Un secolo di umiliazione europea
Articolo di Ingar Solty
L’Unione europea ha raggiunto qualcosa di storico. Sono trascorsi 55 anni tra la
prima e la seconda Pace di Thorn, che nel 1466 sancì la sconfitta totale dei
Cavalieri Teutonici contro il Re polacco. Ci sono poi voluti 26 anni fatali e
orribili dal Trattato di Versailles del 1919 all’Accordo di Potsdam del 1945
perché la Germania perdesse il suo diritto all’autodeterminazione. Sono
trascorsi circa 21 anni tra la Prima e la Seconda Guerra dell’Oppio, combattute
dalle potenze coloniali europee nel XIX secolo per imporre le più brutali
condizioni commerciali alla loro colonia cinese. Oggi, alla Commissione europea
sono bastati appena 9 mesi per dichiarare due volte la propria resa
incondizionata. In questo caso, non è stato nemmeno necessario uno scontro a
fuoco.
La prima dichiarazione di resa era stata pronunciata all’unisono con gli Stati
Uniti. Quando gli stati capitalisti di entrambe le sponde del Nord Atlantico
hanno ritenuto necessario introdurre misure protezionistiche per impedire ai
concorrenti cinesi di entrare nei rispettivi mercati nazionali dei veicoli
elettrici (così come dei pannelli solari e di altre tecnologie verdi), il
segnale era stato evidente.
L’impero Ue aveva preso questa decisione alla fine di ottobre 2024. Con questo
messaggio: dato che non siamo più in grado di espanderci nel mercato interno
cinese con i nostri veicoli elettrici, e visto che le auto elettriche Made in
China Build Your Dreams (Byd) a prezzi accessibili stanno per inondare i nostri
mercati interni, dovremmo almeno proteggere questi da una schiacciante
concorrenza.
Questa mossa protezionistica la diceva lunga su quanto si fosse indebolita la
posizione dell’Europa. Nella Strategia di Lisbona, annunciata nel 2000, l’Ue
aveva espresso l’ambizione di diventare la regione economica più competitiva al
mondo. Con la Germania al timone, mirava a essere la maggior esportatrice
dell’economia mondiale. L’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) e il suo
predecessore, l’Accordo Generale sulle Tariffe Doganali e il Commercio (Gatt),
erano stati fondati dai leader occidentali per creare un’economia globalizzata
per conto delle multinazionali occidentali dominanti e più competitive. Il
libero scambio è una forma di imperialismo, e le ex potenze colonizzatrici
eccellevano in questo. Ma ora è chiaro che la situazione sta cambiando.
La Cina sta arrivando dove i l’Unione sovietica non è arrivata: a raggiungere e
risalire la catena del valore e la gerarchia della divisione internazionale del
lavoro. Tra i paesi del G8, la Cina è oggi l’ultimo difensore del Wto e, a
quanto pare, dal punto di vista dell’imperialismo occidentale, qualcosa non ha
funzionato nel quarto di secolo successivo al 2001, data dell’adesione di
Pechino al Wto, sebbene ciò sia avvenuto nelle più dure condizioni immaginabili,
imposte dalle potenze occidentali.
La strategia di uscita cinese dalla crisi finanziaria globale, incentrata sulla
pianificazione strategica dell’elettrificazione dell’economia e sulla creazione
di campioni nazionali attraverso una coraggiosa politica industriale, si era
dimostrata di gran lunga superiore alla strategia «frega il tuo vicino» basata
sull’austerità, adottata sia dagli Stati uniti di Barack Obama che dall’Ue
durante la crisi dell’euro. La Cina è uscita dalla crisi come un rivale
ipercompetitivo nel settore dell’alta tecnologia, come una forza pari o
dominante in molte tecnologie future, dall’intelligenza artificiale ai Big Data
alle comunicazioni mobili 5G e 6G, e in particolare alle tecnologie verdi. Anche
quando l’Occidente si è reso conto di quanto fosse ipercompetitiva la Cina, la
Bidenomics, il Green Deal dell’Ue e la politica economica del cancelliere
tedesco Olaf Scholz hanno cercato di battere Pechino al suo stesso gioco. La
strategia di emulazione non ha avuto successo, soprattutto in Europa. La prima
resa incondizionata ha riconosciuto questo: se non posso più derubarti, almeno
posso proteggere il mio spazio.
Ora arriva la seconda resa incondizionata. Gli occidentali, e soprattutto gli
europei, non sono più i migliori in brevetti, macchinari, efficienza economica,
infrastrutture pubbliche funzionanti, medaglie olimpiche o soddisfazione
popolare. Ma almeno le ex potenze colonizzatrici trionfano moralmente sul resto
del mondo (anche se sostengono una guerra genocida, pensando che il resto del
mondo non se ne accorgerà). Con la stessa superiorità morale, le élite europee
si sono comportate con alterigia dopo il trionfo di Donald Trump nel novembre
2024. La stampa europea lo ha ridicolizzato. “Sta distruggendo gli Stati Uniti,
sta distruggendo l’economia mondiale”, si diceva. Ma ora chi ride per ultimo?
SE TRUMP DICE DI SALTARE, L’UE CHIEDE QUANTO IN ALTO
La resa incondizionata è stata accompagnata da un avvertimento. Dopo l’inizio
della guerra in Ucraina, i paesi europei della Nato hanno annunciato la loro
disponibilità a investire il 2% del Pil in futuri armamenti. Tre anni dopo,
improvvisamente è stato applicato un obiettivo del 5%. D’ora in poi, la Germania
investirà un euro su due del bilancio federale nell’acquisto di armi e
infrastrutture pronte per la guerra, nel tentativo di costruire – come ha
affermato il cancelliere Friedrich Merz – «l’esercito convenzionale più forte
d’Europa». Dietro questa decisione c’erano forse nuove valutazioni del rischio?
La Russia è improvvisamente 2,5 volte più minacciosa di quanto non fosse dopo
l’invasione dell’Ucraina? Certo che no. La logica è tanto banale quanto
eloquente: Trump ha chiesto il 5%, quindi gli europei stanno pagando il 5%. Ciò
che serve è una divisione transatlantica del lavoro contro la Cina.
Considerando che ampie fasce della spesa per gli armamenti andranno a riempire
le casse dei maggiori produttori di armi, che peraltro sono americani, questo
equivale a un importante pacchetto di stimolo militare-keynesiano per gli Stati
Uniti. Inoltre, gli europei in questo modo hanno dato a Trump la possibilità di
estendere la sua politica degli «accordi» a Giappone, Filippine, Australia e
Nuova Zelanda, chiedendo loro di spendere altrettanto e di rafforzare
ulteriormente il complesso militare-industriale americano.
Si potrebbe supporre che, con tanta buona volontà e lealtà all’alleanza
atlantica, gli europei si sono messi nelle condizioni di raggiungere un
«accordo» positivo con Trump. Lui fa «accordi», quid pro quo. Di conseguenza, il
governo tedesco ha affermato che un massiccio riarmo avrebbe avuto lo scopo di
placare Trump nella disputa commerciale e dissuaderlo dall’imporre dazi doganali
elevati all’Ue, come ha annunciato il ministro degli Esteri Johann Wadephul.
Il super-atlantista Merz si è recato negli Stati uniti all’inizio di giugno
ingraziandosi il presidente Usa, che intanto minacciava guerra a Panama e in
Groenlandia, voleva annettere il Canada e dichiarava guerra all’Iran. Merz gli
ha regalato una mazza da golf speciale e un certificato di nascita del nonno
tedesco di Trump, parlando di «buoni rapporti» tra i due.
Anche l’ex premier olandese Mark Rutte, oggi Segretario generale della Nato, si
è distinto per la sua particolare ossequiosità in un messaggio personale fatto
trapelare dallo stesso Trump. Tuttavia, se gli europei speravano che le loro
dimostrazioni d’affetto sarebbero state ricambiate dagli Stati uniti, questa
convinzione è stata presto delusa. In sostanza, l’«accordo» Nato è stato
semplicemente il presagio della seconda resa incondizionata, avvenuta il 27
luglio..
A metà luglio, Trump aveva annunciato per la prima volta un dazio generale del
30% sulle importazioni dall’Ue, in aggiunta ai dazi già in vigore per l’intero
settore. I dazi sarebbero entrati in vigore due settimane dopo, il primo agosto.
TRATTATO DISEGUALE
Quando Trump è arrivato a Turnberry, in Scozia, dove avrebbe dovuto incontrare
la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, ha annunciato che
l’incontro sarebbe durato al massimo un’ora. Aveva altri impegni importanti,
come qualche partita a golf. L’incontro è durato in effetti così poco, prima che
Trump e von der Leyen comunicassero il loro accordo. La Commissione europea si
era impegnata a spendere circa mille miliardi di dollari in armi, per aiutare
gli americani nel loro tentativo di contenere la Cina. Alcune di queste armi
saranno donate al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, nella sua ormai
impossibile guerra di autodifesa – e sempre più di reclutamento forzato – che
presumibilmente si concluderà con il presidente russo a dettare le condizioni di
pace.
La leadership dell’Ue ha inoltre voluto ringraziare gli Stati uniti per aver
presumibilmente affossato l’infrastruttura energetica strategica Nord Stream II,
ostacolando così gli acquisti di gas dalla Russia da parte dell’Europa. Si è ora
impegnata ad acquistare gas da tecnologia fracking statunitense per un valore di
750 miliardi di dollari, ripartiti nei prossimi tre anni. Infine, l’Ue si è
impegnata a investire ingenti capitali esteri diretti negli Stati uniti, per un
volume di 600 miliardi di dollari.
Non è chiaro come la Commissione dovrebbe costringere le aziende private a scopo
di lucro a impegnarsi a delocalizzare la produzione negli Stati uniti. Allo
stesso tempo, data l’enorme differenza nei prezzi dell’energia industriale su
entrambe le sponde dell’Atlantico – i prezzi dell’energia in Germania, ad
esempio, sono circa il triplo di quelli statunitensi e sette volte superiori a
quelli cinesi – non sono necessari ulteriori incentivi per la delocalizzazione
dei capitali.
L’Inflation Reduction Act di Joe Biden, con i suoi requisiti a base locale, gli
ingenti tagli fiscali per l’1% più ricco rappresentati dal Big Beautiful Bill di
Trump e la deregolamentazione ambientale per un’energia ancora più economica
sono incentivi sufficienti per una fuga di capitali ancora più massiccia dalle
capitali europee a più alto consumo energetico, soprattutto nei settori
manifatturiero industriale e farmaceutico. Due anni consecutivi di crescita
negativa in Germania la dicono lunga.
In cambio di questi generosi doni offerti a Trump dai funzionari dell’Ue, i
capitali statunitensi possono esportare gratuitamente nel Mercato comune europeo
– l’Ue ha «aperto i suoi paesi a dazi zero», si è vantato Trump – mentre le
aziende con sede nell’Ue che cercano di accedere al mercato interno degli Stati
uniti devono pagare tasse di importazione del 15%. Questa è solo l’aliquota
base; vari settori, come l’industria siderurgica e dell’alluminio, si trovano ad
affrontare dazi devastanti del 50%.
Ecco dunque «the deal». Dopo aver sbaragliato von der Leyen, Trump ha così
condiviso la scena con lei per annunciarlo, e i leader dell’Ue si sono
presentati per una foto ricordo con ampi sorrisi e i pollici alzati. In realtà,
non si tratta affatto di un accordo, ma della formale «Dichiarazione di
dipendenza» dell’Europa. Trump, che non si tira mai indietro di fronte ai
superlativi, ha potuto, a ragione, definirla «la più grande di tutte». Ha
imposto all’Europa lo stesso tipo di «trattato» che le potenze europee avevano
costretto la Cina a ingoiare dopo le Guerre dell’oppio.
Von der Leyen ha parlato di un «buon affare», avendo evitato la richiesta
massimalista di Trump dei dazi al 30%; il cancelliere tedesco Merz lo ha
elogiato come migliore del previsto, elogiandone la straordinaria capacità
negoziale nel proteggere le case automobilistiche e farmaceutiche tedesche da
danni ancora maggiori. È vero, gli interessi tedeschi sono stati considerati –
ed è per questo che i rappresentanti di altri Stati membri dell’Ue ora si
lamentano giustamente di essersi cacciati in questo pasticcio solo a causa del
surplus delle partite correnti della Germania nei confronti degli Stati uniti.
Tuttavia, non è un buon affare nemmeno per il capitale tedesco. I dazi
originariamente pagati dalle case automobilistiche tedesche erano di circa il
2%. Un aumento di 13 punti percentuali non promette certo prospettive per un
settore già in difficoltà.
DIPENDENZA EUROPEA, MOLTIPLICATA PER QUATTRO
Le due rese incondizionate dell’Europa rivelano i reali rapporti di forza
nell’economia mondiale. La domanda fondamentale è: perché Trump ha avuto
successo nei confronti dell’Europa con la stessa strategia che ha fallito così
miseramente nei confronti della Cina?
Trump è noto per il suo approccio transazionale alla politica, che gli permette
di concludere accordi basandosi sulle sue carte da poker. Quando si è scontrato
con la Cina, Trump non aveva carte vincenti da giocare. Pechino aveva tutti gli
assi nella manica: dazi di ritorsione del 125%, restrizioni all’esportazione di
terre rare – da cui dipendono le aziende automobilistiche e della difesa
statunitensi – restrizioni all’importazione di film di Hollywood, divieti di
importazione di aerei Boeing e sanzioni speciali contro le aziende statunitensi.
Chiunque si aspettasse che la Cina facesse marcia indietro nella guerra
commerciale con gli Stati Uniti si è sbagliato.
Invece, ha dimostrato la sua forza. Trump è stato costretto a ritirarsi. Dopo il
Trump 1.0 e le misure protezionistiche di Biden contro Pechino, ciò ha
dimostrato la sovranità economica appena acquisita dalla Cina e il massiccio
spostamento dell’equilibrio di forze dell’economia mondiale, dal Nord e
dall’Ovest verso l’Est e il Sud. Ha mostrato i limiti del tentativo degli Stati
Uniti di separare la Cina – il principale partner commerciale di oltre 120 paesi
– dal resto del mondo.
La seconda resa incondizionata dell’Europa mostra il profondo cambiamento
nell’equilibrio di forze transatlantico. Ovviamente, quando gli Stati Uniti
hanno annunciato una «partnership nella leadership» per la Germania e gli
europei dopo la fine della vecchia Guerra Fredda, permaneva un divario nella
loro forza relativa. Eppure, gli Stati uniti hanno preso sul serio l’impero Ue.
Il tentativo di George W. Bush di controllare il rubinetto mondiale del petrolio
contro tutti i potenziali rivali, era diretto anche contro l’Ue. All’epoca,
attraverso l’allargamento a Est, l’Ue stava diventando il più grande mercato
comune del mondo, brandendo la nuova moneta comune, l’euro, come potenziale
alternativa al dollaro. Pertanto, l’impero americano riuscì a impedire che un
allargamento dell’Europa orientale avvenisse al di fuori della struttura di
potere Nato degli Stati uniti sull’Europa.
La guerra in Ucraina ha intensificato lo squilibrio nei rapporti di potere
nord-atlantici. Da ciò è emerso un nuovo atlantismo asimmetrico e una
quadruplice dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti.
In primo luogo, l’annullamento della simbiosi energetica tra Europa e Russia ha
reso l’Europa dipendente dal gas da fracking statunitense e dalle infrastrutture
dei terminali di gas naturale liquefatto controllati dagli Stati uniti.
In secondo luogo, l’Ue è stata indebolita economicamente e resa dipendente dal
mercato interno statunitense, che Trump ora sfrutta con tanto successo per
ricattare gli europei. Non si tratta di un’idea nuova: è esattamente il modo in
cui Ronald Reagan costrinse il rivale giapponese alla resa totale negli anni
Ottanta, innescando decenni di lenta crescita. L’economia Ue, e in particolare
l’economia di esportazione della Germania, è oggi in rovina, con scarse
aspettative di crescita nonostante il massiccio keynesismo militare. La nuova
dipendenza dell’Europa dal gas da fracking statunitense non è solo un disastro
climatico rispetto persino al gas e al petrolio russi, ma anche molto più
costosa. Inoltre, le élite dell’Ue hanno indebolito l’economia europea con
diciotto cicli di sanzioni anti-Russia che si sono solo ritorte contro di loro,
avendo sopravvalutato la forza europea.
La guerra economica degli Stati uniti, che mira a separare l’Europa dall’enorme
mercato interno cinese attraverso la politicizzazione delle catene di
approvvigionamento – anche sanzionando le aziende private europee quando
commerciano con la Cina utilizzando componenti americani – ha reso ancora più
potente la leva dell’accesso all’altrettanto enorme mercato interno
statunitense. Di fatto, nel 2024 gli Stati uniti hanno addirittura sostituito la
Cina come principale mercato di esportazione per la Germania, per la prima volta
dal 2015.
In terzo luogo, l’Ue è diventata anche geopoliticamente dipendente dagli Stati
Uniti. Nel nuovo scontro tra blocchi che gli Stati uniti stanno cercando di
imporre al mondo, il pesce più grosso è quello che possiede settecento basi
militari in tutto il pianeta e controlla la Nato come la più grande alleanza
militare mondiale. Su questa base, gli Stati uniti stanno cercando
aggressivamente di salvaguardare il predominio occidentale in un’economia
mondiale radicalmente cambiata.
In quarto luogo, il tentativo di usare la potenza militare come ultima risorsa
di supremazia significa che il paese che ne trae vantaggio è quello che ospita i
cinque maggiori produttori di armi al mondo, e non l’Ue. In altre parole, alla
dipendenza energetica, economica e geopolitica dell’Europa si aggiunge anche una
dipendenza militare-tecnopolitica. L’«accordo» dettato dagli Stati uniti ai suoi
vassalli europei non fa che mettere a nudo questo atlantismo asimmetrico.
UN ALTRO MODO
Quindi, non c’erano alternative? Nel breve termine, le élite dell’Ue avrebbero
potuto pensare alle carte vincenti che avevano in mano. Eppure, le tasse sui
monopoli americani dell’IT e del capitalismo di piattaforma sono state abolite
ancor prima dell’inizio dei negoziati. I leader dell’Ue hanno giocato
correttamente, sperando nella clemenza.
A lungo termine, quelle stesse élite avrebbero potuto opporsi alla nuova
spartizione del mondo da parte degli Stati uniti. Avrebbero potuto cercare
autonomamente di attenuare la tensione nella guerra in Ucraina. Le opportunità
si sono presentate numerose. Proprio per perseguire i propri interessi, l’Ue
avrebbe potuto ricercare un nuovo accordo di pace e sicurezza per l’Europa e
l’Asia, comprese Russia e Cina. Invece, le sue élite si sono immerse in un mondo
fantastico di imminenti invasioni russe e di una nuova corsa agli armamenti, che
sconvolgerà l’Europa economicamente, socialmente, politicamente e culturalmente.
Sì, la dipendenza dell’Europa dagli Stati uniti è indubbiamente significativa;
le risorse di Washington per punire una dichiarazione d’indipendenza europea non
sono da sottovalutare. Ma è anche vero che il potere degli Stati uniti nel mondo
sta diminuendo.
L’Ue non è stata ben consigliata a lasciarsi spingere dagli Usa a uno scontro
economico e militare con la Cina. In realtà sembra che gli europei condividano
maggiori interessi con la Cina e persino con il Sud del mondo. Le élite dell’Ue
avrebbero potuto accettare il nuovo multipolarismo come un dato di fatto e
prendere l’iniziativa di contribuire a creare un nuovo ordine mondiale
multilaterale che prevenga i suoi molteplici rischi in termini di guerre
economiche e di altro tipo. Le élite dell’Ue avrebbero potuto vedere l’ascesa
dei Brics come un’opportunità. Invece, l’adesione degli Stati europei ai Brics è
fuori questione.
Entrare in una «rivalità sistemica» con Pechino nel 2019, e perseguire questa
linea da allora, ha significato schierarsi dalla parte del Grande Fratello
americano. Ha anche significato sostenere e soccombere al tentativo degli Stati
uniti di bloccare l’ascesa della Cina e del Sud del mondo. Isolati nel mondo, i
leader europei si sono ridotti alla mercé di Washington.
Eppure gli Stati uniti hanno dimostrato di non essere un fratello maggiore
protettivo. Hanno mostrato agli europei il volto prepotente che mostrano in
tutto il mondo da almeno un secolo. Con il nuovo atlantismo asimmetrico,
l’Europa viene trattata come un vassallo. Per completare la loro umiliazione, i
leader europei continuano a sorridere perché pensano che chi dice «a» debba dire
anche «b». Tuttavia, come ha insegnato Bertolt Brecht, questo non è vero:
possiamo anche riconoscere che la prima ipotesi, «a», era sbagliata. Ma per
riconoscerlo, ci vorranno altri leader, provenienti da un equilibrio politico
completamente diverso all’interno dell’Europa stessa.
*Ingar Solty è ricercatore senior in politica estera, di pace e di sicurezza
presso l’Istituto per l’analisi sociale critica della Fondazione Rosa Luxemburg
a Berlino. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della
redazione.
L'articolo Un secolo di umiliazione europea proviene da Jacobin Italia.