Murray Bookchin - Anarchismo sociale o anarchismo lifestyle

Biblioteca anarchica - Sunday, October 9, 2022
Autore: Murray Bookchin
Titolo: Anarchismo sociale o anarchismo lifestyle
Sottotitolo: Un abisso incolmabile
Data: 1995
Note: Titolo originale Social anarchism or lifestyle anarchism. An unbridgeable chasm
Copyright: 1995 Murray Bookchin
Prima pubblicazione nel 1995 di AK Press, 370 Ryan Ave. #100, Chico, CA info@akpress.org
Traduzione di peso morto
Nota all’edizione italiana

Se il movimento anarchico non acquisterà il coraggio di considerarsi isolato, spiritualmente, non imparerà ad agire da iniziatore e da propulsore. Se non acquisterà l’intelligenza politica, che nasce da un razionale e sereno pessimismo (che è, di fatto, senso della realtà) e dall’attento e chiaro esame dei problemi, non saprà moltiplicare le sue forze, trovando consensi e cooperazione nelle masse.

Camillo Berneri

Questo testo ha avuto una storia particolarmente infelice, come lo è la storia di tutti quei lavori che cercano di affrontare un problema pressante e urgente, ma finiscono per diventare sempre più attuali con lo scorrere del tempo. A distanza di un quarto di secolo dalla pubblicazione, rimane il fatto che le questioni poste dall’autore non sono state risolte, anzi, le «deviazioni borghesi dell’anarchismo» che costituiscono l’oggetto di questo saggio hanno guadagnato sempre più terreno tra gli antiautoritari anche in Italia.

L’orizzonte politico contemporaneo è abbastanza desolante. Se c’è un elemento che più di ogni altro caratterizza la fase attuale del movimento, esso è la confusione ideologica tra i militanti. È difficile sovrastimare l’importanza di questo problema: essa conduce al disorientamento tattico e strategico, impedisce la formazione dei nuovi militanti e l’unità tra gruppi, e più in generale invalida alla base qualsiasi proposta organizzativa seria, progettuale e duratura.

Nel frattempo, stiamo assistendo al tramonto di qualsiasi prospettiva rivoluzionaria tra chi si definisce antiautoritario/a, un termine originariamente nato in seno alla Prima Internazionale per distinguere i comunisti rivoluzionari “decentralisti” da quelli centralizzatori, fautori della fase transitoria della presa del potere statale, seguaci della corrente autoritaria marxista. Viviamo in una fase storica in cui, nel migliore dei casi, la “resistenza” ha soppiantato la “rivoluzione sociale”. A quanto pare, dovremmo lasciar perdere qualsiasi ipotesi di rottura con il capitalismo e lo Stato, e pensare unicamente a resistere. Così la resistenza smette di essere una scelta tattica parziale e contestuale, che fluisce logicamente da una certa comprensione della fase, per difendersi e mantenere la posizione mentre si preparano (e non si aspettano) condizioni più favorevoli; essa sembra essere il nuovo fine. Ma la resistenza presuppone l’esistenza del nemico, non la sua distruzione. Qui non si vuole giocare con le parole, ma si parla di cose che fanno male dal tanto che sono materiali e concrete.

Ci riferiamo al fenomeno tutto italiano del “centrosocialismo”. Nel corso degli ultimi trent’anni l’immaginario politico militante è stato in buona parte colonizzato dalla categoria del “centro sociale”, spesso vere e proprie isole sottoculturali che coesistono fianco a fianco (ma comodamente separate) dalla realtà sociale che le circonda. Si tratta per lo più di una specie di integrazione funzionale con la gestione statale dei problemi sociali prodotti dal capitalismo: contenitori alternativi e sicuri di individualità “devianti” e di disagio sociale; fornitori di servizi svuotati di progettualità politica, dove il tipo di attivismo messo in pratica oscilla tra quello tipico del volontariato e quello individualista che porta alla deresponsabilizzazione sociale; che svolgono infine, da un punto di vista politico, un ruolo oggettivamente conservatore, perché prevengono strutturalmente la possibilità di una politica radicale, intercettando le spinte ribellistiche presenti nella società e canalizzandole entro acque stagnanti.

L’involuzione politica generale è così profonda che le forme, diventate veri e propri feticci, hanno rimpiazzato i contenuti: autogestione, autorganizzazione, o anche insurrezione, sono le nuove parole d’ordine degli antiautoritari, e così facendo ci siamo dimenticati come queste siano solo alcune delle forme che nel corso della storia i movimenti rivoluzionari si sono dati per esprimere ciò che invece animava qualsiasi discorso sulle tattiche e sui mezzi: il comunismo libertario, l’anarchia. D’altronde, anche questo problema è da ricondurre a quello più ampio della mancanza di consapevolezza storica e di chiarezza strategica, cui segue naturalmente quello dall’assenza di prospettive rivoluzionarie. Infatti, per i movimenti rivoluzionari del secolo scorso l’insurrezione non era che il punto zero di ogni processo rivoluzionario, cui seguiva il primo passo effettivo, l’autogestione dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori insorti. Questo ribaltamento dei mezzi coi fini ci ha portato a un doppio vicolo cieco: un conservatorismo politico all’insegna dell’“autogestione” da un lato, che si esprime per lo più nel fenomeno dei centri sociali, e un ribellismo “insurrezionalista”, autoreferenziale e in ultima analisi sterile dall’altro.

D’altra parte, le componenti del movimento anarchico che si discostano orgogliosamente da queste manifestazioni del lifestyle non sembrano avanzare alcuna proposta alternativa e credibile. Esse si dividono tra un accademismo sterile e quel movimento d’opinione sempre criticato ma di cui si finisce a fare parte dopo anni di consolidato isolamento sociale. Nella pratica, il prodotto di questo calderone di prese di posizione e purismo dottrinale si riduce a nient’altro che un anarchismo di testimonianza. Audace nelle sue dichiarazioni e al tempo stesso inconseguente nella prassi, questo anarchismo di opinione si dimostra complice della generale deriva verso l’individualismo tra le ultime generazioni di anarchici.

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