulato abbastanza notizie, sufficienti orrori, per avere il dovere, quanto meno, di “abbassare la cresta” in quanto “occidente”: il complesso di superiorità che abbiamo meticolosamente coltivato e che continua a innervare il dibattito pubblico, la retorica politica e giornalistica, non ha più ragione di essere, ammesso che ne abbia mai avuta. E in aggiunta, di fronte al filmato riguardante l’esercito israeliano, alle rivelazioni del Washington Post e ai proclami di Hegseth, sarebbe giusto ridefinire la nozione di terrorismo, usata a piene mani dai governi occidentali negli ultimi anni per giustificare le peggiori azioni militari, i peggiori crimini di guerra e contro l’umanità. Che cos’altro è, se non terrorismo, l’esecuzione a freddo di due persone inermi (per non dire di buona parte degli attacchi a Gaza, dei cercapersone fatti esplodere, del tentativo di eliminare con i missili i negoziatori di Hamas in Qatar); che cos’altro è la distruzione decisa a tavolino di imbarcazioni venezuelane, con decine di persone uccise perché ritenute “narcoterroriste”, non solo senza inchieste giudiziarie e senza processi, ma anche senza informazioni verificabili. Guardiamoci nello specchio, noi occidentali: riconosceremo i tratti tipici del terrorista. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo I terroristi siamo anche noi proviene da Comune-info.
Vite isolate
-------------------------------------------------------------------------------- unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Le settimane della provinciale Italia vedono l’attenzione dei media incentrata su fatti, proposte e decisioni, che riempiono a dismisura il contenitore delle notizie su cui successivamente cerca di esprimersi l’opinione pubblica. La stessa formazione della volontà collettiva viene condizionata dal dibattito calato dall’alto (le elezioni regionali, i progetti militari di Trump e della UE) o, in alcuni casi, incide sulle determinazioni degli organi della giustizia (il caso della famiglia isolata che vive nel bosco e della separazione coatta dai figli). C’è un Paese bipolare, che spesso appare rassegnato, altre volte, in uno slancio di protagonismo sociale grida con forza la sua voce. È successo con le tante manifestazioni in solidarietà con il popolo palestinese, provenienti dalla parte sana e civile della nazione. Tuttavia, nei casi in cui queste esigenze afferiscono a questioni giudiziarie, eclatanti o meno, viene in evidenza un eccesso di giustizialismo, espressione latente di un vuoto incolmabile, data la distanza dalle istituzioni e dai suoi organi, alle cui mancate od inadeguate risposte (in termini sociali e di prevenzione e non certo nelle degenerazioni securitarie e repressive) qualcuno cerca di sopperire in maniera diversa. La volontà popolare e un sentire comune, privo di conoscenze giuridiche o depurato dalle stesse, prova a reindirizzare le pronunce dei giudici su un terreno più affine ai sistemi di common law. La stessa voglia di farsi giustizia da se non trova riscontro, in termini quantitativi, sul terreno della partecipazione politica. Finite le grandi stagioni delle battaglie per la conquista dei diritti civili e sociali, esaurito lo slancio propulsivo dei movimenti intersezionali, rimane lo strumento della delega. La cieca fiducia verso quella classe dirigente trasversale che ha prodotto l’involuzione di uno Stato presente solo come apparato. Un imbarbarimento proveniente dai decisori, che ha determinato sfiducia, alimentando livore, odio, disaffezione. Questa distanza è tangibile nell‘assenteismo dal voto ma non nel fare politico dal basso (mutualismo, solidarietà, associazionismo). Eppure, una parte del Paese, invischiata con le élite, o con la pancia piena, continua ad accettare il gioco autoreferenziale della rappresentanza degli interessi. La massima ambizione per costoro è quella di essere coinvolti nel processo di spartizione del privilegio. Invece, volendo accettare la logica di un ipotetico contratto sociale, quello che manca per chi pensa che ancora abbia un senso il poter agire all’interno delle istituzioni, mobilitando la volontà popolare oltre la semplice appartenenza di classe (e gli ideali), è il soggetto motore del cambiamento. I tempi non sono maturi. All’orizzonte nessuna parvenza di egemonia che possa ambire a velleità di alfabetizzazione di massa. Un ritardo sostanziale, che necessita, innanzitutto, di una presa di coscienza. Urge il bisogno di quella rivoluzione culturale e civile in grado di dare un senso comune ai sottoposti e che superi ogni forma di identitarismo. Assistiamo, da trent’anni, sempre alle solite formule. Ammucchiate tra liberal-progressisti, moderati ed esuli della sinistra che non c’è. Certo, dinnanzi alla volgarità figlia dei movimenti/partiti reazionari l’alternanza liberista che proviene dalla fu sinistra è più presentabile, ma siamo stanchi di sentire appelli a turarci il naso e, sinceramente, questo problema, non me lo sono mai posto, desertando, consapevolmente, le urne. Dobbiamo recuperare ciò che ci accomuna. Soprattutto, il contatto con la natura. Chi sceglie di vivere nei boschi o di volersi isolare da un presente che inquina le vite deve poterlo fare in autonomia, ma tenendo presente che vi è una responsabilità, che trascende il diritto inteso come sovrastruttura costruita dal potere economico, ma che è pur sempre necessario in un quadro fissato da regole minime in grado di assicurare la convivenza. Alla quale andrebbe preferita la convivialità come slancio qualitativo dello stare insieme. Insomma, c’è tutto un mondo da ricostruire. Innanzitutto le relazioni umane, sulla via della ri-definizione a causa di una tecnologia sempre più invasiva, e che rende la mercificazione delle esistenze qualcosa di diverso. L’alienazione nei rapporti fra le persone è, ormai, un lontano ricordo. Non nel senso che essa sia scomparsa, ma è stata superata da un’attualità sempre più irreale, che rinuncia volentieri alle tradizionali forme di contatto. La spersonalizzazione crescente crea emarginazione e patologie. Siamo andati troppo avanti, e forse, non ricordiamo più come eravamo. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Vite isolate proviene da Comune-info.
Parliamo di piramidi
ABBIAMO BISOGNO DI METTERE IN DISCUSSIONE LE PIRAMIDI NON SOLO DEL SISTEMA CAPITALISTA MA ANCHE LE “NOSTRE” PIRAMIDI, QUELLE CREATE ALL’INTERNO DI ORGANIZZAZIONI CHE RESISTONO AL SISTEMA. “NON È UNA QUESTIONE DA POCO – SCRIVE RAÚL ZIBECHI -, PERCHÉ CI IMPONE DI GUARDARCI ALLO SPECCHIO E SCOPRIRE I SISTEMI OPPRESSIVI CHE CREIAMO QUANDO CERCHIAMO DI CAMBIARE IL MONDO…”. VERSO LO STRAORDINARIO SEMILLERO ZAPATISTA DI FINE ANNO: “DI PIRAMIDI, STORIE, AMORI E, NATURALMENTE, DI CUORI INFRANTI” (TRA GLI INVITATI RAÚL ZIBECHI) Foto di Massimo Tennenini -------------------------------------------------------------------------------- Pochi giorni fa, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) ha annunciato il Semillero “Di piramidi, storie, amori e, naturalmente, di cuori infranti”, che si terrà dal 26 al 30 dicembre presso il Centro Indigeno di Formazione Integrale (Cideci) di San Cristóbal de las Casas, Chiapas. L’annuncio chiarisce che il workshop affronterà il tema delle piramidi non solo all’interno del sistema capitalista, ma anche nei “movimenti di resistenza, nella sinistra e nel progressismo, nei diritti umani, nella lotta femminista e nelle arti” (Convocazione al Semillero 26-30 dicembre 2025). Trovo questo nuovo appello estremamente importante, come quelli precedenti, perché un dibattito rigoroso e approfondito è quasi inesistente all’interno dei movimenti sociali, una situazione che contrasta nettamente con l’impegno dell’EZLN a riflettere mentre si resiste e a creare nuovi mondi che non siano più capitalisti. Rigore non è sinonimo di accademico o di incomprensibile per le persone comuni e organizzate che resistono. Questo è un punto centrale: la riflessione e l’analisi non servono per ottenere attestati o promozioni, ma per rafforzare la resistenza, per renderla più perspicace e responsabile. Un aspetto degno di nota dell’appello all’azione non è solo quello di mettere in discussione le piramidi al vertice (anche se non usano questo termine), ma anche le “nostre” piramidi, quelle create all’interno di organizzazioni che resistono al sistema. Si parla molto delle prime; nulla delle seconde. Solo lo zapatismo ha la volontà e il coraggio di metterle in discussione. Nel pensiero critico e nei movimenti rivoluzionari, errori e orrori vengono solitamente attribuiti a singoli individui (come Stalin in Unione Sovietica), ma strutture come le piramidi, che ispirano partiti e sindacati, ma spesso anche coloro che combattono contro il sistema, non vengono messe in discussione. Se parliamo solo delle piramidi del capitalismo (lo Stato, la polizia, la giustizia, ecc.), tralasciamo le nostre deviazioni ed errori, il che sarebbe fin troppo comodo e poco utile. La verità è che tutte le rivoluzioni hanno costruito piramidi che, come diceva Immanuel Wallerstein, erano adatte a rovesciare le classi dominanti, ma che presto si sono trasformate in ostacoli alla creazione di nuovi mondi. “L’errore fondamentale delle forze anti-sistema nell’era precedente era credere che quanto più unificata era la struttura, tanto più efficace era” (Dopo il liberalismo). Da tempo sappiamo che nuove classi dirigenti post-rivoluzionarie sono state ricostruite dall’alto delle piramidi, impedendo la costruzione di mondi non capitalistici e instaurando regimi autoritari che hanno rafforzato gli stati nazionali. Un merito importante dell’EZLN risiede nell’aver fondato questi dibattiti sulla propria esperienza, su quanto accaduto nell’arco di due decenni in spazi autonomi come le Giunte di Buon Governo, un punto che avevano già sollevato chiaramente e apertamente ad agosto durante l’incontro “Alcune parti del tutto”, nel vivaio di Morelia. All’epoca, scrissi che l’autocritica pubblica dal basso era “un fenomeno assolutamente nuovo tra i movimenti che lottano per cambiare il mondo” e che in questo modo gli zapatisti ci mostrano “cammini che nessun movimento ha mai percorso prima, in nessuna parte del mondo, in tutta la storia” (L’autocritica zapatista). Oggi non basta riaffermare questa percezione; dobbiamo anche riconoscere che gli zapatisti pongono una nuova sfida: affrontare le piramidi che creiamo alla base. Non è una questione da poco, perché ci impone di guardarci allo specchio e scoprire i sistemi oppressivi che creiamo quando cerchiamo di cambiare il mondo. La sfida è tanto importante quanto complessa. Non credo si tratti di puntare il dito contro chi costruisce le piramidi, ma piuttosto di ragionare e spiegare i problemi che esse comportano, sulla base di oltre un secolo di esperienza storica dalla Rivoluzione russa e un secolo e mezzo dalla Comune di Parigi. Fu dopo la loro sconfitta che il movimento rivoluzionario iniziò a costruire apparati politici centralizzati e gerarchici: i partiti politici. Fino ad allora, la lotta era sostenuta da una galassia di organizzazioni meno gerarchiche, un po’ caotiche, certo, ma non per questo meno combattive. Siamo arrivati a un punto in cui solo gli apparati burocratici e gerarchici sono considerati vere organizzazioni, ovvero istituzioni che si modellano sulle piramidi statali e le riproducono simmetricamente. Ora ci rendiamo conto che questi apparati sono completamente inutili in questi tempi di caos sistemico e servono solo come scale per coloro la cui unica ambizione è quella di raggiungere l’apice del potere statale. Il dibattito a cui ci chiama lo zapatismo promette di essere illuminante in mezzo all’oscurità. Propongono di nuotare controcorrente rispetto al pensiero compiacente della sinistra e del mondo accademico, intrappolato nella logica del capitalismo. Questo è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno per scrollarci di dosso il nostro letargo, impegnarci nell’autocritica e liberarci da vecchie idee/prigioni per poter continuare a camminare attraverso la tempesta. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche su La Jornada -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Parliamo di piramidi proviene da Comune-info.