
Il socialista nello Studio ovale
Jacobin Italia - Monday, November 24, 2025
Articolo di Elisabetta RaimondiDavanti ai giornalisti ammessi nella stanza ovale dopo l’incontro a porte chiuse del 21 novembre con Zohran Mamdani, Donald Trump ha citato quasi letteralmente il celebre verso del film Cenerentola per garantire il suo supporto al neo-sindaco: «Lo aiuteremo per far sì che il sogno di tutti diventi realtà».
Considerando la volubilità e l’imprevedibilità di Trump potrebbe non stupire che fino a pochi giorni prima i suoi appellativi per Zohran fossero «100% lunatic communist» o più semplicemente «communist», in aggiunta ad altre espressioni tra cui «non è molto intelligente», «ha un aspetto terribile», «molte persone dicono che è qui illegalmente» e all’intimazione lanciata agli ebrei di New York: «qualsiasi ebreo che voti per Zohran Mamdani, un provato e dichiarato hater degli ebrei, è stupido». Eppure non ci pare siano la volubilità e l’imprevedibilità le cause di tale cambio di registro, quanto piuttosto un comportamento dovuto a fattori di convenienza, probabilmente accentuati, negli apprezzamenti iperbolici a cui Trump si è lasciato andare, dal fascino che un personaggio come Zohran è in grado di esercitare, anche a detta dei suoi avversari, su chiunque entri in diretto contatto con lui.
Neppure Zohran era stato tenero con il presidente durante la campagna elettorale. Basti citare il momento in cui nel discorso della vittoria del 4 novembre ha fatto rimbombare l’enorme Brooklyn Paramount Theater amplificando il tono della sua voce baritonale, per enfatizzare la perentorietà della sua minaccia: «Dopotutto, se qualcuno può mostrare a una nazione tradita da Donald Trump come sconfiggerlo, quella è la città che lo ha visto nascere. E se c’è un modo per intimorire un despota, è smantellando le condizioni che gli hanno permesso di accumulare potere. Questo non è solo il modo per fermare Trump; è il modo per fermare il prossimo [despota]. Quindi, Donald Trump, poiché so che ci stai guardando, ho quattro parole per te: turn the volume up».
Ciò nonostante anche Mamdani ha cambiato registro, esprimendo parole di elogio per Trump fin dalle prime battute del suo intervento di fronte alla stampa: «Ho apprezzato il tempo passato con il Presidente. Ho apprezzato la nostra conversazione. Non vedo l’ora di lavorare insieme per garantire l’accessibilità di New York ai newyorkesi».
La verità è che entrambi i giocatori di questo incontro dovevano portare a casa qualcosa per calcolo e convenienza. Quanto a Trump, il fatto che non avrebbe affrontato Mamdani come uno Zelenski qualunque era dato per scontato. La sua fama di essere forte con i deboli e se non debole, comunque cauto, remissivo e a volte adulatorio con i forti, collocava l’incontro con Mamdani nella seconda tipologia, rientrando il trentaquattrenne socialista non solo nella categoria dei forti, ma anche in quella dei vincenti che a Trump piacciono tanto. A dispetto della solita egocentrica propaganda autocelebrativa, Trump era consapevole, soprattutto in un momento di grande difficoltà e debolezza come questo, che un’unità di intenti per rendere New York la città dove i sogni di tutti e tutte si possano avverare gli avrebbero giovato. Il suo indice di gradimento è bassissimo, l’approvazione unanime dei Repubblicani al Congresso a favore del rilascio degli Epstein Files è qualcosa che per la prima volta espone il presidente alla mancata protezione del suo partito, e lo scontento di molti Maga è un dato di fatto che si è materializzato emblematicamente nella ribellione della sua ex-fedelissima seguace Marjorie Taylor Green, che ha peraltro appena annunciato che ai primi di gennaio rimetterà il suo mandato di deputata Repubblicana.
Da parte sua Mamdani sapeva di avere di fronte un giocatore che, per quanto debole e suscettibile al fascino dei vincenti, è furbo. Come nel caso di Amleto che agli amici Rosenberg e Guildenstern diceva «prendetemi pure per lo strumento che volete, anche se mi strimpellate non riuscirete mai a suonarmi», Mamdani sa bene che Trump non è strumento facile da suonare.
Così la sua strategia doveva far fronte alla megalomania di Trump e alla sua scaltrezza, nonché alla sua battuta sempre pronta. E il risultato ha dato ulteriore prova dell’istinto psicologico, oltre che politico e mediatico, del giovane sindaco. Da una parte ha ottenuto apprezzamenti a non finire, e dall’altra ha soddisfatto l’egocentrismo del presidente, lasciandogli manifestare nei suoi confronti quegli atteggiamenti paternalistici che inorgogliscono Trump, lasciandogli prendere in anticipo dei meriti che Zohran dovrà condividere con lui se riuscirà a realizzare le sue promesse. «Alcune delle sue idee sono le stesse che ho io», ha detto Trump. «Siamo d’accordo su molte più cose di quanto pensassi». A questo proposito ha persino tirato in ballo Bernie Sanders, dicendo oltretutto delle sacrosante verità sul trattamento riservatogli dai Democratici: «Io e Bernie Sanders eravamo d’accordo su molto più di quanto la gente pensasse. E quando è stato estromesso dalla corsa, secondo me in modo piuttosto ingiusto se volete sapere la verità, molti dei suoi elettori hanno votato per me. E questo mi ha fatto sentire del tutto a mio agio nel constatarlo e nel dirlo».
Il tutto ha creato situazioni quasi surreali, come nel caso in cui Trump è intervenuto per togliere Mamdani dall’imbarazzo quando toccandolo con un braccio gli ha detto di rispondere «sì», perché sarebbe stato «più facile», a una giornalista che chiedeva a Zohran se continuasse a ritenere Trump un fascista. Ma particolarmente surreale è stata la dinamica fisica tra i due, fatta non solo di frequenti sguardi ma anche, come nel caso appena citato, di tocchi amichevoli e paternalistici che Trump ha indirizzato a Mamdani, e che in un caso lo stesso Mamdani ha indirizzato a Trump.
Nonostante quello che potrebbe apparire un cedimento a Trump, se non rientrasse in una più complessa dinamica strategica, Mamdani ha sempre tenuto come obiettivo fisso i temi riguardanti le sue proposte per New York, anche a dispetto di domande dei giornalisti più orientate a sottolineare il suo conflitto con il presidente, ricordando i reciproci appellativi lanciatisi in campagna elettorale. In ogni situazione Zohran ha infatti deviato il discorso sulla sostenibilità della vita per tutti gli otto milioni e mezzo di cittadini newyorkesi, di cui uno su quattro vive in condizioni di povertà. Una sostenibilità che si declina in prezzi degli affitti, dei generi alimentari, degli autobus ecc., tanto che Trump a un certo punto ha persino detto che le due parole nuove entrate nel vocabolario sono «affordability» e «groceries».
Il top delle lusinghe velate e del conseguente compiacimento di Trump, Zohran l’ha ottenuto ricordando come le sue interviste alle persone di Hillside Avenue e Fordham Road, zone che nel 2024 avevano raggiunto un altissimo passaggio di ex-elettori Democratici verso il sostegno a Trump, fossero dovute a due cause condivise. La «fine delle guerre senza fine», da un lato, in cui i soldi dei contribuenti vanno «a finanziare la violazione dei diritti umani», e dall’altro «la crisi del costo della vita». Pur non potendo dare voce al resto del suo pensiero, come aveva fatto in campagna elettorale e la sera della vittoria al Paramount Theater, sul tradimento da parte di Trump di entrambe quelle promesse, il ricorso alla frase sulla violazione dei diritti umani implicitamente riferita a Israele, su cui Trump ha taciuto, è stata già di per sé eloquente .
Insomma, malgrado molti commentatori – da quelli di Fox News a Bill Maher – avessero cercato di dipingere Mamdani come un potenziale disastro politico per i Democratici, in quanto prova della deriva socialista e radicale del partito, e un enorme regalo per i Repubblicani, niente si è dimostrato più errato. Lungi dal diventare un’arma nelle mani della destra, la sua vittoria ha mostrato come Mamdani sia stato una forza in grado di mobilitare consenso, a dispetto della risoluzione contro il socialismo (Denouncing the horrors of socialism) votata il giorno prima alla camera da tutti i Repubblicani e da 68 Democratici, tra cui Hakeem Jeffries. Anzi secondo una delle nostre fonti abituali, Emily Jashinsky, che si trovava nell’ufficio ovale, i commenti di Trump nei confronti di Mamdani hanno addirittura neutralizzato l’80% della campagna della Repubblicana Elise Stefanik contro la governatrice democratica Kathy Hochul per le elezioni del prossimo anno. E l’ironia è che si tratta di quella Stefanik, ferrea sostenitrice di Trump e da lui sostenuta, che ha ripetuto più volte il mantra di Zohran Mamdani jihadista. Alla domanda di Emily rivolta a Trump se non fosse preoccupato di stare accanto a un jihadista, proprio citando Stefanik, Trump non solo ha detto di no, ma ha minimizzato affermando, come aveva già fatto in precedenza, che si trattava «solo di campagna elettorale».
Insomma, la narrazione catastrofista non si è materializzata e la figura di Mamdani non è diventata un’arma nelle mani della destra. Al contrario, la vittoria gli ha dato una nuova autorevolezza e ha mostrato che la sua agenda non è un peso per il Partito democratico, ma una forza capace di mobilitare consenso. Quanto poi l’establishment Democratico sarà disposto ad accettarlo è ancora tutto da vedere. Ma le elezioni di midterm si avvicinano e le competizioni tra progressisti e corporate democrats saranno un banco di prova che mostrerà quanto avrà successo la realtà fotografata in un tweet di Ryan Grim: «Offrendo al paese una visione di cosa potrebbe essere una politica basata sul conflitto basso contro alto invece che sinistra contro destra, Trump e Mamdani rappresentano, se non qualcosa di storico, uno sviluppo davvero nuovo».
*Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola media secondaria pubblica per oltre 40 anni. Attiva in ambito artistico e teatrale, ha cominciato a seguire la Political Revolution di Bernie Sanders nel 2016 per la rivista Vorrei.org. Collabora con Fata Morgana Web e con Libertà e Giustizia.
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