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Arrigo Petacco - L’anarchico che venne dall’America
Autore: Arrigo Petacco Titolo: L’anarchico che venne dall’America Sottotitolo: Storia di Gaetano Bresci e del complotto per uccidere Umberto I Data: 1969 Note: Il testo è la prima biografia che fu pubblicata su Gaetano Bresci, non è propriamente un testo anarchico ma contiene informazioni e ricostruzioni che possono essere d’interesse, nonostante l’autore cerchi di suggerire la ridicola possibilità che Bresci abbia agito con complici per il regicidio. Origine: pubblicato originariamente da Mondadori Introduzione All’inizio del 1968, quando cominciai a raccogliere per una trasmissione televisiva la documentazione da cui è poi nato questo libro, scoprii con sorpresa che nessuno studio circostanziato era mai stato fatto su Gaetano Bresci, sul suo tragico gesto, sulla sua oscura fine. Le maggiori enciclopedie citano appena, o ignorano del tutto, questo personaggio che fa pur sempre parte della nostra storia. Persino gli anarchici lo hanno trascurato: nei loro testi Bresci è nominato di rado. con notizie scarne e lacunose, spesso inesatte. Come si spiega questo silenzio intorno a un nome che fu a suo tempo sulla bocca di tutti? La ragione è, probabilmente, che il clamoroso atto di « contestazione » compiuto da Bresci a Monza in quell’afosa domenica di luglio del 1900, riesce particolarmente ingrato da rievocare: presentando caratteri che ne rendono difficile non solo e non tanto la ricostruzione fattuale, quanto una collocazione psicologica e storica che prescinda dalla banale esecrazione come dalle inarticolate apologie. Per il Croce — nel capitolo VIII della Storia d’Italia dal 1871 al 1915: « Conati di governo autoritario e restaurazione liberale, 1896-1900 » — l’uccisione di Umberto fu l’« epilogo dolorosissimo » che « ebbe quella lotta tra reazionari e liberali »; e il delitto, sebbene fosse, tipicamente, «di quelli degli anarchici », dovette « pungere di qualche rimorso gli stolti consiglieri di reazione, quando sì seppe che l’incentivo ne era stato offerto dalla lettera del re al generale repressore dei moti di Milano ». Il giudizio crociano è indubbiamente suggestivo per il suo pacato equilibrio e per la comodità che offre di introdurre, chiuso un capitolo della nostra storia, il seguente (capitolo IX: « Il governo liberale e il rigoglio economico, 1901-1910 ».) Senonché la comodità appare fin troppa, e l’equilibrio risulta facile perché fondato, in definitiva, su un’astrazione. Bresci infatti è così scopertamente, nella pagina citata, il deus ex machina di una ricostruzione idealistica, che il suo nome non viene neppure citato: colui che fornisce alla lotta tra reazionari e liberali un così perspicuo seppur dolorosissimo epilogo, non ha neppure uno straccio di stato civile; non è Bresci Gaetano fu Gaspero e fu Godi Maddalena, nato a Coiano (Prato) l’11 novembre 1869; è puramente e semplicemente, « un anarchico venuto dall’America ». Chi era, come visse e come morì, questo « anarchico venuto dall’America » (dove, prima di venirne, ovviamente era andato)? Il solo proposito di questo libro, e delle non facili ricerche documentarie che lo hanno preceduto, è stato di restituire al nome di Bresci una certa consistenza biografica: come elementare ma indispensabile premessa a ogni giudizio di valore che si voglia oggi ritentare del suo gesto. A.P. I Il Tivola and Zuccas Saloon, in Central Avenue a West-Hoboken (New Jersey), era eccezionalmente affollato quella sera di sabato 12 novembre 1899. La signora Zucca («mamma Berta» per i clienti abituali) stava dietro il banco del bar, indaffaratissima a riempire boccali di birra che suo marito Remigio e il suo socio Frank Tivola distribuivano frettolosamente agli uomini e alle donne allineati sulle panche della sala delle feste trasformata, per l’occasione, in locale di riunione. Il palco degli oratori, pavesato di bandiere rosse e nere, era ancora deserto e i presenti conversavano ad alta voce. Erano in gran parte piemontesi e toscani. Davanti al pianoforte, situato proprio sotto il palco, sedeva Sperandio Carbone, un operaio tessile, musicista a tempo perso, che strimpellava popolari motivi sovversivi importati dall’Italia. Quei meeting anarchici rappresentavano sempre un buon affare per la ditta Tivola and Zucca. Ma la manifestazione in programma per quella sera era addirittura eccezionale e prometteva notevoli incassi. Errico Malatesta, l’anarchico più famoso del momento, dopo avere travolto nella vicina Paterson gli oppositori «individualisti», aveva deciso di venire proprio lì, a West-Hoboken, la più intransigente cittadella dell’anarchismo individualista, per affrontare in un dibattito pubblico il suo più temibile avversario: Giuseppe Ciancabilla. La serata dunque si annunciava calda e appassionante, ma la polizia locale non aveva ritenuto necessario prendere particolari misure di sicurezza. D’altra parte, a differenza di quanto accadeva in Europa, negli Stati Uniti gli anarchici erano considerati cittadini come gli altri. Non avevano mai provocato incidenti, le loro riunioni erano aperte a tutti, la loro condotta – a detta dello stesso capo della polizia – era «irreprensibile». Quindi nonesistevano problemi di ordine pubblico. La folla riunita nel Saloon era composta in gran parte da italiani, ma c’erano anche degli spagnoli, dei polacchi, dei tedeschi e degli ebrei venuti appositamente per vedere con i propri occhi il celebre anarchico italiano evaso avventurosamente appena cinque mesi prima dall’isola di Lampedusa. Anche davanti al Saloon, in Central Avenue e De Mott Street,sostavano numerosi gruppi che ingannavano l’attesa discutendo animatamente con la gente arrivata da Paterson per dare manforte a Malatesta. Fra questo vociare confuso, si levava, di tanto in tanto, il grido degli strilloni volontari che facevano a gara a chi urlava più forte il titolo dei due giornali sui quali infuriava la cosiddetta «polemica sull’organizzazione» che divideva in quei giorniil movimento anarchico. Questi giornali erano: «La Questione Sociale», diretta dal cinquantenne Errico Malatesta, e «L’Aurora», diretta dal ventottenne Giuseppe Ciancabilla. Il primo si stampava a Paterson, il secondo a West-Hoboken. Era stato proprio sulla «Questione Sociale» che Malatesta, pur continuando a infierire contro la «degenerazione legalitaria» del Partito socialista, aveva cominciato a sviluppare la sua tesi sulla necessità di organizzare il movimento anarchico. Gli anarchici, infatti, non disponevano allora della minima organizzazione: non avevano una federazione, non avevano tessere, non riconoscevano capi, respingevano il parlamentarismo. «Noi siamo uniti soltanto nella fede» dicevano. Questa situazione inorgogliva i sostenitori della libertà individuale e assoluta, ma, indubbiamente, privava l’anarchismo di ogni base per un’azione coerente. Malatesta auspicava quindi la creazione di un raggruppamento che, pur ripudiando la rigida struttura gerarchica, possedesse quel minimo di organizzazione che era necessaria per condurre avanti concontinuità una determinata linea politica. Questa sua presa di posizione aveva provocato la reazione dei più accesi individualisti, i quali non gli avevano risparmiato l’accusa di «pappagallo dei socialisti» o di «aspirante deputato». Fra i suoi avversari, il più temibile era certamente Giuseppe Ciancabilla. Il «curriculum» di questo giovanotto, originario di una famiglia borghese di Perugia, era totalmente diverso da quello di Malatesta. Prima di diventare anarchico, egli era stato socialista, dirigente nazionale del PSI e redattore-capo dell’«Avanti!». Erano stati i tragici fatti del ’98, in Sicilia e a Milano, a mettere in crisi la sua fiducia nel partito e, soprattutto, nelle masse, che egli giudicava prive di capacità rivoluzionarie. Giuseppe Ciancabilla si era quindi convinto che solo con l’atto individuale fosse possibile battere il nemico di classe, e aveva perciò aderito all’anarchismo. Anzi, per concretizzare subito queste sue nuove convinzioni, verso la fine del 1898 aveva raggiunto Milano deciso a uccidere il generale Bava Beccaris, «il macellaio dei lavoratori». Ma il colpo non gli era riuscito e si era allora rifugiato in America per continuare fra gli immigrati la sua battaglia politica. Egli scriveva in quei giorni sull’«Aurora»: ...
Peter Gelderloos - Come la nonviolenza protegge lo stato
Autore: Peter Gelderloos Titolo: Come la nonviolenza protegge lo stato Data: 2007 Note: Traduzione pubblicata a gennaio 2023 Per eventuali feedback, confronti o modifiche: taro@anche.no madkid000@yahoo.com > “E dicono che la bellezza sia nelle strade, ma quando mi guardo intorno sembra > più una sconfitta”. > > — Defiance, Ohio Questo libro è dedicato a Sue Daniels (1960-2004), brillante ecologista, audace femminista, anarchica, e bellissimo e premuroso essere umano che ha cresciuto e sfidato tuttɜ coloro intorno a lei. Il suo coraggio e la sua saggezza continuano ad ispirarmi, e in questo modo il suo spirito rimane indomabile... ... e a Greg Michael (1961-2006), che ha incarnato la salute, intesa come interezza dell’essere e come instancabile ricerca contro i veleni del nostro mondo, anche nelle circostanze più malsane. Da un sacchetto di uvetta rubato dalla cucina della prigione al dispiegarsi della memoria sulla cima di una montagna, i doni che mi avete fatto sono un sollievo e un’arma, e resteranno con me finché l’ultima prigione non sarà un cumulo di macerie. Un ringraziamento speciale a Megan, Patrick, Carl, Gopal e Sue D. per aver corretto le bozze e per avermi dato un feedback, e a Sue F., James, Iris, Marc, Edi, Alexander, Jessica, Esther e a tuttɜ coloro che sono venutɜ ai workshop per le preziose critiche che hanno dato vita a questa seconda edizione. ***** Introduzione della versione italiana Dopo 16 anni dalla sua pubblicazione siamo felici di poter divulgare la versione italiana di un libro che ha rappresentato, e continua a rappresentare, uno dei testi più intensi, completi e dettagliati sul dibattito violenza/nonviolenza. Un libro che crediamo che tutti i movimenti debbano dibattere: da quello per la liberazione animale a quello transfemminista, a quello per il clima e la liberazione della terra. Ciò che vorremmo anticiparvi è che la critica del libro di Gelderloos non è rivolta alla nonviolenza di per sé. Crediamo che l’autodeterminazione sia essenziale e che la scelta individuale di scegliere una tattica anziché un’altra non sia opinabile; ogni persona ha una propria vita, un proprio background, delle proprie paure e corre dei propri rischi. Ogni persona è unica. Quella che noi (incluso Gelderloos) critichiamo è la versione patologica e dogmatica della nonviolenza. Ma cosa intendiamo con “versione patologica”? Con questo termine ci riferiamo a quel tipo di dialettica che si ostina a dipingere la nonviolenza come l’unico metodo – o quello più efficace – per raggiungere un obiettivo, indipendentemente dalla situazione. Significa adottare un atteggiamento che tenda ad ignorare e/o a dimenticare le vittorie e le sconfitte nella storia dei movimenti di liberazione; significa mistificare ed idolatrare esponenti nonviolenti come Martin Luther King, spesso citato eliminando le parti più radicali di molti dei suoi discorsi così da far emergere solo una parte di essi, quella più pacifista; significa definirsi “nonviolentɜ” come se questa fosse un’identità, un modo dogmatico di vedere quella che non è altro che una tattica; ed infine significa osteggiare ed emarginare coloro che non si conformano al dogma. D’altra parte ci teniamo a chiarire che la nostra non è un’apologia alla violenza (a patto di riuscire davvero a definire cosa sia la violenza). Noi sosteniamo un approccio pluralistico e diversificato, una pluralità di tattiche che vadano scelte in base alla situazione in maniera strategica, sfruttando mezzi che siano coerenti con i fini, e non in maniera dogmatica ed autoritaria. Potremmo semplicemente asserire di essere contro il dogmatismo della nonviolenza e contro le falsità storiche divulgate da chi la supporta. La resistenza armata (quella che da alcune persone potrebbe essere definita come “violenta”) è stata – e rimane – un mezzo di liberazione per molte classi oppresse, l’unico mezzo che è stato in grado di far sentire minacciati gli oppressori, qualunque forma essi abbiano preso nella storia. In questo libro troverete citazioni a dossier federali, articoli, interviste, saggi politici ma soprattutto leggerete una peculiare analisi dei movimenti di liberazione, anche nelle sue sfaccettature nonviolente. Di fatti Gelderloos, seppur mantenendo la sua ferma posizione in merito, riesce ad esaminare ogni aspetto della lotta in modo lucido e non di parte. Con questa traduzione speriamo di dare il nostro contributo per ricollocare il ruolo che la resistenza “violenta” ha avuto (e continua ad avere) per le classi oppresse e smontare il pensiero infondato secondo cui possa esistere una tattica unica, che questa sia la violenza o la nonviolenza. Ci auspichiamo di aprire un dibattito costruttivo e critico, ma che sarà difficilmente realizzabile se l’individuo non è disposto a mettersi in discussione. L’autocritica rimane indubbiamente la chiave per sviluppare dibattiti sani che vadano a costruire e non a distruggere. Per finire, ci teniamo a fare un paio di precisazioni sull’autore e sul testo, che per forze linguistiche differisce dall’originale: * Innanzitutto, nel corso degli anni, l’autore ha pubblicato due testi non costruttivi contro il veganismo e le persone vegane. Noi prendiamo le distanze da queste posizioni che riteniamo superficiali ed infondate, riconoscendo comunque il grande lavoro relativo alla nonviolenza che Gelderloos ha portato avanti in questo tempo; * al fine di ottenere un tipo di linguaggio più inclusivo è stato deciso di adottare l’utilizzo della schwa, sia nella versione singolare (ə) che in quella plurale (ɜ). Dove impossibilitatɜ a neutralizzare il genere negli aggettivi plurali, li abbiamo coniugati al femminile (es. sostenitori diventa sostenitrici; anarchici diventa anarchichɜ). Tuttavia, in varie parti del testo abbiamo ritenuto fosse meglio lasciare il plurale maschile per evidenziare la predominanza di uomini cis in un determinato gruppo storico (es. soldati nazisti); * il termine people of color è stato sostituito dal termine persone razzializzate, in modo da non dimenticarci l’origine esterna del razzismo; * non è stato possibile trovare la traduzione italiana per ogni risorsa riportata a piè di pagina, per cui molte fonti sono rimaste in lingua originale; * alcuni link a siti web potrebbero non essere più attivi; * la parola “stato” (intesa come istituzione) è stata lasciata in minuscolo spontaneamente, così, come beffa. ...
Rogo - Il dono dell”ira
Autore: Rogo Titolo: Il dono dell”ira Data: 20 gennaio 2023 ARDE CORE. ARDE TUTTO. Il Conflitto è padre di tutte le cose, di tutte re, e fa degli uni dei, degli altri uomini; gli uni schiavi e gli altri liberi. (Eraclito) Quel blocco di braci nere, che voi credevate estinte, non torneranno a esser fiamme, perché lo sono sempre state, nascoste ai vostri occhi. Pensavate fossero innocue? Dei fuochi fatui? Purtroppo non sono solo meri roghi, bensì incendi della distruzione. Un consiglio: date le vostre capacità mnemoniche avvezze all’oblio, fisiologico o per scelta, non dimenticate quel primo Maggio. Lo ricordate vero? Noi abbiamo ancora nelle vene il suo profumo di concretezza, genuinità, e spontanea rivolta. Al contrario, sappiamo che per voi è il sampietrino nella scarpa. D’altronde vi siete impadroniti di piazze e martiri non vostri, con delazioni candide come le vostre tuniche. Finché il palcoscenico non vi è stato rubato, o, per meglio dire, espropriato. Finché la festa non è stata rovinata dall’arrivo del nero mostro, che, come cantava qualcuno, è “quello che si nasconde e quello che si mostra”. Bene, conservatelo questo ricordo, perché non sarà nulla in confronto all’avvenire. Per quello che avete fatto a Monica, Vincenzo. Luca, Andrea, Jimmy, Alberto, Ines, Dario, Carlo A.,Carlo e C.Antonino. Perché è giusto che finalmente si paghi il conto perché si sa “i costi sono quelli da pagare quando arrivano i mostri”. Ultima postilla: questa volta non vogliamo il presente, questa volta ci riprendiamo il futuro. Quel futuro che stavamo costruendo in quel caldo Luglio. Lo pretendiamo, perché se ben ricordate noi non camminiamo domandando, noi corriamo sovvertendo. Dal caldo delle nere braci Rogo e Fronde Noire Andrea Casieri
Taro Colocasia - Quale Liberazione Animale?
Autore: Taro Colocasia Titolo: Quale Liberazione Animale? Sottotitolo: Critica all’attivismo vegano Introduzione L’obiettivo di questo testo è analizzare i differenti modi operandi dei gruppi di attivismo più comuni, le idee dietro le loro azioni e le loro fallacie. Il testo è uno spunto di riflessione e una critica, e come tale va preso. Non voglio etichettare una persona in base alle proprie idee o incasellarla, ma porre le basi per un dibattito che sono sicurə gioverebbe a molte persone, inclusə me. Per motivi di semplificazione ho deciso di tralasciare alcune critiche dando spazio a quelle, secondo me, più importanti. Ho cercato quindi di sviluppare un testo breve, semplice e scorrevole ma che centrasse i punti cardine del discorso. Mi scuso in anticipo per alcune fonti riportate a piè di pagina in lingua inglese, ma non mi è stato possibile trovare ogni fonte in italiano. La frammentazione Come ogni altro movimento, quello vegano è frammentato ed è facile imbattersi in situazioni in cui molte energie vengono concentrate in “battaglie interne”, definibili anche “dibattiti vuoti”, prive di voglia di crescere e confrontarsi, piene di odio, competizione e saccenteria, incrementate sicuramente anche dall’uso dei social network. Nel movimento di liberazione animale troviamo in particolare due parti opposte e ben distinte che per semplificare chiamerò animalismo vegano riformista e antispecismo. L’animalismo vegano riformista è l’attivismo più comune, spesso pacifista, che tra i suoi obiettivi principali punta al cambio di alimentazione mondiale indirizzato al consumo vegetale e la riforma di leggi sul benessere animale che migliorino gradualmente la condizione da carceratз, fino alla sua completa abolizione. Spesso i gruppi che fanno parte di questo tipo di attivismo si auto-definiscono apolitici. Tante sono le sfumature e frammentazioni di questo tipo di gruppi e una persona che ne fa parte non per forza ha lo stesso pensiero di un’altra, ma questo è a grandi linee il quadro generale. Alcuni gruppi appartenenti a questa tipologia sono Anonymous for the Voiceless, The Save Movement, Animal Equality, PETA, Essere Animali. L’antispecismo è, invece, una teoria, che però trascina con sé pratiche diverse, da quelle meno a quelle più comuni. Esso si pone come obiettivo quello di andare fino alla radice di tutto ciò che è concatenato allo specismo e lavorare su quello. L’antispecismo rifiuta tutte le forme di discriminazione e lavora di conseguenza anche su altri tipi di oppressione ed è per sua natura intersezionale[1], ergo una persona che si definisce antispecista e ha continuamente atteggiamenti razzisti o transfobici non ha ben capito di cosa si tratti. L’antispecismo si pone come obiettivo finale la liberazione della Terra e di ogni essere, indipendentemente dalla sua forma anatomica o specie/etnia/genere di appartenenza, ed asserisce che la liberazione o è per tuttз o non è. Ciò significa che l’antispecismo vede la liberazione delle altre specie ì intrinsecamente connessa alla liberazione umana e della Terra e che nessuna di queste può verificarsi senza le altre. Va da sé che questo tipo di teoria spinge verso tipi di attivismo più radicali e meno pacifisti. Non voglio entrare troppo nel dettaglio, ma solo definire il mio pensiero in merito a queste due “fazioni”, anche se è bene specificare che non esiste sempre una differenza ferrea tra le due e che a volte alcune persone oscillano da una parte all’altra, per confusione, per pressioni sociali o altro. Voglio concentrare il focus sull’animalismo vegano riformista, perché lo considero fallace, contraddittorio e debole, se visto come mezzo per raggiungere la “liberazione animale”, anche se per esperienze personali anche i gruppi antispecisti non sono esenti da critiche, alcune delle quali coincidono con quelle riportate in questo testo. La liberazione animale Prima di poter discutere delle critiche abbiamo necessariamente bisogno di chiarire un punto fondamentale senza il quale non sarebbe possibile continuare: cosa si intende esattamente per “liberazione animale”. Teoricamente, entrambi i gruppi di pensiero mirano ad una presunta liberazione animale, ma il concetto di liberazione sembra talmente semplice da capire che alla fine lo si dà per scontato e si smette di dedicargli tempo e studio. Lanciando un’occhiata alla società umana industriale, possiamo vedere che l’essere umano ha ormai privatizzato tutte le terre una volta libere e abitate da umani e non umani senza un controllo sistemico della natura. Nel tempo, la specie umana ha creato le dicotomie umano/natura e umano/animale, che hanno giustificato il controllo dei processi naturali e il dominio sulle altre specie, iniziando una guerra contro l’intero ecosistema. La nostra specie si definisce umana ancora prima di definirsi animale, amplificando la distanza tra noi e loro, come se noi non facessimo parte del regno animale. Vedere la liberazione non umana sconnessa da quella umana è insensato, perché l’essere umano è di fatto un animale oppresso dal sistema economico da egli stesso creato, pur giocando entrambi i ruoli di oppresso e oppressore. ...
Mary Nardini Gang - Intimità Criminale
Autore: Mary Nardini Gang Titolo: Intimità Criminale Sottotitolo: una gang di criminali queer Data: 2009 Note: Questi testi arrivano da Bash Back!, una tendenza queer anarchica partita dalla zona nord-occidentale degli Stati Uniti. Puntava ad essere una rete di connessione per combattere la pietosa normalizzazione del capitale, dello stato e dell’eterosessualità. Per leggere altri contenuti simili rubate una copia di “Queer Ultraviolence: Bash Back! Anthology” o cercate online. Prefazione e traduzione di Rete Antispecista (Roma). Per feedback, confronti o proposte: madkid000@yahoo.com Prefazione Una feroce insurrezione, una lurida rivoluzione degli emarginati, la rivalsa degli esclusi. Con questo manifesto, Mary Nardini Gang manda un chiaro messaggio a chi è stancx – o incazzatx – di (soprav)vivere nell’oppressione cis-bianco-etero-abile-patriarcale. Sta chiamando alle armi noi t̶r̶a̶v̶e̶s̶t̶i̶t̶i̶,̶ ̶a̶n̶o̶r̶m̶a̶l̶i̶,̶ ̶r̶i̶c̶c̶h̶i̶o̶n̶i̶,̶ ̶i̶n̶v̶e̶r̶t̶i̶t̶i̶,̶ ̶f̶i̶n̶o̶c̶c̶h̶i̶,̶ ̶f̶r̶o̶c̶i̶ ̶d̶i̶ ̶m̶e̶r̶d̶a̶,̶ ̶c̶u̶l̶a̶t̶t̶o̶n̶i̶,̶ ̶c̶h̶e̶c̶c̶h̶e̶,̶ ̶t̶r̶o̶i̶e̶ ; ci sta pregando di non lasciare più che tutto ci scivoli addosso, di trasformare il dolore in collera e follia da slegare per le strade, a letto, a scuola, negli uffici. Questa realtà ci ha sedato e soffocato, ci ha convintx di dover cambiare perché non abbastanza cis, non abbastanza trans, non abbastanza nulla. Ci ha istruito – fin da quanto siamo natx – sui più efficaci meccanismi di adattamento per correggerci e aggiustarci, strappandoci via le nostre identità in una vera e propria conversione violenta, per poter essere accoltx nella loro noiosa retorica qualunquista. Cercano da sempre di spegnere la nostra fiamma interiore, colpendoci alle spalle con la loro inesistente e inverosimile empatia da moderati mediatori privilegiati, infantilizzandoci con parole pietose e rivoltanti sguardi compassionevoli. IL trans, LA lesbica, IL gay, IL/LA bisessuale, per loro siamo degli articoli di cose, delle virgole fra una frase e l’altra, variabili discutibili e trascurabili . Giocano con le nostre vite, dimostrando l’inutilità di un approccio pacifico e apprensivo di conciliazione fra la loro realtà – giusta e naturale – con la nostra – fuori controllo e sbagliata. Ci hanno innumerevoli volte dato prova dell’aridità delle loro vite, trascinandoci in una spirale di anestesia emotiva per indurci a negare la nostra stessa esistenza, a rifiutare un’urgente liberazione dalle latenti catene che loro stessx hanno forgiato. Allora diciamo basta, strappiamoci via questi strati di pelle tessuti da chi ci vuole ‘normali’ : TraNsformiamoci. ***** > Because the night belongs to lovers. Because the night belongs to us. > — Patti Smith Sulla morte Vivere in questa civiltà significa essere mortx, vuotx. La morte è l’interesse e l’aspirazione dell’appartenenza sociale, è la relazione in cui la vita è ridotta al capitale e all’interscambio. E’ ovunque; in chi cammina per strada senza incrociare alcuno sguardo, negli scambi fra i vari servizi, nei corridoi di una grande distribuzione organizzata, sulle panche della chiesa. Nel capitale, nell’eteronormatività, nella legge, nella moralità – in qualsiasi luogo esiste la logica della morte. L’impensabilità dei nostri desideri viene ribadita in continuazione, potere e controllo scritti sui nostri corpi. Cos’è la passione? Il desiderio? L’avventura? Il divertimento? Cosa, se non parole accattivanti per inserzioni? Il nostro amore, il nostro appetito e i nostri stessi corpi sono inscritti in questo sistema, il capitale è riportato sulla nostra pelle. Non dobbiamo neanche azzardarci a sognare: come potremmo concepire di volere oltre tutto questo? I soggetti e sforzi del biopotere – gli stivali degli omofobi, le onnipresenti e accecanti luci blu delle videocamere di sorveglianza, le campagne militari e per il matrimoni gay, le incessanti sofferenze della monogamia, manichini e pubblicità nauseanti – sono ovunque, come posti di blocco che garantiscono l’impossibilità di qualsiasi altra realtà. La vita così, messa a nudo, non è nient’altro che una brutale sopravvivenza – banale, fredda, paralizzante. Potrebbe essere più chiaro di così? L’etero-capitalismo, questa società, questa totalità: è lì fuori per distruggerci. Ottenere e condividere: riprenderci ciò che è nostro Il meccanismo del controllo ha reso illegale la nostra esistenza. Abbiamo sopportato e sofferto la criminalizzazione e crocifissione dei nostri corpi, del nostro sesso, dei nostri generi ribelli. Assalti, caccia alle streghe, condanne al rogo. Abbiamo ricoperto il ruolo di deviatx, puttane, pervertitx ed abomini. Questa civiltà ci ha resx criminali, e di conseguenza abbiamo dedicato le nostre vite alla criminalità. Nella criminalizzazione dei nostri piaceri, abbiamo scoperto il piacere dell’essere criminali! Nell’essere banditx a causa della nostra esistenza, abbiamo scoperto che siamo, senza ombra di dubbio, dellx cazzo di fuorilegge! Moltx attribuiscono a noi queer la causa del declino della società – e ne siamo orgogliosx. Qualcunx crede che intendiamo fare a pezzi questa civilizzazione e le sue morali – niente di più vero. Siamo spesso descrittx come depravatx, fatiscenti e rivoltanti — ma hey, non hanno ancora visto nulla. Parliamoci chiaro: siamo criminali anarchoqueer e questo mondo non è e non sarà mai abbastanza per noi, vogliamo rovinarlo e annientare la morale borghese. Siamo qui per distruggere ciò che ci sta distruggendo. Parliamo di rivolte: stiamo tracciando la caduta dell’ordine sociale e discendenze per lx nostrx futurx criminali queer. Oh, il nettare dal quale ci dissetiamo: piratx lesbiche che solcano i mari, ribelli queer che danno fuoco a volanti degli sbirri, orge nel bel mezzo delle rovine dell’industrializzazione, ladrx di banche che indossano i triangoli rosa, reti di aiuto comunitario fra sex workers e banditi, gang di frocxtransessualx che rispondono alle fottute armi. Ci hanno assicurato che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo, abbiamo scelto di vivere come se fosse così. Ma in cambio, vi promettiamo che avete i giorni contati. ...
Murray Bookchin - Anarchismo sociale o anarchismo lifestyle
Autore: Murray Bookchin Titolo: Anarchismo sociale o anarchismo lifestyle Sottotitolo: Un abisso incolmabile Data: 1995 Note: Titolo originale Social anarchism or lifestyle anarchism. An unbridgeable chasm Copyright: 1995 Murray Bookchin Prima pubblicazione nel 1995 di AK Press, 370 Ryan Ave. #100, Chico, CA info@akpress.org Traduzione di peso morto Nota all’edizione italiana > Se il movimento anarchico non acquisterà il coraggio di considerarsi isolato, > spiritualmente, non imparerà ad agire da iniziatore e da propulsore. Se non > acquisterà l’intelligenza politica, che nasce da un razionale e sereno > pessimismo (che è, di fatto, senso della realtà) e dall’attento e chiaro esame > dei problemi, non saprà moltiplicare le sue forze, trovando consensi e > cooperazione nelle masse. > > Camillo Berneri Questo testo ha avuto una storia particolarmente infelice, come lo è la storia di tutti quei lavori che cercano di affrontare un problema pressante e urgente, ma finiscono per diventare sempre più attuali con lo scorrere del tempo. A distanza di un quarto di secolo dalla pubblicazione, rimane il fatto che le questioni poste dall’autore non sono state risolte, anzi, le «deviazioni borghesi dell’anarchismo» che costituiscono l’oggetto di questo saggio hanno guadagnato sempre più terreno tra gli antiautoritari anche in Italia. L’orizzonte politico contemporaneo è abbastanza desolante. Se c’è un elemento che più di ogni altro caratterizza la fase attuale del movimento, esso è la confusione ideologica tra i militanti. È difficile sovrastimare l’importanza di questo problema: essa conduce al disorientamento tattico e strategico, impedisce la formazione dei nuovi militanti e l’unità tra gruppi, e più in generale invalida alla base qualsiasi proposta organizzativa seria, progettuale e duratura. Nel frattempo, stiamo assistendo al tramonto di qualsiasi prospettiva rivoluzionaria tra chi si definisce antiautoritario/a, un termine originariamente nato in seno alla Prima Internazionale per distinguere i comunisti rivoluzionari “decentralisti” da quelli centralizzatori, fautori della fase transitoria della presa del potere statale, seguaci della corrente autoritaria marxista. Viviamo in una fase storica in cui, nel migliore dei casi, la “resistenza” ha soppiantato la “rivoluzione sociale”. A quanto pare, dovremmo lasciar perdere qualsiasi ipotesi di rottura con il capitalismo e lo Stato, e pensare unicamente a resistere. Così la resistenza smette di essere una scelta tattica parziale e contestuale, che fluisce logicamente da una certa comprensione della fase, per difendersi e mantenere la posizione mentre si preparano (e non si aspettano) condizioni più favorevoli; essa sembra essere il nuovo fine. Ma la resistenza presuppone l’esistenza del nemico, non la sua distruzione. Qui non si vuole giocare con le parole, ma si parla di cose che fanno male dal tanto che sono materiali e concrete. Ci riferiamo al fenomeno tutto italiano del “centrosocialismo”. Nel corso degli ultimi trent’anni l’immaginario politico militante è stato in buona parte colonizzato dalla categoria del “centro sociale”, spesso vere e proprie isole sottoculturali che coesistono fianco a fianco (ma comodamente separate) dalla realtà sociale che le circonda. Si tratta per lo più di una specie di integrazione funzionale con la gestione statale dei problemi sociali prodotti dal capitalismo: contenitori alternativi e sicuri di individualità “devianti” e di disagio sociale; fornitori di servizi svuotati di progettualità politica, dove il tipo di attivismo messo in pratica oscilla tra quello tipico del volontariato e quello individualista che porta alla deresponsabilizzazione sociale; che svolgono infine, da un punto di vista politico, un ruolo oggettivamente conservatore, perché prevengono strutturalmente la possibilità di una politica radicale, intercettando le spinte ribellistiche presenti nella società e canalizzandole entro acque stagnanti. L’involuzione politica generale è così profonda che le forme, diventate veri e propri feticci, hanno rimpiazzato i contenuti: autogestione, autorganizzazione, o anche insurrezione, sono le nuove parole d’ordine degli antiautoritari, e così facendo ci siamo dimenticati come queste siano solo alcune delle forme che nel corso della storia i movimenti rivoluzionari si sono dati per esprimere ciò che invece animava qualsiasi discorso sulle tattiche e sui mezzi: il comunismo libertario, l’anarchia. D’altronde, anche questo problema è da ricondurre a quello più ampio della mancanza di consapevolezza storica e di chiarezza strategica, cui segue naturalmente quello dall’assenza di prospettive rivoluzionarie. Infatti, per i movimenti rivoluzionari del secolo scorso l’insurrezione non era che il punto zero di ogni processo rivoluzionario, cui seguiva il primo passo effettivo, l’autogestione dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori insorti. Questo ribaltamento dei mezzi coi fini ci ha portato a un doppio vicolo cieco: un conservatorismo politico all’insegna dell’“autogestione” da un lato, che si esprime per lo più nel fenomeno dei centri sociali, e un ribellismo “insurrezionalista”, autoreferenziale e in ultima analisi sterile dall’altro. D’altra parte, le componenti del movimento anarchico che si discostano orgogliosamente da queste manifestazioni del lifestyle non sembrano avanzare alcuna proposta alternativa e credibile. Esse si dividono tra un accademismo sterile e quel movimento d’opinione sempre criticato ma di cui si finisce a fare parte dopo anni di consolidato isolamento sociale. Nella pratica, il prodotto di questo calderone di prese di posizione e purismo dottrinale si riduce a nient’altro che un anarchismo di testimonianza. Audace nelle sue dichiarazioni e al tempo stesso inconseguente nella prassi, questo anarchismo di opinione si dimostra complice della generale deriva verso l’individualismo tra le ultime generazioni di anarchici. ...
Rudolf Rocker - Milly Witkop-Rocker
Autore: Rudolf Rocker Titolo: Milly Witkop-Rocker Data: 1956 Note: Quaderni del Centro Studi Libertari Camillo Di Sciullo edizioni del Centro Studi Libertari Camillo Di Sciullo Chieti 2005 L’originale in inglese, stampato nel 1956 in edizione privata per l’autore, portava lo stesso titolo. Traduzione di Daniela Tella. Origine: Consultato il giorno 2 luglio 2019 su bibliotecaborghi.org Prefazione “Nel più oscurantista di tutti i paesi, la Russia, con il suo assoluto dispotismo, la donna è diventata uguale all’uomo, non attraverso il voto, ma con il suo essere e il suo fare. Non solo ha conquistato per se stessa la possibilità di perseguire ogni esperienza e vocazione, ma ha anche conquistato la stima dell’uomo, il suo rispetto, la sua amicizia; sì anche più di questo: ha guadagnato l’ammirazione, il rispetto del mondo intero. Tutto ciò non attraverso il suffragio, ma con il suo meraviglioso eroismo, la sua forza d’animo, la sua abilità, la sua forza di volontà e la sua tenacia nella lotta per la libertà”. Con queste parole Emma Goldman esprimeva la sua sincera ammirazione per le donne russe che grazie a lunghe lotte, condotte tra la metà del XIX secolo e la rivoluzione del 1917, avevano conquistato l’emancipazione e si erano assicurate una maggiore partecipazione alla vita politica e sociale del paese. L’immagine della Goldman, tuttavia, non si adattava alla maggioranza della popolazione femminile che apparteneva alla classe operaia o alla popolazione contadina e viveva ancora in condizioni di grave subalternità. Il movimento per l’emancipazione femminile, che naturalmente coinvolse tutte le classi sociali, sebbene in modi e misura diversi, coincideva con la sua parte più attiva rappresentata dalle donne rivoluzionarie, identificate con le studentesse universitarie e sempre più frequentemente con le donne ebree. Lo stereotipo, non solo della donna, ma del rivoluzionario russo in generale era lo studente universitario ebreo. La partecipazione delle donne alla attività politica, con il loro “essere e fare”, per usare l’espressione della Goldman, sembrava introdurre tutta la società russa in una età nuova, nella quale i sessi, le classi e i diversi gruppi etnici avrebbero collaborato per determinare un futuro comune. Come tanti miti, anche quello che essere rivoluzionario fosse sinonimo di essere ebreo aveva un fondo di verità: non è senza significato che le prime organizzazioni del proletariato russo-polacco fossero state create dagli ebrei. Lo stesso si può dire delle loro donne che erano coinvolte nelle organizzazioni rivoluzionarie in misura maggiore di quelle degli altri gruppi nazionali naturalmente tenendo conto della proporzione demografica. L’affermazione della Goldman che le donne avessero già raggiunto l’uguaglianza sessuale, rifletteva il diffuso sostegno che l’intellighenzia russa dava alle lotte delle femministe. Aderendo agli ideali dell’illuminismo le donne rivoluzionare russe pensavano che l’uguaglianza risiedesse nel superamento delle differenze sessuali che la morale tradizionale affermava. Come diceva Rose Schneiderman: “Noi vogliamo essere umane!”. Molte delle donne ebree russe che presero parte attiva alle lotte per l’emancipazione erano nate tra il 1870 e il 1890 e tra loro emersero le più importanti attiviste anarco-femministe, tra le quali possiamo benissimo inserire Milly Witkop Rocker. Nella vita e nelle traversie di questa donna straordinaria, nelle sue scelte, ritroviamo un intero drammatico periodo storico i cui sviluppi, attraverso complicati percorsi, dalla Russia zarista arrivano in Inghilterra, poi nella Germania inquieta della repubblica di Weimar infine negli Stati Uniti. Milly Witkop nacque il 1 marzo 1877 e trascorse la sua infanzia nel villaggio ebraico di Slotopol, in Ucraina. A 17 anni lasciò la sua città natale per stabilirsi in Inghilterra, dove nel 1899 fu raggiunta dai genitori e dalle sorelle. Come la maggioranza degli ebrei provenienti dall’Est Europa fu costretta, per ragioni economiche, ad abitare nei quartieri poveri dell’East-End londinese, dove, assieme ai membri della sua famiglia, si guadagnò da vivere lavorando in condizioni di supersfruttamento nel settore dell’abbigliamento. Mentre la maggior parte degli immigranti ebrei finiva ben presto per allontanarsi dalla tradizione ebraica al contatto con la moderna società capitalistica inglese, Milly inizialmente rifiutò di adeguarsi al nuovo ambiente del tutto diverso dalla vita ebraica della piccola cittadina in cui era vissuta. Al tempo del suo arrivo in Inghilterra, Milly “aveva una natura profondamente religiosa… Nelle manifatture del grande ghetto, tristemente note, dove Milly doveva lavorare per guadagnarsi una magra esistenza, le persone lavoravano anche nel giorno di Shabbath se vi erano costrette, e molte altre cose facevano contrarie ai principi della religione ebraica. La giovane donna si ribellava a tutto ciò, spesso andandosi a cercare i guai, con il risultato di perdere il lavoro”. Insieme alla sorella minore Rose, che sarà attiva nel movimento libertario inglese e diventerà la compagna dell’anarchico Guy A. Aldred, ruppe infine con la tradizione religiosa ebraica e si impegnò nella costruzione del movimento socialista rivoluzionario tra il proletariato ebraico della Gran Bretagna, per divenire infine l’anarchica che avrebbe dedicato la sua intera vita alla lotta per la libertà. Nel 1896 avvenne l’incontro sentimentale con Rudolf Rocker, anarcosindacalista tedesco, che diventerà il compagno della sua vita e sarà per mezzo secolo l’anima dal movimento anarchico ebraico tanto da meritarsi l’appellativo di rabbi goy, ovvero di rabbino non ebreo. Come ricorda Rocker fu Milly, che “apparteneva già al gruppo Arbeter Fraint e lavorava a favore della causa là dove poteva”, ad introdurlo negli ambienti del proletariato ebraico londinese. ...
CrimethInc - Contro la logica della ghigliottina
Autore: CrimethInc Titolo: Contro la logica della ghigliottina Sottotitolo: Perché la Comune di Parigi ha bruciato la ghigliottina — e perché anche noi dovremmo farlo Data: 8 aprile 2019 Origine: Consultato il 17/8/2022 su it.crimethinc.com 148 anni fa oggi, il 6 aprile 1871, i partecipanti armati alla rivoluzionaria Comune di Parigi sequestrarono la ghigliottina che era stata riposta vicino alla prigione di Parigi. Dopo averla portata ai piedi della statua di Voltaire, la fecero a pezzi per poi bruciarla in un falò, accompagnati dall’applauso di una folla immensa.[1] Quest’azione popolare nata dal basso, non fu uno spettacolo organizzato dai politici. In quel periodo, la Comune controllava Parigi, dove vivevano ancora tutte persone appartenenti a tutte le estrazioni sociali; l’Esercito francese e quello prussiano, dopo averla circondata, si stavano preparando a invaderla per imporre il Governo repubblicano conservatore di Adolphe Thiers. In quelle circostanze, bruciare la ghigliottina fu un gesto coraggioso per ripudiare sia il Regno del Terrore sia l’idea che un cambiamento sociale positivo potesse essere ottenuto massacrando la gente. “Cosa?” potresti esclamare sconvolto, “i comunardi bruciarono la ghigliottina? Perché diavolo avrebbero dovuto farlo? Pensavo che la ghigliottina fosse un simbolo di liberazione!” Perché, infatti? Se la ghigliottina non è un simbolo di liberazione, allora per quale motivo negli ultimi anni è diventata un tale leitmotiv per la sinistra radicale? Perché il Web è pieno di meme con la ghigliottina? Perché The Coup cantano “We got the guillotine, you better run?” (“Abbiamo la ghigliottina, è meglio se corri”). Il più famoso periodico socialista si chiama Jacobin, in onore dei primi sostenitori della ghigliottina. Di sicuro, tutto questo non può essere solo un’ironica parodia dell’ansia persistente che la destra nutre dei confronti della Rivoluzione francese. La ghigliottina è giunta a occupare il nostro immaginario collettivo. In un periodo in cui le spaccature all’interno della nostra società stanno espandendosi verso la guerra civile, la ghigliottina è l’incarnazione di una vendetta sanguinaria senza compromessi. Rappresenta l’idea che la violenza dello Stato potrebbe essere una buona cosa solo se la gente giusta fosse al potere. Coloro che danno per scontata la propria impotenza presumono di poter promuovere orribili fantasie di vendetta senza conseguenze alcune. Ma se siamo davvero intenzionati a cambiare il mondo, è nostro dovere assicurarci che le nostre proposte non siano ugualmente raccapriccianti. Vendetta Non sorprende che, oggi, la gente voglia vendette sanguinarie. Il profitto capitalistico sta rapidamente rendendo il pianeta inabitabile. I funzionari dell’US Border Patrol stanno rapendo, drogando e imprigionando i bambini. Singoli atti di violenza razzista e misogina occorrono costantemente. Per molte persone, la vita quotidiana è umiliante e lascia sempre più privi di forze. Coloro che non desiderano vendicarsi perché non sono dotati di abbastanza pìetas per indignarsi di fronte all’ingiustizia o perché semplicemente non vi prestano attenzione, non meritano nulla. C’è meno virtù nell’indifferenza che nei peggiori eccessi di vendetta. Voglio vendicarmi degli agenti di polizia che ammazzano le persone impunemente, dei miliardari che si arricchiscono attraverso sfruttamento e gentrification? Degli estremisti che vessano e condannano il prossimo? Hanno ucciso persone che conoscevo; stanno cercando di distruggere tutto ciò che amo. Quando penso al male che stanno causando, mi sento pronto a spezzar loro ossa, a ucciderli a mani nude. Ma quel desiderio è lontano dalla mia politica. Posso desiderare qualcosa senza dover decodificare una giustificazione politica per questo. Posso desiderare qualcosa e scegliere di non esaudire il mio desiderio, se c’è qualcos’altro che voglio ancor di più – in questo caso, una rivoluzione anarchica non basata sulla vendetta. Non giudico chi la vuole, soprattutto se ha vissuto cose peggiori rispetto a quelle che ho vissuto io, ma non confondo quel desiderio con una proposta di liberazione. Se il tipo di sete di sangue che descrivo ti spaventa, o se ti sembra semplicemente sconveniente, allora non dovresti assolutamente scherzare su altre persone che commettono omicidi industrializzati per conto tuo. Poiché questo è ciò che contraddistingue la fantasia della ghigliottina: si tratta di efficienza e distanza. Quelli che feticizzano la ghigliottina non vogliono uccidere le persone a mani nude; non sono pronti a lacerare le carni di qualcuno con i propri denti. Vogliono che la loro vendetta sia automatizzata ed effettuata per loro. Sono come quelli che mangiano spensierati delle Chicken McNuggets ma non potrebbero mai macellare personalmente una mucca o abbattere una foresta pluviale. Preferiscono che lo spargimento di sangue avvenga in modo ordinato, con tutti gli incartamenti compilati correttamente, seguendo il modello di giacobini e bolscevichi a imitazione del funzionamento impersonale dello Stato capitalista. E un’altra cosa: non vogliono assumersene la responsabilità. Preferiscono esprimere le proprie fantasie in modo paradossale, negando l’evidenza. Tuttavia, chiunque sia mai stato parte attiva in dei cambiamenti sociali sa quanto può essere sottile la linea che separa fantasia e realtà. Diamo un’occhiata al ruolo “rivoluzionario” ricoperto in passato dalla ghigliottina. ...
Alfredo M. Bonanno - La tensione anarchica
Autore: Alfredo M. Bonanno Titolo: La tensione anarchica Data: 1996 Note: Edizioni Anarchismo – Opuscoli provvisori N. 7 Prima edizione: Laboratorio Anarchico di Sperimentazione Antiautoritaria, Cuneo 1996 Seconda edizione, Edizioni Anarchismo, aprile 2007 Terza edizione: novembre 2013 Origine: Consultato l’8 ottobre 2022 su www.edizionianarchismo.net Nota introduttiva alla seconda edizione Il processo in base al quale la tensione anarchica verso la libertà svuota se stessa della conoscenza non è mai ricordato come uniforme, non avviene tutto in una volta. La presa di coscienza non è un sacco che si vuota, alcuni elementi della conoscenza raffrenante non sono dettagli che si tolgono via a proprio gradimento, altri non possono essere tolti che con grande difficoltà e, non appena tolti, cercano in tutti i modi di ritornare al proprio posto. La paura di restare in balia dell’ignoto rimane forte. Sono portato, ed è naturale, a considerare più importanti gli elementi conoscitivi che tolgo via con maggiore difficoltà, ma questa purificazione non assegna una graduatoria né qualitativa né quantitativa. La parola, di fronte a questi sforzi, ha reazioni sue, non risponde mai in modo adeguato alla follia della tensione distruttiva, difatti non può quest’ultima presentarsi come progetto progressivo e dettagliato. La sua danza ricorda più quella del dio delle donne che la sapienza dominatrice di Atena. Non potendo presentare un progetto distruttivo completo in ogni sua parte, se non per grandi linee, troppo vaghe alla fin fine, devo ammettere che in assenza di regole ogni progetto comporta in sé qualcosa di ridicolo, la tensione corre il rischio di contrastare la parola invece di sollecitarla ad aprirsi. Ciò è costante nei casi in cui la preparazione liberatoria della tensione è ancora troppo esile di fronte al peso complesso dell’accumulo che la conoscenza minaccia di presentare come ricatto. Un errore può essere commesso nella sopravvalutazione del processo di avvicinamento al silenzio e la parola può non coglierlo, in questo caso si inizia una analisi dettagliata che prenderà movimenti complessi, contorti e che si modificherà profondamente di fronte alle ulteriori proposte della tensione più avanzata. A volte, quando le titubanze hanno il sopravvento, transitorio se vogliamo, comunque in grado di raffrenare l’istinto e gli impulsi più generosi, la tensione non è sufficientemente silenziosa e lascia che la conoscenza la gonfi di sé, la parola si accorge dell’invasione o delle condizioni premature, e crea dei falsi punti di riferimento per non azzerare completamente il lavoro già fatto dalla tensione stessa. Nessuna idea è talmente forte da resistere senza danni a questo ritorno della volontà di mettersi in salvo. È difficile cogliere i motivi della distruzione, radicale, che l’anarchismo propugna con tanta certezza, una volta che si deve mettere da parte lo scopo di questa distruzione, qualsiasi scopo, non regnando che l’inutilità nel baratro che accoglie i movimenti disorganizzati della tensione individuale, e molto più ampiamente, della tensione collettiva verso la libertà. La tensione è aprire il proprio cuore all’imprevisto, lasciare così che la conoscenza propria e altrui scappi via per il mondo, che ognuno faccia quello che gli aggrada, strame o no, tanto lei non è né l’uno né l’altro. Grandi filosofi come Aristotele o Bruno sono caduti al servizio, anche transitorio, dei potenti, per non dire delle utopie di Platone, ma non potevano aprire la loro conoscenza, erano troppo gelosi e troppo parziali per non limitarsi ad assolvere fino in fondo l’arrogante e stupido compito di reggere il candelabro. Rinuncio malvolentieri alla conoscenza e ai benefici che ne ho tratto per tutta la vita. Anche nelle peggiori condizioni in cui mi sono venuto a trovare essa riceveva un inchino dal nemico e, diciamo, un trattamento di favore. Anche quando sono stato torturato, i colpi erano peggiori solo quando il torturatore non sapeva chi fossi, poi diventavano più leggeri, quasi vergognosi. Rinunciare a questa essenza conoscitiva che mi pervade e che mi mostra quale sono essendo penetrata a fondo, anche se vestito di stracci come i Cinici, non è del tutto possibile, è una lunga lotta, e quando credo di essere arrivato a una buona condizione di svuotamento, ecco che l’antica tabe rispunta dove meno me l’aspetto. La distruzione non sarà mai possibile se non staccherà il contatto con questi legami che trovano la propria radice occulta proprio nel tessuto connettivo della conoscenza. Eppure è un’amara necessità rinunciare ad essa, anche all’ultimo, quando il suo respiro si fa corto e i suoi progetti di controllo sono scarnificati fino all’osso, permane una traccia di contenuto e di senso. In fondo la tensione verso la radicale distruzione dell’esistente è follia che mi fa paura, come farla entrare in moduli conoscitivi rassicuranti? Non sto parlando ovviamente dell’estasi vuota, impossibile perché dovrebbe riempirsi totalmente di qualcosa che non è da qualche parte ma si propone soltanto come movimento, appunto come tensione verso qualcosa, la libertà, eppure sto parlando di qualcosa che inceppa la parola e la rende incomprensibile se non vista nella prospettiva dell’azzeramento totale, del silenzio che circonda l’azione ormai completa in tutte le sue parti, condizione di svuotamento che fa spazio e libera dalle pretese di conquista che la conoscenza aveva sostenuto per decenni. L’insegnamento che viene da questa condizione pericolosa e insostenibile, eppure desiderata come nient’altro con tanta forza, è che la conoscenza chiude per sempre il cuore dell’uomo e lo sostituisce con il calcolo, con la convenienza, la conquista, il possesso. Rinunciare a tutti questi aspetti e conservare la conoscenza e le sue corrispondenze è impossibile. Prova ne è che la parola balbetta solo il piatto linguaggio della quotidianità, oppure, a volte, timidamente si avventura nelle mutate condizioni che la tensione rende possibili. ...
Alfredo M. Bonanno - Esclusi e inclusi
Autore: Alfredo M. Bonanno Titolo: Esclusi e inclusi Data: 1999 Origine: Consultato il 20 maggio 2022 su edizionianarchismo.net Fine delle ideologie, ma non del tutto. Nessun apparato politico ne potrà mai fare a meno completamente. Le trasformazioni sostanziali nella struttura produttiva del capitale, trasformazioni che, a livello mondiale, si sono verificate negli ultimi dieci anni, hanno improvvisamente svuotato di significato quasi tutte le coperture ideologiche esistenti. Con ciò non si può dire che la funzione politica, come azione gestionaria e repressiva dello Stato, sia diventata più aderente ai reali bisogni delle persone. Subito dietro i vecchi fantasmi ne sono sopraggiunti altri, dei quali non sembra agevole individuare le caratteristiche, essendo per altro coperture ideologiche ancora in formazione. Possiamo solo dire, allo stato attuale delle cose, che il loro obiettivo è quello di sempre, premere sui sentimenti e sugli istinti irrazionali, per sollecitare comportamenti favorevoli al mantenimento dell’ordine imposto dalla classe dominante. Fra i movimenti più immediati, balzati subito al centro delle cronache, c’è il vecchio miraggio della libertà, imbalsamato nelle trappole logiche dell’antico liberalismo, e rispolverato in tutta fretta per dare fondamento alle più bieche operazioni di gestione dei nuovi mercati all’Est. Che ogni liberalismo si basi su di una discriminazione precisa tra due categorie di persone, quella che può godere dei diritti umani, politici in primo luogo, ma anche più immediatamente concreti come ad esempio quello alla vita, e quella che questi diritti li ha in maniera ridotta, quindi suscettibile di eventuale sospensione o soppressione. Storicamente non occorre qui ricordare che Locke, paladino della libertà politica, doveva la sua fortuna privata agli investimenti fatti nelle compagnie inglesi che lavoravano da quasi un secolo nella tratta degli schiavi, e che la stessa rivoluzione inglese, da cui era nata l’idea di liberalismo politico, aveva considerato una grande conquista la vittoria sulla Spagna in quanto con la pace di Utrecht aveva ottenuto la distruzione del monopolio spagnolo della tratta degli schiavi e iniziato in proprio e su vasta scala questa lucrosa attività. In realtà, osservando bene, la nuova copertura ideologica, così come sta per essere velocemente predisposta, alla meno peggio, dalle organizzazioni accademiche che se ne occupano, consiste in un innesto dell’antica ipocrisia liberale nel corpo sociale che oggi appare quanto mai disgregato. Di quelle antiche chiacchiere una sola cosa diventa importante, e di fatto lo è al di là di ogni dubbio. Gli uomini sono uguali solo in linea di principio, in pratica sono divisi in due categorie, quelli che hanno diritti e quelli che non ne hanno. Quando, per diritti qui s’intende la possibilità sostanziale di accedere alle fonti della ricchezza, di determinare movimenti trasformativi atti a ridurre le differenze nella distribuzione del reddito, in altre parole, tutto quello che permette di sperare in un avvenire migliore e meno difficile del presente. Che questi nuovi movimenti politici, in pratica orientati a livello mondiale verso una fase di apertura gestionaria, definibile come possibile partecipazione degli strati inferiori alle condizioni di vita degli strati superiori, possano determinare una riduzione dell’apparato di potere complessivo degli Stati, resta da verificare, mentre per un altro verso è in atto l’effetto ideologico di questa prospettiva, effetto che contribuisce a creare le condizioni migliori per la strutturazione produttiva del mondo in una prospettiva postindustriale. Il punto essenziale di questo processo è che soltanto una parte, e ben ristretta, dei produttori potrà accedere a condizioni di vita umane, intendendo per condizioni umane una sempre più ampia corrispondenza tra occasioni offerte dal sistema statale e capitalista nel suo insieme e possibilità di sfruttarle. Il resto, la grande maggioranza, dovrà trovare posto nella separazione, in quel lavoro “sporco” che gli antichi liberisti, come ad esempio Mandeville, accomunavano a quello degli schiavi. Non “sporco” nel senso dell’antico abbrutimento fisico, ma “sporco” nel senso vero e proprio del termine, nel senso cioè che sporca l’intelligenza, abbrutendola, abbassandola, riducendola a livello delle macchine, snaturandola della qualità più caratteristica dell’uomo, l’imprevedibilità. In questo contesto, in cui l’ammodernamento ideologico cammina di pari passo con le profonde trasformazioni nella struttura produttiva, per cui ne viene fuori un sistema coordinato di processi reali e immaginari tutti basati, sincronicamente, sulla flessibilità, sull’adattamento, sulla discussione democratica e assembleare, e sul rifiuto critico di ogni autorità che non sia quella efficientista, l’antica funzione dello Stato, accentratore della gestione e della repressione, è destinata ad affievolirsi. E questo affievolimento è nell’ordine delle cose, nello spirito dei tempi, se così vi piace. Ma qui occorre chiedersi: È questo affievolimento un fatto positivo? La risposta, almeno per gli anarchici, dovrebbe essere positiva. E tale sarebbe stata se non fossero incorsi, in tempi recentissimi, riflessioni che ci pare utile sottolineare qui. ...
Warzone Distro - Biting Back
Autore: Warzone Distro Titolo: Biting Back Sottotitolo: una risposta radicale alle persone anarchiche non vegane Data: 2017 Note: Traduzione dell’opuscolo Biting back: a radical response to non-vegan anarchists, pubblicato da Warzone Distro (Chicago, U$A) nel 2017. Fonte opuscolo originale in inglese: warzonedistro.noblogs.org Impaginazione italiana Luglio 2019 Origine: Consultato il 18 maggio 2021 su quaglia.noblogs.org > “Il veganismo non è solamente una scelta alimentare, ma una sfida alla > narrazione antropocentrica dominante. Non si tratta di acquistare prodotti > diversi ma di coltivare delle nuove relazioni con gli animali non umani, non > fondate sulle gerarchie e l’oppressione. Mentre ci sono anarchicx che credono > che aspettare pazientemente il collasso della civilizzazione e supportare le > azioni dell’ALF sia un approccio sufficiente allo specismo, moltx di noi > riconoscono il contesto sociale e alimentare che perpetua lo specismo, e la > necessità della sua distruzione.” * * * * * Nonostante non ci siano dubbi che esistano molte persone radicali che riconoscono l’oppressione degli animali non-umani e che lottano contro di essa, continuiamo a vedere animali non umani offerti come cibo a molti eventi radicali, fiere del libro ed altri incontri anarchici. Crediamo che questa sia una forma di oppressione gerarchica che merita una critica anarchica più che necessaria. Questo breve testo tenta di rispondere ad alcune delle obiezione anarchiche al veganismo più diffuse. Aspiriamo a condividere una pratica di anarchia insurrezionale ed ecologista affermando una posizione contraria allo specismo e all’oggettificazione degli animali non umani. Definizioni: Anarchismo insurrezionalista: l’anarchismo insurrezionalista è un modo di concettualizzare l’anarchismo nel momento presente. Invece di aspettare un momento rivoluzionario nel futuro, l’anarchicx insurrezionalista riconosce che la lotta rivoluzionaria sta avvenendo qui ed ora. Non ci saranno grandiose rivoluzioni da aspettare. L’anarchismo insurrezionalista si concentra sull’azione. Vogliamo creare un mondo migliore nel momento presente mentre attacchiamo quello che ci impedisce di realizzarlo. Il nostro obbiettivo è porre fine allo Stato, al capitalismo, a tutte le strutture di potere interne ed esterne che tengono in piedi questa società. Antropocentrismo: la credenza moralista che gli esseri umani siano l’entità più importante sulla terra. Specismo: lo specismo, come molti altri -ismi, si fonda su una visione del mondo che vede alcuni tratti che non abbiamo scelto come intrinsecamente superiori ad altri. Le persone razziste credono di essere superiori per la loro razza, quelle sessiste per il loro sesso, e quelle speciste credono di essere superiori a causa della loro specie. Lo specismo nasce da una visione del mondo antropocentrica secondo la quale l’essere umano viene considerato l’animale più importante basandosi sulla specie di appartenenza. Veganismo: il fatto di evitare, il più possibile, la crudeltà verso gli animali non umani, ed il consumo di prodotti derivanti da essi per il cibo, l’abbigliamento ed il divertimento. Le persone vegane considerano gli animali (sia umani che non umani) come degli esseri con i propri desideri e potenzialità per la libertà. Il veganismo radicale è un proseguimento logico dell’idea anarchica che prende in considerazione le situazioni a cui fanno fronte tutti gli esseri sotto attacco dell’oppressione, non solo gli esseri umani. In quest’ottica il veganismo propone una riflessione costante ed una decostruzione delle proprie posizioni personali, dei propri comportamenti e delle proprie azioni nelle relazioni sempre in cambiamento tra gli individui, il mondo che ci circonda, ed i sistemi di dominio che ci vengono imposti. Di seguito quattro obiezioni al veganismo comunemente espresse da persone anarchiche. 1. Imporre il veganismo è una pratica colonialista perché uccidere e mangiar carne è un aspetto essenziale di molte comunità indigene. Vale a dire: “Il problema non è l’uccisione ed il consumo di animali, ma una relazione colonialista al fatto di uccidere e mangiare animali”. Questa è una posizione diffusa che ho visto prendere da moltx anarchicx. Il fatto interessante è che la vedo spesso invocata da anarchicx bianchx che assumono una posizione di “alleatx” dei popoli indigeni. Moltx anarchicx credono di poter in qualche modo parlare al posto delle persone indigene o di cercare di mandare avanti le tradizioni dei popoli indigeni. Questo uso semplicistico delle politiche identitarie non è nulla di nuovo. Non c’è bisogno di cercare troppo lontano per rendersi conto che ci sono un gran numero di popoli indigeni che oggigiorno sono vegani, come pure diversi popoli indigeni le cui tradizioni non sono mai state centrate sul consumo di animali. Non esiste una cultura indigena monolitica e quindi questa posizione non ha senso. Esiste solo una moltitudine di popoli indigeni con le proprie credenze e usanze. Cercare di giustificare la caccia e/ o il consumo di animali non umani creando un’immagine romanticizzata dei popoli indigeni fa solo in modo di creare un’immagine omogenea delle loro esperienze. 2. Sono contrarix agli allevamenti intensivi ma non c’è nulla di male nell’uccisione degli animali al di fuori del capitalismo. Vale a dire: “Il problema non è uccidere e mangiare animali, il problema è ucciderli e mangiarli sotto il capitalismo”. Questa obiezione al veganismo da per scontato che sotto il capitalismo l’allevamento intensivo sia l’unica esperienza dannosa a cui vengono sottoposti gli animali non umani. Se è pur vero che sì, i macelli sono più belli in fiamme, al cuore dello specismo c’è una relazione gerarchica tra gli esseri umani e gli animali non umani (che è riflessa nel loro uso quotidiano per il divertimento, la ricerca farmaceutica, e le mode che fanno uso di pelli e pellicce) che giustifica la loro oppressione al di là del capitalismo. Dal momento che il rapporto sociale agli animali non umani è stato modellato pesantemente dal capitalismo, essi vengono visti come merci prefabbricate invece che come esseri viventi capaci di provare sofferenza e dolore. Mentre l’eliminazione del capitalismo e dell’allevamento intensivo farà cessare le manifestazioni istituzionalizzate dello specismo, solo l’eliminazione della supremazia umana ad un livello personale creerà delle nuove forme di relazioni con gli animali non umani – relazioni basate sul rispetto per il loro diritto all’autodeterminazione del proprio corpo e alla libertà dal dominio umano. ...
Luigi Fabbri - La guerra europea e gli Anarchici
Autore: Luigi Fabbri Titolo: La guerra europea e gli Anarchici Data: 1916 Il testo di questo opuscoletto era già pronto fino dai primi del mese di aprile, che subito diversi gruppi di compagni sentirono il bisogno di rispondere in modo categorico al manifesto antianarchico dei cosidetti “intellettuali” franco-russi. Purtroppo difficoltà materiali d’ogni genere che i lettori comprenderanno, derivanti dallo stato di guerra che ha soppressa la libertà di pensiero, ci ha impedito di curare la pubblicazione con quella sollecitudine che desideravamo. Nel frattempo, da varie parti si sono sollevate voci anarchiche di protesta contro coloro che a torto son creduti i portavoce delle nostre idee. Senza contare quelle unanimi dei paesi neutrali, registriamo qui con piacere un vibrante articolo di Errico Malatesta comparso nei giornali inglesi, nel Risveglio di Ginevra e riprodotto completamente in BIANCO del Libertario di Spezia, una dichiarazione del Gruppo Anarchico Internazionale di Londra, un’altra del gruppo dei Temps Nouveaux di Parigi, una terza dei gruppi parigini che avevano per organo il giornale Le Libertaire. Purtroppo queste diverse voci han potuto farsi sentire a stento, ostacolate dalla censura. Anche i giornali anarchici, tanto in Italia che in Francia, hanno tentato confutare la prosa del manifesto guerraiuolo, ma invano. La censura ha imbiancati completamente tre articoli di Sebastiano Faure, che nel “Ce u’il aut dire” di Parigi, rispondeva ai sedici firmatari del manifesto; cosi pure soppresse ogni accenno di risposta nel Liberatario di Spezia. Solo “l’Avvenire Anarchico” di Pisa ha potuto pubblicare, benché mutilato, il manifesto del gruppo internazionale londinese. Per tutto ciò crediamo lo stesso utile, malgrado il ritardo determinato anche dalla maggiore ampiezza di questo scritto, la pubblicazione di questo opuscolo che vuol essere, più che una risposta ai nostri recenti avversari, una affermazione ragionata delle nostre immutate convinzioni. Gli Editori TORINO, GIUGNO 1916 * * * * * I Mentre con la primavera su tutti i fronti della guerra europea s’è intensificato il macello reciproco dei popoli e il sangue si versa a torrenti, mentre un senso di sgomento stringe i cuori e rende pensose le menti, noi anarchici abbiamo sentita con profondo dolore levarsi una voce contro la pace: la voce vostra, o uomini che amammo perché per le idee che ci sono care avete lottato, lavorato e sofferto, ma che oggi queste idee dimenticate o posponete a vane quanto pericolose illusioni. Voi temete una pace “prematura”; e non v’accorgete, nel ferire si crudamente il sentimento attuale più vivo delle classi oppresse d’ogni paese, che il prolungarsi della guerra non rende l’esito di questa più sicuro in un senso o nell’altro. D’altra parte la pace potrà sempre sembrare prematura ora agli uni ed ora agli altri dei belligeranti; sicché una sola certezza v’è: che il logoramento reciproco, prolungandosi sempre più, aggraverà fino all’esaurimento l’attuale tragica situazione di tutti i popoli. Nel manifesto parigino voi dite di “non condividere le illusioni di alcuni compagni sulle disposizioni pacifiche di quelli che dirigono le sorti della Germania.” Ma quale anarchico può mai nutrire illusioni cosi sciocche? Noi, pur dissentendo profondamente da voi, abbiamo la vostra medesima pessima opinione del governo tedesco e d’una pace dettata da lui. Ver’è che non abbiamo una opinione molto diversa su tutti gli altri Stati! Siete invece voi che, vittime della illusione a noi erroneamente rimproverata, avete il grave torto d’esservi in certo modo fatti mallevadori d’una pace statale a più lontana scadenza che, anche se dettata dai governi cui siete favorevoli, sarà sempre una pace bugiarda irta d’ingiustizie e gravida di minacce di nuovi conflitti per l’avvenire. La pace che sarà prima o poi conclusa dagli Stati non sarà la pace nostra, la pace vera dei popoli. Niun congresso internazionale di laboratori, per quanto numeroso, potrebbe avere influenza alcuna su ciò che sarà esclusivamente definito dalla diplomazia; i lavoratori ne sapranno qualche cosa quando tutto sarà finito, prima ancora che abbiano rattenuta la libertà di riunirsi e d’esprimere la propria opinione. Sì, grave errore è il vostro di solidarizzarvi con degli Stati, per la guerra; ma un errore simile noi non commetteremo, perché agli Stati non accorderemo mai solidarietà, fiducia o tregua neppure per avere la più sollecita pace. Che se la pace invochiamo, per solidarietà con l’umanità straziata, e dai popoli che la aspettiamo, non dai governi. Voi —firmatari del manifesto— mentre temete come il maggior danno che il desiderio di pace abbia prematuramente a imporsi, dichiarate che, pur essendo anarchici ed antimilitaristi, vi siete schierati con quelli che resistono e che combattono. Di chi intendete parlare, dei governi o dei proletari? Certo dei governi, poiché solo da un punto di vista borghese e statale e possibile cotesta arbitraria distinzione fra difesa e resistenza. E bene il vostro torto, giudicare gli avvenimenti da questo erroneo punto di vista! Che se poi intendete parlare, non dei governi ma della massa dei proletari che si battono nel vero senso della parola, ci sembra per lo meno superflua la vostra dichiarazione d’essere con loro, quando essi (parliamo della generalità) non hanno alcuna libertà di fare diversamente. Sarebbe più interessante sapere, piuttosto, se quelli che combattono sono d’accordo con voi, o non piuttosto deplorino che alla forza materiale che li spinge al fuoco si sia aggiunta la forza morale del vostro consentimento. Forse con loro ci siamo più noi che voi! ...