
Multiutility? No, grazie
Jacobin Italia - Friday, November 14, 2025
Articolo di Tommaso FattoriNel 2011, grazie ad un’ampissima coalizione sociale, è stato vinto lo storico referendum nazionale contro la privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali con il 95,8% di Sì. Quattordici anni dopo, al referendum municipale di Empoli contro il progetto di Multiutility regionale tenutosi qualche giorno fa, il numero di Sì è sorprendentemente simile, quasi identico: 96,6%. In altri termini, nulla è cambiato, nel bene e nel male: nell’orientamento della cittadinanza, da sempre nettamente favorevole alla gestione pubblica dei servizi fondamentali, e neanche nell’orientamento della politica nazionale e locale, che in questi anni si è costantemente ingegnata, a ogni livello, a sabotare il risultato del referendum del 2011, cercando sempre nuove strade per privatizzare e finanziarizzare i servizi pubblici.
Il referendum empolese è formalmente nullo, per mancato raggiungimento del quorum, ma quasi un residente su tre si è recato alle urne, ovvero 12.292 persone, pari al 28,48% del corpo elettorale. In una cittadina di meno di 50mila abitanti, il messaggio è arrivato forte e chiaro. La miserevole tattica del silenzio con cui l’amministrazione comunale e la politica regionale hanno cercato di nascondere l’appuntamento referendario, con il soccorso di una stampa allineata o dormiente, ha funzionato fino a un certo punto e i malumori nel Pd e nel centrodestra sono adesso enormi. Per interpretare il reale significato politico di questo voto basta tener presente un dato: a Empoli hanno votato Sì più cittadini di quanti abbiano eletto il sindaco in carica (eletto con poco più di 9.500 preferenze al secondo turno) o di quanti abbiano votato per l’attuale presidente della Regione, solo pochi mesi fa (10.713 voti).
Mandanti ed esecutori
Il progetto di Multiutility toscana è il frutto di un accordo fra il Pd pre-Schlein e Fratelli d’Italia, con la benedizione della stessa Giorgia Meloni. In particolare è il frutto dell’accordo fra gli ex sindaci renziani Nardella (Firenze), Biffoni (Prato) e Barnini (Empoli), ora ricollocatisi al Parlamento europeo e in Consiglio regionale, e l’ex sindaco di Pistoia di Fratelli d’Italia, Tomasi, candidato presidente del centrodestra alle recenti elezioni regionali. Tuttavia è piuttosto improbabile che il progetto sia realmente un parto delle menti dei nostri sindaci, malgrado abbiano cercato di intestarselo fin dal primo momento, a partire da Nardella. Basti pensare che qualche tempo fa proprio l’ex sindaco di Firenze, nel commentare l’ipotesi di emissione di bond idrici di piccolo taglio, ha chiarito che non si sarebbe espresso «sulla proposta di azionariato popolare», confondendo l’emissione di obbligazioni (prestiti a tassi definiti e di fatto privi di rischi) con la cessione di azioni, cioè appunto la vendita di quote della società che gestisce il servizio. Uno scivolone che rivela una scarsa conoscenza del campo, eccessivamente scarsa per chi dovrebbe essere addirittura lo stratega dell’operazione. Errore a parte, il mitico «azionariato popolare», prima o poi, viene immancabilmente evocato in simili frangenti, come a voler addolcire la pillola della finanziarizzazione dei servizi fondamentali. Ma è altrettanto vero che si tratta, per l’appunto, di un mito: non esiste alcuno strumento che consenta di decidere chi dovrà comprare le azioni messe in vendita e tantomeno a chi debbano restare in mano le azioni di una società quotata in borsa. Le azioni possono essere rivendute in ogni istante e acquistate da chiunque, segnatamente dai grandi fondi, spesso capaci di rastrellarne enormi quantità sui mercati.
Ed eccoci arrivati al nodo, o se vogliamo ai «mandanti». Sono per l’appunto i grandi fondi che spingono da tempo affinché la Toscana si doti di una Multiutility regionale quotata in borsa. La strategia è stata pianificata in ambienti economico-finanziari e poi suggerita alla politica per il tramite di una nuova e potente classe dirigente per sua natura ibrida: una classe composta da manager e amministratori delegati (superpagati) di colossi pubblico-privati, nominati in ruoli apicali proprio dagli azionisti privati e divenuti un importante cordone ombelicale fra mondo della finanza e mondo della politica. E non è stato affatto difficile convincere i sindaci che la privatizzazione dei servizi pubblici attraverso le Spa pubblico-private non sarebbe più bastata; adesso occorre finanziarizzare i servizi, è stato spiegato, per ottenere magicamente due risultati: aumentare i dividendi per tutti, anche per i soci pubblici, e rendere più stabile e sostenibile il debito di Alia (la società per la gestione dei rifiuti posta al cuore della costruenda Multiutility).
E giù un grande entusiasmo, a briglia sciolta: «con la Multiutility potremo raddoppiare i dividendi», giubila Nardella. A ruota seguono gli altri amministratori: «finalmente potremo fare gli investimenti necessari!», oppure «adesso sì che le banche concederanno prestiti e mutui alla Multiutility». Ora, chiunque abbia un po’ di dimestichezza con questa materia sa benissimo almeno due cose. La prima è che gli investimenti, per legge, sono tutti pagati dalle tariffe dei cittadini da oltre vent’anni (si chiama meccanismo del «full cost recovery») indipendentemente da chi sia il gestore. E però, in una Multiutility, le tariffe sborsate dai cittadini pagano, oltre agli investimenti e al costo del servizio stesso, anche i profitti degli azionisti pubblici e privati (i «dividendi raddoppiati» di cui gioisce Nardella). La seconda cosa è che mai una banca ha negato o negherà un prestito a un gestore di servizi pubblici e per il semplice fatto che nessuno darà maggiori garanzie di solvibilità di chi gestisce servizi essenziali in regime di monopolio. Si tratta infatti di cosiddetti «monopoli naturali», servizi di cui la cittadinanza non potrà mai fare a meno e che hanno un solo soggetto gestore, senza concorrenza né rischio d’impresa.
Ospedali e acquedotti devono generare profitti per gli azionisti?
Nel mare magnum di inesattezze e bugie che hanno accompagnato la propaganda a favore della Multiutility, l’unica verità resta quella candidamente rivelata da Nardella: «raddoppieremo i dividendi». E allora la domanda fondamentale del referendum che si è appena tenuto a Empoli è esattamente la stessa del 2011: la gestione dell’acqua e degli altri servizi pubblici locali deve generare profitti e arricchire gli azionisti oppure garantire un servizio essenziale ai cittadini, in modo efficace e al minor costo possibile? Stiamo parlando di merci o di beni comuni? Nessuna persona ragionevole potrebbe sostenere che il fine della gestione di un ospedale pubblico o di una scuola sia generare profitti per gli azionisti. Ma allora perché mai dovrebbe essere ragionevole ritenere che la gestione dell’acqua – un bene di tutti – debba arricchire pochi? Debba produrre profitti?
Le Multiutility sono il coronamento del processo iniziato con le Spa miste pubblico-private per la gestione dei servizi, cui mancava solo la finanziarizzazione. Sono megamacchine congegnate per massimizzare il valore per gli azionisti e per distribuire dividendi, non per gestire efficacemente i servizi. Chiunque abbia studiato i bilanci delle Multiutility esistenti sa quanti miliardi si sono intascati gli azionisti in pochi anni e sa qual è la logica della borsa: l’imperativo di tenere alto il valore del titolo e di distribuire gli utili, in un orizzonte di brevissimo termine. Se per garantire il flusso di dividendi agli azionisti occorre indebitarsi, ci si indebita; se bisogna alzare le tariffe fino al livello massimo consentito dalle norme, si alzano; se bisogna licenziare, precarizzare, esternalizzare, allora si licenzia, si precarizza, si esternalizza.
Le favole e l’alternativa pubblica
Al cospetto di questi incontrovertibili dati di fatto è frequente sentir raccontare la storia della presunta semplificazione che la Multiutility comporterebbe. Molti amministratori sono convinti che si tratterebbe di una sorta di società operativa unica e monolitica, ma in verità la Multiutility è stata congegnata come una mera Holding finanziaria, pronta a mettere in borsa e privatizzare il 49% delle proprie quote, che poi è il vero fine dell’intera operazione. La Holding deve controllare una serie di società di scopo separate, operativamente autonome, che continuano a gestire acqua, rifiuti ed energia, senza relazionarsi fra loro. Le tre società che la Multiutility toscana incorpora sono infatti a loro volta delle scatole di partecipazioni: la cosiddetta società «incorporante» è Alia (ossia la Spa per la gestione dei rifiuti delle province di Prato, Pistoia e Firenze, Empoli compresa) ma tutte e tre le società «incorporate» – Publiservizi, AcquaToscana e Consiag – sono Holding che detengono le quote di partecipazione dei soci pubblici di società operative come Estra (energia elettrica e gas) e Publiacqua. Insomma, ci troviamo davanti a un’operazione finanziaria finalizzata alla massimizzazione del valore per gli azionisti, nulla che abbia a che fare con l’efficacia sociale e ambientale, la riduzione delle bollette, gli investimenti strategici.
L’alternativa al colosso finanziario chiamato Multiutility è la gestione pubblica («in house») e democraticamente partecipata dei servizi essenziali, attraverso una pluralità di gestori che abbiano relazione diretta con il territorio e siano calibrati rispetto agli ambiti «ottimali», ovviamente diversi da servizio a servizio. Ed è esattamente su questo che la popolazione empolese ha preso una netta posizione.
La partita della Multiutility toscana è ancora apertissima, e lo è grazie ai comitati per l’acqua bene comune, che mai hanno smesso di impegnarsi, giorno dopo giorno, e grazie a iniziative dal basso come il referendum empolese, che ha gettato molti granelli di sabbia in un ingranaggio già inceppato. Con un Pd regionale lacerato e confuso e una destra sostanzialmente al traino, questo è il momento di far saltare la gara per individuare il socio privato di Publiacqua, prevista a fine anno, procedendo invece all’affidamento diretto a un soggetto interamente pubblico. Insomma, siamo a un passo da una possibile ripubblicizzazione, ed è tempo di unire tutte le forze sociali attorno a questo comune obiettivo.
C’è un’ultima favola che viene raccontata insistentemente dai privatizzatori, preoccupati dalla forza del fronte della ripubblicizzazione, ed è la favola per cui la Multiutility sarebbe necessaria per impedire che «vengano da fuori» a mettere le mani sull’acqua e sui servizi della Toscana. L’allusione, naturalmente, è alle altre Multiutility «italiane»: Hera, A2A, Acea, Iren. Ma è vero esattamente il contrario: con la Multiutility toscana c’è l’assoluta certezza che arriveranno qui esattamente gli stessi fondi internazionali che sono oggi azionisti in Hera, A2A, Acea, Iren, e cioè BlackRock e Vanguard, o multinazionali come Suez. C’è una sola strada per impedirlo: garantire una gestione completamente pubblica dell’acqua e degli altri servizi locali, nel pieno rispetto del referendum del 2011.
* Tommaso Fattori è stato fra i principali promotori dei Referendum sull’acqua del 2011. Esperto di beni comuni e servizi pubblici, per anni consulente presso il Consiglio d’Europa a Strasburgo, ha pubblicato numerosi articoli su riviste italiane e internazionali. È stato candidato presidente e capogruppo della sinistra nel Consiglio regionale della Toscana nella X legislatura.
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