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Un secolo di umiliazione europea
Articolo di Ingar Solty L’Unione europea ha raggiunto qualcosa di storico. Sono trascorsi 55 anni tra la prima e la seconda Pace di Thorn, che nel 1466 sancì la sconfitta totale dei Cavalieri Teutonici contro il Re polacco. Ci sono poi voluti 26 anni fatali e orribili dal Trattato di Versailles del 1919 all’Accordo di Potsdam del 1945 perché la Germania perdesse il suo diritto all’autodeterminazione. Sono trascorsi circa 21 anni tra la Prima e la Seconda Guerra dell’Oppio, combattute dalle potenze coloniali europee nel XIX secolo per imporre le più brutali condizioni commerciali alla loro colonia cinese. Oggi, alla Commissione europea sono bastati appena 9 mesi per dichiarare due volte la propria resa incondizionata. In questo caso, non è stato nemmeno necessario uno scontro a fuoco. La prima dichiarazione di resa era stata pronunciata all’unisono con gli Stati Uniti. Quando gli stati capitalisti di entrambe le sponde del Nord Atlantico hanno ritenuto necessario introdurre misure protezionistiche per impedire ai concorrenti cinesi di entrare nei rispettivi mercati nazionali dei veicoli elettrici (così come dei pannelli solari e di altre tecnologie verdi), il segnale era stato evidente. L’impero Ue aveva preso questa decisione alla fine di ottobre 2024. Con questo messaggio: dato che non siamo più in grado di espanderci nel mercato interno cinese con i nostri veicoli elettrici, e visto che le auto elettriche Made in China Build Your Dreams (Byd) a prezzi accessibili stanno per inondare i nostri mercati interni, dovremmo almeno proteggere questi da una schiacciante concorrenza. Questa mossa protezionistica la diceva lunga su quanto si fosse indebolita la posizione dell’Europa. Nella Strategia di Lisbona, annunciata nel 2000, l’Ue aveva espresso l’ambizione di diventare la regione economica più competitiva al mondo. Con la Germania al timone, mirava a essere la maggior esportatrice dell’economia mondiale. L’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) e il suo predecessore, l’Accordo Generale sulle Tariffe Doganali e il Commercio (Gatt), erano stati fondati dai leader occidentali per creare un’economia globalizzata per conto delle multinazionali occidentali dominanti e più competitive. Il libero scambio è una forma di imperialismo, e le ex potenze colonizzatrici eccellevano in questo. Ma ora è chiaro che la situazione sta cambiando. La Cina sta arrivando dove i l’Unione sovietica non è arrivata: a raggiungere e risalire la catena del valore e la gerarchia della divisione internazionale del lavoro. Tra i paesi del G8, la Cina è oggi l’ultimo difensore del Wto e, a quanto pare, dal punto di vista dell’imperialismo occidentale, qualcosa non ha funzionato nel quarto di secolo successivo al 2001, data dell’adesione di Pechino al Wto, sebbene ciò sia avvenuto nelle più dure condizioni immaginabili, imposte dalle potenze occidentali. La strategia di uscita cinese dalla crisi finanziaria globale, incentrata sulla pianificazione strategica dell’elettrificazione dell’economia e sulla creazione di campioni nazionali attraverso una coraggiosa politica industriale, si era dimostrata di gran lunga superiore alla strategia «frega il tuo vicino» basata sull’austerità, adottata sia dagli Stati uniti di Barack Obama che dall’Ue durante la crisi dell’euro. La Cina è uscita dalla crisi come un rivale ipercompetitivo nel settore dell’alta tecnologia, come una forza pari o dominante in molte tecnologie future, dall’intelligenza artificiale ai Big Data alle comunicazioni mobili 5G e 6G, e in particolare alle tecnologie verdi. Anche quando l’Occidente si è reso conto di quanto fosse ipercompetitiva la Cina, la Bidenomics, il Green Deal dell’Ue e la politica economica del cancelliere tedesco Olaf Scholz hanno cercato di battere Pechino al suo stesso gioco. La strategia di emulazione non ha avuto successo, soprattutto in Europa. La prima resa incondizionata ha riconosciuto questo: se non posso più derubarti, almeno posso proteggere il mio spazio. Ora arriva la seconda resa incondizionata. Gli occidentali, e soprattutto gli europei, non sono più i migliori in brevetti, macchinari, efficienza economica, infrastrutture pubbliche funzionanti, medaglie olimpiche o soddisfazione popolare. Ma almeno le ex potenze colonizzatrici trionfano moralmente sul resto del mondo (anche se sostengono una guerra genocida, pensando che il resto del mondo non se ne accorgerà). Con la stessa superiorità morale, le élite europee si sono comportate con alterigia dopo il trionfo di Donald Trump nel novembre 2024. La stampa europea lo ha ridicolizzato. “Sta distruggendo gli Stati Uniti, sta distruggendo l’economia mondiale”, si diceva. Ma ora chi ride per ultimo? SE TRUMP DICE DI SALTARE, L’UE CHIEDE QUANTO IN ALTO La resa incondizionata è stata accompagnata da un avvertimento. Dopo l’inizio della guerra in Ucraina, i paesi europei della Nato hanno annunciato la loro disponibilità a investire il 2% del Pil in futuri armamenti. Tre anni dopo, improvvisamente è stato applicato un obiettivo del 5%. D’ora in poi, la Germania investirà un euro su due del bilancio federale nell’acquisto di armi e infrastrutture pronte per la guerra, nel tentativo di costruire – come ha affermato il cancelliere Friedrich Merz – «l’esercito convenzionale più forte d’Europa». Dietro questa decisione c’erano forse nuove valutazioni del rischio? La Russia è improvvisamente 2,5 volte più minacciosa di quanto non fosse dopo l’invasione dell’Ucraina? Certo che no. La logica è tanto banale quanto eloquente: Trump ha chiesto il 5%, quindi gli europei stanno pagando il 5%. Ciò che serve è una divisione transatlantica del lavoro contro la Cina. Considerando che ampie fasce della spesa per gli armamenti andranno a riempire le casse dei maggiori produttori di armi, che peraltro sono americani, questo equivale a un importante pacchetto di stimolo militare-keynesiano per gli Stati Uniti. Inoltre, gli europei in questo modo hanno dato a Trump la possibilità di estendere la sua politica degli «accordi» a Giappone, Filippine, Australia e Nuova Zelanda, chiedendo loro di spendere altrettanto e di rafforzare ulteriormente il complesso militare-industriale americano. Si potrebbe supporre che, con tanta buona volontà e lealtà all’alleanza atlantica, gli europei si sono messi nelle condizioni di raggiungere un «accordo» positivo con Trump. Lui fa «accordi», quid pro quo. Di conseguenza, il governo tedesco ha affermato che un massiccio riarmo avrebbe avuto lo scopo di placare Trump nella disputa commerciale e dissuaderlo dall’imporre dazi doganali elevati all’Ue, come ha annunciato il ministro degli Esteri Johann Wadephul. Il super-atlantista Merz si è recato negli Stati uniti all’inizio di giugno ingraziandosi il presidente Usa, che intanto minacciava guerra a Panama e in Groenlandia, voleva annettere il Canada e dichiarava guerra all’Iran. Merz gli ha regalato una mazza da golf speciale e un certificato di nascita del nonno tedesco di Trump, parlando di «buoni rapporti» tra i due. Anche l’ex premier olandese Mark Rutte, oggi Segretario generale della Nato, si è distinto per la sua particolare ossequiosità in un messaggio personale fatto trapelare dallo stesso Trump. Tuttavia, se gli europei speravano che le loro dimostrazioni d’affetto sarebbero state ricambiate dagli Stati uniti, questa convinzione è stata presto delusa. In sostanza, l’«accordo» Nato è stato semplicemente il presagio della seconda resa incondizionata, avvenuta il 27 luglio.. A metà luglio, Trump aveva annunciato per la prima volta un dazio generale del 30% sulle importazioni dall’Ue, in aggiunta ai dazi già in vigore per l’intero settore. I dazi sarebbero entrati in vigore due settimane dopo, il primo agosto. TRATTATO DISEGUALE Quando Trump è arrivato a Turnberry, in Scozia, dove avrebbe dovuto incontrare la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, ha annunciato che l’incontro sarebbe durato al massimo un’ora. Aveva altri impegni importanti, come qualche partita a golf. L’incontro è durato in effetti così poco, prima che Trump e von der Leyen comunicassero il loro accordo. La Commissione europea si era impegnata a spendere circa mille miliardi di dollari in armi, per aiutare gli americani nel loro tentativo di contenere la Cina. Alcune di queste armi saranno donate al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, nella sua ormai impossibile guerra di autodifesa – e sempre più di reclutamento forzato – che presumibilmente si concluderà con il presidente russo a dettare le condizioni di pace. La leadership dell’Ue ha inoltre voluto ringraziare gli Stati uniti per aver presumibilmente affossato l’infrastruttura energetica strategica Nord Stream II, ostacolando così gli acquisti di gas dalla Russia da parte dell’Europa. Si è ora impegnata ad acquistare gas da tecnologia fracking statunitense per un valore di 750 miliardi di dollari, ripartiti nei prossimi tre anni. Infine, l’Ue si è impegnata a investire ingenti capitali esteri diretti negli Stati uniti, per un volume di 600 miliardi di dollari. Non è chiaro come la Commissione dovrebbe costringere le aziende private a scopo di lucro a impegnarsi a delocalizzare la produzione negli Stati uniti. Allo stesso tempo, data l’enorme differenza nei prezzi dell’energia industriale su entrambe le sponde dell’Atlantico – i prezzi dell’energia in Germania, ad esempio, sono circa il triplo di quelli statunitensi e sette volte superiori a quelli cinesi – non sono necessari ulteriori incentivi per la delocalizzazione dei capitali. L’Inflation Reduction Act di Joe Biden, con i suoi requisiti a base locale, gli ingenti tagli fiscali per l’1% più ricco rappresentati dal Big Beautiful Bill di Trump e la deregolamentazione ambientale per un’energia ancora più economica sono incentivi sufficienti per una fuga di capitali ancora più massiccia dalle capitali europee a più alto consumo energetico, soprattutto nei settori manifatturiero industriale e farmaceutico. Due anni consecutivi di crescita negativa in Germania la dicono lunga. In cambio di questi generosi doni offerti a Trump dai funzionari dell’Ue, i capitali statunitensi possono esportare gratuitamente nel Mercato comune europeo – l’Ue ha «aperto i suoi paesi a dazi zero», si è vantato Trump – mentre le aziende con sede nell’Ue che cercano di accedere al mercato interno degli Stati uniti devono pagare tasse di importazione del 15%. Questa è solo l’aliquota base; vari settori, come l’industria siderurgica e dell’alluminio, si trovano ad affrontare dazi devastanti del 50%. Ecco dunque «the deal». Dopo aver sbaragliato von der Leyen, Trump ha così condiviso la scena con lei per annunciarlo, e i leader dell’Ue si sono presentati per una foto ricordo con ampi sorrisi e i pollici alzati. In realtà, non si tratta affatto di un accordo, ma della formale «Dichiarazione di dipendenza» dell’Europa. Trump, che non si tira mai indietro di fronte ai superlativi, ha potuto, a ragione, definirla «la più grande di tutte». Ha imposto all’Europa lo stesso tipo di «trattato» che le potenze europee avevano costretto la Cina a ingoiare dopo le Guerre dell’oppio. Von der Leyen ha parlato di un «buon affare», avendo evitato la richiesta massimalista di Trump dei dazi al 30%; il cancelliere tedesco Merz lo ha elogiato come migliore del previsto, elogiandone la straordinaria capacità negoziale nel proteggere le case automobilistiche e farmaceutiche tedesche da danni ancora maggiori. È vero, gli interessi tedeschi sono stati considerati – ed è per questo che i rappresentanti di altri Stati membri dell’Ue ora si lamentano giustamente di essersi cacciati in questo pasticcio solo a causa del surplus delle partite correnti della Germania nei confronti degli Stati uniti. Tuttavia, non è un buon affare nemmeno per il capitale tedesco. I dazi originariamente pagati dalle case automobilistiche tedesche erano di circa il 2%. Un aumento di 13 punti percentuali non promette certo prospettive per un settore già in difficoltà. DIPENDENZA EUROPEA, MOLTIPLICATA PER QUATTRO Le due rese incondizionate dell’Europa rivelano i reali rapporti di forza nell’economia mondiale. La domanda fondamentale è: perché Trump ha avuto successo nei confronti dell’Europa con la stessa strategia che ha fallito così miseramente nei confronti della Cina? Trump è noto per il suo approccio transazionale alla politica, che gli permette di concludere accordi basandosi sulle sue carte da poker. Quando si è scontrato con la Cina, Trump non aveva carte vincenti da giocare. Pechino aveva tutti gli assi nella manica: dazi di ritorsione del 125%, restrizioni all’esportazione di terre rare – da cui dipendono le aziende automobilistiche e della difesa statunitensi – restrizioni all’importazione di film di Hollywood, divieti di importazione di aerei Boeing e sanzioni speciali contro le aziende statunitensi. Chiunque si aspettasse che la Cina facesse marcia indietro nella guerra commerciale con gli Stati Uniti si è sbagliato. Invece, ha dimostrato la sua forza. Trump è stato costretto a ritirarsi. Dopo il Trump 1.0 e le misure protezionistiche di Biden contro Pechino, ciò ha dimostrato la sovranità economica appena acquisita dalla Cina e il massiccio spostamento dell’equilibrio di forze dell’economia mondiale, dal Nord e dall’Ovest verso l’Est e il Sud. Ha mostrato i limiti del tentativo degli Stati Uniti di separare la Cina – il principale partner commerciale di oltre 120 paesi – dal resto del mondo. La seconda resa incondizionata dell’Europa mostra il profondo cambiamento nell’equilibrio di forze transatlantico. Ovviamente, quando gli Stati Uniti hanno annunciato una «partnership nella leadership» per la Germania e gli europei dopo la fine della vecchia Guerra Fredda, permaneva un divario nella loro forza relativa. Eppure, gli Stati uniti hanno preso sul serio l’impero Ue. Il tentativo di George W. Bush di controllare il rubinetto mondiale del petrolio contro tutti i potenziali rivali, era diretto anche contro l’Ue. All’epoca, attraverso l’allargamento a Est, l’Ue stava diventando il più grande mercato comune del mondo, brandendo la nuova moneta comune, l’euro, come potenziale alternativa al dollaro. Pertanto, l’impero americano riuscì a impedire che un allargamento dell’Europa orientale avvenisse al di fuori della struttura di potere Nato degli Stati uniti sull’Europa. La guerra in Ucraina ha intensificato lo squilibrio nei rapporti di potere nord-atlantici. Da ciò è emerso un nuovo atlantismo asimmetrico e una quadruplice dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti. In primo luogo, l’annullamento della simbiosi energetica tra Europa e Russia ha reso l’Europa dipendente dal gas da fracking statunitense e dalle infrastrutture dei terminali di gas naturale liquefatto controllati dagli Stati uniti. In secondo luogo, l’Ue è stata indebolita economicamente e resa dipendente dal mercato interno statunitense, che Trump ora sfrutta con tanto successo per ricattare gli europei. Non si tratta di un’idea nuova: è esattamente il modo in cui Ronald Reagan costrinse il rivale giapponese alla resa totale negli anni Ottanta, innescando decenni di lenta crescita. L’economia Ue, e in particolare l’economia di esportazione della Germania, è oggi in rovina, con scarse aspettative di crescita nonostante il massiccio keynesismo militare. La nuova dipendenza dell’Europa dal gas da fracking statunitense non è solo un disastro climatico rispetto persino al gas e al petrolio russi, ma anche molto più costosa. Inoltre, le élite dell’Ue hanno indebolito l’economia europea con diciotto cicli di sanzioni anti-Russia che si sono solo ritorte contro di loro, avendo sopravvalutato la forza europea. La guerra economica degli Stati uniti, che mira a separare l’Europa dall’enorme mercato interno cinese attraverso la politicizzazione delle catene di approvvigionamento – anche sanzionando le aziende private europee quando commerciano con la Cina utilizzando componenti americani – ha reso ancora più potente la leva dell’accesso all’altrettanto enorme mercato interno statunitense. Di fatto, nel 2024 gli Stati uniti hanno addirittura sostituito la Cina come principale mercato di esportazione per la Germania, per la prima volta dal 2015. In terzo luogo, l’Ue è diventata anche geopoliticamente dipendente dagli Stati Uniti. Nel nuovo scontro tra blocchi che gli Stati uniti stanno cercando di imporre al mondo, il pesce più grosso è quello che possiede settecento basi militari in tutto il pianeta e controlla la Nato come la più grande alleanza militare mondiale. Su questa base, gli Stati uniti stanno cercando aggressivamente di salvaguardare il predominio occidentale in un’economia mondiale radicalmente cambiata. In quarto luogo, il tentativo di usare la potenza militare come ultima risorsa di supremazia significa che il paese che ne trae vantaggio è quello che ospita i cinque maggiori produttori di armi al mondo, e non l’Ue. In altre parole, alla dipendenza energetica, economica e geopolitica dell’Europa si aggiunge anche una dipendenza militare-tecnopolitica. L’«accordo» dettato dagli Stati uniti ai suoi vassalli europei non fa che mettere a nudo questo atlantismo asimmetrico. UN ALTRO MODO Quindi, non c’erano alternative? Nel breve termine, le élite dell’Ue avrebbero potuto pensare alle carte vincenti che avevano in mano. Eppure, le tasse sui monopoli americani dell’IT e del capitalismo di piattaforma sono state abolite ancor prima dell’inizio dei negoziati. I leader dell’Ue hanno giocato correttamente, sperando nella clemenza. A lungo termine, quelle stesse élite avrebbero potuto opporsi alla nuova spartizione del mondo da parte degli Stati uniti. Avrebbero potuto cercare autonomamente di attenuare la tensione nella guerra in Ucraina. Le opportunità si sono presentate numerose. Proprio per perseguire i propri interessi, l’Ue avrebbe potuto ricercare un nuovo accordo di pace e sicurezza per l’Europa e l’Asia, comprese Russia e Cina. Invece, le sue élite si sono immerse in un mondo fantastico di imminenti invasioni russe e di una nuova corsa agli armamenti, che sconvolgerà l’Europa economicamente, socialmente, politicamente e culturalmente. Sì, la dipendenza dell’Europa dagli Stati uniti è indubbiamente significativa; le risorse di Washington per punire una dichiarazione d’indipendenza europea non sono da sottovalutare. Ma è anche vero che il potere degli Stati uniti nel mondo sta diminuendo. L’Ue non è stata ben consigliata a lasciarsi spingere dagli Usa a uno scontro economico e militare con la Cina. In realtà sembra che gli europei condividano maggiori interessi con la Cina e persino con il Sud del mondo. Le élite dell’Ue avrebbero potuto accettare il nuovo multipolarismo come un dato di fatto e prendere l’iniziativa di contribuire a creare un nuovo ordine mondiale multilaterale che prevenga i suoi molteplici rischi in termini di guerre economiche e di altro tipo. Le élite dell’Ue avrebbero potuto vedere l’ascesa dei Brics come un’opportunità. Invece, l’adesione degli Stati europei ai Brics è fuori questione. Entrare in una «rivalità sistemica» con Pechino nel 2019, e perseguire questa linea da allora, ha significato schierarsi dalla parte del Grande Fratello americano. Ha anche significato sostenere e soccombere al tentativo degli Stati uniti di bloccare l’ascesa della Cina e del Sud del mondo. Isolati nel mondo, i leader europei si sono ridotti alla mercé di Washington. Eppure gli Stati uniti hanno dimostrato di non essere un fratello maggiore protettivo. Hanno mostrato agli europei il volto prepotente che mostrano in tutto il mondo da almeno un secolo. Con il nuovo atlantismo asimmetrico, l’Europa viene trattata come un vassallo. Per completare la loro umiliazione, i leader europei continuano a sorridere perché pensano che chi dice «a» debba dire anche «b». Tuttavia, come ha insegnato Bertolt Brecht, questo non è vero: possiamo anche riconoscere che la prima ipotesi, «a», era sbagliata. Ma per riconoscerlo, ci vorranno altri leader, provenienti da un equilibrio politico completamente diverso all’interno dell’Europa stessa. *Ingar Solty è ricercatore senior in politica estera, di pace e di sicurezza presso l’Istituto per l’analisi sociale critica della Fondazione Rosa Luxemburg a Berlino. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione. L'articolo Un secolo di umiliazione europea proviene da Jacobin Italia.
Hulk Hogan, delatore e razzista
Articolo di Carl Beijer Hulk Hogan, un disastro umano assoluto e il più importante wrestler professionista mai esistito, è morto a settantun anni. Togliamoci subito di torno questa seconda parte, perché mentre la maggior parte del mondo sa che è vero, i veri appassionati di wrestling spesso lo negano completamente. E Hogan, ovviamente, è interamente da biasimare: ha passato gli ultimi decenni a implorare chiunque gli prestasse attenzione di tirare lo scarico per una storia che lui ha gettato nel water. Ed è lì che rimarrà la sua eredità, troppo grande per essere gettata nel water e troppo disgustosa per essere lasciata altrove. Dal punto di vista tecnico, Hogan era un wrestler mediocre, un uomo che aveva solo una dozzina di mosse sul ring ma che le faceva sempre funzionare. All’apice della sua carriera era una valanga di carisma alimentato dalla cocaina, ma col tempo i suoi promo si sono trasformati in una noiosa prova di forza a colpi di slogan. Il trucco di Hogan si adattava perfettamente alla cultura del wrestling da cartone animato degli anni Ottanta e Novanta, e dopo di allora ha dato vita per anni a un impressionante turn heel [così si dice quando un personaggio buono, nelle messe in scena del wrestling, diventa cattivo, Ndt], ma alla fine dell’era Bush si era completamente trasformato in un caso di nostalgia anacronistico. Eppure, ancora oggi Hulk Hogan rimane uno dei nomi più riconosciuti al mondo. Negli anni Ottanta, ha quasi da solo trasformato il wrestling professionistico da curiosità regionale che si esibiva nelle palestre delle scuole superiori e nelle fiere di contea in un’industria globale multimilionaria (e alla fine miliardaria) di dollari. Hogan ha fatto a gara con il Papa per far entrare più persone negli stadi. Aveva il suo cartone animato, il suo show live action e i suoi film. Era una celebrità di serie A in un’epoca in cui altri wrestler di primo livello avrebbero potuto faticare a vendere biglietti nella propria città natale. Ric Flair era un wrestler più affermato, Dusty Rhodes era migliore al microfono e André the Giant era un atleta più impressionante, ma è stato l’uomo Hogan a rendere il wrestling quello che è. Era anche, a detta di tutti, un essere umano assolutamente patetico e riprovevole. Il suo grande momento di infamia, ovviamente, rimarrà per sempre il famigerato audio razzista in cui, be’, ha dichiarato al mondo di essere un razzista. Quell’incidente gli è costato un temporaneo allontanamento dalla Wwe e l’espulsione dalla Hall of Fame, finché l’altro grande nemico del wrestling professionistico, Vince McMahon, non gli ha dato il bentornato. I fan non lo hanno mai fatto. Nell’ultima apparizione di Hogan in un programma televisivo di wrestling all’inizio di quest’anno, è stato fischiato fuori dall’arena. Ma il razzismo non è stato l’unico fattore devastante per l’eredità di Hogan. Nel corso degli anni, memorie e ricordi trapelati dallo spogliatoio hanno rivelato un lato della sua carriera che era sempre stato nascosto al pubblico. Era un arrivista spietato ed egocentrico che si è messo in proprio – un termine del settore per indicare i wrestler che promuovono il proprio marchio a spese di tutti gli altri membri della promotion. Hogan ha ripetutamente vanificato incontri da sogno contro avversari che riteneva inferiori alle sue capacità, come Jake The Snake Roberts e Bret The Hitman Hart. Insisteva per vincere i titoli anche quando non aveva alcun interesse a difenderli nei match. Fingeva un infortunio nel tentativo di screditare la leggenda della Wwe The Undertaker e farlo passare come un wrestler insicuro. E quando gli avversari proponevano incontri o sviluppi della trama che lo facevano apparire meno di un supereroe invincibile e virtuoso, lui rispondeva sempre con la stessa battuta: «Questo non funziona per me, fratello». Hogan nel corso degli anni si è rivelato anche un bugiardo compulsivo. Storicamente, i wrestler professionisti sono sempre stati bugiardi; il loro unico compito è confondere il confine tra finzione e realtà e presentarsi al pubblico come personaggi larger than life. Ma Hogan non mentiva per il gusto di intrattenere; spesso mentiva solo per il gusto di mentire. E nel corso degli anni, le bugie si sono trasformate in bugie sempre più assurde e infantili in stile «mio zio lavora alla Nintendo». Hogan ha affermato di essere stato reclutato da diverse squadre di baseball, dai Metallica e dai Rolling Stones, e da Darren Aronofsky per interpretare il ruolo principale in The Wrestler. Sosteneva che Mike Tyson avesse paura di combattere contro di lui. Raccontava bugie su bambini e colleghi morenti; nella mia bugia preferita, affermava di aver attraversato i fusi orari così spesso da riuscire in qualche modo a lavorare quattrocento giorni in un solo anno. Qualcuno potrebbe dire che era difficile distinguere la realtà dalla finzione con Hogan, ma non è proprio così: era estremamente facile. Tutto quello che dovevi fare era avere presente che mentiva sempre. Da qui in poi le cose non fanno che peggiorare. Hulk Hogan è un delatore: lui, personalmente, è il motivo per cui i wrestler professionisti non sono mai riusciti a formare un sindacato. Hulk Hogan è il motivo per cui abbiamo perso Gawker e ha rappresentato la punta di lancia per le aggressive ambizioni mediatiche della mafia di PayPal. E in una delle sue ultime apparizioni pubbliche, Hulk Hogan ha appoggiato Donald Trump alla Convention nazionale repubblicana del 2024. Hogan ha regalato agli appassionati di wrestling alcuni momenti davvero iconici sul ring, e ha anche reso il nostro mondo significativamente peggiore. La sua faida del 1990 contro John Earthquake Tenta mi ha insegnato a tenere testa ai bulli. Ha affermato di aver incontrato Gesù una dozzina di volte nel corso della sua carriera, quindi forse è riuscito ad arrivare in paradiso. Ma siccome Hulk Hogan è un bugiardo, immagino che non lo sapremo mai. *Carl Beijer scrive su carlbeijer.com. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione. L'articolo Hulk Hogan, delatore e razzista proviene da Jacobin Italia.
La lunga storia antisionista della sinistra ebraica
Articolo di Benjamin Balthaser La storica Karen Brodkin racconta che il socialismo era «egemonico» nella vita degli ebrei statunitensi prima della Guerra fredda. Non nel senso che ogni ebreo americano fosse socialista, ma piuttosto nel senso che una «visione operaia» e «anticapitalista» era una posizione politica familiare, persino dominante, degli ebrei statunitensi delle prime ondate di immigrazione ebraica di massa negli anni Ottanta dell’Ottocento e la Paura rossa della fine degli anni Quaranta del Novecento. Queste posizioni si materializzarono in organizzazioni comunitarie di ampia base, sindacati, pubblicazioni socialiste e partiti di sinistra fondati nelle comunità ebraiche o in organizzazioni non ebraiche con partecipazione ebraica su larga scala. L’International Ladies’ Garment Workers’ Union (Ilgwu) e l’Amalgamated Clothing Workers of America (Acwa) non solo si formarono con una schiacciante maggioranza di lavoratori ebrei, ma si svilupparono anche attraverso scioperi militanti e costruirono una cultura che andava ben oltre il luogo di lavoro, nelle sale da ballo, nelle cooperative edilizie e nelle pubblicazioni yiddish di sinistra. Il Partito socialista godeva di un sostegno pressoché ineguagliabile tra i lavoratori ebrei, con Eugene Debs che ricevette quasi il 40% dei voti ebrei nel 1920, rispetto a meno del 4% dei voti della popolazione generale. Victor Berger, compagno di corsa di Debs e uno dei politici socialisti più popolari negli Stati uniti, era ebreo, così come Meyer London, deputato che si definiva socialista. Uno dei grandi equivoci sulla consistente sinistra ebraica dell’inizio e della metà del XX secolo (un errore ripetuto da Brodkin tra gli altri) è che il socialismo ebraico americano fosse un’importazione dall’Europa orientale. L’affermazione piuttosto ragionevole di Brodkin, e in effetti ciò che ritengo sia di buon senso tra gli ebrei statunitensi e gli storici della sinistra, è che il socialismo ebraico sia nato dal crogiolo dell’antisemitismo zarista e di una Haskalah tardiva, alimentata da una classe operaia iper-istruita seppur sottoccupata. Se questo può essere vero per l’arrivo del Bund all’inizio del XX secolo, per l’emergere della sinistra ebraica statunitense di fine Ottocento, secondo lo storico Tony Michels, c’era poco socialismo ebraico da importare. Come sostiene Michels, il movimento operaio e socialista ebraico precede di due decenni i movimenti operaio e socialista dell’Europa orientale; «l’ebreo non è sempre stato radicale; l’ebreo era diventato radicale a New York e in altre città americane». In parte, suggerisce Michels, ciò è dovuto ai contatti degli ebrei con i lavoratori radicali tedeschi statunitensi, che portarono con sé testi dell’Oyfklerung del socialismo tedesco, tra cui quelli di Karl Marx, Friedrich Engels, Ferdinand Lassalle e Wilhelm Liebknecht. L’osservazione storica di Michels rappresenta una critica a un presupposto molto più diffuso, secondo cui il socialismo ebraico è un fenomeno monogenerazionale e che, dopo l’assimilazione, gli ebrei socialisti si sono trasformati in liberal. Niente di più lontano dalla verità: piuttosto, il movimento del socialismo ebraico dagli anni Ottanta dell’Ottocento agli anni Quaranta del Novecento fa pensare a una crescente radicalizzazione man mano che gli ebrei si assimilavano negli Stati uniti e si sentivano più a loro agio nel loro ambiente. In effetti, il movimento comunista degli anni Trenta e Quaranta fu, come osservò Michael Denning, un movimento di immigrati «etnici statunitensi» in gran parte di seconda e terza generazione, piuttosto che di arrivi più recenti. Il movimento comunista fu anche, per molti aspetti, il culmine della sinistra ebraica negli Stati uniti, con il Partito comunista che all’epoca contava in media quasi centomila iscritti, oltre la metà dei quali ebrei. Dato l’elevato turnover del partito, ciò avrebbe significato che centinaia di migliaia di ebrei statunitensi entrarono e uscirono dai ranghi dell’organizzazione. Tuttavia, la portata e la portata del Partito comunista statuitense andavano ben oltre i suoi iscritti, estendendosi ai numerosi sindacati affiliati, alle organizzazioni per i diritti civili, alle organizzazioni anti-imperialiste e pacifiste e alle organizzazioni culturali nell’orbita del partito. L’ala sinistra del Congress of Industrial Organizations (Cio), del National Negro Congress, dell’American League Against War and Fascism, del Civil Rights Congress, del Jewish People’s Fraternal Order e di altri gruppi fece sì che milioni di statunitensi fossero compagni di viaggio del Partito o membri attivi di organizzazioni ad esso collegate. Ciò seguì e contribuì a produrre il più grande riallineamento della politica di massa nella storia Usa: una coalizione di liberal bianchi, sindacati, organizzazioni per i diritti civili, persone non bianche ed ebrei statunitensi. L’alleanza è un fondamento così profondo della vita statunitense moderna che, se comincia a sgretolarsi, genera confusione. In altre parole, il momento culminante della sinistra ebraica Usa coincise con il senso comune della politica di sinistra e contribuì a crearlo. Il movimento comunista degli anni Trenta rivendicava lo slogan del Fronte Popolare, «Il comunismo è l’americanismo del XX secolo», ma molti storici del comunismo e della storia ebraica hanno notato che il movimento degli anni Trenta e Quaranta era tutt’altro che assimilazionista. Come scrive Brodkin, «gli operai ebrei non accettavano l’idea che un’identità ebraica fosse periferica rispetto ai loro interessi di classe operaia» come i socialisti ebrei di fine Ottocento e Novecento. Descrivendo lo stesso fenomeno un decennio dopo il periodo descritto da Brodkin, Matthew B. Hoffman e Henry F. Srebrnik sostengono che il «comunismo ebraico» negli Stati uniti «era una combinazione di socialismo e nazionalismo ebraico laico». In effetti, leggendo la stampa di sinistra degli anni Trenta, l’«assimilazione» era intesa come un anatema per il socialismo; non solo qualcosa che un ebreo socialista non avrebbe voluto fare, ma un progetto concepito per contrastare il socialismo e indebolirlo. Come scrive Alexander Bittelman, uno dei principali redattori e teorici del Partito comunista tra la fine degli anni Trenta e gli anni Quaranta: > Tutti sanno che le forze non democratiche nella vita ebraica americana sono o > assimilazioniste… o nazionaliste-reazionarie. Gli assimilazionisti sono del > tutto contrari alla costruzione di una vita ebraica negli Usa o cercano di > ridurre la comunità ebraica a un gruppo religioso, il che equivale a negare la > vita ebraica. E su questo punto, i nazionalisti reazionari, che negano la > possibilità di costruire una vita ebraica nella diaspora (il Goluth), assumono > la stessa posizione degli assimilazionisti. Vale a dire: o si oppongono del > tutto alla costruzione di una vita ebraica negli Usa – il che è praticamente > la stessa cosa – vogliono confinarla a una comunità religiosa. Per Bittelman, l’alternativa all’«assimilazionismo» e al «nazionalismo reazionario» (ovvero il sionismo) sono i «valori ebraici progressisti». Proprio come «tikkun olam» una generazione dopo, «valori ebraici progressisti» nel lessico della sinistra ebraica degli anni Trenta e Quaranta si riferisce a una cultura laica di socialdemocrazia, antirazzismo e diversità culturale, espressa attraverso la tradizione ebraica. Come ha articolato lo studioso Yuri Slezkine, delle tre risposte ebraiche all’antisemitismo nel XX secolo – l’immigrazione nelle Americhe, l’emigrazione in Israele e la Rivoluzione bolscevica (ovvero assimilazione, nazionalismo o socialismo) – il socialismo è rimasto di gran lunga la risposta più popolare alla «questione ebraica» tra l’inizio e la metà del XX secolo. In questo senso, allora, il comunismo non era una forma di assimilazione, ma piuttosto un’alternativa ad essa. Naturalmente, questo solleva la domanda: cosa c’era negli Stati uniti che permise il fiorire del socialismo ebraico? Sebbene questa possa essere una domanda sovradeterminata, è chiaro che i socialisti ebrei esprimevano il loro impegno politico attraverso un linguaggio di identificazione etnica e solidarietà razziale; anzi, questi tendevano a essere inscindibili. Come scrive Amelia Glaser nella sua completa storia della poesia yiddishkeit di sinistra negli Stati uniti, parte dell’acculturazione degli ebrei di sinistra negli Stati uniti avvenne attraverso il linguaggio della solidarietà e dell’identificazione razziale. I poeti statunitensi che scrivevano in yiddish spesso trasponevano il linguaggio dei pogrom in storie di linciaggi e paragonavano le sofferenze degli afroamericani a quelle degli ebrei nella Zona di Residenza. I poeti di lingua yiddish traducevano persino l’idioma e gli stili poetici neri nei loro scritti. Sebbene tali forme di prestito e identificazione potessero far pensare a una sorta di menestrello di sinistra, esprimevano una critica alla modalità di Al Jolson di versare lacrime ebraiche attraverso il blackface. Piuttosto che esprimere il dolore ebraico attraverso la trasposizione, queste poesie erano un modo per comunicare l’oppressione degli afroamericani ad altri ebrei in un idioma che potessero comprendere. In una mossa analoga, il romanzo Jews Without Money del 1930 dello scrittore e editore Mike Gold, ambientato a metà secolo, presenta come eroe un ebreo dalla pelle scura e dai capelli ricci – soprannominato dalla comunità con la parola che inizia con la N. Piuttosto che considerarlo un’appropriazione, direi che Gold presenta questo personaggio per rifiutare una «teleologia dell’assimilazione» e abbracciare la solidarietà con gli altri statunitensi emarginati. Sebbene ci siano molte altre ragioni per cui il socialismo ebraico ha prosperato negli Stati uniti, tra cui una maggiore atmosfera di libertà rispetto alla Russia zarista (seppur spesso circoscritta), suggerirei che sia piuttosto la sinistra Usa ad essersi prestata a un’espressione della politica etnica come politica di liberazione socialista. Negli Stati uniti, a differenza dell’Europa, la solidarietà razziale era un’espressione di radicalismo. Bittelman, da teorico del Partito comunista, tentò di schematizzare l’identità ebraica ashkenazita e il suo rapporto con le persone di colore non ebree in tutto il mondo all’interno di un quadro marxista e intersezionale dopo la Seconda guerra mondiale. Bittelman concepisce inizialmente la vita ebraica ashkenazita negli Stati uniti come esistente all’interno di un quadro «nazionalista borghese» che cerca di incorporare la «borghesia ebraica» negli obiettivi del capitalismo globale dominato dagli Stati uniti e di offrire una forma di «assimilazione» subordinata alle masse ebraiche. Bittelman prosegue poi affermando che la razza negli Stati uniti non è semplicemente un epifenomeno di classe; piuttosto, «esiste negli Stati uniti un peculiare sistema di oppressione dei popoli, solitamente definiti minoranze, che è un sistema di persecuzione e discriminazione contro i popoli». In altre parole, gli Stati uniti non sono solo un paese capitalista che sopravvive grazie allo sfruttamento del lavoro, ma sono anche l’erede dell’Impero britannico all’esterno e il prodotto dell’insediamento e della schiavitù all’interno. Pur rifuggendo una rigida gerarchia di oppressione, Bittelman descrive comunque l’oppressione degli afrostatunitensi come simile alla colonizzazione, definendola un’«oppressione nazionale» analoga alla colonizzazione delle Filippine e di Porto Rico all’interno della «Cintura Nera del Sud» e un regime di oppressione e discriminazione in tutto il resto degli Stati uniti. Bittelman descrive un sistema di oppressione razziale che in ultima analisi serve gli interessi del capitalismo, pur ponendo gli «anglosassoni» come gruppo dominante e sottoponendo etnie bianche quali «polacchi, russi, italiani, ebrei e altri» a svariate forme di esclusione. Bittelman prosegue suggerendo che gli ebrei si distinguano da questo quadro generale nella misura in cui «l’antisemitismo stesso» è una forma di «oppressione e discriminazione nazionale» meno sistemica dell’oppressione subita dai neri, ma al tempo stesso più acuta e più importante per le forze della «reazione imperialista» rispetto alle forme generali di esclusione sociale subite dai non «anglosassoni». In questo contesto, è nell’interesse degli ebrei statunitensi allearsi con il «popolo nero» che lotta per la propria «liberazione nazionale» all’interno della Black belt e costituisce una «forza d’avanguardia contro l’intero sistema imperialista di discriminazione e oppressione nazionale negli Stati uniti». È logico, quindi, che nella sua analisi del ruolo dei socialisti ebrei negli Stati uniti, emerga una critica del sionismo dalla visione generale del mondo della sinistra ebraica. Pertanto, per Bittelman, l’identità ebraica americana è legata principalmente alle sue condizioni negli Stati uniti e alle sue solidarietà vissute con altre «nazionalità oppresse», in particolare afroamericani e popolazioni del mondo colonizzato. La teoria di Bittelman circa il rapporto tra ebrei statunitensi e sionismo deriva dalla sua teorizzazione generale di razza e capitalismo come formazioni transnazionali, collegate attraverso circuiti di forma militare ed economica. Se il sionismo è una forma di imperialismo, non solo è direttamente antagonista dei palestinesi, ma è anche contrario agli interessi personali degli ebrei della classe operaia. Bittelman ammette che gli ebrei formino un «gruppo nazionale» nello Yishuv, l’insediamento ebraico pre-statale nella Palestina mandataria. Ma il loro carattere nazionale, la loro lingua, il loro territorio e la loro cultura nazionale non garantiscono agli ebrei in Palestina il diritto di formare uno stato esclusivamente ebraico. Come scrive Bittelman: > La soluzione sionista alla questione palestinese, essendo antidemocratica e > reazionaria e orientata alla collaborazione con l’imperialismo contro il > popolo arabo, mette in pericolo la sicurezza dello Yishuv e tende a > trasformare il popolo ebraico in complici e partner dell’oppressione e dello > sfruttamento imperialista. Bittelman non era il solo a considerare il sionismo una forma di imperialismo negli anni Trenta e Quaranta; in effetti, questa era la visione di buon senso della sinistra. Non solo il sionismo, come aveva previsto con precisione Hannah Arendt, avrebbe cacciato centinaia di migliaia di palestinesi e messo una minoranza di ebrei contro un intero subcontinente di vicini arabi, ma si sarebbe allineato con l’imperialismo britannico e statunitense e con gli interessi borghesi della classe dirigente ebraica. Bittelman parlava a nome della maggior parte degli ebrei statunitensi di sinistra, tra cui luminari come Mike Gold, Albert Einstein, Leon Trotsky, Muriel Rukeyser e molti altri, quando scrisse che il sionismo era un anatema per i «valori ebraici progressisti». L’antisionismo sembrava ben integrato nella vita quotidiana degli ebrei statunitensi. Come ha affermato sinteticamente Robert Gessner, negli Stati uniti «circa l’1% degli ebrei è sionista». Per citare Stuart Hall a proposito di Antonio Gramsci, le idee «non si limitano mai al nucleo filosofico» della loro esistenza; per la loro presenza «organica» nei movimenti e nelle comunità, «devono toccare il senso comune pratico e quotidiano». È importante sottolineare che l’antisionismo ebraico è emerso organicamente, in senso gramsciano, dall’impegno socialista già esistente degli ebrei negli Stati uniti. Se la sinistra ebraica statunitense si sia «convertita» velocemente al sionismo non è avvenuto grazie all’abilità militare israeliana, ma grazie al sostegno dell’Unione sovietica alla Partizione in seno alle Nazioni unite. Eppure, durò poco sia per l’Unione sovietica che per la sinistra ebraica americana. Quando Israele tornò alla ribalta nel 1967, la risposta della New left fu sorprendentemente coerente con quella della sinistra ebraica della generazione precedente. Il Partito socialista dei lavoratori (Swp) trotskista rimase coerente sulla questione palestinese durante il nadir degli anni Cinquanta, per molti membri della dirigenza degli Students for a Democratic Society (Sds) ci fu un processo di riapprendimento. Quando lo Student Nonviolent Coordinating Committee (Sncc) nel 1968 si schierò a sostegno della nascente Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), i leader dell’Sds sentirono di dover essere sostenuti. Susan Eanet-Klonsky, che era nella dirigenza dell’Sds e lavorava presso la sede nazionale di Chicago, disse di aver ricevuto una pila di opuscoli e libri «sulla questione palestinese» da compagni più anziani e di aver intrapreso per la prima volta uno studio sulla questione. Scrivendo diversi articoli per il giornale della Sds, New Left Notes, Eanet-Klonsky inquadrò Israele e Palestina in modo molto simile a quanto avevano fatto i comunisti degli anni Trenta, come una conquista imperialista «analoga alla fuga dei primi coloni in America… verso una terra già occupata dal popolo indiano». Quando, cinquant’anni dopo, Jewish Voice for Peace lanciò la campagna Deadly Exchange per denunciare il razzismo sia dello stato di polizia statunitense che dello stato di apartheid israeliano, si stava articolando una tradizione centenaria di collegamento tra sionismo, violenza razziale e imperialismo. Sebbene in entrambi i casi le condizioni e il contesto potessero essere nuovi, la concezione transnazionale della razza da parte della sinistra è rimasta una costante. Una tale concettualizzazione della razza non è un fenomeno nuovo, ma emerge piuttosto dalle solidarietà e dalle articolazioni di una tradizione molto più lunga della sinistra ebraica statunitense. Sulla questione del sionismo e della solidarietà con altri gruppi etnici oppressi e minoranze religiose, esiste un filo rosso che va dal Partito comunista all’Sds, al Collettivo Chutzpah, alla Nuova Agenda Ebraica (Nja) e a Jewish Voice for Peace. In effetti, si possono persino rintracciare tali linee evolutive attraverso singoli individui e famiglie. Jewish Voice for Peace, Jews for Racial and Economic Justice (Jfrej) e Democratic Socialists of America (Dsa) sono organizzazioni intergenerazionali, e molti dei fondatori e attivisti provengono da famiglie di sinistra multigenerazionali, tra cui Melanie Kaye/Kantrowitz, la cui carriera si estende dalla Nja alla Jfrej; David Duhalde, un socialista ebreo nella Dsa i cui genitori sono esuli dal Cile; e Molly Crabapple, pronipote di un noto membro del Bund. In questo senso direi che la sinistra ebraica non è periferica rispetto all’identità ebraica, ma piuttosto parte integrante della comprensione delle attuali divisioni e opposizioni all’interno della comunità ebraica, così come della continua presenza di ebrei autoidentificati e di organizzazioni ebraiche nelle proteste di piazza contro l’ultima guerra di Israele. Queste vicende sono tutt’altro che accademiche. Mentre oggi le istituzioni ebraiche di destra, dall’American Jewish Committee all’Anti-Defamation League e all’Hillel International, tentano di soffocare il dibattito pubblico americano sul sionismo e sul continuo esodo dei palestinesi dalla loro terra, la memoria viva della sinistra ebraica non solo è una risorsa per gli ebrei statunitensi, ma può anche indicare la strada da seguire per coloro che desiderano sfidare tali istituzioni sulla base delle proprie basi culturali. A differenza delle teorie sulla «scomparsa» della sinistra ebraica o dell’interesse per la sinistra ebraica americana come forma di «nostalgia», va ricordato che gli ebrei di sinistra non erano semplicemente individui coraggiosi, ma rappresentanti di comunità radicate e prospettive di classe, parte di una più lunga storia di lotta di classe, antimperialismo e assimilazione alle modalità dominanti di «bianchezza» e potere. Per quanto questa sia una storia culturale della «sinistra ebraica», la sinistra ebraica è inseparabile dalla più lunga storia della sinistra radicale, di cui la sinistra ebraica è stata parte attiva e influente. Naturalmente, questo non significa che la sinistra americana (ebraica) sia stata infallibile (anzi, la cieca adesione alla politica estera dell’Unione sovietica è stata un disastro per la Palestina e per la credibilità del comunismo americano): le sue sconfitte sono principalmente il risultato del terreno accidentato della lotta di classe, non di contraddizioni interne. Le due Paure rosse, il Cointelpro e l’allineamento delle istituzioni ebraiche liberali con le inquisizioni della destra hanno giocato un ruolo sproporzionato nell’affermare il predominio del sionismo sulla politica ebraica e statunitense. Ma va ricordato che le lotte del passato sono emerse e si sono combattute su un terreno non del tutto diverso da quello che ci troviamo ad affrontare oggi: una superpotenza imperialista contro gli interessi della maggioranza globale. Il mio intervento non si basa sull’idea che gli ebrei di sinistra fossero eccezionali, lungimiranti o cosmicamente visionari, ma piuttosto sul fatto che tali sinistre siano emerse dagli interessi e dalle lotte quotidiane della gente comune in un mondo grottescamente ingiusto. In quanto tali, i primi ebrei di sinistra hanno costruito una sinistra ebraica – e una critica del sionismo – a partire dal terreno autoctono degli Stati uniti: un terreno in cui l’oppressione razziale, una borghesia rapace, un bilancio militare gonfiato e standard di vita precari persino per le persone istruite sono la norma piuttosto che l’eccezione. Gli ebrei statunitensi, come tutti quelli che fanno parte del 99%, hanno motivi per combattere tali formazioni nella loro lingua, in una lingua comune, nella propria lingua in comune con gli altri. *Benjamin Balthaser è professore associato di letteratura multietnica statunitense presso l’Università dell’Indiana, South Bend. Di recente ha scritto Citizens of the Whole World: Anti-Zionism and the Cultures of the American Jewish Left (Verso, 2025), dal quale è tratto questo testo, che è comparso anche su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione. L'articolo La lunga storia antisionista della sinistra ebraica proviene da Jacobin Italia.
Il nuovo Deep State tecnologico
Articolo di Paolo Gerbaudo Negli inebrianti anni Novanta neoliberisti, il tecno-ottimismo raggiunse i suoi estremi più imbarazzanti. Intrisi del fatuo immaginario di quella che Richard Barbrook ha definito «ideologia californiana», lavoratori del settore tecnologico, imprenditori e ideologi tecno-visionari hanno identificato la tecnologia digitale con un’arma per la liberazione e l’autonomia personale. Questo strumento, proclamavano, avrebbe permesso agli individui di sconfiggere l’odiato Golia rappresentato dallo Stato, allora ampiamente individuato nei fallimentari colossi del blocco sovietico in implosione. Per chiunque abbia una conoscenza superficiale delle origini della tecnologia digitale e della Silicon Valley, questa avrebbe dovuto essere, fin dall’inizio, una convinzione ridicola. I computer furono un prodotto degli sforzi bellici dei primi anni Quaranta, sviluppati come mezzo per decodificare messaggi militari criptati, con Alan Turing notoriamente coinvolto a Bletchley Park. L’Eniac, o Electronic Numerical Integrator and Computer, considerato il primo computer multiuso utilizzato negli Stati uniti, fu sviluppato per compiere calcoli applicati all’artiglieria e per supportare lo sviluppo della bomba all’idrogeno. Come sosteneva notoriamente G.W. F.  Hegel, la guerra è lo Stato nella sua forma più brutale: l’attività in cui la forza dello Stato viene messa alla prova contro quella di altri Stati. Le tecnologie dell’informazione sono diventate sempre più centrali in questa tipica attività statale. Qualcuno potrebbe ancora credere al mito della Silicon Valley nata spontaneamente dagli hacker che saldavano circuiti nei loro garage. Ma la realtà è che non avrebbe mai preso vita senza il supporto infrastrutturale dell’apparato di difesa statunitense e dei suoi appalti pubblici, che garantiscono la redditività commerciale di molti prodotti e servizi che oggi diamo per scontati. Tra questi rientra anche la stessa Internet, con la Darpa – l’Agenzia per i Progetti di Ricerca Avanzata del Dipartimento della Difesa – responsabile dello sviluppo della tecnologia della commutazione di pacchetto che è alla base dell’architettura di comunicazione del web ancora oggi. Vero: da questa incubazione nel settore militare, la Silicon Valley si è gradualmente evoluta concentrandosi principalmente su scopi civili, dai social media all’e-commerce, dal gaming alle criptovalute e alla pornografia. Ma non ha mai reciso il legame con gli apparati di sicurezza. Le fughe di notizie di Prism del whistleblower Edward Snowden nel 2013 hanno rivelato una profonda e quasi incondizionata cooperazione tra le aziende della Silicon Valley e gli apparati di sicurezza dello Stato come la National Security Agency (Nsa). La gente si è resa conto che qualsiasi messaggio scambiato tramite le grandi aziende tecnologiche, tra cui Google, Facebook, Microsoft, Apple, ecc., poteva essere facilmente spiato con accesso diretto tramite backdoor: una forma di sorveglianza di massa con pochi precedenti nella sua portata e pervasività, soprattutto negli Stati nominalmente Democratici. Le fughe di notizie hanno suscitato indignazione, ma alla fine la maggior parte delle persone ha preferito distogliere lo sguardo dalla sconvolgente verità che era stata svelata. In ogni caso, ora il cordone ombelicale tra lo Stato securitario e la Silicon Valley è visibile come non mai. Il ritorno di Donald Trump non solo ha favorito un’alleanza tra l’estrema destra e le Big Tech che fino a poco tempo fa pochi consideravano possibile, ma ha anche offerto l’opportunità per l’ascesa di un nuovo tipo di Stato che mira a consolidare questo nuovo blocco di potere. Potremmo descriverlo come il «Big Tech Deep State». Quello che viene chiamato «stato profondo» – l’apparato di sorveglianza e repressione che si trova al centro di ogni Stato moderno, al di sotto del più accattivante apparato ideologico superficiale costituito da parlamenti, media o chiese – è ora profondamente intrecciato con queste tecnologie della comunicazione. Precedentemente spacciate per strumenti di liberazione e autonomia, si rivelano mezzi di manipolazione, sorveglianza e controllo dall’alto. Un presidente Repubblicano, Dwight D. Eisenhower, ha notoriamente messo in guardia contro i rischi dell’apparato militare-industriale, avvertendo della creazione di un centro di potere autonomo e dell’interferenza che avrebbe potuto tenere sul processo democratico. Ora dovremmo preoccuparci dello strapotere del complesso militare-informatico – per usare un termine già proposto nel 1996 dal politologo John Browning e dal direttore dell’Economist Oliver Morton. Esso esprime un rapporto sempre più stretto tra la Silicon Valley e il deep state, che rischia di sventrare ciò che resta delle nostre democrazie. IL COMPLESSO MILITARE-INFORMATIVO Il 13 giugno 2025, si è svolto uno strano rituale militare alla Conmy Hall della Joint Base Myer-Henderson Hall in Virginia. Un gruppo di dirigenti tecnologici di alcune delle più importanti aziende della Silicon Valley, tra cui Shyam Sankar, direttore tecnico (Cto) di Palantir; Andrew Bosworth, Cto di Meta; Kevin Weil, direttore dei prodotti di OpenAI; e Bob McGrew, consulente del Thinking Machines Lab ed ex direttore della ricerca di OpenAI, si sono presentati in uniforme militare davanti a un folto gruppo di soldati. Hanno prestato giuramento come tenenti colonnelli dell’esercito, nell’ambito del neocostituito Distaccamento 201: l’Executive Innovation Corps (Eic) dell’Esercito. L’iniziativa è stata presentata nel tipico gergo neoliberista come parte dello sforzo per «sfruttare le competenze private» a vantaggio del «settore pubblico». Ma la realtà è molto più sconcertante. Quest’assunzione in servizio segnala che non esiste una netta barriera tra il settore privato e quello pubblico: il figliol prodigo della tecnologia digitale potrebbe essersi a lungo allontanato dalle sue radici militari, ma ora sta tornando a casa. Perché? Perché sono, in generale, i militari a pagarne i conti. Il caso più estremo è quello dell’azienda di sorveglianza e intelligence Palantir. Quasi la metà dei suoi ricavi proviene da appalti governativi, tra cui il Dipartimento della Difesa e le agenzie di intelligence, oltre alle forze armate di vari alleati della Nato. Nonostante il tentativo dell’azienda di diversificare le sue fonti di reddito verso usi più commerciali, è probabile che rimanga fortemente legata agli appalti pubblici, soprattutto con il continuo aumento delle tensioni globali e dell’autoritarismo. Nei primi tre mesi del 2025, i suoi appalti governativi sono aumentati del 45%, mentre la sua valutazione a Wall Street è cresciuta di oltre il 200% dall’elezione di Trump. Palantir è stata per molti versi un’apripista per il Deep State delle Big Tech. Quando fu fondata nel 2003 dall’amico intimo di Elon Musk, Peter Thiel (anche lui sudafricano), insieme a Stephen Cohen, Alexander Karp e Joe Lonsdale, l’azienda ottenne finanziamenti iniziali da In-Q-Tel, la divisione di venture capital della Cia, allineando di fatto l’azienda all’apparato di sicurezza dello Stato fin dal suo inizio. Il suo servizio consiste fondamentalmente nel fornire una versione più sofisticata della sorveglianza di massa che le fughe di notizie di Snowden hanno rivelato oltre un decennio fa. In particolare, si propone di supportare l’esercito e la polizia nell’identificazione e nel tracciamento di vari obiettivi, a volte anche umani. Ecco perché si chiama Palantir: ne Il Signore degli Anelli di JRR Tolkien, i Palantiri sono sfere di cristallo magiche utilizzate per vedere a distanza. Questa metafora della «pietra che vede» incarna l’intenzione dell’azienda di offrire servizi in grado di svelare i modelli nascosti in grandi quantità di dati e fornire «intuizioni fruibili» a diverse agenzie. Un esempio è il servizio più famoso offerto da Palantir, chiamato Gotham. Utilizzato da Cia, Fbi, Nsa e forze armate di altri stati alleati degli Stati uniti, offre funzionalità di analisi di schemi e modellazione predittiva, che collegano persone, i loro account telefonici, veicoli, registri finanziari e posizioni. Ma la «visione algoritmica» può essere utilizzata con successo anche sul campo di battaglia. I servizi di intelligenza artificiale di Palantir sono già stati utilizzati per identificare obiettivi di bombardamento in Ucraina. Sebbene l’azienda neghi con veemenza il suo coinvolgimento diretto nel sostegno al genocidio a Gaza, è stato riferito che alcuni dei suoi strumenti più avanzati sono stati forniti a Israele dall’ottobre 2023. Data la segretezza dell’azienda, l’entità di questo coinvolgimento rimane difficile da verificare in modo indipendente. Ma non sarebbe una grande sorpresa: in effetti, la collaborazione tra Palantir e il governo israeliano è così forte che le due parti hanno firmato una partnership strategica all’inizio del 2024. La relatrice delle Nazioni unite sulla Palestina, Francesca Albanese, ha incluso Palantir tra le aziende che traggono profitto dal genocidio. Oltre alle guerre all’estero, Palantir è molto attiva anche sul fronte interno, come dimostra la sua consolidata collaborazione con l’Immigration and Customs Enforcement (Ice), intensificatasi ulteriormente dopo l’ascesa al potere di Trump. Il suo software è stato utilizzato per la sorveglianza e il tracciamento in tempo reale di individui, agevolando le incursioni nei luoghi di lavoro e nelle abitazioni, come quelle sempre più frequenti sotto la presidenza di Trump. In breve: Palantir è una società il cui vero e proprio business è supportare lo Stato securitario nelle sue manifestazioni più brutali: nelle operazioni militari che portano a ingenti perdite di vite umane, anche tra i civili, e nel brutale controllo dell’immigrazione, che terrorizza ampie fasce della popolazione residente negli Stati uniti. Purtroppo, Palantir è solo una parte di un più ampio complesso militare-informativo, che sta diventando l’asse portante del nuovo «Stato Profondo delle Big Tech». Diverse aziende simili sono emerse negli ultimi anni. Forse la più distopica è Anduril Technology, specializzata in «sistemi autonomi», ovvero l’intelligenza artificiale applicata agli armamenti. È stata fondata da Palmer Luckey, un imprenditore che in precedenza aveva inventato il visore per la realtà virtuale Oculus Rift. Si definisce un «sionista radicale»; è stato un precoce sostenitore del Maga (Make America’s Good Aging) e già nel 2016 ha ospitato diverse raccolte fondi per Trump. Anduril (che ha ancora una volta un nome tolkieniano) si concentra su una varietà di servizi basati sull’intelligenza artificiale per il settore della difesa, come il monitoraggio automatizzato di confini e infrastrutture, il drone per munizioni Altius e sistemi di realtà aumentata per i soldati. Attualmente ha una valutazione di oltre 30 miliardi di dollari. Queste aziende rappresentano il peggio sia del capitalismo che dell’intervento statale. Operano in settori poco trasparenti, dove la concorrenza è pressoché nulla, e vivono di appalti militari – un settore praticamente privo di trasparenza e notoriamente preda di corruzione e pesanti forme di interferenza politica. Un paradosso ironico, dato che i loro magnati, come Thiel, si definiscono libertari contro lo Stato. In realtà, sono così intrecciate con lo Stato che sono più facilmente interpretabili come escrescenze finanziarizzate dell’apparato di sicurezza statale che come aziende private realmente autonome. CONTRO L’IMPERO TECNOLOGICO Non solo aziende come Palantir e Anduril sono diventate nuovi strumenti dello Stato securitario, contribuendo alla guerra all’estero e al duro controllo della polizia in patria, ma ora non fanno più mistero di tutto questo, tentando perfino di presentare le loro operazioni come ispirate da grandi ideali. Nel suo recente libro Technological Republic, l’Ad e filosofo di Palantir, Karp, ha elogiato il ritorno della Silicon Valley alle sue origini. Ex liberal, Karp ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Istituto per la Ricerca Sociale della Goethe-Universität Frankfurt, sede della Scuola di Francoforte – l’istituzione nata dal gruppo guidato da Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, e più recentemente associata ad alti esponenti del post-marxismo liberale come Jürgen Habermas – che per un breve periodo ha persino ricoperto il ruolo di mentore accademico di Karp prima che gli venisse assegnato un supervisore diverso. Mentre i fondatori della Scuola di Francoforte concepivano le scienze sociali come un terreno di indagine critica a sostegno dell’emancipazione umana, Karp ha utilizzato questa conoscenza per fare qualcosa di piuttosto diverso: elaborare una giustificazione ideologica del perché la Silicon Valley dovrebbe abbracciare lo stato di sicurezza. Nel suo libro, Karp critica la Silicon Valley per essersi concentrata troppo sulla fornitura di servizi ai consumatori, trascurando i propri doveri nei confronti dello Stato e i relativi obiettivi geopolitici, in particolare nel contesto del crescente confronto con la Cina. Auspica che internet si allontani dalla «dolcezza» di emoji e selfie su Instagram e abbracci un’etica marziale di sacrificio e patriottismo, in un panorama popolato da sistemi d’arma controllati dall’intelligenza artificiale, droni autonomi, robot da combattimento e altre tecnologie distopiche in stile fantascientifico. Ciò è giustificato dal «patriottismo», ma di un tipo che per puro caso si sposa a doppio filo con gli interessi economici di Karp e dei suoi simili. Karp vede «l’unione tra Stato e industria del software» come una questione necessaria per la sopravvivenza di entrambi. Vengono evocati vari nemici esterni per accrescere il senso di pericolo, tra cui Russia e Cina, accusate entrambe di minacciare le democrazie occidentali. Sembra che il terrorismo psicologico sulle autocrazie sia l’unico tema liberale che Karp abbia conservato del suo passato atteggiamento habermasiano. Nel caso di Palantir, questa collaborazione «patriottica» con il governo è solo una mascherata disonesta: un riflesso della necessità materiale di un’azienda che dipende in larga misura dagli appalti statali. Per tutti noi, le cui vite non dipendono dagli appalti della difesa, dagli alti e bassi delle azioni di Palantir o dallo sviluppo di una tecnologia militare micidiale, dovrebbe essere giunto il momento di rendersi conto che il complesso militare-informatico rappresenta una grave minaccia per ciò che resta delle nostre democrazie. Questo tipo di alleanza di interessi rappresenta in genere una grave minaccia per la democrazia e la pace, come denunciato persino da Eisenhower alcuni decenni fa. Ripristinare la democrazia nelle società occidentali sotto la minaccia del crescente autoritarismo e garantire la pace in un mondo dilaniato dalla guerra richiede di sradicare il potere dilagante di questi giganti securitari. Significa consegnare alla pattumiera della storia il nuovo e pervasivo «stato profondo» che essi hanno creato. *Paolo Gerbaudo è sociologo presso l’Università Complutense di Madrid e associato all’istituto Alameda. È autore di Controllare e proteggere, il ritorno dello Stato (Nottetempo) e I partiti digitali (Feltrinelli). Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione. L'articolo Il nuovo Deep State tecnologico proviene da Jacobin Italia.
Il principe Cuomo, che vuole far perdere Mamdani
Articolo di Elisabetta Raimondi, Ross Barkan Ross Barkan, classe 1989, newyorkese, saggista e giornalista per testate tra cui The Guardian, The Nation, Jacobin Magazine, è anche un apprezzato romanziere. Il suo ultimo romanzo, Glass Century (2025), è una saga familiare newyorkese che copre una cinquantina d’anni, dal 1970 al 2020 circa, in cui, dice l’autore, «c’è un’apparizione di Donald Trump», dato che si tratta di «un romanzo sociale, alla Honoré De Balzac del ventesimo secolo, che mescola storia, società e modo di vivere, mettendo in evidenza come gli eventi influiscano sulle persone e come le persone a loro volta influiscano sugli eventi». Nel giugno del 2021, con qualche mese di anticipo sulle dimissioni dalla carica di governatore di Andrew Cuomo, Barkan pubblicò The Prince. Andrew Cuomo, Coronavirus and the Fall of New York. Riedito quest’anno, con il titolo The Dark Prince Returns e una nuova introduzione, in occasione della corsa di Cuomo nelle primarie Democratiche per la carica di sindaco di New York, vinte da Zohran Mamdani, il libro è oggi come oggi più che mai di attualità.  Dopo molti giorni di silenzio sulle sue decisioni future, infatti, il 14 luglio Cuomo ha annunciato la sua candidatura ufficiale alle elezioni generali per il sindaco di New York di novembre nella lista indipendente Fight and Delivery per un nuovo scontro con Mamdani, che vedrà però coinvolti, almeno allo stato attuale delle cose, altri tre candidati tra cui l’unico di peso è l’attuale sindaco Eric Adams. In piena sintonia con quanto raccontato da una nostra fonte, che qualche mese fa era presente a un evento di raccolta fondi con influenti uomini d’affari della comunità Italo-americana in cui Cuomo si è vantato di godere dell’apprezzamento di Donald Trump, arrivato puntuale il giorno dopo l’annuncio della candidatura.  Ross Barkan è un amico di lunga data di Mamdani, essendo stato il suo campaign manager nel 2018, quando Ross si candidò al Senato dello Stato di New York senza però vincere la competizione. Abbiamo intervistato Ross Barkan a New York una settimana dopo la vittoria di Mamdani, quando la ricandidatura di Cuomo era ancora un’ipotesi.  Il tuo libro The Prince, con quella bella copertina in cui Cuomo è ritratto in abiti rinascimentali sullo sfondo di un paesaggio leonardesco, è tornato più che mai di attualità. Puoi raccontarci qualcosa sul suo contenuto e sul perché l’hai scritto? L’ho scritto nel periodo del Covid, quando Andrew Cuomo stava ricevendo un grande apprezzamento per come si credeva stesse gestendo la pandemia. Nel libro, che era una risposta a quella gestione, sostenevo che Cuomo non meritasse tutte quelle lodi perché aveva commesso molte negligenze, a partire dal ritardo con cui impose il lockdown a New York, diventato uno dei motivi di litigio costante con il sindaco De Blasio, che Cuomo detestava. Comunque dai primi di marzo del 2020 aveva cominciato a tenere in diretta tv delle conferenze stampa quotidiane che tutti i newyorkesi guardavano e che erano diventate un fenomeno nazionale. Intanto però New York aveva un altissimo tasso di morti proprio per colpa di Cuomo, che aveva fatto un patto con gli ospedali permettendo loro di dimettere gli anziani e rimandarli nelle case di riposo prima che fossero negativi al test. Aveva nascosto i dati reali per far risplendere la sua immagine e aveva persino fatto in modo di ottenere 5 milioni di dollari per scrivere un libro di memorie sulla sua gestione della pandemia. Il libro venne scritto velocemente e così mentre la gente soffriva e moriva, lui faceva grandi eventi per promuoverlo. Ecco perché ho deciso di scrivere quel libro, occupandomi non solo della sua gestione del Covid ma più in generale dei suoi incarichi da governatore, nei quali ha conseguito successi e fallimenti. Ci sono stati scandali legati alla corruzione, dal malgoverno del sistema della metropolitana di New York e dei trasporti pubblici, al suo supporto mascherato per i Repubblicani contro i Democratici nel Congresso dello Stato; dai suoi legami con l’industria immobiliare, alla sua ostilità verso i sindacati, gli inquilini e coloro che non possedevano casa di proprietà. Tutta la sua gestione dello Stato era segnata dalla corruzione. Poiché era una figura molto potente e riverita, ho voluto scriverne per cercare di correggere la falsa narrativa che circolava su di lui, raccontando la realtà dei fatti. Ho finito il libro prima che si dimettesse per gli scandali sessuali, che lui ha negato, ma che furono provati dal procuratore generale. Quando nell’agosto del 2021 decise di dimettersi, lo fece per evitare l’impeachment da parte del Congresso dello Stato di New York. La Camera, che non ne poteva più di lui, lo avrebbe richiesto e il Senato lo avrebbe condannato e rimosso dalla carica.  Come ti è venuta l’idea di paragonare Cuomo al Principe di Machiavelli? Cuomo e il Principe di Machiavelli sono simili per molti aspetti. Andrew Cuomo ha operato dalla prospettiva secondo cui è meglio essere temuti che amati. Quella era davvero la sua essenza. Aveva pochissimi amici in Congresso e deteneva il potere in modo molto prepotente, tanto da essere temuto da tantissima gente in tutto lo Stato. E questa paura gli ha permesso di consolidare il potere, di dominare e di ottenere spesso quello che voleva. Era molto subdolo, scaltro, e bravissimo nei giochi di potere dietro le quinte. Non è mai stato accogliente e socievole, non lo si vedeva mai alle parate a stringere le mani alle persone per la strada. Non ha mai praticato quel tipo di politica, ma si trovava perfettamente a suo agio nell’ombra, nel muovere i pezzi sulla scacchiera in maniera calcolata e strategica. Ecco perché penso che abbia preso lezioni dal Principe di Machiavelli. Nessuno poteva essere veramente amico di Cuomo. Era molto transazionale, il rapporto era sempre basato su cosa si può dare e su cosa si può ricevere in cambio. E inoltre era molto vendicativo e se non stavi dalla sua parte sapeva come punirti utilizzando le leve del potere della sua posizione, perché l’ufficio del governatore è molto potente. È come essere il Primo Ministro dello Stato di New York. Hai veramente in mano il potere esecutivo e controlli un mucchio di soldi. Controlli tutto il sistema della metropolitana di NYC, tutti i vari dipartimenti scolastici, hai una tua propria polizia che è la Polizia di Stato. Hai davvero un potere enorme e lui era bravissimo nell’esercitarlo. Ecco perché l’ho assimilato a Machiavelli.  Pensi che Cuomo correrà per diventare sindaco come indipendente, magari contando sul fatto che alle elezioni generali di solito si presentano più elettori che alle primarie? È sulla scheda elettorale con la lista indipendente Fight and Deliver, quindi una possibilità c’è. Ma la sconfitta pesante delle primarie lo ha indebolito parecchio e non sarà più facile come prima raccogliere i fondi, quindi non avrà più quel Super Pac da 30 milioni di dollari che aveva a disposizione nelle primarie. Lo Stato di New York ha un sistema di primarie chiuse, secondo cui per votare devi registrarti con un partito. E c’è tanta gente, in particolare di sinistra, a cui il Partito democratico non piace e che o non si è registrata o si è dimenticata di farlo e i cui voti entrano in gioco nelle generali. Quindi è difficile capire se Andrew Cuomo riuscirebbe a far meglio in novembre, anche perché dovrà vedersela con il candidato Repubblicano Curtis Sliwa e soprattutto col sindaco in carica Eric Adams, che potrà contare sui voti degli ebrei ortodossi, generalmente conservatori, e su parte dell’elettorato afroamericano. C’è anche il fatto che importanti sindacati che lo  avevano appoggiato nelle primarie si sono affrettati a dare l’endorsement a Zohran. Se Cuomo correrà, magari perché si sentirà così disperato da voler tentare un’altra volta, sarà comunque un candidato debole che difficilmente potrà vincere. Non so se riuscirebbe a condurre la sua campagna in modo combattivo. Quella per le primarie l’ha fatta in modo molto pigro e questa volta non avrebbe neppure lo stesso livello di supporto.  Era convinto di vincere? Assolutamente. Ed era anche convinto che non ci fosse nemmeno la necessità si impegnarsi particolarmente. Credeva di avere la strada spianata anche senza parlare agli elettori e ai media. Ha creduto che bastasse impostare la campagna dicendo «sono stato governatore per undici anni, ho conseguito X,Y e Z» e che solo per questi motivi gli elettori lo avrebbero votato. Non ha mai parlato dei suoi scandali, non si è mai scusato, non ha fatto nessuno sforzo per costruire dei ponti con le comunità. La vera storia di queste primarie è sostanzialmente la storia di come Zohran sia riuscito a raggiungere e ispirare un numero incredibile di comunità e persone e di come Cuomo abbia invece condotto la peggior campagna che io abbia mai visto. Per quanto riguarda la reazione dell’establishment Democratico alla vittoria di Zohran, quasi tutti tacciono, a parte i commenti negativi di persone come lo speaker di minoranza della Camera Hakeem Jeffries o la senatrice newyorkese Kirsten Gillibrand. Che cosa pensi di questo silenzio, compreso quello di Obama? I leader dell’establishment sono ancora sbalorditi e non sanno cosa fare, sia perché per loro era inverosimile che Mamdani potesse vincere, sia perché le loro politiche sono diverse da quelle di Zohran. Quanto a Obama, il fatto che non commenti è ironico, perché Zohran ha fatto una campagna simile alla sua e tra i due ci sono molte analogie. La differenza principale è che, diversamente da Obama, Zohran è un uomo di sinistra, anzi è un socialista genuino. Oltre al carisma di entrambi le altre affinità riguardano la grande abilità nell’aggregare un forte movimento di volontari motivati e nel costruire coalizioni che non si credeva potessero vincere. L’establishment Democratico ora si trova in una posizione molto debole e confusa. Molti elettori sono delusi dal partito, sono persone a cui non piacciono né l’establishment Democratico né quello Repubblicano. La vittoria di Zohran ha dimostrato chiaramente questa frattura, che credo continuerà ad aumentare, motivo per cui i leader Democratici sperano che Zohran non vinca. Ma vincerà, o almeno è molto probabile che vinca. E l’establishment dovrà adattarsi, perché lui rappresenta non solo il futuro del partito, ma il futuro stesso. Ora è una figura nazionale e una celebrità internazionale. Io per esempio ho continue richieste da parte di reporter stranieri che mi chiedono interviste per parlare di lui. Insomma ormai ha un livello di popolarità come Obama, Alexandra Ocasio Cortez (Aoc) o Trump, e il partito dovrà tenerne conto, anche se per il momento sono ancora sbalorditi e non sanno cosa fare. Zohran ha impostato una campagna di tipo principalmente populista correndo su temi economici che impattano la vita delle classi sociali più deboli. Tuttavia, a parte l’appellativo di «comunista» affibbiatogli da Trump, la maggior parte degli attacchi,  anche dal suo partito, riguarda la questione israelo-palestinse. Quanto contano e conteranno Israele, l’Aipac e tutti i suoi soldi, che finanziano la maggior parte dei membri del Congresso, alcuni in maniera esorbitante come ad esempio Hakeem Jeffries? Le politiche di Zohran su Israele sono molto diverse da quelle dell’establishment, che non sa ancora come gestire il fatto che oggi come oggi la gente che vota sta molto più dalla parte della Palestina e di Zohran. La senatrice Gillibrand ha detto che Mamdani sostiene la jihad globale, il che è assolutamente falso, ma rispecchia il sentire dell’establishment, molto conservatore e a totale sostegno di Netanyahu, mentre sono sempre di più gli americani in linea con le posizioni della sinistra secondo cui Netanyahu e i membri della sua amministrazione sono dei guerrafondai di destra, spietatamente antipalestinesi, che vogliono costruire un etno-Stato. Io sono ebreo ma diffido di etno-Stati costruiti con la violenza in nome della mia religione. E molti ebrei americani la pensano come me, soprattutto tra i giovani dove il gap generazionale comincia davvero a farsi sentire. Anche dal punto di vista politico, per molto tempo non c’è stato assolutamente spazio per chi fosse pro-palestinese. Ti marginalizzavano, ti attaccavano. Zohran ha spazzato via tutto questo e, anche se per ora le cose sembrano ferme a livello di establishment, credo che nei prossimi dieci anni tutto il partito si sposterà a sinistra su questo tema, soprattutto mettendo in discussione l’incondizionato appoggio militare a Israele, che ci sia Netanyahu o un governo diverso. Già si sono fatti enormi passi in questa direzione negli ultimi dieci anni. Mi ricordo che la critica moderata mossa da Bernie Sanders a Israele quando correva contro Hillary Clinton aveva fatto scalpore. Bernie è stato di fatto il primo politico a livello mainstream a criticare in qualche modo Israele. Oggi ci sono alcuni membri del Congresso che lo hanno seguito e l’ascesa di Mamdani favorirà ulteriormente questo percorso,  ma ci vuole tempo. Le lobby come l’Aipac sono molto potenti e intelligenti, e possono spendere quantità enormi di denaro. Ma anche in questo campo la divisione generazionale avrà il suo peso, quindi le mie aspettative sono che in un decennio ci saranno cambiamenti significativi.   Non temi che alle elezioni generali di novembre si possa replicare quello che è successo a Buffalo con la democratica socialista India Walton, che aveva vinto le primarie e poi ha perso le elezioni generali contro lo stesso candidato? Come giornalista ho seguito quell’elezione e credo che Zohran sia in una situazione molto migliore di India Walton. Alle primarie Walton aveva sconfitto il sindaco Byron Brown in carica da circa vent’anni, però non aveva molti soldi e si trovava in una posizione molto più vulnerabile di quella attuale di Zohran. Di contro Brown era in una posizione molto più forte di quella attuale di Cuomo perché alle generali poteva contare sul supporto dei Repubblicani e di molti indipendenti. A New York quei voti verranno spartiti perché allo stato attuale delle cose i candidati sono almeno tre, quindi non credo si possa verificare a New York quello che è successo a Buffalo. Che compromessi dovrà fare Zohran con le corporation e gli interessi di Wall Street che a New York sono potentissimi? Comincerà ad avere contatti con loro fin da ora? Prima di tutto Zohran dovrà concentrarsi sulla campagna elettorale per le elezioni  generali e contemporaneamente cominciare a preparare la transizione. Anche se fino a novembre non saprà se sarà sindaco, credo stia già pensando a come costruire la sua squadra, per esempio a chi nominerà come Capo della Polizia o Cancelliere dell’Istruzione. Il governo di New York è enorme, ci sono 300.000 impiegati municipali e il budget è di più di 100 miliardi di dollari. È come governare un paese europeo di piccole o medie dimensioni. Adesso la priorità è la campagna elettorale, il momento dei compromessi arriverà quando sarà sindaco. Siamo ancora in una fase preparatoria piuttosto complicata anche perché ci sarà un sacco di gente che vorrà lavorare con lui, comprese molte persone che pur non essendo a sinistra quanto Zohran vorranno comunque essere parte della sua squadra. E stiamo già cominciando a vederlo. C’è tantissima energia intorno a lui, cosa che all’inizio sarà un grande incentivo per mantenere le promesse.  Osservando attentamente Brad Lander alla festa della notte elettorale di Mamdani, ho avuto la sensazione che fosse davvero commosso è che la loro alleanza sia sincera. È così? Sì, credo proprio che la loro alleanza sia sincera come appare. Si rispettano moltissimo a vicenda. Zohran rispetta l’esperienza di Lander e Lander rispetta il movimento che Zohran ha costruito e sono certo che se Lander vuole potrà lavorare per Zohran. Oltre al mutuo rispetto c’è il riconoscimento per quello che ciascuno di loro due può mettere sul tavolo. Quindi credo ci sia una buona possibilità che Lander diventi il vicesindaco o comunque un personaggio fondamentale dell’amministrazione, a meno che non voglia fare qualcos’altro della sua carriera.  Quali promesse Zohran potrà mantenere in autonomia e quali invece dipendono dal Congresso di Stato di Albany? Alcune promesse saranno facili da mantenere e altre difficili. Per esempio congelare gli affitti dei moltissimi appartamenti che rientrano nella categoria dell’affitto calmierato e che riguardano sostanzialmente le classi lavoratrici, è una cosa che Zohran può fare in autonomia, perché dipende dal governo cittadino. Sarà lui a decidere le linee guida per la politica degli affitti. Lo stesso vale per il progetto dei supermercati cittadini, per cui credo che arrivare ad aprirne cinque dovrebbe essere piuttosto facile. Per quanto riguarda l’assistenza all’infanzia dai cinque mesi ai cinque anni, dall’asilo nido alla scuola materna, dovrebbe costare 5 miliardi all’anno. Anche in questo caso la città è indipendente ma la spesa è altissima, quindi è possibile che si debba chiedere aiuto ad Albany. Zohran vuole aumentare le tasse alle corporation e ai ricchi per provvedere al Childcare, ma non può farlo da solo perché la tassazione è materia di pertinenza statale. La governatrice Kathy Hochul ha detto che non ci saranno aumenti di tasse quindi quella sarà una grande sfida. Anche per rendere gli autobus gratuiti c’è una certa dipendenza da Albany, perché gli autobus fanno parte della Metropolitan Transportation Authority (Mta) che è controllata dal governatore. Poiché comunque è necessario che l’Mta sia d’accordo e provveda al finanziamento, Zohran potrebbe fare in modo che sia la città a dare più soldi all’Mta. Ci sono situazioni in cui potrà essere creativo, ma ci saranno cose su cui dovrà per forza collaborare con Albany.  Come influirà su New York il Big Beautiful Bill appena approvato anche alla Camera dalla maggioranza repubblicana? Se il governo federale vuole davvero colpire New York City, le ripercussioni saranno preoccupanti sia che i provvedimenti riguardino la riduzione dei fondi per il Medicaid sia che riguardino la diminuzione della tassazione per i super ricchi e la corporation. Zohran dovrà negoziare e cercare di lavorare con l’amministrazione Trump. Anche questa è una cosa che incombe su tutto il resto. Se la riduzione del denaro federale riguarderà lo Stato di New York, impatterà notevolmente sulla città di New York che avrà meno soldi per fare quello che Zohran vuole fare.  Veniamo alla posizione del New York Times che nella campagna elettorale per le primarie ha finto di non prendere una posizione pur prendendola invece molto nettamente, tanto che tu hai parlato di «non-endorsement endorsement». Il New York Times è stato molto ostile nei confronti di Zohran, perché il suo board editoriale non voleva che diventasse sindaco. Il comitato editoriale aveva detto che si sarebbe astenuto dal dare il suo endorsement nelle primarie per il rinnovo del sindaco, secondo una nuova politica per cui d’ora in poi si esprimerà solo per le elezioni presidenziali. Malgrado ciò, ha specificamente chiesto di non votare per Mamdani e di non segnalarlo nella lista delle preferenze, aggiungendo che nonostante ci fossero riserve su Cuomo sarebbe comunque  stato meglio scegliere lui. Ecco perché ho parlato di non-endorsement endorsement. Ora il board editoriale dovrà riflettere su quello che il Nyt scriverà in futuro, perché è chiaro che è mancata la sintonia con gli elettori, che infatti non hanno ascoltato il parere del giornale. Credo che i reporter siano onesti e seguiranno Mamdani con oggettività, ma sarà interessante vedere come poi interverrà il board editoriale a cui Mamdani non piace. Dovrà comunque valutare che cosa sarà più conveniente per il giornale, visto che Zohran ha vinto di larga misura.  In questo periodo si parla molto della teoria dell’abbondanza  introdotta da Ezra Klein e Derek Thompson nel loro libro Abundance: Politics in the Age of Climate. Riguardo alla politica edilizia ci sono similarità con i piani di Mamdani?  Sia gli autori di Abundance che Mamdani sono favorevoli alla costruzione di più edifici abitativi, ma mentre Zohran è focalizzato sulla salvaguardia dei diritti degli inquilini, in particolare quelli della working class che stanno affrontando gli sfratti, e sulla necessità di fare in modo che i proprietari assumano le proprie responsabilità, Klein e Thompson non sono particolarmente interessati alla protezione degli inquilini, essendo contrari al congelamento degli affitti o a qualsiasi altro tipo di controllo. Zohran inoltre non crede che il libero mercato sia la soluzione dei problemi che è invece l’orientamento principale dei sostenitori di Abundance. Comunque credo anche che esista una buona dose di sovrapposizione perché entrambi vogliono costruire, rendere il governo più efficiente e fare in modo che lavori meglio e con più trasparenza.  La mia ultima domanda è doppia e riguarda le due celebrità Aoc e Obama. Ci potrà essere della competizione tra Zohran e Aoc? E credi che la popolarità di Obama stia cominciando a declinare? Visto che ormai sono due super star, potrebbe esserci nel caso tutti e due corressero per la presidenza. Ma Zohran non lo farà, quindi se Aoc dovesse decidere di candidarsi alle presidenziali non ci sarà competizione. Per il momento sono molto vicini, tuttavia il fatto di avere queste due grosse personalità nella stessa città, entrambe  leader nazionali della sinistra, anche se Zohran è più a sinistra di Aoc, potrebbe creare qualche tensione in futuro. Zohran potrebbe prendere posizioni sulle quali lei è in disaccordo. Sono allineati su molte cose, per di più lei è concentrata su Washington e lui su New York, ma essendo due celebrità, con molto talento e carisma, non si può mai sapere quello che accadrà.  Quanto a Obama, credo che sarà sempre un personaggio molto popolare per un segmento del Partito democratico per quello che ha rappresentato, essendo stato il primo presidente afroamericano e quindi una figura storica. Ma c’è anche una certa disillusione verso di lui, per come si è comportato nel periodo post presidenziale. A differenza di Jimmy Carter, Obama non ha fatto progetti significativi per restituire qualcosa di rilevante nell’ambito del  sistema politico, o della  beneficenza, o del social welfare. Insomma Obama rappresenterà sempre qualcosa di importante per la gente, ma è anche vero che in qualche modo non è più una figura che abbia tantissima influenza. Non riesce più a muovere voti. Il suo endorsement non è servito a Kamala e inoltre ci sono sempre più elettori giovani che di Obama non si ricordano poi così tanto. Parlo di ragazzi e ragazze nati nel 2004, 2005 e anche nel 2007 che hanno diciotto anni o pochi di  più. È un cambio generazionale e quei giovani non vedono Obama nel modo in cui lo vedeva la mia generazione. Io sono un millennial, avevo 18 anni all’inizio della sua prima campagna presidenziale del 2007-2008 e ricordo quanta eccitazione ci fosse e quanto ottimismo e speranza avessimo allora per quelle promesse che poi non ha portato a compimento. Ora le nuove generazioni lo vedono in modo differente. *Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola pubblica. È attiva in ambito teatrale ed artistico, redattrice della rivista Vorrei.org per la quale segue dal 2016 la Political Revolution di Bernie Sanders. L'articolo Il principe Cuomo, che vuole far perdere Mamdani proviene da Jacobin Italia.
Boicottare le multinazionali Usa
C’È IL MOVIMENTO A GUIDA PALESTINESE PER IL BOICOTTAGGIO DI ISRAELE CHE STA ATTIRANDO SEMPRE PIÙ ATTENZIONI, CI SONO STORICHE INIZIATIVE DI PROTESTA COME BUY NOTHING DAY E OGGI PERFINO APP PER IL CONSUMO CRITICO. FORSE PER RISPONDERE DAL BASSO ALLA TRACOTANZA DI TRUMP E DEI MERCATI SI POTREBBE FAR NASCERE UNA CAMPAGNA PER NON ACQUISTARE I PRODOTTI USA. DEL RESTO, SCRIVE MARCO AIME, IL BOICOTTAGGIO DI TESLA HA LASCIATO IL SEGNO. “GANDHI RIUSCÌ A PIEGARE IL COLONIALISMO BRITANNICO CON IL BOICOTTAGGIO DEI PRODOTTI PROVENIENTI DALL’INGHILTERRA…” Di fronte all’arroganza, alla tracotanza e al disprezzo di Donald Trump, che impone dazi assurdi e, violando ogni diritto internazionale, non ammette ritorsioni; di fronte alle pavide reazioni delle autorità europee, una risposta popolare è necessaria. Abbiamo accettato tutti supinamente il sistema di mercato, allora invece di subirlo passivamente, proviamo a girarlo a nostro favore. Tale sistema ha fatto di noi dei “consumatori”, è vero, ma possiamo scegliere cosa consumare. Riprendo allora una vecchia idea di Umberto Eco, sviluppata in un contesto tutto italiano: prendiamo nota dei prodotti che importiamo dagli Usa, facciamo circolare le informazioni, condividiamole e iniziamo a non acquistare quei prodotti. Visto che l’unica lingua che il magnate statunitense sembra parlare è quella del denaro, proviamo a rispondergli nel suo idioma. Non è facile, me ne rendo conto, ma quale alternativa abbiamo se le nostre autorità sono pronte a inchinarsi a ogni sfuriata del presidente Usa, se non quasi a ringraziarlo. Sembra di essere tornati ai film western degli anni Quaranta-Cinquanta, dove i cattivi erano gli indiani e Custer un eroe. Oggi i cattivi sono i cinesi, il buono è lui. Il boicottaggio della Tesla, dopo le prime sparate demenziali del suo inventore ha lasciato il segno. Perché non continuare? Lo so, occorre informarsi, prendere coscienza, non cadere nelle trappole delle fake news, ma è l’unica strada possibile. Il Mahatma Gandhi riuscì a piegare il colonialismo britannico con il boicottaggio dei prodotti provenienti dall’Inghilterra. Per carità, nessuno di noi, credo, voglia e possa paragonarsi a Gandhi, ma nel nostro piccolo… Narra una leggenda, che un giorno nella foresta scoppiò un grande incendio. Di fronte all’avanzare delle fiamme, tutti gli animali scapparono terrorizzati mentre il fuoco distruggeva ogni cosa senza pietà. Leoni, zebre, elefanti, rinoceronti, gazzelle e tanti altri animali cercarono rifugio nelle acque del grande fiume, ma ormai l’incendio stava per arrivare anche lì. Mentre tutti discutevano animatamente sul da farsi, un piccolissimo colibrì si tuffò nelle acque del fiume e, dopo aver preso nel becco una goccia d’acqua, la lasciò cadere sopra la foresta invasa dal fumo. Il fuoco non se ne accorse neppure e proseguì la sua corsa sospinto dal vento. Il colibrì, però, non si perse d’animo e continuò a tuffarsi per raccogliere ogni volta una piccola goccia d’acqua che lasciava cadere sulle fiamme. Vedendolo, il leone lo chiamò e gli chiese: “Cosa stai facendo?”. L’uccellino gli rispose: “Cerco di spegnere l’incendio!“. “Non ci riuscirai mai!” “Forse, ma intanto faccio la mia parte”. -------------------------------------------------------------------------------- Tra gli ultimi libri di Marco Aime Confini. Realtà e invenzioni (scritto con Davide Papotti per EGA), di cui è possibile leggere qui l’introduzione: Il bisogno di sconfinare. Pubblicato anche su un blog del fattoquotidiano.it e qui con l’autorizzazione dell’autore. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Boicotta, disinvesti e sanziona -------------------------------------------------------------------------------- > Equa, l’app per il consumo critico -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Boicottare le multinazionali Usa proviene da Comune-info.
L’orizzonte strategico non è più a sinistra
OGNI TANTO, LA SINISTRA SI ENTUSIASMA PER LE ULTIME NOVITÀ MEDIATICHE CHE PROMETTONO TEMPI FELICI. IN QUESTI GIORNI, I NOMI DEL SOCIALISTA ZOHRAN MAMDANI, COME POSSIBILE SINDACO DI NEW YORK, E DI JEANETTE JARA, COME CANDIDATA ALLA PRESIDENZA PER I PROGRESSISTI CILENI, SONO MOTIVO DI GIOIA PER TANTI. ENTUSIASMI ANCHE PIÙ FORTI SI SONO REGISTRATI QUALCHE ANNO FA ANCHE IN EUROPA CON L’ASCESA DI PODEMOS IN SPAGNA E SYRIZA IN GRECIA. MA PER RICONOSCERE QUALCOSA IN GRADO DI RICONSEGNARE SIGNIFICATO ALLA PAROLA SINISTRA FORSE BISOGNEREBBE CAMBIARE SGUARDO, DARE MENO IMPORTANZA ALLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA. IN AMÉRICA LATINA, AD ESEMPIO, SECONDO RAÚL ZIBECHI, SONO LE RIAPPROPRIAZIONI TERRITORIALI, PROMOSSE DA ATTORI COLLETTIVI NELLE AREE RURALI E URBANE, A POSSEDERE “LA PROFONDITÀ STRATEGICA CHE LA SINISTRA HA PERSO ASSESTANDOSI NELLA ZONA DI COMFORT DELLO STATO E DELLE ISTITUZIONI…” Tratta dalla pag. fb della rete brasiliana Teia Dos Povos  -------------------------------------------------------------------------------- Di tanto in tanto, la sinistra si entusiasma per le ultime novità mediatiche che promettono tempi felici, solo per vedere questo fervore svanire senza conseguenze, poiché raramente si guarda indietro per valutarne i risultati. In questi giorni, i nomi del socialista Zohran Mamdani, come possibile sindaco di New York, e di Jeanette Jara, come candidata alla presidenza per i progressisti cileni, sono motivo di gioia e speranza. Per alcuni analisti e per il quotidiano di sinistra Sin Permiso, la vittoria di Mamdani alle primarie democratiche ha causato un “terremoto politico” così profondo che, secondo l’analista, “le ramificazioni di questa inversione di tendenza si faranno sentire per anni, in tutti gli Stati Uniti e nel mondo sviluppato”. Essendo socialista, musulmano e filo-palestinese, la sinistra si illude che il suo arrivo a sindaco della città simbolo cambierà le cose, nonostante tutte le prove contrarie. Per il settimanale di sinistra El Siglo, il comunista cileno Jara incarna “la reale possibilità che il popolo governi con la propria voce, le proprie richieste e la propria dignità in prima linea”. Per i media progressisti, come Página 12 in Argentina, il semplice fatto che Jara non provenga dall’élite incarna “la speranza di una vita migliore”. La sinistra assomiglia sempre più ai media mainstream che tanto critica. Un entusiasmo enorme, espresso in titoli di giornale, produce effetti immediati ma di breve durata. Una volta esaurito l’effetto, non si chiedono che fine abbiano fatto quelle speranze che erano riuscite a entusiasmare i loro seguaci. Credo sia necessario ricordare le esplosioni di passione che hanno caratterizzato l’ascesa di Podemos in Spagna e l’ascesa al potere di Syriza in Grecia. Sono solo fuochi d’artificio destinati a tenere a galla una sinistra traballante, che ha perso ogni spessore strategico, incapace di andare oltre effimere manovre tattiche che non cambiano nulla e vengono presto dimenticate. Mi sembra strano che molti cileni stiano di nuovo cadendo nella trappola. Sono stati ingannati da figure come la leader studentesca Camila Vallejo, che nel 2011 promise di cambiare il Paese e che l’opportunista quotidiano britannico The Guardian ha paragonato al Subcomandante Marcos. Sono ancora più sorpreso che la memoria collettiva non possa nemmeno risalire al 2019, quando un’Assemblea Costituente (convocata dalla destra e solo da una figura di sinistra, l’attuale presidente Gabriel Boric) ha spinto gran parte del movimento sociale a sciogliere le assemblee regionali e a recarsi alle urne. Vorrei fare un paragone. Lo scorso fine settimana, tre compagni brasiliani vicini alla Teia dos Povos (la straordinaria Rete brasiliane dei Popoli riunisce comunità, popoli e organizzazioni politiche rurali e urbane che promuovono percorsi di emancipazione collettiva per costruire un’alleanza nera, indigena e popolare, “il nostro obiettivo non è essere un movimento sociale che abbracci gli altri, vogliamo camminare insieme, non produrre un’unità monolitica…”, ndr) hanno visitato una mezza dozzina di riappropriazioni (bonifiche territoriali) del popolo Guarani Kaiowá nello stato del Mato Grosso do Sul, vicino al confine con il Paraguay. Negli scambi che abbiamo avuto, hanno descritto la potenza di questi spazi, uno dei quali occupa seicento ettari, la diversità delle colture e la forza delle comunità riterritorializzate. Uno degli insediamenti sta contestando 11.000 ettari di terreno con l’agroindustria, sebbene “si trovino in una situazione di grande vulnerabilità, con attacchi notturni da parte di uomini armati dei proprietari terrieri con cui si contendono il territorio ancestrale, che passano a bordo di camion 4×4 e sparano alla comunità. Sono riusciti a rimanere nella zona a intermittenza per 47 anni di riappropriazione”, dice la compagna Silvia Adoue. Riguardo a quello spazio, Pakurity, compa Esteban del Cerro scrive su Quilombo Invisível che dalla riconquista del 1986, “ci sono stati decenni di permanenza e movimento a Pakurity attraverso altri mezzi: lavori temporanei nell’azienda, utilizzo della foresta vicina per l’estrazione di piante medicinali, erbe, radici e frutta, caccia e pesca; spostamenti di famiglie nella regione; memoria dei defunti e degli antenati”. Il testo conclude: “Da nord a sud del continente, i popoli indigeni si fanno portavoce del grido zapatista per i beni comuni e la non-proprietà, e le riconquiste continuano a chiarire che la via dell’insurrezione è la via per la vittoria. L’insurrezione dimostra anche che il recupero delle terre ci dà speranza, anche in mezzo alle trincee, per un nuovo modo di relazionarci con gli esseri viventi“. La terra trasformata in territorio apre orizzonti di vita. Le riappropriazioni territoriali in tutto il continente, sostenute da attori collettivi nelle aree rurali e urbane, possiedono la profondità strategica che la sinistra ha perso assestandosi nella zona di comfort dello Stato e delle istituzioni. Non sorprende più che coloro che celebrano minime “vittorie” elettorali stiano voltando le spalle alle lotte che stanno ricostruendo il movimento popolare, impegnandosi per la sopravvivenza collettiva durante la tempesta sistemica che ci sta colpendo. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche su La Jornada (qui con l’autorizzazione dell’autore, che da oltre dieci anni di prende cura anche di Comune). Traduzione di Comune. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI GIORGIO AGAMBEN: > Il medioevo prossimo venturo -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’orizzonte strategico non è più a sinistra proviene da Comune-info.
La «bella» legge di Trump e i sacrifici bipartisan
Articolo di Evelyn Quartz Circondato dai membri Repubblicani del Congresso, Donald Trump ha celebrato il 4 luglio firmando una legge per tagliare l’assistenza sanitaria e i sussidi alimentari a milioni di americani per finanziare i tagli alle tasse aziendali. I Democratici hanno risposto con indignazione morale, messaggi perbene e palese opportunismo politico. Dopo che il leader della minoranza alla Camera Hakeem Jeffries si è espresso per oltre otto ore contro il disegno di legge, il Comitato per la Campagna congressuale Democratica ha risposto non contrapponendo una diversa morale, ma condividendo una lusinghiera foto di Jeffries con la didascalia: «Hakeem Jeffries è il leader che l’America merita». E poco dopo l’approvazione della legge, leader e opinionisti liberal hanno iniziato a incanalare l’indignazione pubblica nella strategia della loro campagna. La capogruppo Democratica alla Camera Katherine Clark ha dichiarato: «Il Progetto 2026 inizia oggi». Jen Psaki, ex addetta stampa di Biden ora conduttrice della Msnbc, ha osservato che il disegno di legge «ricorda molto le elezioni di medio termine dell’ultima volta che Trump era presidente», ricordando come i Democratici abbiano guadagnato terreno nei distretti Repubblicani cavalcando l’ondata di reazioni negative alle politiche di Trump. È così che spesso funziona oggi la politica Democratica: non come una forza che si oppone alla crudeltà, ma come una macchina per gestirla. Il partito tratta la sofferenza di massa non come una risorsa per il cambiamento, ma come carburante per le prossime elezioni. Mentre i Repubblicani hanno firmato questa specifica legge, la scomoda verità per i Democratici è che anche loro hanno contribuito a preparare il terreno per questa crudeltà attraverso decenni di logica di mercato bipartisan che ha smantellato la rete di sicurezza sociale. Nessun equivoco: è innegabile che i Repubblicani siano i principali colpevoli. Come partito, da tempo considerano la povertà non un problema da risolvere, ma un fallimento morale da punire. Questo disegno di legge ribadisce questa logica, introducendo rigidi requisiti lavorativi per i servizi sociali di base, che stigmatizzano i poveri e limitano gli aiuti ai più disperati. Si prevede che il risultato, approvato attraverso i ranghi del partito, eliminerà la copertura Medicaid per quasi 12 milioni di persone e taglierà drasticamente gli aiuti alimentari, in un momento in cui inflazione, precarietà abitativa e debito sanitario affliggono già le famiglie della working class in tutto il paese. È una dichiarazione che i poveri sono sacrificabili, che l’austerità è patriottica e che nell’America di Trump, la crudeltà è la parola d’ordine. Trump avrebbe dovuto segnare la fine del consenso neoliberista. Aveva promesso di essere l’outsider dirompente che avrebbe distrutto l’ortodossia dell’establishment. Ma questa legge è una continuazione, seppur più spietata, dello stesso progetto che lui stesso aveva dichiarato di respingere. Per decenni, radicati nella Reaganomics, entrambi i partiti hanno sostenuto un modello di governo che tratta la povertà come un fallimento personale, i servizi pubblici come passività e la crescita del mercato come il bene supremo. Eliminare quel poco che resta di quella rete di sicurezza per finanziare agevolazioni fiscali per i ricchi non è una deviazione dallo status quo bipartisan, ne è la logica conclusione. Mentre i ricchi e l’élite aziendale raccolgono miliardi di dollari in sussidi, le famiglie in difficoltà si troveranno ad affrontare dispense vuote, farmaci scaduti e scelte impossibili. È un ritorno alla logica più spietata della governance di mercato: affamare il pubblico per sfamare il privato. E così facendo, svela qualcosa di più profondo: non solo un fallimento della politica, ma il fallimento di una classe politica che non crede più in nulla che vada oltre la sopravvivenza. LA RETE DI SICUREZZA SOCIALE STATUNITENSE Ciò che colpisce non è solo la crudeltà del disegno di legge; è che questo risultato è stato reso possibile da decenni di consenso bipartisan. Per anni, entrambi i partiti hanno trattato l’assistenza sanitaria non come un diritto, ma come una merce – qualcosa da gestire dal mercato, con il governo che agisce come partner delle assicurazioni private piuttosto che come garante dell’assistenza. Invece di affrontare un modello basato sul profitto, i Democratici si sono uniti ai Repubblicani nel concentrarsi su soluzioni basate sul mercato che preservino il primato dell’assicurazione sanitaria privata. L’Affordable Care Act, spesso acclamato come il risultato più significativo del Presidente Barack Obama, ne è un esempio lampante. Presentato come un’importante espansione dell’assistenza sanitaria, in realtà si è trattato di un accordo pubblico-privato elaborato in consultazione con il settore assicurativo. L’opzione pubblica, inizialmente sostenuta da Obama e da molti Democratici, è stata abbandonata dopo la feroce opposizione di stakeholder aziendali come l’American Medical Association, un potente gruppo di pressione dei medici. Al contrario, le compagnie assicurative hanno ottenuto nuovi clienti, i loro profitti sono stati protetti e il potere strutturale del settore privato è rimasto sostanzialmente incontestato. E nonostante le insistenti richieste di adottare una versione di assistenza sanitaria universale, Joe Biden ha reso inequivocabile la sua posizione sul Medicare for All durante la sua campagna presidenziale del 2020. «Se riuscissero a far passare [Medicare for All] per miracolo… allora bisognerebbe considerare i costi – ha detto – Voglio sapere, come hanno trovato 35 miliardi di dollari? Cosa stanno facendo? Aumenteranno significativamente le tasse sulla classe media?». Ha proseguito: «Porrei il veto su qualsiasi cosa che ritardi la fornitura della sicurezza e della certezza di un’assistenza sanitaria disponibile ora». In un paese in cui il debito sanitario è la principale causa di bancarotta, Biden non ha messo in discussione il costo del sistema attuale; lo ha difeso. In base a questa visione del mondo, l’assicurazione basata sul mercato è la norma per la maggior parte degli americani, mentre Medicaid è riservato a chi vive in condizioni di povertà estrema. Il Big Beautiful Bill di Trump è particolarmente crudele non perché rappresenti un’eccezione, ma perché è il risultato di un consenso bipartisan che si rifiuta di trattare l’assistenza sanitaria e altri beni di prima necessità per una vita dignitosa come servizi pubblici. Questo disegno di legge taglia il Medicaid e il Programma di assistenza nutrizionale supplementare (Snap) imponendo requisiti lavorativi più severi, nonostante decenni di prove dimostrino che queste norme contribuiscono poco a migliorare l’occupazione e danneggiano in modo sproporzionato le persone con disabilità, i caregiver e chi ha un lavoro precario. Queste stesse misure punitive erano state promosse durante l’era Clinton. E anziché mettere in discussione l’idea che l’assistenza sanitaria debba essere guadagnata con il lavoro, il disegno di legge la rafforza, riecheggiando la verifica dei mezzi e la logica di mercato dell’Affordable Care Act. Entrambi i partiti hanno accettato un quadro normativo in cui solo i più poveri meritano assistenza, e anche in quel caso, solo sotto sorveglianza. La crudeltà di Trump è certamente peggiore, ma l’architettura è stata costruita molto prima del suo insediamento. Ciò che raramente viene menzionato dai leader politici è quanto sia diventata difficile la vita per la working class. Per un adulto single che vive nella settima contea più povera degli Stati uniti – la contea di Holmes, Mississippi – l’Economic Policy Institute stima un reddito minimo di circa 42.440 dollari all’anno. Al contrario, il reddito familiare mediano è di soli 28.818 dollari. L’Affordable Care Act imponeva agli Stati di estendere l’ammissibilità a Medicaid per gli adulti con un reddito fino al 138% della soglia federale di povertà, ovvero circa 20.780 dollari a persona o 35.630 dollari per una famiglia di tre persone. La legge è solo leggermente più generosa per donne incinte, bambini, anziani e disabili. Queste condizioni – soggette a verifica dei mezzi, complesse e specifiche per ogni Stato – sono la silenziosa realtà della rete di sicurezza sociale americana: un sistema frammentato che costringe le persone a dimostrare di essere abbastanza povere da meritare assistenza, lasciando milioni di persone appena al di sopra della soglia a cavarsela da sole in un mercato predatorio. Eppure questa crudeltà strutturale raramente entra nel dibattito politico mainstream. I Democratici continuano invece a difendere un sistema che hanno contribuito a progettare, trattando modeste espansioni come vittorie morali ed evitando di fare i conti con il loro costo umano. Abbiamo già visto cosa può fare un approccio più espansivo alla rete di sicurezza sociale. Durante la pandemia, l’American Rescue Plan dell’amministrazione Biden ha rafforzato l’accesso all’assistenza sanitaria, all’assistenza alimentare e ad altri supporti finanziari come il Child Tax Credit. Di conseguenza, la povertà infantile è diminuita del 30%. Questo avrebbe potuto essere l’inizio di qualcosa di diverso, di migliore. Ma questi progressi sono stati trattati come eccezioni di emergenza, non come una nuova base di partenza. Quando la crisi sanitaria si è placata, anche l’ambizione si è placata. Con la scadenza dell’ampliato Child Tax Credit, altri 3,7 milioni di bambini sono caduti in povertà. Lo scongelamento delle iscrizioni a Medicaid ha portato a un incubo burocratico, con la conseguente cancellazione dal programma di oltre 25 milioni di persone. La situazione di povertà negli Usa non è mai stata considerata un’emergenza in sé, ma solo un problema da gestire quando ha minacciato la stabilità politica. Ora, mentre i Repubblicani tagliano il Medicaid e gli aiuti alimentari, i Democratici piangono la perdita di una rete di sicurezza sociale che loro stessi si sono rifiutati di ampliare in modo significativo quando ne hanno avuto la possibilità. COMPLICITÀ MASCHERATA DA STRATEGIA La verità è che al Partito democratico non mancano le idee: manca la volontà. Più specificamente, gli manca il coraggio politico di svincolarsi dalla sua schiacciante dipendenza dal denaro sporco di donatori aziendali che traggono enormi profitti dallo status quo. Ad esempio, il settore assicurativo privato ricava enormi profitti da cure inaccessibili e debiti sanitari. Inoltre, rimane profondamente radicato nell’infrastruttura politica del partito. Nelle ultime due tornate elettorali presidenziali, le aziende farmaceutiche hanno erogato più fondi ai Democratici che ai Repubblicani. A loro volta, i leader Dem continuano a difendere un sistema fondato su frammentazione, privatizzazione e precarietà. Programmi come Medicaid vengono trattati come il limite massimo della responsabilità del governo, non come il limite minimo. Il risultato è una classe politica che si rifiuta di affrontare la causa principale di enormi sofferenze. Parte del progetto politico dei Democratici nell’era di Trump è stato quello di definirlo come l’unica fonte del male politico, piuttosto che un sintomo del marciume più profondo creato da decenni di austerità bipartisan. In questa prospettiva, Trump diventa l’aberrazione e i Democratici gli adulti responsabili presenti nella stanza. Riforme strutturali come Medicare for All vengono liquidate come troppo divisive o irrealistiche, nonostante il 63% degli adulti statunitensi affermi che il governo ha la responsabilità di fornire copertura sanitaria a tutti. Nel frattempo, solo il 30% degli statunitensi ha attualmente un’opinione favorevole dei Democratici al Congresso. La discrepanza non potrebbe essere più evidente: il partito insiste sulla cautela e sull’incremento graduale, anche se l’opinione pubblica chiede qualcosa di più audace e umano. Sì, il Partito repubblicano è crudele. Questa legge ne è la prova: un atto deliberato di violenza mascherato da un marchio patriottico, approvato in una festività che celebra la libertà. Privare milioni di persone di cibo e cure mediche non è governo, è punizione. E rivela la convinzione di lunga data del Partito repubblicano che i poveri debbano essere disciplinati, non sostenuti; che la sopravvivenza debba essere guadagnata, non garantita. Ma i Democratici hanno contribuito a costruire il sistema in cui questa crudeltà è possibile. Hanno trattato la scarsità della rete di sicurezza non come un’emergenza, ma come la norma. Agitano i bordi di un sistema in rovina, per poi mostrarsi sconvolti quando i Repubblicani ne infrangono le fondamenta. Questa non è un’opposizione significativa: è una collaborazione decennale nella gestione del declino. Durante il fine settimana festivo, i fuochi d’artificio hanno illuminato il cielo, mentre milioni di persone si preparavano alla perdita dell’assistenza sanitaria e degli aiuti alimentari. Il Comitato per la Campagna Democratica al congresso ha risposto non con indignazione o visioni alternative, ma con grafici, evidenziando quali Repubblicani incolpare, quali seggi ribaltare, quale messaggio testare successivamente. I Democratici ci hanno mostrato chi sono: un partito che difende la macchina del declino in modo più elegante. Preservano i termini di un consenso bipartisan che punisce i poveri e protegge i potenti. Non lottano per la trasformazione. Non offrono una visione di giustizia. Offrono una versione più silenziosa dello stesso abbandono. Questa non è resistenza. È complicità mascherata da strategia. E nessuno dovrebbe essere incoraggiato a sostenerla. *Evelyn Quartz ha lavorato in uno staff di Capitol Hill. Questo articolo, uscito su JacobinMag, è stato pubblicato per la prima volta da Lever, una pluripremiata redazione indipendente di giornali investigativi. La traduzione è a cura della redazione. L'articolo La «bella» legge di Trump e i sacrifici bipartisan proviene da Jacobin Italia.
Gaza, la solidarietà dei college non si è spenta
Articolo di Nikki Keating Fin dalla primavera del 2025, molti avevano dichiarato morto il movimento studentesco di solidarietà con la Palestina. Dall’elezione di Donald Trump, la repressione è stata rapida e spietata: Mahmoud Khalil, che era diventato il volto dell’accampamento di solidarietà con Gaza di Columbia, è stato arrestato dagli agenti dell’Ice a marzo e trattenuto per 104 giorni in un centro di detenzione della Louisiana. Rümeysa Öztürk, una dottoranda turca alla Tufts, è stata rapita in una strada di Somerville da agenti federali mascherati per aver contribuito a scrivere un testo che chiedeva di tagliare gli investimenti bellici. Alla New York University, undici studenti sono stati sospesi per un anno dopo un sit-in non violento in biblioteca. All’Università del Minnesota, sette studenti hanno rischiato fino a due anni e mezzo di sospensione e una penale di 5.000 dollari per presunti danni. Il Dipartimento dell’istruzione di Trump ha avviato indagini su sessanta università, lo scopo dichiarato è «combattere l’antisemitismo», quello largamente riconosciuto è mettere a tacere il sostegno alla Palestina. Un campus dopo l’altro ha adottato politiche di «neutralità istituzionale», eufemismo per reprimere il dissenso. Il messaggio è stato chiaro: parlate a favore della Palestina, e perderete la vostra istruzione, il vostro futuro. Ma alla mia cerimonia di laurea, a maggio di quest’anno, io e i miei compagni di corso non eravamo pronti ad arrenderci. Mentre Chris Canavan, presidente del consiglio di amministrazione dell’Oberlin College, saliva sul podio, mi sono messa in piedi con centinaia di miei coetanei, abbiamo girato le spalle alla cerimonia e abbiamo urlato «Palestina libera». La maggior parte dei laureandi ha partecipato a questo atto di protesta. Gli studenti hanno utilizzato le cerimonie di laurea come piattaforma di dissenso negli istituti di tutto il paese. Nonostante la profonda repressione dell’attivismo solidale con la Palestina nei campus americani, molti di noi continuano a chiedere che le nostre istituzioni smettano di investire in aziende che traggono profitto dalla campagna genocida di violenza di Israele a Gaza. In qualità di presidente del consiglio di amministrazione, Chris Canavan svolge un ruolo centrale nella supervisione della gestione del fondo di dotazione di un milione di dollari da parte dell’università. Canavan definisce il tono e l’agenda di ciò che il resto del consiglio di amministrazione definisci importante. Come in molte università, il bilancio di dotazione dell’Oberlin è investito in fondi indicizzati ad ampio spettro, che vincolano l’università a società che traggono profitto dall’assedio incessante della popolazione civile di Gaza da parte di Israele. Sebbene l’Oberlin non abbia pubblicato l’elenco completo dei suoi investimenti, i modelli di comportamento nei campus e le campagne di disinvestimento degli studenti suggeriscono un’alta probabilità che il college investa in aziende con pratiche condannabili. Tra queste potrebbero esserci appaltatori militari come Lockheed Martin e Northrop Grumman, che forniscono armi e tecnologie utilizzate dall’esercito israeliano, o aziende legate alla costruzione di insediamenti, come Caterpillar Inc. ed Elbit Systems. L’università investe il suo patrimonio in Palantir, l’azienda statunitense di big data il cui software di intelligenza artificiale Israele ha utilizzato per colpire e uccidere civili palestinesi? Non lo sappiamo, perché si rifiutano di rendere pubblici gli investimenti, nascondendosi dietro la poca trasparenza e la complessità dei portafogli preconfezionati. Da quando le campagne studentesche di solidarietà con la Palestina hanno iniziato a intensificarsi nel 2023, le università hanno risposto alle richieste di disinvestimento degli studenti sostenendo di non scegliere direttamente gli investimenti, mantenendo invece i propri soldi in fondi indicizzati come l’S&P 500 o l’Msci All Country World Index. Gli attivisti studenteschi rifiutano questa passività e la finta mancanza di controllo. Si tratta di un’evasione deliberata che protegge le istituzioni dalle responsabilità, mentre il loro denaro alimenta l’apartheid e la violenza. Utilizzando strumenti finanziari di mercato ampi senza supervisione o screening etico, le istituzioni universitarie si stanno ancora di fatto legando ad aziende come Boeing e Palantir e a tutto ciò che queste aziende rappresentano: come ha dimostrato la nostra protesta durante la laurea, a tutto ciò si oppone la maggior parte degli studenti e delle studentesse. Alcune associazioni studentesche hanno avuto più successo di noi dell’Oberlin nel rintracciare gli investimenti istituzionali. Un’analisi della Harvard Management Company ha rilevato che l’Hmc ha oltre 194 milioni di dollari investiti in Booking Holdings, che le Nazioni unite collegano direttamente alla costruzione di insediamenti israeliani illegali in Palestina. Gli attivisti hanno costretto l’Università della California a svelare i 32 miliardi di dollari investiti in attività sospette, tra cui produttori di armi che vendono direttamente a Israele. Dalla George Washington University a Cambridge, gli studenti che sono riusciti a denunciare gli investimenti istituzionali stanno confermando che le università sono profondamente coinvolte finanziariamente nell’apartheid, nell’occupazione e nella violenza israeliana. All’Oberlin, la nostra protesta il giorno della cerimonia di laurea affonda le sue radici nelle nostre richieste di lunga data di trasparenza finanziaria. Vogliamo report periodici sugli investimenti che rivelino quali società gestiscono il denaro dell’università e monitorino nel tempo l’evoluzione delle partecipazioni. Ma la trasparenza è solo l’inizio: in definitiva, chiediamo il completo disinvestimento dalle aziende che forniscono armi, tecnologia e servizi per sostenere la violenza israeliana. Chiediamo che le nostre università incarichino i dirigenti di selezionare pacchetti che eliminino le aziende complici di apartheid, sorveglianza o aggressione militare. Disinvestire può essere difficile, ma non è un’utopia. L’Oberlin stesso ha recentemente annunciato di essere diventato carbon neutral. Ciò significa che il college non detiene più investimenti in società di combustibili fossili, un risultato ottenuto grazie alla selezione di pacchetti di investimento che escludono le aziende non in linea con gli obiettivi climatici dell’università. Esiste anche un precedente all’Oberlin per l’applicazione di filtri di investimento etici alle preoccupazioni di politica estera: dopo un decennio di attivismo studentesco negli anni Ottanta, l’università ha disinvestito da aziende che facevano affari con il Sudafrica dell’apartheid. A seguito di proteste importanti, tra cui un’occupazione di tre giorni del Cox Administrative Building nel 1987, il consiglio di amministrazione ha finalmente approvato il disinvestimento totale. La nostra protesta non ha niente a che fare con l’attivismo performativo o con il caos fine a sé stesso. Si trattava di forzare la trasparenza dei conti. Ci siamo rifiutati di celebrare gli amministratori senza mettere in discussione ciò che rappresentano. In un momento in cui studenti in tutto il paese rischiano sospensioni, arresti ed espulsioni per aver espresso il loro dissenso, abbiamo utilizzato la più grande piattaforma a nostra disposizione per esprimere la nostra opposizione. Da quando, all’inizio di quest’anno, si è intensificata la repressione dell’attivismo universitario in solidarietà con la Palestina, gli amministratori hanno sperato che punizioni severe avrebbero messo a tacere il movimento e che gli studenti si sarebbero infine dedicati ad altre cause. Si sbagliavano. Nonostante ogni tentativo di reprimere il dissenso, gli studenti e le studentesse continuano a mettere in discussione e denunciare la complicità delle loro istituzioni nell’attacco israeliano a Gaza. Non ci lasceremo intimidire e non riusciranno a ridurre al silenzio il ruolo delle nostre università nel finanziamento dell’apartheid e delle stragi. *Nikki Keating è stata caporedattrice dell’Oberlin Review. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione. L'articolo Gaza, la solidarietà dei college non si è spenta proviene da Jacobin Italia.
Il sindacato che sta con Zohran
Articolo di Elisabetta Raimondi Dopo la batosta inflittagli da Zohran Mamdani,  l’ex governatore Andrew Cuomo continua a tacere sulla sua eventuale corsa per diventare sindaco nelle elezioni generali di novembre, alle quali può accedere essendo registrato sulla scheda elettorale con la lista indipendente Fight and Deliver. Il suo silenzio è pari a quello che molti big dell’establishment Democratico hanno adottato verso Zohran Mamdani, quasi come la sua vittoria non avesse scatenato un terremoto di proporzioni internazionali.  Per la verità qualche Dem su Mamdani il silenzio l’ha rotto, ma solo per contestarlo o dare vergognosa risonanza, attraverso insinuazioni più o meno velate, alle accuse di antisemitismo e di fondamentalisno islamico diffuse dalla destra trumpiana. Due esempi su tutti: il soporifero leader di minoranza della Camera Hakeem Jeffries – uno dei massimi beneficiari dei finanaziamenti della  lobby israeliana Aipac – secondo il quale Mamdani «deve convincere la gente di esser disposto a combattere aggressivamente l’insorgere dell’antisemitismo nella città di New York» e  la senatrice Kirsten Gillibrand che, dopo aver condannato Mamdani per presunti «riferimenti alla jihad globale», ha dovuto chiedegli scusa.  Fortunatamente però ci sono persone e soprattutto organizzazioni che, pur avendo votato per Cuomo alle primarie, si sono subito schierate con Zohran Mamdani, incuranti del fatto che Cuomo possa correre di nuovo nelle elezioni generali. Ad esempio due dei sindacati più  influenti con un patrimonio di iscritti vastissimo come l’Hotel and Gaming Trades Council (Htc), che affilia l’ampia gamma dei lavoratori del settore, e il Seiu32bj, i cui affiliati sono soprattutto custodi, portieri, addetti alle pulizie, lavoratori aeroportuali, personale della sicurezza.  Mercoledì 2 luglio l’Htc e il Sieu32bj, insieme ad altri due importantissime organizzazioni che si erano astenute dal dare endorsement alle primarie, la Nurse Association dello Stato di New York e il Central Labor Acting Council – una enorme federazione di cui fanno parte più di 300 sindacati – hanno organizzato una conferenza stampa con Zohran Mamdani per ufficializzare il loro sostegno al neo eletto candidato Democratico. È stata una festa vera e propria, soprattutto per l’entusiasmo con cui Zohran è stato accolto dai tanti lavoratori e lavoratrici presenti, persone delle più varie età ed etnie, soprattutto di origini asiatiche e latino-americane. Per molti di loro, specie tra i più giovani, le indicazioni dei propri sindacati non sono servite a molto, visto che la loro scelta era ricaduta su Mamdani anche alle primarie. «Io ho votato per Zohran» ha raccontato una ragazza di soli 19 anni iscritta all’Htc mentre altre giovanissime vicine a lei dicevano di aver fatto altrettanto. «Il sindacato può dare le indicazioni che vuole e fa bene a farlo, ma ciascun iscritto ha diritto alla propria scelta. Ciascuno di noi ha una testa pensante e non si deve sentire obbligato a seguire delle decisioni prese dall’alto se non è d’accordo. Molti giovani come me hanno scelto Zohran, credo che le persone più anziane abbiano preferito Cuomo per sentirsi più sicure con qualcuno che conoscevano già e da cui in passato hanno avuto alcuni benefici».   Comunque, considerando il modo in cui Cuomo ha esercitato il potere nei suoi incarichi da governatore, durati 11 anni prima delle dimissioni rassegnate nell’agosto del 2021 per scandali sessuali, un modo che si basava su relazioni di potere/dipendenza/ricatto – come ben descritto da Ross Barkan nel libro The Prince in cui Cuomo è assimilato al principe machiavellico – è ipotizzabile escludere che non tutti i sindacati che gli hanno dato l’endorsement in prima battuta l’abbiano fatto per motivi ideologici e di reale gradimento, ma piuttosto per il timore di inimicarsi, a discapito dei lavoratori, una persona vendicativa come l’ex governatore. Ne abbiamo parlato  con Manny Pastreich, presidente del Seiu 32bj.   Quali motivazioni vi hanno spinto a dare l’endorsement a Cuomo nelle primarie? Quando Cuomo era governatore ha mantenuto la promessa di alzare le paghe dei lavoratori aeroportuali e di aumentare anche la paga minima. Inoltre era una persona che i nostri membri conoscevano bene, con cui c’era stata una lunga storia e per la quale nutrivano rispetto. Quindi il fatto che il sindacato sia stato in un certo senso costretto a scegliere Cuomo, che era dato come vincente sicuro, per evitare possibili ritorsioni sono solo speculazioni? Onestamente noi abbiamo preso in esame tutti i nove candidati, compreso il sindaco attuale Eric Adams, al nostro forum di 200 membri, che hanno avuto tutto il tempo di ragionare su ciascuno di loro. Quando in aprile abbiamo deciso per l’endorsement sulla base della storia dei vari candidati e del profilo che aveva Cuomo, un gruppo significativo, in effetti la maggioranza dei nostri 200 delegati, ha voluto che sostenessimo Andrew Cuomo e quella decisione ci andava benissimo, soprattutto per la storia di familiarità che i nostri affiliati avevano con lui.  Non ci sono state quindi riserve considerando gli abusi sessuali e la questione dei morti nelle case di riposo di cui è stato responsabile durante il Covid? Sì, ci sono state. Ma chiunque si trovi in una posizione come quella del governatore ha a che fare con ogni sorta di problema, e ogni governatore porta con sé sia del  buono che del cattivo. Sono tutte cose che abbiamo esaminato durante il nostro percorso verso l’endorsement.  Quindi avete deciso sulla base di quello che  che vi sembrava essere la cosa migliore per gli interessi dei lavoratori?  Certamente. E Cuomo aveva fatto delle cose buone per i lavoratori. E comunque quello su cui siamo attualmente focalizzati non è guardare indietro ma guardare avanti. Voglio dire che quello che Zohran  ha dimostrato, come lui stesso ha appena detto, è che ha creato una coalizione di 545.000 elettori newyorkesi che hanno voglia di guardare avanti. E noi siamo davvero orgogliosi di lavorare con lui e di essere parte della coalizione che costruirà un nuovo futuro.  Pensa che Zohran vincerà le elezioni di novembre? Sono sicurissimo che Zohran sarà il prossimo sindaco di New York.  Nel frattempo Zohran Mamdami, durante la conferenza stampa ha colto l’occasione di una domanda postagli da una giornalista per replicare ufficialmente alle minacce  di Donald Trump.  > Ieri Donald Trump ha detto che dovrei essere arrestato, deportato e > denaturalizzato. […] E non lo ha detto tanto per quello che sono, per come > appaio o per come parlo, quanto piuttosto perché vuole distrarre la gente dai > principi per cui mi batto. Io mi batto per la classe lavoratrice, per quella > gente che è stata sfrattata da New York a causa del suo costo. E mi batto per > la stessa gente per cui Trump aveva detto si sarebbe battuto. Ha fatto una > campagna promettendo di abbassare i prezzi dei beni alimentari e di alleviare > il soffocante costo della crisi. Ma per lui è più facile soffiare sul fuoco > della divisione invece di prendere atto di quanto abbia tradito la working > class americana non solo in questa città ma in tutto il paese, e di quanto > continuerà a tradirla, perché sappiamo che gli conviene parlare di me invece > che della legge che sta promuovendo a Washington [il cosiddetto Big Beautiful > Bill definitivamente approvato il giorno dopo ndr]. Una legge che priverà > letteralmente gli americani delle cure sanitarie, che ruberà il cibo a chi è > già affamato, che replica uno dei massimi trasferimenti di ricchezza come > quello visto nella storia recente durante gli anni della sua prima > amministrazione. […] E per concludere la cosa che temo di più è il fatto che > se Trump e la sua amministrazione non hanno remore nel dire quello che dicono > sul nominato Democratico alla carica di sindaco di New York, immaginate cosa > potranno dire e fare con immigrati di cui neppure conoscono i nomi. *Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola pubblica. È attiva in ambito teatrale ed artistico, redattrice della rivista Vorrei.org per la quale segue dal 2016 la Political Revolution di Bernie Sanders. L'articolo Il sindacato che sta con Zohran proviene da Jacobin Italia.