I campi per persone migranti a Gjadër e Shëngjin sono alcune delle ultime manifestazioni delle politiche espansionistiche italiane nel Mediterraneo.
Parafrasando l’argomentazione di Giorgio Agamben in Homo Sacer, col termine “campi” si intendono quei strumenti utilizzati per governare persone e comunità la cui umanità è stata sospesa.
I campi sono un elemento ricorrente nella storia Albanese-Italiana. Essi sono utensili politici e culturali tramite cui l’Italia ha dato forma al paesaggio albanese come i palazzi che si trovano nel centro di Tirana.
Questo articolo punta ad esaminare la posizione dei campi all’interno del quadro più ampio di politiche italiane in Albania.
I campi e il mito del salvatore italiano
I campi sono il punto d’arrivo del salvatore italiano, un mito del XIX secolo creato da diplomatici, scrittori e politici italiani per giustificare l’espansione italiana nei territori albanofoni dell’impero Ottomano. Il mito dipinge gli albanesi come una comunità perennemente povera, morta di fame, criminale e selvaggia, che non può progredire senza il sostegno dell’Italia.
Nel passato come nel presente, i campi sono camuffati sotto la formula del progresso razziale e dell’europeizzazione. Gli Albanesi sono rappresentati a volte come bianchi, altre come non-bianchi, a seconda delle contingenze.
Questa narrativa servì per giustificare l’annessione italiana dei territori albanesi tra il 1914 e il 1920, il controllo politico ed economico dell’Albania nel periodo interbellico, e la cosiddetta “unione” del 1939-1943.
I campi non sono necessariamente delle entità territoriali, ma piuttosto strumenti per la territorializzazione dello spazio coloniale.
L’architettura del campo inizia a prendere forma con la creazione delle frontiere albanesi nella Conferenza di Londra del 1913 e nella Conferenza di Pace di Parigi nel 1919. Similmente ad altri paesi colonizzati i cui destini furono decisi dalle Grandi Potenze, le frontiere dell’Albania furono designate a detrimento delle popolazioni locali. Le vie di mobilità che collegavano le aree rurali ai centri dei precedenti vilayet ottomani furono interrotte dalle nuove frontiere.
La popolazione dovette scegliere tra la carestia, la migrazione e la resistenza armata. La militarizzazione delle regioni di frontiera e la lotta per le risorse e le lealtà politiche, trasformarono l’area in una zona di guerra che si protrasse per decenni.
Le Grandi Potenze danno e le Grandi Potenze prendono. Cosi come avviene per altri Stati coloniali, le mappe dei Balcani sono fatte per durare fino al prossimo giro di spartizioni. Con lo scoppio della Grande Guerra, l’Impero Britannico, quello Francese e quello Russo, riconobbero all’Italia l’annessione di Valona e un protettorato sul resto dell’Albania.
Le autorità italiane si auto-elogiavano per i lavori di modernizzazione a Valona, l’apertura di scuole, i servizi medici, le leggi civili e la costruzione di strade, dicendo di aver operato in continuità con la buona “tradizione coloniale di Roma“.
Ma nonostante questa retorica civilizzatrice, la popolazione si sentì trattata coma “la peggiore delle colonie” ed attaccò le forze italiane nel sud dell’Albania a giugno del 1920. Dopo due mesi di combattimenti, il primo ministro italiano Giovanni Giolitti ritirò le truppe, risparmiando le vite dei soldati.
Questo risvolto non pose fine ai piani italiani per colonizzare l’Albania.
Manifestazione del Network Against Migrant Detention al porto di Shëngjin (1.12.2024) – PH: Ramiasole
“L’abbandono di Valona” nutrì il mito della “vittoria mutilata” che portò il Partito Nazionale Fascista al potere nel 1922. Mussolini co-optò il Primo Ministro albanese Ahmet Zogolli – che divenne re dell’Albania nel 1928 – attraverso accordi politici, finanziari, e militari che diedero all’Italia un ruolo predominante nel Paese.
Nel 1925, l’Italia e l’Albania siglarono accordi per la fondazione della Società per lo Sviluppo Economico dell’Albania (SVEA) e per la fondazione della Banca Nazionale d’Albania. La SVEA fu finanziata tramite un debito che Tirana contrasse con l’Italia. Gli accordi furono molto vantaggiosi per l’Italia, perché le consentirono di costruire l’infrastruttura necessaria per espandersi economicamente, politicamente e militarmente in Albania a spese degli albanesi.
I termini “semi-colonia” o “protettorato” sono utilizzati per descrivere il posizionamento dell’Albania verso l’Italia nel periodo interbellico. Migliaia di Italiani si trasferirono in Albania per lavorare nei progetti della SVEA.
La progressiva ingestione dell’Albania da parte dell’Italia fu accompagnata da una campagna propagandistica condotta da diplomatici, giornalisti e registi che perpetuarono il mito del salvatore italiano.
L’Istituto LUCE produsse decine di film in Albania per promuovere il ruolo civilizzatore dell’Italia. Il giornalista Filippo Tajani offriva consigli per gli italiani che volevano fare fortuna nella semi-colonia, affermando che l’Albania aveva un potenziale economico ancora poco sfruttato.
Sandro Giuliani, direttore de Il Popolo d’Italia, incoraggiava gli albanesi ad “aprire le porte” agli italiani, una frase che suona amaramente ironica se comparata con le attuali politiche migratorie dell’Italia. Dopo aver trasformato l’Albania in un’appendice dell’Italia, il potere di Zog svanì il 7 aprile 1939, quando l’Italia invase e annesse lo Stato vicino. La propaganda fascista giustificò l’annessione presentandola come un debito che gli albanesi dovevano all’Italia per il suo lavoro di civilizzazione.
Così come in altri contesti coloniali, il campo divenne un mezzo fondamentale per governare le popolazioni locali. Il giornalista Indro Montanelli nel suo libro Albania una e mille, scrisse che l’Albania aveva bisogno di disciplina fascista e che lo “Stato albanese“, un’espressione usata per indicare il governo di Tirana che era controllato dagli italiani, doveva essere forte e pronto allo spargimento di sangue se necessario.
I campi erano una modalità di prendersi cura coloniale e un risolutivo mezzo di civiltà. Secondo gli storici albanesi, l’Italia costruì circa venti campi di concentramento nei territori albanesi. Molti prigionieri furono internati solo sulla base del sospetto o per legami famigliari con oppositori del regime.
A Porto Romano, nei sobborghi di Durazzo, non molto lontano da Shëngjin, fu costruito il campo di concentramento “0“. Un testimone raccontava che nel campo erano detenuti oltre 2000 prigionieri tra albanesi, jugoslavi e greci. A loro venivano dati 150 grammi di pane al giorno, un po’ di brodo e mezza gavetta d’acqua. A volte erano lasciati senza niente nel caldo dell’estate.
Quelli che si lamentavano venivano picchiati e alcuni morirono per gli abusi. Mentre nella memoria collettiva italiana non si preserva quasi alcuna traccia di questi eventi, in Albania socialista il campo di Porto Romano è stato descritto nel libro di memorie Nell’inferno fascista (Në skëterrën fashiste, 1968) di Ylli Poloska e nel film Inferno 43′ (Skëterrë 43′, 1980), diRikard Ljarja.
I campi sono designati per la reclusione di persone e comunità sradicate dalle loro terre al fine di facilitare la conquista imperiale e annientare la resistenza anti-coloniale. In recenti video postati dall’amministrazione statunitense, le deportazioni hanno assunto un carattere performativo al fine di sembrare efficaci e suscitare reazioni emotive in chi guarda. Durante la Seconda Guerra Mondiale migliaia di albanesi furono deportati in campi di concentramento in Italia.
I prigionieri erano spesso fatti passare davanti alla popolazione civile italiana per provocare aggressioni razziste. Ma i campi erano anche luoghi di resistenza e mobilitazione anti-coloniale transnazionale. Nel campo di Ustica i prigionieri albanesi incontrarono l’ex sindaco di Piana degli Albanesi Francesco Cuccia il quale era stato condannato all’internamento a vita perché aveva insultato il Duce.
Cuccia, che era Arbëresh, era felice di incontrare i suoi compatrioti e condivise con loro porzioni extra di cibo. A Ustica, gli albanesi solidarizzarono con comunisti italiani e jugoslavi organizzando eventi per celebrare il primo maggio.
L’Albania riconquistò la sua indipendenza dopo la Seconda guerra mondiale, ma non riuscì a disfarsi dello stigma del povero-selvaggio-criminale-morto-di-fame. Durante la Guerra Fredda, l’Albania era vista non solo come povera, ma anche come una colonia sovietica e una minaccia per il “mondo libero“. Dopo la rottura con Mosca nel 1961, essa fu etichettata come “isolazionista“, “stalinista” e “dogmatica“.
Questi termini non erano ricavati da studi approfonditi, ma erano ispirati dalla retorica della Guerra Fredda e furono utili a perpetuare la narrazione degli albanesi come un popolo violento e primitivo.
Manifestazione del Network Against Migrant Detention al CPR a Gjader (1° dicembre 2024) – PH: Ramiasole
La storia si ripete
Come tragedia o come farsa, la storia non cesserà mai di ripetersi finché le gerarchie coloniali saranno alla base delle relazioni tra Stati e comunità. Dopo aver attivamente sostenuto la caduta del regime comunista – il cui progetto modernista riproduceva la logica del campo – l’Italia così come gli altri Paesi dell’Europa Occidentale continuarono a tenere le frontiere dell’Albania sigillate.
Le politiche neo-liberali mirano ad organizzare il mondo tramite relazioni di potere asimmetriche affinché Paesi benestanti Occidentali possano liberamente disporre dei Paesi “in via di sviluppo” e delle loro popolazioni. La funzione di quest’ultimi nel contesto globale è diventare una risorsa poco costosa per lavoro e sesso.
Ma i giovani dei ghetti non sono sempre disposti ad accettare il futuro che le Grandi Potenze si cimentano a (ri)scrivere per loro. Così come i dannati descritti Fanon, gli albanesi degli anni Novanta assalirono le cittadelle dei neo-colonizzatori squartando navi e attraversando mari.
L’Italia reagì spostando le frontiere in avanti, all’interno del territorio albanese. Nel 1991, il governo post-comunista – che era sussidiato dall’Italia e da altri Stati Occidentali – permise all’Esercito italiano di condurre una presunta missione umanitaria in Albania chiamata “Operazione Pellicano“. Il governo albanese accettò inoltre che la Marina Militare italiana controllasse le sue acque territoriali.
Nel frattempo, narrazioni razziste propagate dalle televisioni e dai giornali del Bel Paese, pompavano il mito del salvatore italiano e dell’albanese selvaggio-criminale-povero-morto-di-fame.
Gli albanesi che cercarono di andare in Italia divennero ciò che Sarah Ahmed ha chiamato “oggetti di frontiera“, e cioè persone designate ad ispirare odio, paura e disgusto al fine di consolidare l’unità nazionale e razziale. I campi divennero di nuovo il punto culminante del salvatore italiano.
Nel 1991, circa 20.000 albanesi furono rinchiusi nel vecchio stadio di Bari sotto il sole di agosto senza acqua e cibo come nel campo di concentramento “0“.
La narrazione razzista dell’albanese selvaggio-criminale-povero-morto-di-fame raggiunse l’apice nel 1997, quando l’Albania affrontò una grande crisi finanziaria e politica causata dall’introduzione dell'”economia di mercato“. Il 28 marzo 1997, circa 130 albanesi presero una barca a Valona e si diressero verso l’Italia. La Marina Militare mise in atto un blocco navale, bullizzando e uccidendo gli albanesi.
La Katër i Radës, l’imbarcazione su cui viaggiavano gli albanesi, fu speronata ed affondata dalla nave di guerra Sibilla, che era molto più grande. Il numero dei morti è incerto, ma fonti ministeriali albanesi basate sulle testimonianze dei sopravvissuti riportano 92 vittime.
I pochi che sopravvissero furono messi nei campi per migranti con migliaia di altri compatrioti. Una campagna di deportazioni di massa fu condotta in modo violento davanti alle telecamere all’inizio di dicembre del 1997.
In aprile 1997, l’Esercito italiano ritornò in Albania come membro di una più vasta operazione internazionale di peacekeeping chiamata Operation Alba che durò fino ad agosto. La presenza dei militari italiani in Albania è stata normalizzata negli anni Novanta. In quel periodo la Guardia di Finanza stabilì presidi permanenti a Durazzo e Valona.
L’abitudine alle divise italiane, è una delle ragioni per cui pochi albanesi si scandalizzarono quando Edi Rama autorizzò l’Italia a costruire campi per migranti. Gli albanesi sanno che il loro governo ha una limitata sovranità sui territori nazionali e non ha la capacità di difenderlo da aggressioni esterne.
La configurazione territoriale dell’Albania rimane revisionabile e l’Italia occuperà di nuovo il Paese nel caso emergano gravi tensioni internazionali o se dovesse scoppiare una guerra.
Manifestazione del Network Against Migrant Detention al porto di Shëngjin (1.12.2024) – PH: Ramiasole
Il colonialismo dei vegliardi
Sin dal XIX secolo gli albanesi sono stati per gli Italiani con popolo criminale con tradizioni selvagge. Questa immagine caratterizza la maggior parte dell’opinione pubblica italiana sugli albanesi, come si può notare leggendo i giornali, i commenti nei social media o guardando film recenti come Svaniti Nella Notte (Renato De Maria, 2024).
Tuttavia ultimamente l’Albania è stata rappresentata anche come un Paese che sta progredendo, soprattutto grazie all’Italia. Questa campagna mira ad incoraggiare aziende italiane ad “investire” in Albania al fine di approfittare dei bassi costi di produzione.
L’Italia è orgogliosa e gelosa di essere il primo partner commerciale dell’Albania grazie all’alto numero di scambi commerciali ed alle presunte 3000 aziende italiane che operano nel Paese vicino. I tentativi dell’Italia di migliorare la percezione pubblica dell’Albania si sono intensificati dopo la firma dell’accordo per la costruzione dei campi per convincere le masse elettorali che l’Albania è un partner affidabile.
Il Giro d’Italia del 2025 era parte di questa attività promozionale. La RAI ha mostrato l’Albania come un luogo esotico per possibili vacanzieri italiani.
La politica dell’Italia è sostenuta da politici, uomini d’affari e giornalisti albanesi per i loro interessi personali con un grado di servilismo tale da mettere in imbarazzo anche le stesse autorità italiane. La “trattoria Meloni” a Shëngjin e i gesti di sottomissione che Edi Rama mette in atto ogni volta che vede la sua omologa italiana sono i casi più emblematici. Un nuovo picco di servilismo è stato raggiunto nel programma Realitete Shqiptaro-Italiane (Realtà italo-albanesi).
Trasmesso dalla TV nazionale RTSH, il programma è il tentativo più degradante di disseminare il mito del salvatore italiano che abbia mai visto. Il programma inizia con una raccapricciante foto di Rama e Meloni dopo la firma del “protocollo” che autorizzò la costruzione dei campi.
Lo scopo di ogni episodio o puntata come vengono definite dal presentatore nel tentativo di italianizzare il vocabolario albanese, è rappresentare l’Italia come il Paese che sta portando l’Albania in Europa.
L’Albania è descritta come un Paese sicuro per aziende italiane e pensionati che beneficiano di un regime di tassazione ridotta. Il programma sembra suggerire che nel XXI secolo, i tipici coloni italiani non sono più giovani lavoratori, di cui peraltro l’Italia scarseggia anche in virtù di questioni demografiche. Ma sono soprattutto cittadini anziani alla ricerca di tranquillità e di servizi dentistici a buon mercato.
Il presentatore albanese trascura il carattere violento e sfruttatore delle passate politiche dell’Italia in Albania. Evita inoltre di menzionare il trattamento brutale riservato ai migranti albanesi dalle autorità italiane e non fa parola dei campi di Gjadër e Shëngjin. Ovviamente non parla nemmeno delle torture che i migranti devono sopportare ogni giorno in campi simili in Italia.
Queste forme di “civiltà” europea che l’Italia ha esportato in Albania sin dal XIX secolo non hanno posto nella sua favoletta. Invece di dar voce alle migliaia di albanesi che vivono e lavorano in Italia da molti anni e sono trattati come cittadini di seconda classe perché non gli vengono concessi i documenti o la cittadinanza, il presentatore fantastica sull’esistenza di un popolo “italo-albanese” che a suo avviso starebbe emergendo grazie a famiglie di origine mista.
La sua narrativa è molto simile a quella del regime di occupazione negli anni 1939-1943 che dipingeva l’annessione dell’Albania come una volontaria “unione di destini“. Ma questa favola è smontata da alcuni intervistati. Una ragazza albanese nata in Italia afferma che i sui genitori ebbero una vita difficile per il modo in cui erano trattati dagli italiani. Una pensionata italiana dice di sperare che l’Albania non diventi mai come l’Italia che è stata svenduta.
Nella sezione di commenti delle pagine YouTube dove sono caricati i video del programma, alcuni accusano il giornalista di aver tradito il suo Paese e di fare propaganda per l’Italia.
Porto di Shëngjin (1° dicembre 2024) PH: Simone Rosa
Violenza e anima coloniale
Nel passato come nel presente i campi sono solo una parte del progetto espansionista italiano in Albania e non devono essere considerati separatamente. Il controllo dei corpi e la necessita di disciplinarli tramite mezzi di terrore e violenza sono direttamente legati alle politiche economiche per la produzione di energia e di armi che l’Italia ha intrapreso nella regione.
Nel gennaio 2025, Italia, Albania ed Emirati Arabi Uniti hanno siglato un accordo per lo sviluppo di progetti che puntano a trasformare l’Albania in un luogo per la produzione di energie “rinnovabili” da trasferire in Italia. In quell’occasione, Giorgia Meloni ha parlato della necessità di considerare l’energia atomica facendo ipotizzare l’avvio di negoziati la costruzione di centrali nucleari italiane in Albania.
L’8 aprile, Fincantieri e l’agenzia di Stato albanese per la produzione di armi Kayo hanno siglato un “Memorandum of Understanding” per la costruzione di navi da guerra. In una recente intervista con il giornalista albanese Blendi Fevziu, il nuovo ambasciatore Italiano a Tirana Marco Alberti, ha annunciato che la più grande azienda Italiana produttrice di armi Leonardo, sta per arrivare in Albania.
Similmente alla propaganda condotta dall’Italia nel periodo interbellico, Alberti pensa che il potenziale dell’Albania non è ancora sfruttato a dovere. L’arrivo dell’industria militare italiana è inserita all’interno di un discorso che mostra come l’Italia stia portando l’Albania più vicina all’UE.
I campi di Gjadër e Shëngjin sono la continuazione di una storia di espansione imperialista, morbosa cura coloniale e disciplina fascista. I campi di concentramento della Seconda Guerra mondale e i più recenti campi per migranti non sono il risultato di politiche contingenti necessarie per affrontare eventi eccezionali come un conflitto globale o una “crisi migranti“.
La costruzione dei campi è la proiezione della coscienza imperialista Occidentale e il prodotto dell’addomesticamento dello spazio albanese. Il rapporto coloniale non è qualcosa che va è viene; non è uno spirito errante, ma un’anima che risiede all’interno relazioni italo-albanesi.
La storia dell’Italia verso l’Albania è una storia di colonizzazione, mentre la storia dell’Albania verso l’Italia è una storia di resistenza. I campi sono la concrezione di questo rapporto dialettico.
Nota: Una prima versione di questo articolo è stata presentata nella conferenza “Coloniality and Migration Governance” organizzata dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Palermo il 26 e il 27 maggio 2025.
Sono ricercatore e curatore cinematografico, co-fondatore del Festival del Cinema Albanese “Albania si Gira” che si tiene a Roma. Mi occupo principalmente di narrazioni balcaniche e postcoloniali, temi che esploro attraverso pubblicazioni accademiche e progetti come Kinostories a Bruxelles. Collaboro con l’Istituto di Storia dell’Accademia Bulgara delle Scienze e ho scritto per riviste e piattaforme come Nationalities Papers, Black Camera, Hope Not Hate e Balkan Insight. Faccio parte della comunità di esperti dell’EU Knowledge Hub on the Prevention of Radicalisation ↩︎