
Arrigo Petacco - L’anarchico che venne dall’America
Biblioteca anarchica - Tuesday, February 25, 2025Titolo: L’anarchico che venne dall’America
Sottotitolo: Storia di Gaetano Bresci e del complotto per uccidere Umberto I
Data: 1969
Note: Il testo è la prima biografia che fu pubblicata su Gaetano Bresci, non è propriamente un testo anarchico ma contiene informazioni e ricostruzioni che possono essere d’interesse, nonostante l’autore cerchi di suggerire la ridicola possibilità che Bresci abbia agito con complici per il regicidio.
Origine: pubblicato originariamente da Mondadori
Introduzione
All’inizio del 1968, quando cominciai a raccogliere per una trasmissione televisiva la documentazione da cui è poi nato questo libro, scoprii con sorpresa che nessuno studio circostanziato era mai stato fatto su Gaetano Bresci, sul suo tragico gesto, sulla sua oscura fine. Le maggiori enciclopedie citano appena, o ignorano del tutto, questo personaggio che fa pur sempre parte della nostra storia. Persino gli anarchici lo hanno trascurato: nei loro testi Bresci è nominato di rado. con notizie scarne e lacunose, spesso inesatte.
Come si spiega questo silenzio intorno a un nome che fu a suo tempo sulla bocca di tutti? La ragione è, probabilmente, che il clamoroso atto di « contestazione » compiuto da Bresci a Monza in quell’afosa domenica di luglio del 1900, riesce particolarmente ingrato da rievocare: presentando caratteri che ne rendono difficile non solo e non tanto la ricostruzione fattuale, quanto una collocazione psicologica e storica che prescinda dalla banale esecrazione come dalle inarticolate apologie.
Per il Croce — nel capitolo VIII della Storia d’Italia dal 1871 al 1915: « Conati di governo autoritario e restaurazione liberale, 1896-1900 » — l’uccisione di Umberto fu l’« epilogo dolorosissimo » che « ebbe quella lotta tra reazionari e liberali »; e il delitto, sebbene fosse, tipicamente, «di quelli degli anarchici », dovette « pungere di qualche rimorso gli stolti consiglieri di reazione, quando sì seppe che l’incentivo ne era stato offerto dalla lettera del re al generale repressore dei moti di Milano ».
Il giudizio crociano è indubbiamente suggestivo per il suo pacato equilibrio e per la comodità che offre di introdurre, chiuso un capitolo della nostra storia, il seguente (capitolo IX: « Il governo liberale e il rigoglio economico, 1901-1910 ».) Senonché la comodità appare fin troppa, e l’equilibrio risulta facile perché fondato, in definitiva, su un’astrazione. Bresci infatti è così scopertamente, nella pagina citata, il deus ex machina di una ricostruzione idealistica, che il suo nome non viene neppure citato: colui che fornisce alla lotta tra reazionari e liberali un così perspicuo seppur dolorosissimo epilogo, non ha neppure uno straccio di stato civile; non è Bresci Gaetano fu Gaspero e fu Godi Maddalena, nato a Coiano (Prato) l’11 novembre 1869; è puramente e semplicemente, « un anarchico venuto dall’America ».
Chi era, come visse e come morì, questo « anarchico venuto dall’America » (dove, prima di venirne, ovviamente era andato)? Il solo proposito di questo libro, e delle non facili ricerche documentarie che lo hanno preceduto, è stato di restituire al nome di Bresci una certa consistenza biografica: come elementare ma indispensabile premessa a ogni giudizio di valore che si voglia oggi ritentare del suo gesto.
A.P.
Il Tivola and Zuccas Saloon, in Central Avenue a West-Hoboken (New Jersey), era eccezionalmente affollato quella sera di sabato 12 novembre 1899. La signora Zucca («mamma Berta» per i clienti abituali) stava dietro il banco del bar, indaffaratissima a riempire boccali di birra che suo marito Remigio e il suo socio Frank Tivola distribuivano frettolosamente agli uomini e alle donne allineati sulle panche della sala delle feste trasformata, per l’occasione, in locale di riunione.
Il palco degli oratori, pavesato di bandiere rosse e nere, era ancora deserto e i presenti conversavano ad alta voce. Erano in gran parte piemontesi e toscani. Davanti al pianoforte, situato proprio sotto il palco, sedeva Sperandio Carbone, un operaio tessile, musicista a tempo perso, che strimpellava popolari motivi sovversivi importati dall’Italia.
Quei meeting anarchici rappresentavano sempre un buon affare per la ditta Tivola and Zucca. Ma la manifestazione in programma per quella sera era addirittura eccezionale e prometteva notevoli incassi. Errico Malatesta, l’anarchico più famoso del momento, dopo avere travolto nella vicina Paterson gli oppositori «individualisti», aveva deciso di venire proprio lì, a West-Hoboken, la più intransigente cittadella dell’anarchismo individualista, per affrontare in un dibattito pubblico il suo più temibile avversario: Giuseppe Ciancabilla.
La serata dunque si annunciava calda e appassionante, ma la polizia locale non aveva ritenuto necessario prendere particolari misure di sicurezza. D’altra parte, a differenza di quanto accadeva in Europa, negli Stati Uniti gli anarchici erano considerati cittadini come gli altri. Non avevano mai provocato incidenti, le loro riunioni erano aperte a tutti, la loro condotta – a detta dello stesso capo della polizia – era «irreprensibile». Quindi nonesistevano problemi di ordine pubblico.
La folla riunita nel Saloon era composta in gran parte da italiani, ma c’erano anche degli spagnoli, dei polacchi, dei tedeschi e degli ebrei venuti appositamente per vedere con i propri occhi il celebre anarchico italiano evaso avventurosamente appena cinque mesi prima dall’isola di Lampedusa.
Anche davanti al Saloon, in Central Avenue e De Mott Street,sostavano numerosi gruppi che ingannavano l’attesa discutendo animatamente con la gente arrivata da Paterson per dare manforte a Malatesta. Fra questo vociare confuso, si levava, di tanto in tanto, il grido degli strilloni volontari che facevano a gara a chi urlava più forte il titolo dei due giornali sui quali infuriava la cosiddetta «polemica sull’organizzazione» che divideva in quei giorniil movimento anarchico.
Questi giornali erano: «La Questione Sociale», diretta dal cinquantenne Errico Malatesta, e «L’Aurora», diretta dal ventottenne Giuseppe Ciancabilla. Il primo si stampava a Paterson, il secondo a West-Hoboken.
Era stato proprio sulla «Questione Sociale» che Malatesta, pur continuando a infierire contro la «degenerazione legalitaria» del Partito socialista, aveva cominciato a sviluppare la sua tesi sulla necessità di organizzare il movimento anarchico. Gli anarchici, infatti, non disponevano allora della minima organizzazione: non avevano una federazione, non avevano tessere, non riconoscevano capi, respingevano il parlamentarismo. «Noi siamo uniti soltanto nella fede» dicevano.
Questa situazione inorgogliva i sostenitori della libertà individuale e assoluta, ma, indubbiamente, privava l’anarchismo di ogni base per un’azione coerente.
Malatesta auspicava quindi la creazione di un raggruppamento che, pur ripudiando la rigida struttura gerarchica, possedesse quel minimo di organizzazione che era necessaria per condurre avanti concontinuità una determinata linea politica. Questa sua presa di posizione aveva provocato la reazione dei più accesi individualisti, i quali non gli avevano risparmiato l’accusa di «pappagallo dei socialisti» o di «aspirante deputato». Fra i suoi avversari, il più temibile era certamente Giuseppe Ciancabilla.
Il «curriculum» di questo giovanotto, originario di una famiglia borghese di Perugia, era totalmente diverso da quello di Malatesta. Prima di diventare anarchico, egli era stato socialista, dirigente nazionale del PSI e redattore-capo dell’«Avanti!». Erano stati i tragici fatti del ’98, in Sicilia e a Milano, a mettere in crisi la sua fiducia nel partito e, soprattutto, nelle masse, che egli giudicava prive di capacità rivoluzionarie.
Giuseppe Ciancabilla si era quindi convinto che solo con l’atto individuale fosse possibile battere il nemico di classe, e aveva perciò aderito all’anarchismo. Anzi, per concretizzare subito queste sue nuove convinzioni, verso la fine del 1898 aveva raggiunto Milano deciso a uccidere il generale Bava Beccaris, «il macellaio dei lavoratori». Ma il colpo non gli era riuscito e si era allora rifugiato in America per continuare fra gli immigrati la sua battaglia politica.
Egli scriveva in quei giorni sull’«Aurora»:
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