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Italians for Mamdani
Articolo di Elisabetta Raimondi Uno dei fenomeni conseguenti all’entusiasmo per Zohran Mamdan è la nascita degli Italians for Zohran, un gruppo creato quasi per gioco su Instagram la primavera scorsa. La sua storia, che potrebbe sembrare folcloristica o patriottica, anche se in un’accezione lontana dall’ideologia della destra, rappresenta una novità, o una rivoluzione, per la comunità italo-americana. Il gruppo, che ha intenzione di continuare la sua attività politica, offre infatti una visione molto differente da quella che generalmente caratterizza gli italo-americani come conservatori e reazionari.  Gli Italians for Zohran hanno anche una chat whatsapp che riunisce gli attivisti più impegnati, la maggior parte dei quali sono millennials simpatizzanti e/o iscritti ai Dsa (Democratic Socialists of America). Appartengono generalmente a famiglie che vivono in America da alcune generazioni, come lo studioso della diaspora italo-americana Steve Cerulli, ma vi sono anche italiani trasferitisi a New York per lavoro negli ultimi anni. Un pilastro del gruppo è ad esempio  l’accademico specializzato in sistemi carcerari mondiali Sergio Grossi, docente di criminologia alla Cuny (City University of New York) dove è strettissimo collaboratore di  Alex Vitale, il celebre autore di The End of Policing sulla giustizia trasformativa. Nei primi mesi del 2025 Vitale e Grossi hanno incontrato Zohran Mamdani per la costituzione, in caso di vittoria, di un Department of Community Safety gestito non dalla polizia ma da un organo civico. Ora la progettazione sta per partire dato che tra i recenti incarichi in vari settori appena conferiti da Mamdani vi è quello ad Alex Vitale. Della realtà italo-americana newyorkese, dei legami dei giovani con l’Italia e di molto altro abbiamo parlato in particolare con Jesse Ortiz, trentunenne fondatore di Italians for Zohran, prossimo alla laurea in medicina, e con Alessandra Ferrara, trentottenne preparatissima attivista dei Dsa. Ne riportiamo alcuni estratti. Per prima cosa raccontaci come ti è venuta l’idea di creare un gruppo di supporto a Zohran formato da italo-americani.  Jesse Ortiz: È successo quasi per gioco la primavera scorsa, un giorno in cui scorrendo su Instagram gli affinity group creati per Mamdani, ho pensato che sarebbe stato divertente averne uno italiano e così ho twittato Italians for Zohran. Non immaginavo che la proposta avrebbe suscitato interesse, perché so che gli italoamericani di New York sono prevalentemente conservatori e vengono inquadrati in un cliché che li fa sentire emarginati, in quanto generalmente percepiti come un’etnia diversa da quella bianca anglosassone. Invece le risposte e le adesioni mi hanno fatto sentire responsabile come se con quel tweet mi fossi preso un impegno. Inoltre mi sono reso conto sia di come Andrew Cuomo avesse monopolizzato l’identità italo-americana, sia del gran desiderio dei giovani di prenderne le distanze. Ho quindi pensato che un gruppo per Zohran avrebbe potuto creare uno spazio fino a quel momento inesistente in cui noi giovani italo-americani potessimo conciliare le nostre idee politiche più progressiste e socialiste con la nostra identità di italiani.  Tu, come tanti altri affiliati al gruppo, sei un italo-americano la cui famiglia è qui da diverse generazioni. Eppure sentite ancora un forte attaccamento all’Italia, al punto che parecchi di voi, pur essendo cresciuti anglofoni e con genitori che non parlano l’italiano, hanno deciso di studiare la lingua in età adulta. Come mai questo attaccamento? Jesse Ortiz: L’italia la sento nel sangue essendo cresciuto con nonni, zii e parenti che mi hanno raccontato delle loro vite da immigrati e di quelle dei loro genitori venuti qui a lavorare sodo, a far parte dei sindacati, a versare sangue, sudore e lacrime per la città. È un’esperienza comune a molti di noi. Però i nostri vecchi, se così posso definirli, pur raccontando delle difficoltà e discriminazioni vissute, sono molto duri quando parlano degli immigrati di oggi che secondo loro vogliono solo trarre vantaggio da realtà che non hanno contribuito a creare. Sono razzisti e islamofobici. E questa è una cosa che noi giovani vogliamo cambiare. Quanto al fatto che generalmente i nostri genitori non parlino l’italiano, dipende dal desiderio dei loro genitori di vedere i propri figli integrati in un modello di società che discriminava i bianchi non anglosassoni.  Il cliché dell’italo-americano conservatore è legato a un particolare partito o va oltre? E riguardo al Partito democratico, qual è la tua posizione e più in generale quella del gruppo?  Jesse Ortiz: Sebbene  lo stereotipo dell’italo-americano, in particolare a New York, sia quello di essere conservatore e reazionario credo che la realtà sia molto più complicata e che gli italo-americani si trovino in tutto lo spettro politico. Ci sono sicuramente dei fascisti e dei trumpiani, ma anche persone legate a diverse tipologie di destra. E poi ci sono persone come mia madre, che ha 69 anni e pur non considerandosi socialista è liberal e femminista. È una dei tanti elettori ed elettrici Democratici più che mai deluse dal partito, cosa che l’ha portata a sostenere Mamdani. Quanto al Partito democratico sia io sia il gruppo lo consideriamo un corporate party senza alcuna visione per il futuro. Tuttavia, in mancanza di un terzo partito lo utilizziamo come  strumento per fare pressione su istanze più progressiste e socialiste, proprio come ha fatto Mamdani. E come prima di lui ha fatto Bernie Sanders, le cui campagne hanno evidenziato l’enorme numero di persone, sia dentro sia oltre il Partito democratico, che vogliono un’agenda progressista. Alessandra Ferrara, terza generazione, laureata in Politiche Internazionali con indirizzo in Medio Oriente e conoscenza dell’arabo, oltre che dell’italiano, non imparato in famiglia, hai conoscenze molto vaste che sa diffondere con notevole competenza e senza ostentazione. Tu sei molto attiva tra i Dsa, dove fai volontariato soprattutto conducendo gruppi di lettura. Vuoi parlarci in particolare di quello intitolato Da Marx alla Palestina e del perché hai strutturato questo corso?  Alessandra Ferrara: Perché sento la necessità che i giovani interessati al cambiamento politico siano in grado di interpretare la realtà di oggi con una conoscenza del passato visto da una prospettiva socialista. Prima di affrontare i temi odierni cerco di insegnare i fondamentali del marxismo e del socialismo in modo che tutti possano avere non solo delle conoscenze di base, ma anche il linguaggio giusto per parlarne.Tra i testi che leggiamo c’è il recente The ABCs of Socialism dove ci sono anche saggi di Chris Maisano che fa parte degli Italians for Zohran. Stiamo cercando di smontare il linguaggio dell’illusione che vuole farci credere all’impossibilità di certi obiettivi, dimostrando che una vera possibilità sociale nasce da solidarietà e empatia radicali. Perciò, quando parliamo di concetti come «una città accessibile a tutti», cosa significa davvero in termini politici? Cerchiamo anche di rispondere a domande sul perché abbiamo Trump o la guerra in Palestina, partendo dal passato ed esaminando anche le azioni dei presidenti americani che ci hanno portato al punto in cui siamo oggi. In un certo senso stiamo risalendo la storia attraverso il filtro interpretativo del linguaggio con cui la leggiamo. Jesse mi ha parlato di una sorta di emarginazione percepita dalla comunità Italo-americana, quasi sentisse di far parte più della popolazione di colore che non di quella bianca. Condividi questa considerazione? Alessandra Ferrara: Sì. Ed è una cosa che vogliamo sovvertire. Rifiutiamo l’idea che la nostra dignità derivi dalla nostra prossimità con la cultura bianca anglosassone, con la ricchezza e l’accumulazione, elementi tipici del capitalismo. La nostra dignità deriva dallo stare dalla parte dei poveri, della working class e degli immigrati, perché tali sono stati i nostri nonni e bisnonni. Ma molte associazioni culturali italo-americane attive a New York sono culturalmente italiane ma politicamente conservatrici. Pur facendo alcune cose buone per diffondere le nostre tradizioni, per la verità soprattutto religiose, e insegnare l’italiano, si tratta prevalentemente di associazioni politicamente conservatrici che hanno nostalgia di tutte le cose brutte del nostro passato. Anche di Mussolini? Alessandra Ferrara: Altroché. E in particolare dell’idea che le donne devono stare a casa a cucinare e a fare le madri. Condividono le posizioni di Giorgia Meloni quando dice «sono una donna, una madre, una cristiana». Non capiscono che sono idee anacronistiche che non hanno più giustificazione. Sono retaggio di un passato che poteva avere senso molti decenni fa, quando le nostre nonne si conquistarono il diritto di fare le casalinghe perché volevano differenziarsi dalla working class immigrata. Volevano essere uguali alle donne americane anglosassoni del loro tempo e assimilarsi con il progresso sociale di allora secondo il quale il regno della donna era la casa. E volevano soprattutto che le proprie figlie e i propri figli si integrassero totalmente.  A che classe sociale appartengono i componenti di gruppi come quello che hai citato o come la Lacrl (Italian American Civil Rights League) tra i cui post ne ho visto uno che rivendicava il duro lavoro di nonni e bisnonni per costruire la città, proprio come dite tu e Jesse, traendone però conclusioni opposte alle vostre? Alessandra Ferrara: L’ironia è che parecchi di questi gruppi sono composti da persone della working class che però non sono a favore della working class, non sono pro-liberal, non si interessano di problemi sociali come casa, lavoro e reddito. Sono ancora legati a un passato in cui l’essere coinvolti con la politica più conservatrice, come quella di Cuomo, ha permesso loro di avere benefici finanziari e un passaporto per entrare a tutti gli effetti nella società bianca cattolica socialmente rispettata. Noi invece proponiamo un cambiamento come quello proposto da Zohran, e gli siamo grati perché finalmente possiamo essere italiani e socialisti. *Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola media secondaria pubblica per oltre 40 anni. Attiva in ambito artistico e teatrale, ha cominciato a seguire la Political Revolution di Bernie Sanders nel 2016 per la rivista Vorrei.org. Collabora con Fata Morgana Web e con Libertà e Giustizia. L'articolo Italians for Mamdani proviene da Jacobin Italia.
La storia non cambia finché…
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- Washington, afghano spara vicino alla Casa Bianca: gravi due militari. Trump dà la colpa a Biden. Spari vicino alla Casa bianca: un afghano arruolato dagli Usa Afghano arrestato dopo la sparatoria vicino alla Casa Bianca E simili… Ecco servita, di nuovo, la Storia. O meglio, giacché più mi si addice, la medesima con l’iniziale minore. Necessariamente modesta. La storia, già. Ma prima il fatto, a dispetto della narrazione: un uomo, un nostro simile quindi, spara e colpisce altri esseri umani. Li ferisce gravemente. E come capita talvolta, qualcuno di loro muore. È una triste quanto inaccettabile tragedia. Lo è sempre in tali casi, soprattutto perché è il frutto del male che noialtri arrechiamo a noi stessi. Ciò malgrado assistiamo con amarezza al diffondersi immediatamente della stessa storia. Secondo uno studio delle Nazioni Unite relativo all’anno 2021, il mondo ha registrato circa 458.000 omicidi, con una media di 52 all’ora, ovvero circa 1.248 al giorno. Gli Stati Uniti hanno registrato, sempre nel 2021, il tasso regionale di omicidi pro capite più alto, con 154.000 persone uccise. Come capita da decenni, a dispetto dell’inopinabile realtà dei numeri, nel racconto che è stato diffuso nei giorni scorsi, a uccidere non è stato semplicemente un essere umano. Trattasi di dato non rilevante. Non vende altrettanto. Non impressiona più da tempo. E soprattutto, sposterebbe la discussione su temi che non conviene affrontare. Come per esempio la diffusione delle armi, le leggi che ne regolano l’acquisto e il possesso, oppure la violenza, il disagio, l’odio e coloro che li alimentano incessantemente per profitto. Il dettaglio di quell’uomo che si è macchiato di un crimine orrendo, del quale con assoluta priorità vanno informati i lettori e gli ascoltatori, in altre parole gli elettori e più che mai i consumatori, è la sua nazionalità. Il cattivo della storia è marocchino, tunisino, arabo, eccetera, possibilmente musulmano e auspicabilmente con la pelle abbastanza scura da rientrare nella tonalità dell’incubo moderno, ed ecco che la trama è pronta per essere servita. Stavolta si tratta di un cittadino afghano. Poi, una volta sferrata la controffensiva all’aggressione di un sol uomo a una presunta intera civiltà che si crede bianca e protetta da un unico quanto inviolabile corredo di tradizioni e culture, gli sceneggiatori di tale ormai atavico copione lasciano lo spazio a coloro che ne devono raccogliere i frutti. Si legga pure come più la facile e disumana catena razzista che esista: afghano vuol dire straniero, straniero vuol dire “migrante”, e allora… che paghino tutti per uno. Via libera a ulteriori strette sugli ingressi, a nuove espulsioni sommarie e ad altre limitazioni dei già pochissimi diritti civili e persino umani concessi a costoro. Per non parlare del consequenziale incremento di quella medesima violenza e di quello stesso odio di cui invece dovremmo parlare, in tal caso nei confronti di milioni di persone innocenti fino a prova contraria. Ma questo non rientra nella suddetta storia, bensì nella sopra citata indiscutibile realtà dei numeri. Erano i primi anni Novanta quando ho iniziato a osservare sui quotidiani e ad ascoltare per bocca dei narratori dei telegiornali il diffondersi di racconti come questo. In seguito ho scoperto che arriva da ben più lontano. La storia, a quanto pare, non cambia. Ma se le storie con l’iniziale trascurabile che ci raccontiamo a vicenda resteranno immutate a prescindere da ciò che effettivamente accade là fuori, qualora ciò si ripeterà in misura eccezionale per un tempo prolungato, lo stesso succederà con la Storia di tutti. Ecco perché la Storia non cambia finché… Finché non cambierà chi la racconta, ma soprattutto chi la ascolta. Loro, io e te, noi, voi… -------------------------------------------------------------------------------- Per ricevere la Newsletter di Alessandro Ghebreigziabiher -------------------------------------------------------------------------------- Scrittore, narratore e attore teatrale italiano, si è sempre occupato con attenzione dei temi legati alle migrazioni e ai processi interculturali e alle loro narrazioni. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La storia non cambia finché… proviene da Comune-info.
L’obiettivo del socialismo è tutto
Articolo di Bhaskar Sunkara Sabato 22 novembre, Bhaskar Sunkara, fondatore e direttore editoriale di Jacobin, ha tenuto il discorso principale alla conferenza biennale dei Democratic Socialists of America (Dsa) di New York City, presso la First Unitarian Congregational Society di Brooklyn. Di seguito la trascrizione del suo intervento sul perché la sinistra debba ottenere risultati concreti oggi, ma anche continuare a lottare per una società socialista che vada oltre il presente. Sono così emozionato di essere qui con voi tutti. Ho la sensazione che questo sia il momento politico che molti di noi hanno aspettato e su cui ci siamo impegnati per anni.  Siamo a un mese dall’elezione a sindaco di uno dei nostri compagni. Abbiamo costruito una rete di rappresentanti eletti socialisti, abbiamo una vera organizzazione che ci rappresenta e c’è una base crescente di sostegno in questa città per la nostra richiesta immediata di tassare i ricchi per ampliare i beni pubblici. Questo momento si estende oltre New York: abbiamo un’apertura politica enorme negli Stati uniti nel loro complesso. Ma sappiamo di avere questa opportunità perché milioni di persone stanno vivendo momenti difficili. Abbiamo un presidente umorale e autoritario, abbiamo una crisi di accessibilità economica, con milioni di persone che lottano per pagare le bollette e per vivere una vita in cui siano trattate con dignità e rispetto. Abbiamo assistito al ritorno di forme di nativismo e razzismo che avrebbero dovuto essere ormai sconfitte da tempo. E a livello sociale ed economico, la situazione potrebbe peggiorare molto presto. Il paese – non solo questa città – reclama a gran voce una leadership politica basata sui principi. Non solo una leadership populista basata su grandi figure, anche se sono grato di avere al nostro fianco una delle figure più grandi. Intendo una leadership di classe attraverso l’organizzazione. La leadership che afferma che le disparità che vediamo nel nostro paese e nel mondo non sono leggi naturali di Dio, ma il risultato di un mondo creato dagli esseri umani. La leadership che afferma che gli interessi della maggioranza della working class sono distinti dagli interessi delle élite capitaliste e che dobbiamo organizzarci attorno a questi interessi per ottenere non solo una migliore distribuzione della ricchezza all’interno del capitalismo, ma anche un diverso tipo di società nel suo complesso. I FIGLI DI DIO POSSONO GOVERNARE Mi sono iscritto ai Dsa quando avevo diciassette anni. Non c’è bisogno che vi dica cos’erano i Dsa a New York nel 2007. Alcuni di voi qui lo ricordano. Ho stretto tante buone amicizie, ma eravamo fortunati se a un incontro erano presenti una dozzina di persone. Abbiamo fatto progressi grazie al lavoro paziente e costante e all’impegno di quelle persone e di molte altre che si sono unite in seguito. Eravamo i maratoneti del socialismo. Questo, però, è il momento di dare il massimo. Viviamo la più grande apertura che il nostro movimento abbia avuto negli ultimi decenni. Il tempo che dedicheremo al lavoro politico nei prossimi mesi e anni avrà un impatto enorme sulla nostra città e sul nostro paese, per ora e per chi verrà in futuro. Ma cosa dovremmo fare esattamente e come dovremmo relazionarci sia con l’amministrazione del nuovo sindaco sia con gli altri nostri compagni eletti? A mio avviso, i nostri compiti come socialisti organizzati al di fuori del governo sono diversi e in gran parte compatibili con i loro. Le richieste chiave del nostro momento riguardano l’accessibilità economica. Il nostro sindaco eletto guiderà un’iniziativa per raccogliere fondi per finanziare programmi sociali e dare potere alla working class della città. Se Zohran [Mamdani], gli altri nostri eletti e il movimento di base che li circonda apporteranno un cambiamento positivo nella vita delle persone, costruiremo una base sociale più solida per la sinistra. Al momento, la nostra forza elettorale ha superato di gran lunga la nostra base. Ma la gente è pronta ad accogliere il nostro messaggio e a vedere i risultati. Ma, fondamentalmente, qualsiasi forma di governance socialdemocratica vive delle costrizioni. Proprio come nel capitalismo i lavoratori e le lavoratrici dipendono da aziende redditizie per il proprio posto di lavoro, le città dipendono dalle grandi aziende e dai ricchi per le entrate fiscali. Zohran deve destreggiarsi tra questi vincoli. Non può minare il vecchio regime di accumulazione e ridistribuzione senza avere a disposizione qualcosa con cui sostituirlo, e certamente non può esserci un sostituto totale in una sola città. Queste preoccupazioni non sono nuove. Questo è il dilemma della socialdemocrazia. Questa è la tensione tra i nostri obiettivi a breve e a lungo termine che esiste nel movimento socialista da 150 anni. Nel breve termine, i nostri rappresentanti eletti dovranno gestire il capitalismo nell’interesse dei lavoratori e delle lavoratrici, mentre il nostro movimento ha anche l’obiettivo a lungo termine di costruire un nuovo sistema attraverso l’auto-emancipazione dei lavoratori stessi. Dobbiamo considerare i vincoli a cui Zohran sarà sottoposto in termini strutturali, piuttosto che morali. Ma avere pazienza e sostenerlo non ci aiuta a conciliare il breve e il lungo termine – socialdemocrazia e socialismo. Come minimo, è importante ricordare l’obiettivo finale. Il grande teorico del riformismo, Eduard Bernstein, una volta disse che «l’obiettivo è nulla, il movimento è tutto». Credo che non sia del tutto corretto. Se non parliamo di socialismo dopo il capitalismo, nessun altro lo farà. Il sogno storico del nostro movimento, un mondo senza sfruttamento né oppressione, andrà perduto. Ma non dovremmo evitare un approccio riformistico solo perché vogliamo sentirci puri come «veri socialisti» o come ricerca intellettuale. Dobbiamo ricordare l’obiettivo della rottura con il capitalismo perché può offrire una visione convincente del mondo a coloro che stiamo cercando di raggiungere. Il socialismo non è la «Svezia», come a volte dice Bernie [Sanders]. Il socialismo non è nemmeno solo «una migliore distribuzione della ricchezza per tutti i figli di Dio», come diceva Martin Luther King Jr. e come Zohran ha splendidamente invocato.  Socialismo significa una migliore distribuzione della ricchezza, ma anche un controllo democratico su ciò da cui tutti dipendiamo: i lavoratori e le lavoratrici che tengono le leve della produzione e degli investimenti, e lo Stato che garantisce i beni fondamentali della vita come i diritti sociali. Socialismo significa non dover più implorare le aziende di investire nelle nostre comunità o i ricchi di restare e pagare le tasse. Socialismo significa superare la dialettica capitale-lavoro attraverso il trionfo del lavoro stesso, non con un compromesso di classe più favorevole. Socialismo significa che le persone che hanno mantenuto in vita questo mondo – gli assistenti sociali, gli autisti, i macchinisti, i braccianti agricoli, gli addetti alle pulizie – smettono di essere uno sfondo invisibile e diventano artefici del loro futuro. Socialismo significa una società in cui coloro che hanno sempre dato senza avere voce in capitolo mostrano finalmente le loro vere capacità. Dove, come diceva C.L.R. James, ogni cuoco può governare. Socialismo significa sostituire un’economia basata sulla gerarchia e sull’esclusione con un’economia fondata sull’intelligenza e sulla creatività dei lavoratori e delle lavoratrici stesse. Questo è l’obiettivo che manteniamo vivo. Non perché sia utopico, ma perché è l’unico orizzonte all’altezza della dignità e del potenziale delle persone comuni. E perché è avvincente. Non si tratta solo di restituire ai lavoratori parte del loro plusvalore in cambio del loro voto. Si tratta di offrire loro il futuro, una società di cui possono essere proprietari, la possibilità di assumere il loro legittimo ruolo di agenti della storia. Qualcosa del genere è vero socialismo. Non è un gruppo di interesse o un’etichetta per distinguerci dagli altri progressisti. È un obiettivo fondamentalmente più radicale di quelli dei nostri alleati. Si basa su un’analisi diversa del mondo che ci circonda e del mondo che può essere costruito. Potremmo forse pensare ai diversi modi con cui colmare il divario tra breve e lungo termine attraverso una serie di richieste che almeno accennino immediatamente al concetto di socializzazione. Idee che offrano non solo un maggiore benessere sociale, di cui c’è urgente bisogno, ma anche un assaggio di proprietà e controllo. Un accenno a una diversa economia politica. Un esempio: quando un’azienda chiude o i suoi proprietari vanno in pensione, i lavoratori sostenuti da un fondo pubblico potrebbero avere la possibilità di salvarla convertendola in un’impresa gestita dai lavoratori e dalle lavoratrici. A livello comunale, potremmo istituire un ufficio comunale per aiutare i lavoratori a trasformare i negozi chiusi in cooperative, fornendo il supporto legale e contabile e accelerando le procedure per i permessi. Abbiamo già parlato dei supermercati comunali e della necessità di edilizia popolare. Abbiamo bisogno di più idee come queste. Riforme che si integrino con la socialdemocrazia ma che vadano oltre. IL SOCIALISMO NEL NOSTRO TEMPO È stato emozionante incontrare persone che si sono appena unite ai Dsa. È stato bello anche rivedere vecchi amici. Mi lamentavo di essermi perso il primo tempo della partita dei Knicks, ma nemmeno Jalen Brunson riesce a tenermi lontano da qui. Sono davvero entusiasta di ciò che potremo fare nei prossimi due anni. Miglioreremo la vita di milioni di persone e faremo crescere il nostro movimento. Ma oltre all’entusiasmo, abbiamo bisogno di essere onesti sulla strada che dobbiamo ancora percorrere per radicarci nelle comunità di lavoro. Abbiamo bisogno di più potere non solo nelle urne, ma anche nei luoghi di produzione e scambio. E dobbiamo essere onesti sulle battaglie e i vincoli che Zohran dovrà affrontare, ed essere pronti a sostenerlo quando i tempi si faranno duri. La carica di sindaco di Zohran sarà una lotta per ciò che è possibile ottenere in questo momento. Il nostro compito è lasciare che questa lotta espanda, e non restringa, i nostri orizzonti, mantenendo vivo l’obiettivo del socialismo nel nostro tempo. *Bhaskar Sunkara è il fondatore e direttore di Jacobin, il presidente della rivista Nation e l’autore di Manifesto socialista per il XXI secolo (Laterza, 2019). Questo articolo è uscito su Jacobin Mag, la traduzione è a cura della redazione. L'articolo L’obiettivo del socialismo è tutto proviene da Jacobin Italia.
Il socialista nello Studio ovale
Articolo di Elisabetta Raimondi Davanti ai giornalisti ammessi nella stanza ovale dopo l’incontro a porte chiuse del 21 novembre con Zohran Mamdani,  Donald Trump ha citato quasi letteralmente il celebre verso del film Cenerentola per garantire il suo supporto al neo-sindaco: «Lo aiuteremo per far sì che il sogno di tutti diventi realtà».  Considerando la volubilità e l’imprevedibilità di Trump potrebbe non stupire che fino a pochi giorni prima i suoi appellativi per Zohran fossero «100% lunatic communist» o più semplicemente «communist», in aggiunta ad altre espressioni tra cui «non è molto intelligente», «ha un aspetto terribile», «molte persone dicono che è qui illegalmente» e all’intimazione lanciata agli ebrei di New York: «qualsiasi ebreo che voti per Zohran Mamdani, un provato e dichiarato hater degli ebrei, è stupido». Eppure non ci pare siano la volubilità e l’imprevedibilità le cause di tale cambio di registro, quanto piuttosto un comportamento dovuto a fattori di convenienza, probabilmente accentuati, negli apprezzamenti iperbolici a cui Trump si è lasciato andare, dal fascino che un personaggio come Zohran è in grado di esercitare, anche a detta dei suoi avversari, su chiunque entri in diretto contatto con lui.  Neppure Zohran era stato tenero con il presidente durante la campagna elettorale. Basti citare il momento in cui nel discorso della vittoria del 4 novembre ha fatto rimbombare l’enorme Brooklyn Paramount Theater amplificando il tono della sua voce baritonale, per enfatizzare la perentorietà della sua minaccia: «Dopotutto, se qualcuno può mostrare a una nazione tradita da Donald Trump come sconfiggerlo, quella è la città che lo ha visto nascere. E se c’è un modo per intimorire un despota, è smantellando le condizioni che gli hanno permesso di accumulare potere. Questo non è solo il modo per fermare Trump; è il modo per fermare il prossimo [despota]. Quindi, Donald Trump, poiché so che ci stai guardando, ho quattro parole per te: turn the volume up». Ciò nonostante anche Mamdani ha cambiato registro, esprimendo parole di elogio per Trump fin dalle prime battute del suo intervento di fronte alla stampa: «Ho apprezzato il tempo passato con il Presidente. Ho apprezzato la nostra conversazione. Non vedo l’ora di lavorare insieme per garantire l’accessibilità di New York ai newyorkesi».  La verità è che entrambi i giocatori di questo incontro dovevano portare a casa qualcosa per calcolo e convenienza. Quanto a Trump, il fatto che non avrebbe affrontato Mamdani come uno Zelenski qualunque era dato per scontato. La sua fama di essere forte con i deboli e se non debole, comunque cauto, remissivo e a volte adulatorio con i forti, collocava l’incontro con Mamdani nella seconda tipologia, rientrando il trentaquattrenne socialista non solo nella categoria dei forti, ma anche in quella dei vincenti che a Trump piacciono tanto. A dispetto della solita egocentrica propaganda autocelebrativa, Trump era consapevole, soprattutto in un momento di grande difficoltà e debolezza come questo, che un’unità di intenti per rendere New York la città dove i sogni di tutti e tutte si possano avverare gli avrebbero giovato. Il suo indice di gradimento è bassissimo, l’approvazione unanime dei Repubblicani al Congresso a favore del rilascio degli Epstein Files è qualcosa che per la prima volta espone il presidente alla mancata protezione del suo partito, e lo scontento di molti Maga è un dato di fatto che si è materializzato emblematicamente nella ribellione della sua ex-fedelissima seguace Marjorie Taylor Green, che ha peraltro appena annunciato che ai primi di gennaio rimetterà il suo mandato di deputata Repubblicana. Da parte sua Mamdani sapeva di avere di fronte un giocatore che, per quanto debole e suscettibile al fascino dei vincenti, è furbo. Come nel caso di Amleto che agli amici Rosenberg e Guildenstern diceva «prendetemi pure per lo strumento che volete, anche se mi strimpellate non riuscirete mai a suonarmi», Mamdani sa bene che Trump non è strumento facile da suonare. Così la sua strategia doveva far fronte alla megalomania di Trump e alla sua scaltrezza, nonché alla sua battuta sempre pronta. E il risultato ha dato ulteriore prova dell’istinto psicologico, oltre che politico e mediatico, del giovane sindaco. Da una parte ha ottenuto apprezzamenti a non finire, e dall’altra ha soddisfatto l’egocentrismo del presidente, lasciandogli manifestare nei suoi confronti quegli atteggiamenti paternalistici che inorgogliscono Trump, lasciandogli prendere in anticipo dei meriti che Zohran dovrà condividere con lui se riuscirà a realizzare le sue promesse. «Alcune delle sue idee sono le stesse che ho io», ha detto Trump. «Siamo d’accordo su molte più cose di quanto pensassi». A questo proposito ha persino tirato in ballo Bernie Sanders, dicendo oltretutto delle sacrosante verità sul trattamento riservatogli dai Democratici: «Io e Bernie Sanders eravamo d’accordo su molto più di quanto la gente pensasse. E quando è stato estromesso dalla corsa, secondo me in modo piuttosto ingiusto se volete sapere la verità, molti dei suoi elettori hanno votato per me. E questo mi ha fatto sentire del tutto a mio agio nel constatarlo e nel dirlo».  Il tutto ha creato situazioni quasi surreali, come nel  caso in cui Trump è intervenuto per togliere Mamdani dall’imbarazzo quando toccandolo con un braccio gli ha detto di rispondere «sì», perché sarebbe stato «più facile», a una giornalista che chiedeva a Zohran se continuasse a ritenere Trump un fascista. Ma particolarmente surreale è stata la dinamica fisica tra i due, fatta non solo di frequenti sguardi ma anche, come nel caso appena citato, di tocchi amichevoli e paternalistici che Trump ha indirizzato a Mamdani, e che in un caso lo stesso Mamdani ha indirizzato a Trump.   Nonostante quello che potrebbe apparire un cedimento a Trump, se non rientrasse in una più complessa dinamica strategica, Mamdani ha sempre tenuto come obiettivo fisso i temi riguardanti le sue proposte per New York, anche a dispetto di domande dei giornalisti più orientate a sottolineare il suo conflitto con il presidente, ricordando i reciproci appellativi lanciatisi in campagna elettorale. In ogni situazione Zohran ha infatti deviato il discorso sulla sostenibilità della vita per tutti gli otto milioni e mezzo di cittadini newyorkesi, di cui uno su quattro vive in condizioni di povertà. Una sostenibilità che si declina in prezzi degli affitti, dei generi alimentari, degli autobus ecc., tanto che Trump a un certo punto ha persino detto che le due parole nuove entrate nel vocabolario sono «affordability» e «groceries».   Il top delle lusinghe velate e del conseguente compiacimento di Trump, Zohran l’ha ottenuto ricordando come le sue interviste alle persone di Hillside Avenue e Fordham Road, zone che nel 2024 avevano raggiunto un altissimo passaggio di ex-elettori Democratici verso il sostegno a Trump, fossero dovute a due cause condivise. La «fine delle guerre senza fine», da un lato, in cui i soldi dei contribuenti vanno «a finanziare la violazione dei diritti umani», e dall’altro «la crisi del costo della vita». Pur non potendo dare voce al resto del suo pensiero, come aveva fatto in campagna elettorale e la sera della vittoria al Paramount Theater, sul tradimento da parte di Trump di entrambe quelle promesse, il ricorso alla frase sulla violazione dei diritti umani implicitamente riferita a Israele, su cui Trump ha taciuto, è stata già di per sé eloquente . Insomma, malgrado molti commentatori – da quelli di Fox News a Bill Maher – avessero cercato di dipingere Mamdani come un potenziale disastro politico per i Democratici, in quanto  prova della deriva socialista e radicale del partito, e un enorme regalo per i Repubblicani, niente si è dimostrato più errato. Lungi dal diventare un’arma nelle mani della destra, la sua vittoria ha mostrato come Mamdani sia stato una forza in grado di mobilitare consenso, a dispetto della risoluzione contro il socialismo (Denouncing the horrors of socialism) votata il giorno prima alla camera da tutti i Repubblicani e da 68 Democratici, tra cui Hakeem Jeffries. Anzi secondo una delle nostre fonti abituali, Emily Jashinsky, che si trovava nell’ufficio ovale, i commenti di Trump nei confronti di Mamdani hanno addirittura neutralizzato l’80% della campagna della Repubblicana Elise Stefanik contro la governatrice democratica Kathy Hochul per le elezioni del prossimo anno. E l’ironia è che si tratta di quella Stefanik, ferrea sostenitrice di Trump e da lui sostenuta, che ha ripetuto più volte il mantra di Zohran Mamdani jihadista. Alla domanda di Emily rivolta a Trump se non fosse preoccupato di stare accanto a un jihadista, proprio citando Stefanik, Trump non solo ha detto di no, ma ha minimizzato affermando, come aveva già fatto in precedenza, che si trattava «solo di campagna elettorale». Insomma, la narrazione catastrofista non si è materializzata e la figura di Mamdani non è diventata un’arma nelle mani della destra. Al contrario, la vittoria gli ha dato una nuova autorevolezza e ha mostrato che la sua agenda non è un peso per il Partito democratico, ma una forza capace di mobilitare consenso. Quanto poi l’establishment Democratico sarà disposto ad accettarlo è ancora tutto da vedere. Ma le elezioni di midterm si avvicinano e le competizioni tra progressisti e corporate democrats saranno un banco di prova che mostrerà quanto avrà successo la realtà fotografata in un tweet di Ryan Grim: «Offrendo al paese una visione di cosa potrebbe essere una politica basata sul conflitto basso contro alto invece che sinistra contro destra, Trump e Mamdani rappresentano, se non qualcosa di storico, uno sviluppo davvero nuovo». *Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola media secondaria pubblica per oltre 40 anni. Attiva in ambito artistico e teatrale, ha cominciato a seguire la Political Revolution di Bernie Sanders nel 2016 per la rivista Vorrei.org. Collabora con Fata Morgana Web e con Libertà e Giustizia. L'articolo Il socialista nello Studio ovale proviene da Jacobin Italia.
Cronistoria dei piani per la pace
-------------------------------------------------------------------------------- Marcia Perugia-Assisi, 12 ottobre 2025. Foto di Riccardo Troisi per Comune -------------------------------------------------------------------------------- È stato presentato ufficialmente l’ennesimo “piano per la pace”, in tal caso redatto dal governo di Trump in consultazione con Putin e i suoi sodali. In altre parole, un soggetto terzo o presunto tale, il quale si arroga la responsabilità di fare da mediatore tra due contendenti in conflitto, annuncia di avere una proposta per terminare quest’ultimo realizzata in collaborazione con quello che tra essi ha la grave colpa di averlo iniziato… Lo so, è talmente ridicolo da risultare complicato anche da scrivere. Ciò mi ha spinto a stilare una sintetica cronistoria dei principali “piani di pace” del passato, dalle due guerre mondiali a oggi. Ok, cominciamo. Nell’autunno del 1917 l’esercito tedesco era sull’orlo del collasso e la Germania stessa era in subbuglio dal punto di vista politico. Rendendosi conto che la guerra era persa, i tedeschi contattarono il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson e gli chiesero di mediare tra le parti in conflitto per arrivare a un cessate il fuoco con le potenze alleate. Il piano di pace di Wilson, suddiviso in quattordici punti, fu proposto per la prima volta nel gennaio 1918 e avrebbe dovuto costituire la base per i negoziati. Nondimeno, sappiamo tutti che tale cosiddetta pace fu soltanto una parentesi tra ben due guerre mondiali. Difatti, i successivi accordi di mediazione non furono esenti da obiezioni. Le critiche principali evidenziarono i fallimenti delle varie politiche di pacificazione, come l’Accordo di Monaco, che fu visto come un incoraggiamento per Hitler, e le carenze del Trattato di Versailles, reo di creare risentimento e instabilità. Gli appunti dei detrattori si concentrano sul fallimento di questi piani nel raggiungere una pace duratura e sulle loro conseguenze negative per specifici gruppi o regioni. Per quanto riguarda la Seconda Guerra mondiale, i principali piani di pace furono l’Accordo di Potsdam (luglio 1945), incentrato sulla smilitarizzazione e la divisione della Germania, e i Trattati di pace di Parigi (febbraio 1947), che posero formalmente fine alla guerra con Italia, Romania, Ungheria, Bulgaria e Finlandia. L’Accordo di Potsdam  concordò la divisione della Germania in quattro zone di occupazione, la sua smilitarizzazione e il suo disarmo, mentre i Trattati di pace di Parigi  stabilirono aggiustamenti territoriali, riparazioni di guerra e il ritorno delle nazioni sconfitte negli affari internazionali, con la risoluzione definitiva della questione tedesca che avvenne in seguito attraverso accordi separati. Anche in tal caso, emersero numerose criticità. Riguardo al trattato di Potsdam, furono identificate significative controversie nella divisione postbellica di Germania e Polonia, la mancanza di accordi chiari sulle riparazioni e il deterioramento delle relazioni tra l’Unione Sovietica e gli alleati occidentali, che molti sostengono abbiano contribuito all’inizio della Guerra Fredda. I critici sottolineano inoltre che l’Unione Sovietica abbia approfittato delle incongruenze per rafforzare la propria posizione nell’Europa orientale ed espandere il proprio territorio, spesso a discapito degli accordi concordati. Per quanto concerne invece gli accordi di pace di Parigi, tra gli errori individuati vi sono la migrazione forzata e lo sfollamento di milioni di persone, l’aggravarsi dei problemi economici nelle nazioni vinte e l’incapacità di affrontare questioni di fondo come il nazionalismo, che ha portato a una continua instabilità. Inoltre, gli aggiustamenti territoriali previsti dai suddetti trattati e le riparazioni imposte risultarono in seguito molto discussi e causarono risentimenti e difficoltà a lungo termine. Che peraltro si fanno sentire ancora oggi a distanza di quasi un secolo. La Guerra di Corea (1950-’53) non si concluse con un vero e proprio trattato di pace, ma con un armistizio. Si istituì il cessate il fuoco e fu stabilita la Zona Demilitarizzata come area cuscinetto tra la Corea del Nord e quella del Sud. L’assenza di un trattato di pace formale è difatti indicata tra le cause per cui le due Coree tecnicamente restarono in guerra e ancora oggi hanno relazioni tese e fragili. Il trattato di pace per la Guerra del Vietnam (1950-’75) fu l’Accordo di Pace di Parigi, firmato il 27 gennaio 1973 dagli Stati Uniti, dal Vietnam del Nord, dal Vietnam del Sud e dal Governo Rivoluzionario Provvisorio. L’accordo mirava a porre fine al conflitto prevedendo un cessate il fuoco, il ritiro delle truppe statunitensi, il ritorno dei prigionieri e l’eventuale riunificazione del Vietnam attraverso mezzi politici. Tuttavia, ennesimo fallimento, gli accordi non riuscirono a portare una pace duratura poiché i combattimenti continuarono e il Vietnam del Nord alla fine invase quello del Sud nel 1975. Anche il conflitto tra Iran e Iraq (1980-’88) non fu degno di un vero e proprio piano di pace.  La guerra fu interrotta con un cessate il fuoco mediato dalle Nazioni Unite, seguito da un accordo formale il 16 agosto 1990, che normalizzò le relazioni e pose fine del tutto al conflitto. Le critiche in questo caso si concentrarono sulla sua tempistica, sul costo in vite umane e sulla mancanza di una vittoria decisiva percepita da entrambe le parti, con alcuni che criticarono l’Iran per aver prolungato inutilmente la guerra dopo che una potenziale pace era stata possibile nel 1982. I detrattori sostengono anche che il conflitto si sia concluso senza significativi guadagni territoriali o riparazioni per entrambe le nazioni, nonostante otto anni di guerra devastante, che hanno portato a un immenso numero di vittime e difficoltà economiche sia per l’Iran che per l’Iraq. Nessun trattato di pace neppure per la prima Guerra del Golfo (1990-’91). La fine del conflitto fu segnata da diverse risoluzioni ONU e da un armistizio. Il processo iniziò con l’accettazione da parte dell’Iraq delle decisioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, tra cui il cessate il fuoco il 28 febbraio 1991, e culminò con la firma di un armistizio l’11 aprile del 1991. Tra i termini chiave figuravano il riconoscimento da parte dell’Iraq della sovranità del Kuwait, l’impegno a distruggere le sue presunte “armi di distruzione di massa” e il pagamento delle riparazioni di guerra. Gli aspetti controversi in tal caso furono moltissimi, oltre a quelli relativi alle motivazioni della guerra in sé. Le critiche principali furono rivolte alle risoluzioni delle Nazioni Unite, le quali determinarono la delega del potere militare alla coalizione guidata dagli Stati Uniti, che alcuni sostengono abbia violato i principi della Carta delle Nazioni Unite, minando l’autorità del Consiglio di Sicurezza e creando un precedente discutibile. Altre critiche sottolinearono l’eccessiva aggressività delle risoluzioni, l’insufficiente ricerca di soluzioni pacifiche e le conseguenti sanzioni, che hanno causato gravi danni umanitari alla popolazione irachena. Tra i vari conflitti che hanno dilaniato l’ormai ex Jugoslavia, mi limito a citare il trattato con cui fu sancita la fine della Guerra del Kosovo, ovvero l’Accordo di Kumanovo firmato il 9 giugno 1999, che imponeva il ritiro delle forze jugoslave dal territorio conteso, e dalla Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che istituiva un Kosovo amministrato dalle Nazioni Unite con sostanziale autonomia pur rimanendo all’interno della Jugoslavia. Ci furono forti critiche anche al suddetto accordo. I rilievi furono fatti in relazione alla sua mancata piena attuazione, in particolare per quanto riguarda la protezione delle minoranze, il disarmo dell’UCK (Esercito di Liberazione del Kosovo) e il ritorno degli sfollati. I critici sostengono che si sia trattato di una tregua tecnica che ha posto fine alla guerra, ma non ha stabilito una pace duratura, priva di disposizioni per la stabilità a lungo termine, la riconciliazione e lo status politico definitivo del Kosovo. Alcuni inoltre ritengono che l’accordo sia stato il risultato di pressioni e di un’applicazione selettiva dei suoi termini, piuttosto che di una risoluzione di principio. Di recente, l’Accordo di Ohrid del 2023 è stato siglato con lo scopo di normalizzare le relazioni tra Kosovo e Serbia, prevedendo il riconoscimento reciproco dell’indipendenza e dei simboli, sebbene quest’ultimo sia ancora oggetto di contesa. Riguardo al millennio in corso, quale corollario al tale lista aggiungo il modo a dir poco discutibile con cui si è conclusa la cosiddetta seconda Guerra del Golfo, la Guerra d’Iraq (2003-’11). Non esiste alcun “trattato di pace” che abbia posto fine al conflitto, mentre il ritiro delle forze statunitensi – gli invasori, ricordiamolo, è stato regolato dall’Accordo sullo Status delle Forze del 2008, che ha fissato il 31 dicembre 2011 come data entro la quale tutte le truppe combattenti statunitensi avrebbero dovuto lasciare l’Iraq. In precedenza, gli Stati Uniti avevano anche firmato l’Accordo Quadro Strategico e l’Accordo di Sicurezza con l’Iraq nel dicembre 2008, che formalizzavano la futura cooperazione ma non ponevano fine al conflitto. Come si evince da questo elenco, la nefasta pratica che prevede l’interpretazione del ruolo di mediatore (ovvero per definizione super partes) da parte del responsabile principale dell’inizio del conflitto e, soprattutto, del soggetto che ha proprio per questa ragione intenzione di giovare dei frutti della sua azione criminale, viene da molto lontano. E non ho neppure menzionato il famigerato piano di pace per Gaza… -------------------------------------------------------------------------------- Per ricevere la Newsletter di Alessandro Ghebreigziabiher -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Cronistoria dei piani per la pace proviene da Comune-info.
Le prime mosse di Mamdani
Articolo di Elisabetta Raimondi La sera prima della giornata elettorale di martedì 4 novembre, Zohran Mamdani ha diffuso l’ultimo video della sua campagna elettorale intitolato Until It’s Done. Un video come sempre seducente, pur nella sua sostanziale semplicità, cosa che non implica semplicità nella realizzazione,. Ancora una volta, e in questo caso forse più che mai, la finzione del cinema però è stata funzionale alla verità dei sentimenti e alla realtà del senso di gratitudine per le persone che Zohran omaggia in Until It’s Done nonché al rispetto verso un luogo che, pur apparendo un comune squarcio di incrocio newyorkese, è una collocazione geografica precisa e simbolica.  > Mi trovo a  pochi passi dall’angolo tra la 116° strada e Lexington. Per > Fiorello La Guardia e Vito Marcantonio era semplicemente il ‘lucky corner’. È > qui che tenevano i loro comizi finali davanti a migliaia di abitanti di Harlem > alla vigilia di ogni elezione. Molti dicono che una visione > democratico-socialista del governo di New York è impossibile, che queste idee > non sono mai state testate. A costoro rispondo che dobbiamo solo guardare al > passato per provare come il socialismo possa modellare il nostro futuro. La > maggior parte dei newyorkesi conosce il nome La Guardia. Molti meno conoscono > Marcantonio. Ma qui a East Harlem, c’è un angolo che porta il suo nome. Marc, > come tutti lo chiamavano, non fu solo un deputato eletto per sette volte e un > pupillo di La Guardia. Fu un impenitente socialista, indefesso sostenitore del > lavoro organizzato, e campione per coloro che a quei tempi venivano spesso > dimenticati: portoricani, ebrei newyorkesi, anziani. Marc si batteva per > tutti  loro. […] Essere un socialista negli anni 1930 e ‘40 non era più facile > di quanto non lo sia oggi. Marc fu incessantemente attaccato dalla destra, > minato dall’establishment, bersaglio del risorgente terrore rosso. Eppure non > si scusò mai per quello che era o per le cose per cui lottava. Quando fu > definito un radicale, Marc rispose: ‘Se è radicalismo credere che le nostre > risorse naturali debbano essere usate per il beneficio di tutti e non per lo > scopo di arricchire solo pochi, allora mi dichiaro colpevole > dell’imputazione’. Amici miei la domanda è chiara. Siamo abbastanza coraggiosi > da credere in una città che dia beneficio a tutti noi? Io conosco la mia > risposta. Domani il mondo conoscerà la vostra. E la risposta dei newyorkesi che il giorno dopo tutto il mondo stava aspettando come se, a seconda dei punti di vista, fosse in grado di determinare la rinascita o l’apocalisse, Mamdani e il mondo intero l’hanno avuta a meno di un’ora dalla chiusura dei seggi. E a circa dieci anni dai primi pesanti e irreversibili boicottaggi inflitti a Bernie Sanders più o meno dallo stesso establishment Democratico che avrebbe voluto la stessa sorte per Zohran. È stato quindi naturale che all’interno dell’enorme e stupefacente salone del Brooklyn Paramount Theatre stracolmo di giornalisti, celebrità, politici, amici, staffer e volontari uniti nelle reiterate acclamazioni di Zohran fin da ore prima che arrivasse alla festa,  la prima foto apparsa sui megaschermi dopo la conclamazione della vittoria sia stata quella di Bernie e Zohran insieme. E che le prime parole di felicità e felicitazioni fossero quelle che il più anziano discepolo di Fiorello La Guardia, Vito Marcantonio e d Eugene Debt rivolgeva al più giovane discepolo tra i cui miti comuni anche lui era stato aggiunto, in qualità di suo diretto predecessore. E così, forse anche sull’onda inconscia dell’instancabile lavoro di Bernie, Zohran ha indetto una conferenza stampa per la mattina dopo, per presentare immediatamente lo staff delle quattro donne che co-condurranno la fase di transizione nei 57 giorni che mancano al primo di gennaio 2026, data dell’insediamento della nuova amministrazione al City Hall. Ed è proprio in virtù della scelta di una in particolare di queste quattro donne, tutte professioniste di grande competenza e preparazione in ruoli che a vario titolo riguardano la difesa degli interessi della comunità in generale e/o di particolari comunità più deboli, che Zohran ha voluto mettere in chiaro fin da subito che se il Partito democratico vorrà collaborare con lui, tutti sono accolti a braccia aperte, altrimenti se lotta con l’establishment deve essere, che lotta sia.  La persona in questione è Lina Kahn, ex capo della Federal Trade Commission (Ftc) nell’amministrazione Biden, dimessasi il 21 gennaio 2025, spina nel fianco di imprenditori e corporation che non vedevano l’ora di liberarsi di lei. Oltre all’enorme contributo di passione e onestà che metterà nel suo lavoro, Kahn sarà anche il simbolo della lotta verso quella parte del Partito democratico ostile a Zohran e che voleva Cuomo sindaco a tutti i costi, per il terrore che il cambiamento dello  dello status quo a New York possa allargarsi, arrivando a minare i privilegi esagerati di cui godono da decenni indipendentemente dal colore dell’amministrazione. Per ricordare con precisione chi sia Lina Khan e quale minaccia abbia rappresentato, abbiamo raccolto la testimonianza del giornalista Ryan Grim, che di Khan si è occupato ampiamente:  «Lina Khan, in qualità di capo della Ftc, la commissione che regola le competizioni tra e all’interno delle corporation, era molto influente. Prima del suo arrivo, all’inizio dell’amministrazione Biden che l’aveva messa in quella posizione su pressione in particolare di Elizabeth Warren e con l’appoggio di Bernie Sanders e dell’ala progressista del partito democratico, la Ftc non aveva fatto nulla per decenni. Vigeva il consenso bipartisan dell’approccio ‘giù le mani’, del ‘lasciare che gli affari facciano quello che gli affari fanno’, ossia far finta di nulla senza intromettersi. Ciò aveva portato a un enorme accentramento dell’economia da parte di società di investimenti in capitale privato e corporation gigantesche che avevano creato monopoli od oligopoli praticamente in ogni industria del mondo e soprattutto negli Usa. E così quando Khan arrivò con teorie completamente differenti che non avrebbero più permesso quel tipo di comportamento e anzi con tentativi di fare causa alle compagnie che avessero tentato quel tipo di affari, la sollevazione fu enorme. Si è spesso unita al suo alleato Jonathan Kantor, capo del dipartimento di Giustizia e quindi supervisore della divisione antitrust, per procedere contro diverse corporation e insieme avevano un potere notevole. Inoltre c’era tutta una squadra di persone molto critiche delle corporation nell’ente per la tutela dei consumatori che prendeva di mira le criptovalute e gli scanner bancari. Questa situazione aveva fatto andare su tutte le furie gli imprenditori miliardari che volevano il licenziamento di Lina Kahn, che invece piaceva sia ai progressisti che alla fascia populista del Partito repubblicano come J.D. Vance, che infatti voleva a tutti i costi mantenerla in carica. Tra i Democratici più accaniti contro di lei c’era la celebrità miliardaria Mark Cuban, Democratico, surrogato politico e portavoce di Kamala Harris che andava spesso in televisione a parlare per conto della sua campagnas e che premeva per farle assumere posizioni sempre più neoliberiste. Quanto al silenzio di Kamala Harris su Lina Khan, per il  quale è stata criticata moltissimo, rientra in quel tipico comportamento di non prendere posizioni per evitare di inimicarsi l’uno o l’altro, cosa che ha contribuito a farle perdere le elezioni». Appare chiaro che il segnale arrivato oggi con l’incarico di Lina Khan in una posizione di rilievo come quella conferitale, dimostra che Zohran non ha intenzione di lasciarsi intimidire da nessuno, tanto meno dai ricchi finanziatori del suo partito, anche se  dei compromessi dovrà farli. Uno dei provvedimenti su cui porre  attenzione nel futuro è per esempio il mantenimento in carica o meno di Jessica Tish, nominata nel 2024 da Eric Adams come commissaria della New York City Police Department (Nypd), che Mamdani ha dichiarato di voler lasciare al suo posto, cosa che però non piace affatto ai Dsa (Democratic Socialist of America) per le posizioni di estrema destra che ha spesso dimostrato di avere. Ma siamo solo al primo giorno della carica di Zohran di sindaco eletto, e quanto ha fatto oggi è già esemplificativo di quello che tutti i progressisti auspicano.  *Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola media secondaria pubblica per oltre 40 anni. Attiva in ambito artistico e teatrale, ha cominciato a seguire la Political Revolution di Bernie Sanders nel 2016 per la rivista Vorrei.org. Collabora con Fata Morgana Web e con Libertà e Giustizia. L'articolo Le prime mosse di Mamdani proviene da Jacobin Italia.
Modello Mamdani per i socialisti Usa
Articolo di La sorprendente vittoria di Zohran Mamdani alle elezioni a sindaco di New York City elettrizzerà la sinistra a livello nazionale, come è giusto che sia. Ma cosa significa questa vittoria per i socialisti? C’è sempre la tentazione di leggere i risultati elettorali in termini ideologici radicali, come indice del clima nazionale o la rivendicazione di un’ideologia. Ricordiamo tutti meno di un anno fa, quando la sconfitta di Kamala Harris sembrava dimostrare che una nazione sempre più anti-immigrazione stava virando verso destra, così come i lettori più anziani ricorderanno che quattro anni fa il centrismo duro contro la criminalità del sindaco Eric Adams sembrava il futuro del Partito democratico (ora si dice la stessa cosa di Zohran). Ma le elezioni non sono mai referendum ordinati su un’ideologia o un programma. Sono determinate in larga misura dal talento e dalle debolezze di chi si candida. Se Mamdani non fosse stato eletto nel parlamento dello Stato di New York nel 2020, non sarebbe stato in grado di candidarsi e nessun candidato con lo stesso talento e impegno lo avrebbe sostituito. Se Eric Adams non fosse stato notoriamente corrotto, avrebbe potuto vincere tranquillamente e non sarebbe emerso nessun serio candidato in grado di sfidarlo. Non c’era alcuna garanzia che si sarebbe presentata l’opportunità di candidare un democratico socialista a sindaco di New York nel 2025, o che, quando si fosse presentata, ci sarebbe stato un candidato pronto a coglierla. Proprio a causa di questa contingenza, però, il lavoro che ha messo la sinistra in condizione di cogliere quest’opportunità è stato cruciale. Una parte significativa di quel lavoro è stata svolta dai Democratic Socialists of America di New York City (Nyc-Dsa), che hanno trascorso l’ultimo decennio eleggendo candidati come Mamdani in consigli comunali e in incarichi legislativi statali. La sezione e la sezione gemella Mid-Hudson Valley Dsa hanno eletto nove deputati statali e due consiglieri comunali, tutti impegnati dalla parte di lavoratrici e lavoratori. L’elezione del sindaco non era prevista otto anni fa, ma se la nostra sezione non si fosse imposta nel lavoro di trincea delle elezioni per l’assemblea statale, la capacità organizzativa, i rapporti di coalizione, la credibilità e, soprattutto, il candidato non sarebbero esistiti per una corsa come questa. Questa capacità organizzativa ha anche plasmato il modo in cui è stata gestita la campagna elettorale. Nyc-Dsa ha sviluppato nel corso degli anni un’etica unica, incentrata sul «campo», ovvero sul lavoro di migliaia di singoli volontari. Per Nyc-Dsa, la campagna elettorale non è semplicemente una tattica per ottenere voti (anche se lo è); è un modo per coinvolgere direttamente la gente comune in un progetto collettivo, come partecipanti e co-organizzatori piuttosto che come osservatori e sostenitori. Mamdani è chiaramente consapevole che la sua operazione di campagna elettorale, composta da 90.000 volontari, è la chiave del suo successo, e non è un caso che tale operazione sia stata guidata dal veterano attivista Dsa Tascha Van Auken; la campagna si è basata (e migliorata) su un’etica organizzativa e su competenze tecniche sviluppate in anni di campagne vincenti e perdenti dei Dsa. Quest’etica della partecipazione di massa spiega più di quanto la maggior parte degli osservatori esterni possa immaginare la potenza della campagna di Mamdani. Non c’è mai stato un momento nella mia vita in cui il divario tra il desiderio di politica delle persone (lavorare insieme per cambiare il mondo) e le opportunità offerte loro sia stato così ampio. In queste circostanze, la capacità della campagna di Mamdani di offrire alle persone non solo speranza, ma anche l’opportunità di impegnarsi per il cambiamento e costruire legami con i vicini è stata rivoluzionaria. Ciononostante, la campagna avrebbe potuto benissimo naufragare contro avversari più forti. Ho sentito molte persone in questa tornata dire che Zohran è stato fortunato con i suoi avversari: fortunato che Adams fosse corrotto e indebitato con Trump, e fortunato che Andrew Cuomo fosse un ex governatore caduto in disgrazia, dotato di un anti-carisma scheletrico, finito in rovina per molestie sessuali e le cui politiche nei suoi anni da governatore sono in gran parte responsabili di tutto ciò che non va a New York oggi. Certo, se i miliardari donatori che hanno sostenuto Adams e poi Cuomo avessero trovato un portavoce migliore, la corsa sarebbe potuta andare diversamente. Ma vi assicuro che il loro fallimento non è dovuto esattamente, o non esclusivamente, alla sfortuna. Ci sono ragioni strutturali per cui i candidati centristi sono così pessimi, ragioni che sono state ampiamente evidenziate anche nella campagna presidenziale dello scorso anno. Un Partito democratico sempre più disconnesso da qualsiasi base significativa e privo di una struttura interna anch’essa significativa finisce per essere dominato da chiunque sia attualmente al vertice e da chiunque possa raccogliere più donazioni; non è un caso che queste persone siano candidati pessimi, fuori dal mondo, inclini agli scandali e corrotti, e non è un caso che anche quando i donatori centristi si rendono conto che si sta verificando un disastro per loro (Joe Biden nell’estate del 2024, Cuomo subito dopo le primarie di quest’anno), non abbiano la capacità collettiva di fermarlo. Questa forma di fallimento è intrinseca; il sistema è quello che è e promuove sistematicamente al potere persone come Adams e Cuomo. Ancora più sorprendente, almeno per me, è stato il successo di Zohran nel dominare la tendenza progressista alle primarie. Questo è il punto su cui sono più tentato di alzare le mani e dare la colpa alla contingenza: per ragioni ancora non del tutto comprese dagli scienziati, alcune persone sono semplicemente più carismatiche di altre. Ma c’è di più. Un ampio spettro di politici, anche progressisti, è intrappolato in un modello mentale in cui gli elettori si trovano su un’offerta che va da sinistra a destra; in questo modello mentale, se gli elettori si spostano a destra (come sembrava nel 2024), allora anche tu ti sposti a destra. In questo momento c’è un’industria artigianale di esperti democratici che insistono sul fatto che se i Democratici vogliono battere Trump devono concentrarsi su questioni di buon senso; in questi tempi senza precedenti, è semplicemente troppo rischioso ricorrere a misure senza precedenti. Questa visione del mondo genera risultati sempre più assurdi (Trump sta vincendo perché si concentra su questioni concrete, come il rapimento di operai edili e trasmettere il morbillo ai bambini). Ma i candidati «progressisti» condividevano questa visione del mondo, e questo li ha portati a fraintendere fondamentalmente il momento politico. Gli elettori non erano stanchi della radicalità e in cerca del centro; non erano stanchi del progressismo di Biden richiedendo solo del buon senso; erano stanchi di uno status quo che chiaramente non funziona come politiche concrete (non possono permettersi l’affitto) o come politica (governata dai fascisti), e cercavano qualcosa di aggressivamente nuovo. Zohran ha offerto proprio questo. Questa dimensione della campagna non può essere compresa senza considerare la guerra a Gaza. Quando Mamdani ha annunciato la sua candidatura, il suo rigoroso sostegno pubblico ai diritti dei palestinesi era considerato il suo principale punto debole come candidato, ancora più della sua militanza democratico socialista. Si è rivelato invece esattamente il contrario, ovvero una risorsa potente. Molti elettori (in particolare, ma non esclusivamente, giovani e musulmani) erano sempre più disgustati dall’evidente disonestà delle apologie del genocidio israeliano da parte dei Democratici mainstream; la riluttanza di Mamdani a scendere a compromessi su questo tema e la sua richiesta di pari diritti per i palestinesi sono diventate un segno del suo coraggio e della sua autenticità non solo sulla questione Israele-Palestina, ma più in generale. Molti elettori potrebbero non aver avuto una visione chiara della soluzione dei due Stati, ma erano stanchi di bugie e sotterfugi. Cosa succede ora? L’elezione di Mamdani rappresenta un successo che va oltre i desideri più arditi della maggior parte dei socialisti newyorkesi di otto, quattro o due anni fa. Ma come molti hanno sottolineato, questo è solo l’inizio della lotta. Molto dipende da ciò che riusciremo a fare insieme come città nei prossimi quattro anni, sia per fornire soluzioni pubbliche a crisi come la casa e l’assistenza all’infanzia, sia, soprattutto, per proteggere le centinaia di migliaia di immigrati di New York dalla campagna di pulizia etnica di Trump. Non c’è certamente alcuna garanzia di successo. Ma per i newyorkesi un’amministrazione Mamdani offre l’opportunità di reagire, e per i socialisti di tutto il paese la sua campagna offre un modello per costruire le infrastrutture necessarie per conquistare il potere. *Michael Kinnucan è un membro dei Democratic Socialists of America e vive a Brooklyn. Questo articolo è uscito su Jacobin Mag. La traduzione è a cura della redazione. L'articolo Modello Mamdani per i socialisti Usa proviene da Jacobin Italia.
«La speranza è viva»
Articolo di Zohran Mamdani Stasera il sole sarà anche tramontato sulla nostra città, ma come disse una volta Eugene Debs: «Vedo l’alba di un giorno migliore per l’umanità». Fin da quando abbiamo memoria, i ricchi e i benestanti hanno sempre detto ai lavoratori e alle lavoratrici di New York che il potere non appartiene a loro. Dita ammaccate per aver sollevato scatole sul pavimento del magazzino, palmi callosi per aver urtato il manubrio della bicicletta delle consegne, nocche segnate dalle ustioni in cucina: queste non sono mani a cui è stato concesso di detenere il potere. Eppure, negli ultimi dodici mesi, avete osato raggiungere qualcosa di più grande. Stasera, contro ogni previsione, l’abbiamo capito. Il futuro è nelle nostre mani. Amici miei, abbiamo rovesciato una dinastia politica. Auguro ad Andrew Cuomo solo il meglio nella vita privata. Ma che questa sera sia l’ultima volta che pronuncio il suo nome, mentre voltiamo pagina su una politica che abbandona i molti e risponde solo a pochi. New York, stasera hai affidato un mandato per il cambiamento. Un mandato per un nuovo tipo di politica. Un mandato per una città che possiamo permetterci. E un mandato per un governo che realizza esattamente questo. Il 1° gennaio presterò giuramento come sindaco di New York. E questo grazie a voi. Quindi, prima di dire altro, devo dire questo: grazie. Grazie alla prossima generazione di newyorkesi che si rifiuta di accettare che la promessa di un futuro migliore sia una reliquia del passato. Avete dimostrato che quando la politica parla senza condiscendenza, possiamo inaugurare una nuova era di leadership. Combatteremo per voi, perché siamo voi. O, come diciamo su Steinway, ana minkum wa alaikum. Grazie a coloro che, così spesso dimenticati dalla politica della nostra città, hanno fatto proprio questo movimento. Parlo dei proprietari di bodegas yemeniti e delle abuelas messicane, dei tassisti senegalesi e delle infermiere uzbeke, dei cuochi di Trinidad e Tobago e delle zie etiopi. Sì, zie. A tutti i newyorkesi di Kensington, Midwood e Hunts Point, sappiate questo: questa città è la vostra città, e anche questa democrazia è vostra. Questa campagna riguarda persone come Wesley, un organizzatore della sezione sindacale Seiu 1199 che ho incontrato giovedì sera fuori dall’ospedale di Elmhurst – un newyorkese che vive altrove, che fa due ore di viaggio in entrambe le direzioni dalla Pennsylvania, perché l’affitto in questa città è troppo caro. Riguarda persone come la donna che ho incontrato sul Bx33 anni fa, che mi disse: «Amavo New York, ma ora è solo il posto in cui vivo». E riguarda persone come Richard, il tassista con cui ho fatto uno sciopero della fame di quindici giorni fuori dal municipio, che ancora deve guidare il suo taxi sette giorni su sette. Fratello, ora siamo nel municipio. Questa vittoria è per tutti loro. Ed è per tutti voi, gli oltre 100.000 volontari che hanno reso questa campagna una forza inarrestabile. Grazie a voi, renderemo questa città un luogo che i lavoratori e le lavoratrici possano amare e vivere di nuovo. Dopo aver bussato a ogni porta, raccolta ogni firma sotto una petizione e dopo aver guadagnato ogni conversazione, avete eroso il cinismo che è arrivato a definire la nostra politica. Ora, so di avervi chiesto molto in quest’ultimo anno. Avete risposto ripetutamente alle mie chiamate. Ma ho un’ultima richiesta. New York City, respira questo momento. Abbiamo trattenuto il respiro più a lungo di quanto immaginiamo. L’abbiamo trattenuto in previsione della sconfitta, l’abbiamo trattenuto perché l’aria ci è stata tolta dai polmoni troppe volte per poterle contare, l’abbiamo trattenuto perché non possiamo permetterci di espirare. Grazie a tutti coloro che si sono sacrificati così tanto. Stiamo respirando l’aria di una città che è rinata. Al team della mia campagna elettorale, che ci ha creduto quando nessun altro ci credeva e che ha preso un progetto elettorale e lo ha trasformato in molto di più: non riuscirò mai a esprimere la profondità della mia gratitudine. Ora potete dormire. Ai miei genitori, mamma e papà: mi avete reso l’uomo che sono oggi. Sono così orgoglioso di essere vostro figlio. E alla mia incredibile moglie, Rama, hayati: non c’è nessuno che vorrei avere al mio fianco in questo momento, e in ogni momento. A tutti i newyorkesi – che abbiate votato per me, per uno dei miei avversari o che siate rimasti troppo delusi dalla politica per votare – grazie per l’opportunità di dimostrarmi degno della vostra fiducia. Mi sveglierò ogni mattina con un unico scopo: rendere questa città migliore per voi rispetto al giorno prima. Molti pensavano che questo giorno non sarebbe mai arrivato, temevano che saremmo stati condannati solo a un futuro di mancanze, in cui ogni elezione ci avrebbe consegnato semplicemente un po’ di più dell’uguale. E c’è chi oggi considera la politica troppo crudele perché la fiamma della speranza possa ancora ardere. New York, abbiamo risposto a queste paure. Stasera abbiamo parlato con voce chiara. La speranza è viva. La speranza è una decisione che decine di migliaia di newyorkesi hanno preso giorno dopo giorno, volontariato dopo volontariato, nonostante gli attacchi pubblicitari. Più di un milione di noi si è presentato nelle nostre chiese, nelle palestre, nei centri comunitari, mentre riempivamo il libro mastro della democrazia. E mentre andavamo a votare da soli, abbiamo scelto la speranza insieme. La speranza contro la tirannia. La speranza contro i grandi soldi e le piccole idee. La speranza contro la disperazione. Abbiamo vinto perché i newyorkesi si sono concessi la speranza che l’impossibile potesse essere reso possibile. E abbiamo vinto perché abbiamo insistito sul fatto che la politica non sarebbe più stata qualcosa che ci veniva fatto. Ora è qualcosa che facciamo. In piedi davanti a voi, penso alle parole di Jawaharlal Nehru: «Arriva un momento, ma raramente nella storia, in cui passiamo dal vecchio al nuovo, in cui un’epoca finisce e in cui l’anima di una nazione, a lungo repressa, trova espressione». Stasera siamo usciti dal vecchio per entrare nel nuovo. Parleremo quindi, con chiarezza e convinzione inequivocabili, di cosa ci riserverà questa nuova era e a chi. Questa sarà un’epoca in cui i newyorkesi si aspetteranno dai loro leader una visione coraggiosa di ciò che realizzeremo, piuttosto che un elenco di scuse per ciò che siamo troppo timidi di tentare di fare. Al centro di questa visione ci sarà il programma più ambizioso che questa città abbia mai visto dai tempi di Fiorello La Guardia per affrontare il costo della vita: un programma che congelerà gli affitti per oltre due milioni di inquilini con affitto stabilizzato, renderà gli autobus veloci e gratuiti e fornirà un servizio di assistenza all’infanzia universale in tutta la nostra città. Tra qualche anno, il nostro unico rammarico sarà che questo giorno ci ha messo troppo tempo ad arrivare. Questa nuova era sarà un’era di incessante miglioramento. Assumeremo migliaia di insegnanti in più. Ridurremo gli sprechi derivanti da una burocrazia satura. Lavoreremo instancabilmente per far brillare di nuovo le luci nei corridoi dei complessi residenziali della Nycha [l’Authority sulle abitazioni di Nyc] dove a lungo si sono spente. Sicurezza e giustizia andranno di pari passo mentre collaboriamo con gli agenti di polizia per ridurre la criminalità e creare un Dipartimento per la Sicurezza della Comunità che affronti a testa alta la crisi della salute mentale e la crisi dei senzatetto. L’eccellenza diventerà l’aspettativa in tutto il governo, non l’eccezione. In questa nuova era che ci creiamo, ci rifiuteremo di permettere a coloro che trafficano in divisioni e odio di metterci gli uni contro gli altri. In questo momento di oscurità politica, New York sarà la luce. Qui crediamo nel difendere coloro che amiamo, che tu sia un immigrato, un membro della comunità trans, una delle tante donne nere che Donald Trump ha licenziato da un incarico federale, una madre single che aspetta ancora che il costo della spesa scenda, o chiunque altro si trovi con le spalle al muro. La tua lotta è anche la nostra. E costruiremo un municipio che resti saldo al fianco degli ebrei newyorkesi e non vacilli nella lotta contro il flagello dell’antisemitismo. Un luogo in cui l’oltre un milione di musulmani sappia che appartiene non solo ai cinque distretti di questa città, ma anche ai palazzi del potere. New York non sarà più una città in cui si può trafficare con l’islamofobia e vincere le elezioni. Questa nuova era sarà caratterizzata da una competenza e una compassione che per troppo tempo sono state in conflitto tra loro. Dimostreremo che non esiste problema troppo grande per essere risolto dal governo, né preoccupazione troppo piccola per non meritare la sua attenzione. Per anni, i consiglieri comunali hanno aiutato solo chi poteva aiutare loro. Ma il 1° gennaio inaugureremo un’amministrazione cittadina che aiuterà tutti e tutte. Ora, so che molti hanno ascoltato il nostro messaggio solo attraverso il prisma della disinformazione. Decine di milioni di dollari sono stati spesi per ridefinire la realtà e convincere i nostri vicini che questa nuova era è qualcosa che dovrebbe spaventarli. Come spesso accade, la classe dei miliardari ha cercato di convincere coloro che guadagnano 30 dollari all’ora che i loro nemici sono coloro che guadagnano 20 dollari all’ora. Vogliono che la gente si scontri al proprio interno, in modo da distrarci dal lavoro di ricostruzione di un sistema ormai in rovina. Ci rifiutiamo di lasciare che siano loro a dettare ulteriormente le regole del gioco. Possono giocare secondo le stesse regole di noi altri. Insieme, daremo inizio a una generazione di cambiamento. E se abbracciamo questo nuovo corso coraggioso, invece di rifuggirlo, potremo rispondere all’oligarchia e all’autoritarismo con la forza che temono, non con l’appeasement che bramano. Dopotutto, se c’è qualcuno che può mostrare a una nazione tradita da Donald Trump come sconfiggerlo, è proprio la città che lo ha generato. E se c’è un modo per terrorizzare un despota, è smantellare le condizioni stesse che gli hanno permesso di accumulare potere. In questo modo non fermeremo solo Trump; fermeremo anche il prossimo. Quindi, Donald Trump, visto che so che mi stai guardando, ho quattro parole per te: Turn the volume up. Chiederemo conto ai cattivi proprietari di casa, perché i Donald Trump della nostra città si sono abituati fin troppo bene ad approfittarsi dei loro inquilini. Porremo fine alla cultura della corruzione che ha permesso a miliardari come Trump di evadere le tasse e sfruttare le agevolazioni fiscali. Staremo al fianco dei sindacati e amplieremo le tutele del lavoro, perché sappiamo, proprio come Donald Trump, che quando i lavoratori godono di diritti incrollabili, i datori di lavoro che cercano di estorcerli diventano davvero molto piccoli. New York rimarrà una città di immigrati: una città costruita da immigrati, alimentata da immigrati e, da stasera, guidata da un immigrato. Quindi ascoltami, Presidente Trump, quando dico questo: per arrivare a uno qualsiasi di noi, dovrai passare attraverso tutti noi. Quando entreremo in municipio tra cinquantotto giorni, le aspettative saranno alte. Le soddisferemo. Un grande newyorkese una volta disse che mentre si fa campagna elettorale in poesia, si governa in prosa. Se questo deve essere vero, che la prosa che scriviamo continui a fare rima e che costruiamo una città splendente per tutti. E dobbiamo tracciare un nuovo percorso, audace come quello che abbiamo già percorso. Dopotutto, la saggezza popolare vi direbbe che sono ben lungi dall’essere il candidato perfetto. Sono giovane, nonostante i miei sforzi per invecchiare. Sono musulmano. Sono un democratico socialista. E, cosa più grave, mi rifiuto di scusarmi per tutto questo. Eppure, se stasera ci insegna qualcosa, è che le convenzioni ci hanno frenato. Ci siamo inchinati all’altare della cautela e abbiamo pagato un prezzo altissimo. Troppi lavoratori non riescono a riconoscersi nel nostro partito e troppi tra noi si sono rivolti a destra per trovare risposte al perché sono stati lasciati indietro. Lasceremo la mediocrità nel nostro passato. Non dovremo più aprire un libro di storia per avere la prova che i Democratici possono osare di essere grandi. La nostra grandezza sarà tutt’altro che astratta. La percepirà ogni inquilino con l’affitto stabilizzato che si sveglia il primo giorno di ogni mese sapendo che l’importo che pagherà non è aumentato vertiginosamente rispetto al mese precedente. La percepirà ogni nonno che può permettersi di rimanere nella casa per cui ha lavorato e i cui nipoti vivono nelle vicinanze perché il costo dell’asilo nido non li ha mandati a Long Island. Lo sentirà la madre single che si sente al sicuro durante il tragitto casa-lavoro e il cui autobus è abbastanza veloce da non dover correre a prendere i bambini a scuola per arrivare in orario al lavoro. E lo sentirà quando i newyorkesi apriranno i giornali la mattina e leggeranno titoli di successo, non di scandalo. Ciò che più conta sarà la sensazione che proverà ogni newyorkese quando la città che ama finalmente ricambierà il suo amore. Insieme, New York, congeleremo… [ la folla urla: «gli affitti!» ] Insieme, New York, renderemo gli autobus veloci e… [ la folla urla: «gratis!» ] Insieme, New York, garantiremo universalmente… [ la folla urla: «l’assistenza all’infanzia!»] Lasciamo che le parole che abbiamo pronunciato insieme, i sogni che abbiamo sognato insieme, diventino il programma che realizziamo insieme. New York, questo potere, è tuo. Questa città ti appartiene. *Zohran Mamdani è il sindaco eletto di New York City. L'articolo «La speranza è viva» proviene da Jacobin Italia.
La vittoria di Mamdani indica la strada da seguire
Articolo di Eric Blanc Non doveva succedere. Quando Zohran Mamdani, a fine ottobre 2024, lanciò la sua campagna per la carica di sindaco, probabilmente era l’unica persona in città a pensare di poter vincere davvero. L’elezione di Donald Trump, due settimane dopo, ha consolidato l’opinione generale sul fatto che New York City e la nazione stessero virando decisamente a destra. Ci è stato detto che spostarsi verso il «centro moderato» era l’unica possibilità di sopravvivenza elettorale del Partito democratico. Persino i più ottimisti tra i sostenitori di sinistra di Mamdani pensavano che lo scenario migliore fosse una sconfitta di tutto rispetto alle primarie per la carica di sindaco. La vittoria storica di stasera smentisce gli scettici. Nonostante i milioni di dollari investiti in spot pubblicitari offensivi acquistati dai miliardari e nonostante i tentativi di Trump di ricattare gli elettori per indurli a sostenere Andrew Cuomo, i newyorkesi hanno scelto un socialista democratico trentaquattrenne alla Gracie Mansion con il mandato chiaro di rendere la nostra città di nuovo accessibile. A quanto pare, le cose non devono per forza continuare a peggiorare. In un momento caratterizzato da crescenti attacchi autoritari, disuguaglianza economica astronomica e confusione nel Partito democratico, le onde d’urto del terremoto politico provocato da Mamdani si faranno sentire in tutto il paese. Il messaggio centrale di questa campagna – più l’accessibilità economica, meno miliardari – è rilevante anche al di fuori di New York. Trasformare la visione di Zohran in realtà non sarà facile. Alcune delle persone e delle istituzioni più potenti del mondo faranno di tutto per fermarci. Ma trasformare la nostra città è possibile, se un gran numero di newyorkesi si unirà alla lotta. Gli oligarchi fanno bene a essere preoccupati. COME È SUCCESSO Come ha fatto Mamdani a realizzare uno dei più improbabili sconvolgimenti della politica statunitense moderna? Dopo la vittoria alle primarie, gli esperti si sono dati da fare per minimizzare il significato politico di questa corsa, cercando di mettere in luce qualsiasi conclusione diversa da quella più ovvia: Zohran era una voce autentica per un programma che esprimeva la rabbia della working class statunitense per uno status quo in crisi. Sì, è vero che Andrew Cuomo ed Eric Adams erano candidati imperfetti. Ed è vero che Mamdani è carismatico e il suo team ha sfruttato brillantemente i social media. Ma il dinamismo di questa campagna non può essere separato dalla sua politica. Né il contenuto della campagna di Mamdani si riduceva a un discorso sui problemi di tutti i giorni, strategia che i consulenti democratici centristi stanno ora spacciando per una panacea per i mali del partito. Certo, il suo obiettivo era ridurre il costo della vita per i lavoratori. Ma Mamdani si è distinto concentrandosi incessantemente su tre piani insolitamente ambiziosi – assistenza all’infanzia gratuita, autobus veloci e gratuiti, affitto congelato – per rendere New York accessibile tramite le scelte dell’amministrazione e non con incentivi di libero mercato. E, cosa fondamentale, ha insistito sul fatto che tutto questo sarebbe stato finanziato tassando i ricchi. Non si trattava certo di clintonismo. Non meno importante, Zohran è stato un messaggero credibile di questa visione trasformativa perché non è legato al denaro delle multinazionali né fa parte di un establishment Democratico decrepito. Il fatto che Mamdani sia un socialista democratico e che si sia rifiutato di voltare le spalle ai palestinesi ha dimostrato il suo autentico status di outsider a milioni di newyorkesi, abituati a vedere i politici tradizionali dire una cosa e farne un’altra. Come Bernie Sanders prima di lui – e a differenza di candidati come Kamala Harris – quando Zohran parlava di lavoratori contro miliardari, si capiva che faceva sul serio. È stato sulla base di questa credibilità che Zohran, con l’aiuto di innumerevoli attivisti dei Democratic Socialists of America (Dsa), ha costruito una macchina di propaganda senza precedenti, composta da oltre 90.000 volontari. Non si può avere lo Zohranismo senza la politica di Zohran. La sua campagna, condotta in modo eccellente, è stata condizione necessaria per la vittoria, ma non sarebbe arrivata così lontano se non avesse coinciso con cambiamenti radicali nell’opinione pubblica. Zohran ha raggiunto ciò che le campagne di Bernie del 2016 e del 2020 avevano provato a fare ma non sono mai riuscite a realizzare: rinnovare radicalmente l’elettorato attraendo nuovi elettori (per lo più giovani) e conquistando al contempo un gran numero di Democratici tradizionali delusi dall’establishment del partito. Indossare una spilla o una maglietta di Zohran negli ultimi mesi è stato un modo sicuro per ottenere un flusso costante di pollici alzati o applausi da perfetti sconosciuti in tutta la città. Zohran non solo ha dominato tra i millennial laureati e gli Zoomer nel Commie Corridor, ma ha vinto anche in quartieri operai come Brownsville e East New York. E ha dominato tra la fascia demografica più anziana e progressista delle mamme da aperitivo della middle class, settori cruciali della base Democratica che si sono radicalizzati di fronte all’incapacità di Chuck Schumer e Hakeem Jeffries di opporre una seria resistenza a Trump. La vittoria di stasera dimostra che i giovani e gran parte di lavoratori e lavoratrici sono stanchi dello status quo e cercano un’alternativa. Tuttavia, i rappresentanti dell’establishment di entrambi gli schieramenti liquideranno sicuramente i risultati odierni come un’anomalia cittadina irripetibile, perché altrove l’elettorato è più moderato. Ma tre degli ultimi quattro sindaci di New York (Eric Adams, Michael Bloomberg e Rudy Giuliani) non erano affatto progressisti. E questa argomentazione presuppone erroneamente che la maggior parte degli statunitensi abbia preferenze politiche coerenti e si collochi perfettamente su un asse che va da molto conservatore/molto progressista. Gli statunitensi stanno risentendo della crisi ovunque, e per battere il Maga dobbiamo rivolgere questa rabbia verso l’alto – contro l’America corporate – in modo che non venga invece incanalata verso il basso, contro migranti e ragazzi transgender. Come dimostra una ricerca del Center for Working-Class Politics, la nostra migliore scommessa per sconfiggere elettoralmente il trumpismo è la stessa in ogni angolo del paese: puntare su campagne basate sui temi economici e costruite attorno a candidati autenticamente anti-élite. Questo potrebbe significare candidarsi come indipendenti in parti del paese in cui il marchio Democratico è tossico. E in Stati repubblicani come il Nebraska, un lavoro operaio o una storia di militanza sindacale potrebbero essere un segnale anti-élite più efficace di una tessera di iscrizione al Dsa. Ma se la forma assunta da questo «populismo economico» può variare da regione a regione, il messaggio politico fondamentale sarà lo stesso: la working class merita sicurezza economica e dignità, ed è per questo che è ora di farla pagare ai miliardari. La vittoria di stasera darà sicuramente il via a innumerevoli nuovi sforzi in questa direzione in tutto il paese. ENTRA NELLA LOTTA Poiché la politica della working class ha un potenziale così elevato per sostituire il centrismo Democratico e l’autoritarismo Repubblicano, un’amministrazione Mamdani di successo rappresenta una seria minaccia per i leader dell’establishment di entrambi i partiti, per non parlare dei miliardari isterici che vedono anche modesti aumenti delle tasse come l’avvento del comunismo. Dovremmo aspettarci che le élite, a partire dal presidente Trump, facciano tutto il possibile per impedire a Zohran di attuare il suo programma. Eleggere un combattente al municipio non è sufficiente per ribaltare la situazione contro avversari così potenti. Un numero enorme di cittadini comuni, in città e in tutto lo Stato, dopo stasera dovrà scendere in campo. Il fatto che politici dell’establishment come la governatrice dello Stato di New York Kathy Hochul abbiano appoggiato Mamdani testimonia la forza del movimento che lo sostiene. Ma il continuo rifiuto della nostra governatrice, che detiene il diritto di veto, di sostenere la tassazione dei ricchi dimostra quanta strada ci sia ancora da fare. Per spingere Hochul e altri politici dell’establishment ad appoggiare riforme trasformative – e a mantenere alta la popolarità di Zohran di fronte a inevitabili attacchi e crisi – quel movimento deve crescere e consolidarsi. Dopo vittorie come quella di stasera, è facile sopravvalutare la forza della sinistra. Ma è chiaro che il declino dell’establishment Democratico ha creato lo spazio per un’influenza elettorale della sinistra che ha raggiunto livelli vertiginosi, ben oltre la nostra forza organizzata nei quartieri operai e nei luoghi di lavoro. La maggior parte dei newyorkesi non è iscritta a sindacati, la maggior parte degli iscritti ai sindacati non è attiva, e gran parte del più ampio ecosistema progressista rimane isolato in piccole organizzazioni non profit gestite dal personale. E sebbene sia una buona notizia che i Dsa di New York City siano cresciut fino a più di 11.300 iscritti e iscritte, si tratta ancora di una piccola parte dei quasi centomila attivistii della campagna elettorale e una frazione ancora più piccola dell’oltre un milione di persone che ha votato per Mamdani. Questo squilibrio tra la forza elettorale e non elettorale della sinistra è un fenomeno relativamente nuovo. Al contrario, i socialisti delle fogne di Milwaukee [così viene definita la sinistra che si batteva per la sanità urbana e sistemi fognari anche nei quartieri popolari, Ndt] conquistarono la leadership del sindacato più di un decennio prima di ottenere la carica di sindaco nel 1910, carica che mantennero di fatto per gran parte dei successivi cinquant’anni. E il più grande sindaco di New York, Fiorello La Guardia, fu in grado di portare avanti un programma populista così ambizioso e di contribuire a far uscire la nostra città dalla Depressione, in parte perché era sostenuto da un movimento sindacale in forte crescita negli anni Trenta. Il compito che ci attende è quello di sfruttare lo slancio della vittoria di stasera, oltre alle leve del municipio e alla portata dell’imponente piattaforma di Zohran, per ricostruire un movimento operaio abbastanza potente da trasformare New York. Molti lo faranno aderendo ai Dsa, altri sindacalizzando i propri luoghi di lavoro, altri ancora con entrambe le strategie. La cosa più urgente è che un gran numero di newyorkesi si unisca in una grande lotta comune per ottenere assistenza all’infanzia gratuita, alloggi a prezzi accessibili e autobus gratuiti tassando i ricchi, e per proteggere i nostri vicini privi di documenti dalla brutalità dell’Immigration and Customs Enforcement (Ice) attraverso mobilitazioni di massa non violente come gli scioperi delle scuole superiori. Cambiare i rapporti di forza attraverso un’organizzazione rivolta all’esterno contribuirà molto di più a rendere realtà la piattaforma di Zohran rispetto alle infinite critiche di sinistra agli inevitabili limiti e compromessi dell’amministrazione. Nessuno può prevedere cosa ci riserva il futuro. Trump sta intensificando la sua presa del potere a livello nazionale e i miliardari di New York non cederanno facilmente il loro potere o i loro profitti. Siamo certi che nei mesi e negli anni a venire dovremo affrontare ogni sorta di crisi e battute d’arresto. La straordinaria vittoria di Mamdani ha tuttavia dato ai lavoratori e alla sinistra una forte dose di aspettative elevate, in un periodo in cui paura e rassegnazione sono di solito la norma. Non è poco. Come osservò il socialista delle fogne di Milwaukee Victor Berger nel 1907, «La disperazione è il principale nemico del progresso. Il nostro bisogno più grande è la speranza». La vittoria di stasera dovrebbe ispirarci tutti a impegnarci più che mai per la città – e per il mondo – che sappiamo essere possibile. Come Zohran oggi, Berger aveva capito che «la Terra è abbastanza grande e vasta da offrire tutti i beni della vita a ogni essere umano che vi nasce… [Ma] per ottenere un mondo migliore dovremo lavorare e lottare». Questa battaglia è appena iniziata. *Eric Blanc è professore associato di studi sul lavoro alla Rutgers University. Tiene un blog su Substack, Labor Politics, ed è autore di We Are the Union: How Worker-to-Worker Organizing is Revitalizing Labor and Winning Big. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione. L'articolo La vittoria di Mamdani indica la strada da seguire proviene da Jacobin Italia.
La tregua armata tra Xi e Trump
Articolo di Daniel Cheng I due uomini più potenti del mondo, Donald Trump e Xi Jinping, hanno appena concluso il loro primo incontro di persona dal 2019. Una breve tregua tra Stati uniti e Cina dopo mesi di intenso conflitto geoeconomico. In cambio dell’aiuto cinese nella repressione del fentanyl, Trump ha accettato di ridurre i dazi sulle esportazioni cinesi al 10%. Gli Stati uniti hanno anche accettato una sospensione di un anno su una prevista espansione delle sanzioni, e la Cina ha ricambiato con una sospensione analoga sui controlli sulle esportazioni di minerali di terre rare, recentemente annunciati. Entrambe le parti hanno anche concordato una proroga di un anno delle reciproche tasse portuali per le navi cinesi e statunitensi. La Cina riprenderà gli acquisti di soia americana e si impegnerà a trovare una soluzione alle preoccupazioni americane sulla proprietà di TikTok. È positivo che Stati uniti e Cina siano finalmente riusciti a trovare un terreno comune. Ma uno sguardo più attento alla più ampia traiettoria delle relazioni tra Usa e Cina mostra che c’è poco di cui essere ottimisti. Dopo decenni di «Chimerica» – il sogno liberale di legami economici sempre più stretti tra le due maggiori economie mondiali – Stati uniti e Cina sono entrambi impegnati in un processo di scorporo delle rispettive catene di approvvigionamento e di rafforzamento dei rispettivi mercati per eliminare le reciproche dipendenze. TARIFFE E COMMERCIO Trump ha lanciato la guerra commerciale durante il suo primo mandato con troppa enfasi, conquistando i titoli dei giornali mentre lui e il suo team annunciavano la morte della globalizzazione. Ma rispetto all’attuale guerra commerciale, il precedente conflitto commerciale di Trump somigliava appena a una scaramuccia. Durante il primo mandato del presidente, i dazi si collocavano in media intorno al 20% e sono stati applicati solo nel secondo anno del suo mandato, dopo mesi di indagini sulle Sezioni 232 e 301 [rispettivamente del Trade Expansion Act e del Trade Act, ndt]. Contrariamente alla sua precedente, relativa, moderazione, Trump ha iniziato il secondo mandato con decisione e ha dimostrato molto meno rispetto per il proceduralismo legale. I dazi imposti nel «Liberation day» di aprile hanno invocato l’International Emergency Economic Powers Act per evitare un’indagine prolungata, nonostante la legge fosse riservata alle emergenze nazionali. I dazi iniziali sulla Cina ammontavano al 54%, ma l’immediata rappresaglia scatenatasi li ha aumentati fino a un picco del 145%, a cui Xi Jinping ha risposto imponendo dazi del 125% sulle merci americane. Mentre entrambi i paesi si sono rapidamente allontanati dal baratro di un embargo commerciale di fatto, i dazi statunitensi, in media intorno al 57%, sono rimasti in vigore dopo il tira e molla del Liberation day. Quest’incontro ha portato a una riduzione dei dazi del 10%, abbassando la media al 47%. È improbabile che questa lieve de-escalation annulli i grandi cambiamenti nei flussi commerciali globali causati dalla seconda fase della guerra commerciale. Tra aprile e giugno, il commercio bilaterale tra Stati uniti e Cina è diminuito di 41 miliardi di dollari, con un calo del 23% su base annua. Ritirandosi dagli Stati uniti, gli esportatori cinesi hanno trovato mercati sostitutivi in Europa e Asia, un cambiamento che non sembra rappresentare un semplice trasbordo verso gli Usa attraverso paesi terzi. Ci sono buone ragioni per pensare che questi paesi non saranno in grado di sostituire gli Stati Uniti a lungo termine, dato il loro basso potere d’acquisto e la riluttanza ad assorbire gli enormi surplus commerciali della Cina. E nonostante la flessione degli scambi commerciali, Stati uniti e Cina continuano a costituire la più grande relazione commerciale bilaterale al mondo. Ciononostante, la riduzione del 10% lascia ancora un’enorme tariffa del 47% e l’uso sconsiderato di questa sanzione economica da parte di Trump significa che questo numero può salire alle stelle in qualsiasi momento. Dovremmo aspettarci un ulteriore sganciamento del commercio bilaterale in futuro. SANZIONI ECONOMICHE ATTRAVERSO L’ENTITY LIST Sebbene i dazi abbiano attirato molta più attenzione, la «Entity List» si è rivelata un’arma ancora più incisiva nella guerra economica americana. La Entity List è stata pubblicata dal Dipartimento del Commercio e include individui, istituzioni e aziende straniere soggette a rigorosi requisiti commerciali e sanzionatori. Tutte le aziende, comprese quelle non americane, sono tenute a ottenere licenze dal governo degli Stati uniti per esportare verso i paesi presenti nella Entity List e rischiano multe salate o pene detentive per la violazione di tali restrizioni. La Entity List è entrata al centro del conflitto tra Stati uniti e Cina nel maggio 2019, quando Trump ha aggiunto il colosso tecnologico cinese Huawei, escludendolo da ampie fasce di componenti hardware, software e proprietà intellettuale statunitensi. L’amministrazione Trump ha prontamente ampliato la lista a ottobre, giustificandola con le violazioni dei diritti umani commesse dalla Cina contro gli uiguri nello Xinjiang. Gli Stati uniti hanno lanciato un altro attacco a Huawei nell’agosto 2020 con l’estensione della Foreign-Produced Direct Product Rule (Fdpr). Queste norme conferiscono agli Stati uniti il controllo extraterritoriale sul commercio di beni prodotti all’estero se utilizzano tecnologia americana, indipendentemente dal fatto che tocchino o meno i confini americani. Dato che quasi tutti i semiconduttori avanzati richiedono a un certo punto la tecnologia statunitense, la Fdpr ha rappresentato un’affermazione del controllo americano sull’intera filiera dei semiconduttori. L’amministrazione Biden ha proseguito la tendenza di Trump a imporre sanzioni economiche alla Cina, ma in modo più mirato. Aziende specifiche ritenute complici dell’invasione russa dell’Ucraina sono state aggiunte alla Entity List. Ancora più importante, Biden ha avviato un’offensiva a tutto campo contro l’industria cinese dei semiconduttori nel 2022, annunciando una serie progressiva di nuove restrizioni all’esportazione di chip fino alla sua ultima settimana di mandato. Settembre ha segnato l’ultima escalation dei controlli sulle esportazioni statunitensi con l’annuncio della «Affiliate Rule», che avrebbe aggiunto decine di migliaia di organizzazioni in più alla Entity List. Mentre i funzionari del governo statunitense potrebbero aver interpretato questa come un semplice modo per evitare le scappatoie, la nuova norma ha fatto infuriare la Cina e probabilmente ha provocato i più recenti controlli sulle esportazioni di minerali di terre rare da parte della Repubblica Popolare. Fortunatamente, questo incontro ha visto una tregua in cui entrambe le parti hanno concordato di rinviare i rispettivi controlli sulle esportazioni di un anno. Sebbene evitare una grave escalation sia motivo di festa, questa tregua è solo temporanea e non annulla nessuna delle sanzioni già draconiane implementate in precedenza. La continua espansione delle sanzioni americane ha danneggiato le aziende cinesi, ma ha anche spinto la Repubblica Popolare Cinese a procedere verso l’autarchia tecnologica. Il nuovo piano quinquennale del governo cinese raddoppia il suo impegno per l’autosufficienza tecnologica. La necessità è madre dell’innovazione e Huawei è stata costretta a creare alternative nazionali ora che è stata tagliata fuori dalla tecnologia americana. La perdita dell’accesso al sistema operativo Android ha spinto Huawei ad accelerare lo sviluppo della sua alternativa, HarmonyOS, che ora detiene una quota di mercato maggiore di AppleOS in Cina. Sebbene i controlli sulle esportazioni di chip di Joe Biden avessero lo scopo di frenare il progresso della Cina nel settore dei semiconduttori avanzati, potrebbero aver avuto l’effetto opposto. Lo Stato cinese desiderava da tempo promuovere una filiera di fornitura di chip cinese verticalmente integrata, ma si è scontrato con la resistenza delle aziende tecnologiche nazionali che volevano approvvigionarsi dai migliori fornitori occidentali. Gli Stati uniti hanno essenzialmente aiutato il Partito comunista cinese a ottenere ciò che non poteva fare da solo: costringere le aziende tecnologiche cinesi ad approvvigionarsi dai propri fornitori nazionali. Senza accesso ai fornitori di chip occidentali, l’ecosistema cinese dei semiconduttori si è sviluppato rapidamente negli ultimi anni. Le aziende nazionali, inizialmente scavalcate dai loro concorrenti occidentali di livello superiore, hanno improvvisamente ottenuto un’enorme domanda da parte dei giganti della tecnologia cinese. L’ecosistema cinese dei semiconduttori è ancora lontano dall’essere all’avanguardia, ma le sanzioni americane lo hanno reso molto più resiliente e autosufficiente. TERRE RARE Dai veicoli elettrici ai jet da combattimento, le terre rare (Ree) sono input essenziali per quasi tutti i beni tecnologici moderni. Sebbene siano in realtà geologicamente abbondanti, la Cina detiene un quasi monopolio sui processi di raffinazione che rendono il minerale grezzo di terre rare utilizzabile nella produzione industriale. Con l’obiettivo di contrastare il potente regime di sanzioni economiche di Washington, Pechino ha cercato di costruirne uno proprio sfruttando questo cruciale collo di bottiglia della catena di approvvigionamento. Il primo utilizzo da parte di Pechino delle sanzioni sulle terre rare è stato contro il Giappone nel 2010. Ma la potenza di quest’arma economica ha raggiunto un’importanza globale negli ultimi anni. In risposta ai dazi imposti da Trump ai sensi della Sezione 232 all’inizio di aprile, la Cina ha imposto requisiti di licenza per l’esportazione su diverse terre rare, costringendo le aziende a sottoporsi a un oneroso processo di richiesta. Questi controlli hanno rapidamente creato numerosi shock nella catena di approvvigionamento che hanno portato alla chiusura delle fabbriche. Il conflitto è stato risolto con il ritiro di Trump di alcuni dei suoi dazi e la concessione da parte della Cina di licenze di esportazione di terre rare ad aziende americane non militari. Tuttavia, queste licenze durano solo sei mesi e sono destinate a scadere a breve. Le sanzioni sulle terre rare sono tornate a farsi sentire all’inizio di ottobre, poche settimane prima dell’incontro Trump-Xi. In risposta all’espansione dei controlli sulle esportazioni statunitensi, la Cina ha introdotto nuovi controlli sulle esportazioni di terre rare, molto più aggressivi di qualsiasi altro precedente. Queste nuove sanzioni di vasta portata potrebbero richiedere l’approvazione cinese per il commercio di qualsiasi merce contenente anche solo tracce di terre rare cinesi, anche se tale commercio non coinvolge aziende cinesi o non attraversa i confini cinesi. Nell’interpretazione più massimalista, ciò potrebbe conferire alla Cina un potere di veto su tutto il commercio globale di beni tecnologici. Questi recenti controlli sulle esportazioni hanno rappresentato il ricorso più esteso della Cina alle sanzioni economiche fino a oggi. Non solo potrebbero applicarsi a un’ampia gamma di beni, ma si ispirano anche al modello americano, consentendo a Xi di regolamentare il commercio tra paesi oltre i confini cinesi. L’incontro ha portato a una pausa di un anno su questi nuovi controlli sulle terre rare. Data la loro ampiezza, non sorprende che la Cina abbia fatto marcia indietro. L’ampiezza delle sanzioni ha fatto sì che molti altri paesi si trovassero nel mirino. In alcuni casi, questa vulnerabilità ha rafforzato la determinazione a ridurre la dipendenza dalla Cina. Questa reazione non era chiaramente prevista dalla Repubblica Popolare, che ha risposto con molteplici dichiarazioni che ne hanno attenuato i toni. Inoltre, è improbabile che Pechino possa effettivamente applicare questi controlli sulle esportazioni, data la loro natura di vasta portata e la relativa mancanza di esperienza della Cina nell’uso di questo tipo di arma economica. Ma nonostante questo cessate il fuoco temporaneo, l’Occidente si è mosso rapidamente per coprire questa evidente vulnerabilità della catena di approvvigionamento. All’inizio del secondo mandato di Trump, il Dipartimento della Difesa ha acquisito una partecipazione azionaria in MP Materials, un’azienda americana produttrice di terre rare, nel tentativo di rilanciare la capacità produttiva degli Stati uniti. Anche l’australiana Lynas sta contribuendo a ridurre la dipendenza dalle terre rare cinesi. Inoltre, alcune aziende stanno cercando soluzioni ingegneristiche per ridurre del tutto la necessità di terre rare. Non è chiaro quanto successo avranno questi sforzi, data la lunga atrofia delle capacità produttive occidentali di terre rare e la scarsità geologica di alcune terre rare specifiche. Allo stesso modo in cui le sanzioni americane sui semiconduttori hanno motivato la Cina a consolidare una catena di approvvigionamento autosufficiente, i controlli sulle esportazioni cinesi potrebbero rivitalizzare l’industria occidentale delle terre rare. Nonostante le ostilità in corso tra Stati uniti e Cina, l’attuale tregua è benvenuta, sebbene rappresenti solo un piccolo allentamento delle crescenti tensioni che si sono sviluppate tra le due nazioni negli ultimi anni. Nonostante Trump abbia valutato l’incontro «da 12 su 10», le poche concessioni che ha strappato a Xi – piccole modifiche alle tasse portuali e ai dazi sulla soia, richieste dalle pressioni degli agricoltori americani – sono relativamente irrilevanti. Cina e Stati uniti hanno sospeso i piani per imporre le sanzioni economiche più ingenti, ma si tratta solo di una ritirata temporanea. Non è chiaro se anche questa breve tregua di un anno reggerà davvero. La natura capricciosa di Trump implica che l’accordo potrebbe essere fatto saltare per qualsiasi presunta mancanza di rispetto. Nulla nelle discussioni ha toccato le tensioni fondamentali create dal tentativo americano di mantenere il primato globale, le politiche industriali e commerciali della Cina e i conflitti su Taiwan e il Mar Cinese Meridionale. Le relazioni tra Stati uniti e Cina rimangono su un sentiero pericoloso, con entrambe le parti che cercano di isolarsi l’una dall’altra. Non c’è nulla nel vertice Trump-Xi che indichi che questa traiettoria discendente cambierà. Nella migliore delle ipotesi, possiamo sperare che la guerra economica non si trasformi in una vera e propria guerra. *Daniel Cheng ha un dottorato in Sociologia ed è ricercatore indipendente di economia politica e tecnologia cinese. Questo articolo è uscito su Jacobin Mag, la traduzione è a cura della redazione. L'articolo La tregua armata tra Xi e Trump proviene da Jacobin Italia.