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Appello di docenti, ricercatori e ricercatrici universitari/e per la liberazione di Mohamed Shahin
Mohamed Shahin è trattenuto nel CPR di Caltanissetta e a rischio di espulsione verso l’Egitto, Paese in cui sarebbe esposto al rischio concreto di persecuzioni, detenzione arbitraria e persino alla pena di morte. La sua colpa è di essersi mobilitato a fianco del popolo palestinese e di aver pronunciato delle opinioni, poi ritrattate, ritenute sufficienti dal ministero dell’Interno per disporre la revoca del suo permesso di soggiorno, il trattenimento e l’avvio della procedura di espulsione. Attorno alla vicenda di Mohamed Shahin si è mobilitata una vasta rete di realtà sociali, religiose e politiche torinesi e non solo, che sono scese in piazza per chiedere la sua liberazione ricordando come la moschea di via Saluzzo, da lui guidata, sia da sempre un presidio di apertura, cooperazione e dialogo interculturale. Si è mossa anche la comunità accademica, che ha pubblicato un appello per la sua liberazione: «Noi docenti, ricercatori e ricercatrici delle università italiane esprimiamo profonda preoccupazione per la situazione di Mohamed Shahin, imam della moschea Omar Ibn al-Khattab di Torino, attualmente trattenuto nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Caltanissetta a seguito di un decreto di espulsione emesso dal Ministero dell’Interno. La revoca del suo permesso di soggiorno di lungo periodo, e il conseguente rischio di rimpatrio forzato in Egitto, sollevano interrogativi gravi sul rispetto dei diritti fondamentali della persona. È noto che il sig. Shahin, prima del suo arrivo in Italia oltre vent’anni fa, era considerato oppositore politico del regime egiziano. La prospettiva di un suo ritorno forzato in Egitto lo esporrebbe concretamente a rischi di persecuzione, detenzione arbitraria e trattamenti inumani. Le motivazioni alla base della revoca del permesso appaiono collegate alle sue dichiarazioni pubbliche sulla situazione a Gaza e alle sue posizioni critiche rispetto all’operato del governo israeliano. Se così fosse, ci troveremmo di fronte a un precedente estremamente preoccupante: l’uso di strumenti amministrativi per colpire l’esercizio della libertà di opinione, tutelata dall’articolo 21 della Costituzione e da convenzioni internazionali cui l’Italia aderisce. Casi analoghi, registrati negli ultimi anni, confermano una tendenza a sanzionare cittadini stranieri per opinioni politiche o per manifestazioni di solidarietà nei confronti del popolo palestinese. L’impiego dei CPR in questo quadro rischia di trasformarsi in una forma di repressione indiretta del dissenso e di limitazione arbitraria dello spazio democratico. È importante ricordare che Mohamed Shahin è da lungo tempo impegnato in pratiche di dialogo interreligioso e cooperazione sociale. Numerose comunità religiose, associazioni civiche e gruppi interconfessionali hanno pubblicamente attestato il suo contributo alla costruzione di relazioni pacifiche tra diverse componenti della città di Torino, evidenziando la natura collaborativa e aperta della sua attività. In particolare, la Rete del dialogo cristiano islamico di Torino, in un comunicato indirizzato al Presidente delle Repubblica e al Ministro dell’Interno, ha evidenziato il ruolo centrale di Mohamed Shahin nel dialogo interreligioso e nella vita associata del quartiere San Salvario. Alla luce di tutto ciò, riteniamo indispensabile un intervento immediato per garantire il pieno rispetto dei principi costituzionali, della Convenzione di Ginevra e degli obblighi internazionali dell’Italia in materia di diritti umani e protezione contro il refoulement. Chiediamo pertanto: * La liberazione immediata di Mohamed Shahin e la sospensione dell’esecuzione del decreto di espulsione. * La revisione del provvedimento di revoca del permesso di soggiorno di Mohamed Shahin, garantendo un esame imparziale e conforme agli standard giuridici nazionali e internazionali. * La tutela del diritto alla libertà di espressione in ambito accademico, culturale e religioso, indipendentemente dalla provenienza o dalla fede delle persone coinvolte. * La chiusura dei CPR, luoghi di lesione dei diritti umani. Come docenti e ricercatori riconosciamo la responsabilità civica dell’università nel difendere i valori democratici, promuovere il pluralismo e opporci a ogni forma di discriminazione o compressione illegittima delle libertà fondamentali». Clicca qui per firmare e leggere le adesioni
“Il libro che non C.I.E.” di Sunjay Gookooluk
Ventisei anni da “clandestino” nel nostro paese. È la storia di Sunjay Gookooluk, cittadino mauriziano arrivato nel nostro Paese e rimasto intrappolato in un’esistenza segnata dalla precarietà: la strada, il lavoro irregolare, il carcere. Un percorso di vita che, anziché spegnerlo, lo ha spinto a trasformare la scrittura in uno strumento di resistenza. Gookooluk ha cominciato a scrivere a Rebibbia, dove ha partecipato a concorsi letterari e conseguito due titoli di studio: un diploma di ragioneria e uno da artigiano mosaicista. Ma la parte più importante della sua produzione nasce nel luogo più inospitale e invisibile del sistema italiano: il Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Ponte Galeria, a Roma, dove è stato recluso due volte. Nel CPR – l’ex CIE, simbolo di una detenzione che non è penale ma amministrativa, e che proprio per questo sfugge alla tutela giudiziaria ordinaria – Gookooluk ha scritto di nascosto. Fogli, quaderni, penne: tutto doveva essere celato agli occhi degli operatori e delle forze dell’ordine. Ne è nato un diario che racconta dall’interno ciò che raramente arriva al grande pubblico: le condizioni di vita, le umiliazioni quotidiane, il senso di sospensione e di abbandono che caratterizza questi luoghi. Quel materiale, dopo anni di lavoro editoriale, diventa finalmente un libro: “Il libro che non C.I.E. – Racconto dall’inferno di un centro di detenzione amministrativa italiano”, in uscita per la casa editrice Sensibili alle Foglie. Le curatrici e i curatori del volume sottolineano la lunga e complessa gestazione dell’opera, che ha richiesto tempo e attenzione per rispettare la forza e la vulnerabilità di una testimonianza unica nel panorama italiano. Ora, con il progetto editoriale ultimato, la pubblicazione necessita di un sostegno economico: parte una raccolta fondi per coprire le spese e permettere al libro di vedere la luce. “Ora abbiamo bisogno di un aiuto economico per coprire i costi di pubblicazione. Aiutaci a sostenere le spese!”, è l’appello che accompagna la richiesta. L’opera di Sunjay Gookooluk rappresenta una delle rare testimonianze letterarie prodotte all’interno di un CPR: dare voce a chi temporaneamente ne rimane imprigionato significa contribuire a un dibattito pubblico più consapevole sulla detenzione amministrativa in Italia. E questa pubblicazione può diventare un’occasione non solo per ascoltare una storia, ma per continuare a fare pressione per la chiusura di tutti i centri detentivi.
Il trattenimento in frontiera in una continua mutazione giuridica
Il 15 dicembre 2025 dalle 9.30 alle 16.30, presso Cre.Zi. Plus a Palermo, le associazioni ASGI, CLEDU e Spazi Circolari organizzano una giornata di formazione e confronto dedicata all’evoluzione del trattenimento in frontiera. La giornata offrirà una panoramica aggiornata sulle trasformazioni in corso nel sistema delle procedure di frontiera e delle misure di trattenimento, in un contesto segnato da sperimentazioni, frequenti interventi legislativi e dai prossimi cambiamenti legati alla riforma europea del diritto d’asilo. Il confronto attraverserà il caso dei centri in Albania, le prassi attualmente adottate negli hotspot siciliani, il ruolo del/della difensore/difensora e gli sviluppi giurisprudenziali, fino ai nodi costituzionali e ai limiti posti dal diritto UE a tutela della libertà personale. Nel corso della giornata si alterneranno interventi di esperti ed esperte del settore e momenti di discussione collettiva, con l’obiettivo di riflettere insieme sul ruolo del trattenimento e condividere strumenti di analisi, criticità emergenti e possibili scenari futuri utili a chi opera nella tutela dei diritti in frontiera. PROGRAMMA Moderano: Martina Ciardullo e Ginevra Maccarrone 09:30 – Il trattenimento in frontiera nei centri in Albania: resoconto storico-giuridico di una vicenda emblematica. Daniele Valeri e Riccardo Campochiaro 10:00 – La procedura di frontiera nelle ultime modifiche normative: i requisiti, le conseguenze e il ruolo del trattenimento. Giulia Crescini 10:25 – L’attuale applicazione delle procedure di frontiera e del trattenimento in frontiera in Sicilia. Laura Lo Verde e Elena Luda 10:50 – L’esercizio del diritto di difesa in frontiera e l’evoluzione giurisprudenziale in tema di procedure accelerate. Relatore: Salvatore Fachile 11:10 – Primo dibattito 11:50 – La finzione di non ingresso introdotta dal Dl 20/23 nella procedura di non ingresso: la funzione e i possibili scenari futuri. Iolanda Apostolico 12:15 – La riforma europea del diritto di asilo: il trattenimento sistemico nei nuovi Regolamenti Screening e Procedure e nella nuova Direttiva Accoglienza. Federica Remiddi 12:40 Secondo dibattito 13:00 – 14:00: Pausa pranzo Inizio lavori seconda sezione, moderano: Luce Bonzano e Martina Stefanile 14:15 – I limiti invalicabili alla libertà personale nei principi fondanti la Costituzione italiana e il diritto primario europeo. Loredana Leo e Mario Serio 15:00 – Terzo dibattito 16:00 – Conclusione dei lavori ISCRIZIONI La partecipazione è gratuita, con iscrizione tramite modulo online entro la data del 10 dicembre. L’evento si terrà presso il Cre.Zi. Plus in Via Paolo Gili, 4, 90138, Cantieri Culturali alla Zisa. La formazione è in fase di accreditamento presso il COA di Palermo. Per ulteriori informazioni: inlimine@asgi.it Clicca qui per l’iscrizione L’evento sarà trasmesso anche su YouTube.
Il governo spagnolo apre due centri di detenzione per migranti in Mauritania
PABLO FERNÁNDEZ, JOSÉ BAUTISTA, FUNDACIÓN PORCAUSA Questa inchiesta, pubblicata da El Salto, ricostruisce la recente apertura di due centri di detenzione per persone migranti in Mauritania da parte del governo spagnolo, analizzando gli accordi, i finanziamenti e le implicazioni delle politiche migratorie esternalizzate. Ringraziamo la redazione di El Salto 1 e gli autori dell’inchiesta per averci concesso l’autorizzazione a tradurre e pubblicare il loro lavoro in italiano. La traduzione è stata curata da Juan Torregrosa. Entrambi i centri di detenzione sono stati costruiti dall’agenzia di cooperazione spagnola FIAP, del Ministero degli Affari Esteri, e riservano spazi e persino culle per privare della libertà anche i migranti minorenni. Dizionario della RAE: Carcere: 1.f. Luogo destinato alla detenzione dei prigionieri. Dal 17 ottobre scorso la Mauritania dispone di due nuovi centri di detenzione per migranti, uno situato a Nouakchott, capitale del Paese, e l’altro a Nouadhibou, al confine con il Sahara occidentale occupato illegalmente dal Marocco. Entrambi i centri sono stati avviati dalla Fondazione per l’Internazionalizzazione delle Amministrazioni Pubbliche (FIAP), un’agenzia di cooperazione del governo spagnolo che dipende dal Ministero degli Affari Esteri. Le autorità spagnole affermano che questi spazi sono ispirati ai Centri di Assistenza Temporanea per Stranieri (CATE) delle Isole Canarie e ammettono che, a differenza della Spagna, priveranno della libertà anche i minori, compresi i neonati in fase di allattamento, cosa che la legislazione spagnola proibisce. Una fonte spagnola coinvolta nella creazione di questi centri afferma che, nonostante il loro nome ufficiale, “si tratta ovviamente di centri di detenzione” e precisa che i bambini saranno trattenuti lì solo se accompagnati da un familiare. Due fonti mauritane confermano questa affermazione. La FIAP, il governo mauritano e la Delegazione dell’Unione Europea in Mauritania non rispondono a nessuna delle domande formulate per questo articolo. Il centro di detenzione costruito dal governo spagnolo a Nouakchott dispone di almeno 107 posti, comprese due culle per neonati, secondo i documenti della FIAP a cui ha avuto accesso questa indagine, mentre quello di Nouadhibou avrà almeno 76 posti, oltre ad altre due culle. I lavori e le forniture per la realizzazione di questi edifici sono stati finanziati con fondi spagnoli e del Fondo fiduciario di emergenza dell’Unione Europea, attraverso il progetto di polizia Associazione Operativa Congiunta (POC, acronimo francese), guidato dalla FIAP. Il presidente della Repubblica Islamica di Mauritania, Mohamed Ould El Ghazouani, accoglie il presidente Pedro Sánchez all’aeroporto di Nouakchott. Fernando Calvo MONCLOA LA SPAGNA ESTERNALIZZA I PROPRI CONFINI IN MAURITANIA Per comprendere la storia dietro le carceri per migranti che la Spagna ha aperto in Mauritania, bisogna risalire al 15 maggio 2024, quando 15 governi dell’Unione Europea hanno inviato una lettera alla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, chiedendo di seguire l’esempio di Giorgia Meloni, presidente del governo italiano, che ha avviato un centro di detenzione per migranti in Albania. Il governo spagnolo non ha firmato quella missiva, ma una settimana prima, l’8 maggio 2024, aveva assegnato all’impresa edile CADG i lavori per allestire due centri di detenzione per migranti in Mauritania. Tre mesi dopo, nell’agosto 2024, il presidente spagnolo e la presidente europea si sono recati in Mauritania e hanno promesso di inviare oltre 500 milioni di euro al governo militare del generale Mohamed Ould El Ghazouani. > La FIAP non specifica se abbia messo in atto alcun meccanismo o protocollo per > impedire alle autorità mauritane di maltrattare e torturare i detenuti. Negli ultimi anni, l’esecutivo presieduto da Pedro Sánchez ha anche aumentato il trasferimento di intelligence e attrezzature di polizia al regime mauritano con l’obiettivo di reprimere la partenza di imbarcazioni dirette alle Isole Canarie. Questo subappalto del controllo migratorio a paesi terzi, noto come “esternalizzazione delle frontiere” e attuato attraverso la FIAP, ha portato la Mauritania a raddoppiare i raid per arrestare i migranti. Agenti della Guardia Civil e della Polizia Nazionale Spagnola dispiegati nel paese partecipano a queste operazioni, che includono perquisizioni domiciliari senza autorizzazione giudiziaria e arresti arbitrari per motivi razziali. L’apertura di due centri di detenzione per migranti ha comportato una spesa totale di almeno 1.080.625 euro di fondi europei, secondo i documenti ufficiali a cui ha avuto accesso questa indagine. Tutti i contratti sono stati assegnati senza gara pubblica da parte della FIAP e hanno beneficiato di finanziamenti europei. La Mauritania è diventata una delle priorità finanziarie della FIAP in coincidenza con l’aumento del flusso migratorio sulla “rotta delle Canarie”. Senza andare oltre, il 1° novembre questa agenzia ha erogato 160.000 euro (senza gara d’appalto) per acquistare un numero indeterminato di veicoli 4×4 e droni con visori notturni per la polizia mauritana. In una comunicazione della FIAP successiva alla pubblicazione di questo articolo, l’agenzia nega categoricamente che l’appalto sia stato aggiudicato senza gara pubblica e sostiene che i contratti sono stati aggiudicati con “procedura pubblica” in base alla prima disposizione aggiuntiva della legge sugli appalti pubblici che regola i contratti all’estero. Questa agenzia di cooperazione del Ministero degli Affari Esteri, coinvolta nello scandalo di corruzione noto come “caso Mediador” o “caso Tito Berni”, non specifica se abbia messo in atto alcun meccanismo o protocollo per impedire alle autorità mauritane di maltrattare e torturare i detenuti, né fornisce il regolamento che ne disciplinerà il funzionamento. Sul suo sito web, la FIAP riconosce che questi centri contribuiranno a “determinare se [i migranti detenuti] sono vittime di tratta, minori non accompagnati, persone vulnerabili o richiedenti protezione internazionale” e assicura che i detenuti rimarranno in custodia per un massimo di 72 ore. Questa agenzia di cooperazione spagnola non ha risposto a nessuna delle domande poste, sostenendo che porCausa non è un mezzo di comunicazione. Inaugurazione del centro di detenzione per migranti a Nouakchott (Mauritania) – Foto Delegazione dell’UE in Mauritania L’inaugurazione di entrambi gli spazi ha avuto luogo lo scorso 17 ottobre alla presenza di agenti della Polizia Nazionale spagnola, rappresentanti dell’Unione Europea e del ministro dell’Interno mauritano. La Spagna conta più di 80 funzionari e agenti della Guardia Civil, della Polizia Nazionale e del CNI dispiegati in modo permanente in Mauritania. Tre fonti con accesso a questi centri di detenzione affermano che le carceri per migranti della FIAP in Mauritania sono già pronte ma non sono ancora entrate in fase operativa, quindi nessun migrante detenuto avrebbe pernottato in esse per il momento. Inizialmente era prevista anche la partecipazione all’inaugurazione del commissario Abdel Fattah, capo dell’Ufficio per la lotta contro l’immigrazione clandestina e la tratta di esseri umani della polizia mauritana. Fattah, incaricato di ricevere e gestire i dispositivi per il controllo dei flussi migratori che la Spagna fornisce alla Mauritania attraverso la FIAP, alla fine non ha partecipato alla cerimonia perché è stato sollevato dal suo incarico dopo che si è scoperto che riceveva tangenti dai trafficanti di esseri umani che organizzano i cayucos dirette alle Canarie, in cambio di informazioni errate fornite alla Guardia Civil, come rivelato da un’indagine di porCausa e dai quotidiani El País e Le Monde. Nel 2022 Fattah è stato insignito della medaglia al merito di polizia dal ministro dell’Interno, Fernando Grande-Marlaska. Questo ufficiale della polizia mauritana, cugino dell’ex presidente Mohamed Ould Abdel Aziz, è libero e non ha accuse a suo carico. Il commissario mauritano destituito, Abdel Fattah, riceve la medaglia al merito di polizia dalle mani del ministro dell’Interno, Fernando Grande-Marlaska, nel 2022. PH: Agenzia Mauritana di Informazione LE AZIENDE COINVOLTE Falcon Consultores, la società che ha redatto lo studio tecnico di queste carceri, non ha risposto alle domande poste per questo articolo. CADG, che ha realizzato i lavori e fornito anche arredi e attrezzature, sottolinea di avere “regole severe” per evitare pratiche corrotte e conflitti di interesse in conformità con le “norme etiche internazionali” e chiede di risolvere le questioni relative a queste carceri per migranti con la FIAP. In Mauritania entrambe le società sono anche aggiudicatrici di diversi contratti di TRAGSA, un’azienda di proprietà dello Stato spagnolo. Da quando Pedro Sánchez è arrivato alla Moncloa, TRAGSA è responsabile di diversi contratti relativi al controllo dell’immigrazione, come i lavori di ammodernamento delle recinzioni di confine di Ceuta e Melilla. Essendo costituita come società privata, i giornalisti non possono richiedere informazioni sui suoi contratti e sulle sue attività ai sensi della legge sulla trasparenza. In risposta alle domande poste, TRAGSA riconosce di aver ricevuto «un incarico dalla FIAP per la realizzazione del progetto costruttivo e l’esecuzione dei lavori dei centri di detenzione temporanea a Nouakchott e Nouadhibou» e chiarisce che successivamente, su richiesta della FIAP, «è stato deciso» e alla fine non ha eseguito tali lavori. FIAP sostiene che la risoluzione del contratto sia avvenuta in termini amichevoli e ha inviato il fascicolo che lo dimostra successivamente alla pubblicazione dell’articolo su El Salto. Il team di giornalisti che ha redatto questa informazione ha inviato alcune domande anche alle autorità della Mauritania, tramite il Ministero dell’Interno e l’ambasciata a Madrid. Il governo mauritano non ha risposto a nessuna delle domande poste né ha chiarito cosa intende fare con i migranti privati della libertà nelle due prigioni costruite dalla Spagna. ABBANDONI NEL DESERTO SPONSORIZZATI DALLA SPAGNA E DALL’UE Il regime mauritano effettua retate – con il sostegno e le informazioni fornite dalla Guardia Civil, dalla Polizia Nazionale e dal CNI – per arrestare arbitrariamente persone di colore, compresi bambini in età lattante. Le autorità mauritane utilizzano quad, veicoli 4×4, droni e dispositivi tecnologici forniti dalla FIAP per effettuare questi arresti. I migranti arrestati vengono privati di tutti i loro effetti personali (compresi documenti d’identità e telefoni), condotti in carcere e sottoposti a soggiorni di diversi giorni in condizioni disumane, senza cibo, acqua né accesso ai servizi igienici. Almeno due agenti della Polizia Nazionale spagnola si recano settimanalmente in questi centri, a Nouakchott e Nouadhibou, per rilevare le impronte digitali e scattare fotografie ai detenuti. L’ottenimento di questi dati non è banale: dal 2003 la Spagna e la Mauritania hanno un accordo in base al quale le autorità spagnole possono espellere cittadini di paesi terzi verso la Mauritania. > Ogni settimana la Polizia Nazionale spagnola di stanza in Mauritania riceve > liste con i nomi e cognomi delle persone che gli agenti mauritani abbandonano > in zone remote. Infine, i detenuti vengono abbandonati in zone remote come Gogui, al confine desertico con il Mali, un territorio con un’alta presenza dell’organizzazione jihadista JNIM, affiliata ad Al Qaeda nel Sahel. Tra i migranti che subiscono questi abbandoni nel deserto spiccano persone con profilo di richiedenti asilo in fuga dalla guerra in paesi come il Mali o il Niger e dalla violenza politica in nazioni come la Guinea Conakry. Ogni settimana la Polizia Nazionale spagnola di stanza in Mauritania riceve liste con i nomi e cognomi delle persone che gli agenti mauritani abbandonano in zone remote. Le prove a sostegno di queste informazioni sono contenute in un’inchiesta giornalistica coordinata da Lighthouse Reports, con la partecipazione di porCausa, e in un ampio rapporto dell’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch. L’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni sono a conoscenza di questi abusi, secondo documenti interni a cui porCausa ha avuto accesso. Tra queste vittime ci sono giovani come Sady Traoré, un giovane musicista maliano fuggito da Bamako (Mali) dopo aver ricevuto minacce per aver organizzato concerti contro il colpo di Stato militare nel suo Paese. Traoré ha deciso di stabilirsi temporaneamente in Mauritania, ma dopo essere stato abbandonato due volte nel deserto dalle forze mauritane, ha deciso di emigrare in Spagna. Questo giovane è arrivato alle Canarie nel gennaio 2024 e da allora non ha potuto esercitare il suo diritto di chiedere asilo. Traoré attualmente dorme sotto un ponte in una località vicino a Valencia e sopravvive svolgendo lavori occasionali come bracciante nel settore agricolo. Il Comitato spagnolo di aiuto ai rifugiati (CEAR) sta cercando di aiutarlo a ottenere un appuntamento per richiedere l’asilo. -------------------------------------------------------------------------------- Fundación porCausa Il giornalismo è una professione rischiosa in Mauritania. Un professionista dell’informazione che ha collaborato a questo reportage ha deciso di non firmare per paura di ritorsioni. Per motivi di sicurezza, questa informazione omette anche il nome e i dettagli di diverse fonti umane, tra cui diversi migranti vittime di questo schema e una mezza dozzina di funzionari delle forze di sicurezza spagnole e mauritane. Questa indagine è stata condotta con il sostegno del Pulitzer Center. La Fondazione porCausa è un’organizzazione indipendente di giornalismo e ricerca sulle migrazioni. Il lavoro di porCausa è reso possibile dalla sua comunità di soci. Anche tu puoi unirti a noi tramite questo link. Se desideri inviare informazioni sensibili a porCausa o El Salto, contattaci tramite Signal senza rivelare la tua identità al seguente numero di telefono: +33 7 81 52 99 58. 1. El Salto è un progetto di circa 200 persone e oltre 10.000 soci, che promuove un giornalismo radicalmente diverso: indipendente, autogestito, orizzontale e assembleare. È un medium democratico, a proprietà collettiva, decentralizzato e finanziato dalla comunità, non da grandi corporazioni. Il suo obiettivo principale è contribuire alla trasformazione sociale attraverso giornalismo di qualità, analisi, inchiesta e anche umorismo ↩︎
Il caso Moussa Baldé e la violenza strutturale della detenzione amministrativa
La vicenda di Moussa Baldé ha messo ancora una volta in luce la violenza radicata nei CPR, rivelando come la deumanizzazione sia la regola all’interno di queste strutture e sottolineando l’urgenza di continuare a lottare contro ogni forma di razzismo sistemico e istituzionale. In questa intervista, l’Avvocato Gianluca Vitale, che assiste la famiglia di Moussa e segue il processo in corso, ricostruisce le responsabilità istituzionali, le omissioni e le violenze – anche invisibili – che hanno trasformato una vittima in un “irregolare” da espellere, fino all’isolamento e al suicidio. Una testimonianza indispensabile per comprendere non solo ciò che è accaduto a Moussa, ma ciò che accade ogni giorno nei CPR. PH: Stop CPR Roma QUALI SONO LE CIRCOSTANZE CHE HANNO PORTATO MOUSSA BALDÉ A ESSERE RINCHIUSO NEL CPR DI TORINO, SOPRATTUTTO DOPO AVER SUBITO UNA VIOLENTA AGGRESSIONE? Subito dopo l’aggressione, Moussa – pur essendo la vittima di un reato – è tornato a essere considerato semplicemente un “clandestino”, da trattare come tale: quindi da rinchiudere ed espellere. Era arrivato in Italia qualche anno prima e aveva chiesto la protezione internazionale, un passaggio quasi obbligato per chi entra nel Paese senza reali canali di ingresso regolare. Aveva iniziato un percorso molto positivo: parlava bene italiano e partecipava ad attività con gruppi antirazzisti. Col tempo, però, l’attesa infinita e l’incertezza sul suo futuro hanno incrinato questo equilibrio. Non sapendo se la sua domanda sarebbe mai stata accolta, aveva tentato di raggiungere la Francia, ma era stato respinto. Da lì era iniziata una vita ai margini, fino a perdere il permesso di soggiorno e diventare irregolare. Poi l’aggressione davanti a un supermercato di Ventimiglia. Dopo quel fatto, Moussa è stato fermato dalla polizia che, accertata la sua irregolarità, lo ha consegnato all’ufficio immigrazione. Da lì è iniziato il percorso verso il CPR. COSA SAPPIAMO DELL’AGGRESSIONE SUBITA DA MOUSSA A VENTIMIGLIA? CI SONO INDAGINI IN CORSO SU QUELL’EPISODIO DI VIOLENZA? Il video dell’aggressione, ripreso da una residente, è circolato rapidamente online. I tre aggressori italiani, temendo di essere riconosciuti, si sono presentati spontaneamente alla polizia e sono stati denunciati a piede libero. Moussa, invece, è finito al CPR. Gli aggressori hanno tentato di sostenere di essersi solo difesi, accusando Moussa di averli aggrediti, ma il processo ha poi smentito questa versione. Il giorno successivo, mentre il video suscitava interrogativi e molti parlavano già di un’aggressione a sfondo razzista, la polizia ha diffuso una dichiarazione in cui escludeva motivazioni razziali, avallando la tesi – priva di riscontri – della presunta “precedente aggressione”. Il processo, celebrato a Imperia, si è concluso con la condanna dei tre aggressori a due anni di reclusione con sospensione condizionale della pena. Anche in quella sede la Procura ha deciso di non contestare l’aggravante dell’odio etnico, nonostante un’aggressione del genere non possa che evocare, almeno, un evidente rapporto di superiorità degli aggressori sulla vittima. SECONDO LEI, MOUSSA AVREBBE DOVUTO ESSERE TRATTENUTO IN UN CENTRO DI DETENZIONE, CONSIDERANDO LE SUE CONDIZIONI PSICOLOGICHE E FISICHE DOPO L’AGGRESSIONE? Una volta classificato come straniero irregolare, Moussa ha perso ogni riconoscimento della sua condizione di vittima, e la sua vulnerabilità non è stata minimamente considerata. Avrebbe avuto diritto a essere ascoltato, a presentare denuncia, forse a chiedere un permesso per motivi di giustizia. Aveva bisogno di supporto. Ma nessuno gli ha spiegato nulla. In commissariato gli è stato semplicemente chiesto se volesse denunciare l’aggressione, senza chiarire cosa comportasse. Impaurito e confuso, ha detto di voler solo essere lasciato in pace. Da lì è stato trasferito all’ufficio immigrazione, sempre senza capire cosa gli stesse accadendo. È arrivato al CPR in uno stato di grande fragilità, senza comprendere le ragioni della sua detenzione. È stato quasi subito messo in isolamento, perché presentava delle lesioni cutanee e gli altri detenuti temevano potesse essere scabbia. La soluzione più comoda – anche per evitare tensioni interne – non è stata quella di verificare se fosse psicologicamente idoneo alla detenzione o, in caso contrario, rilasciarlo. Né di spiegare agli altri detenuti che non correvano alcun rischio. Si è preferito isolarlo in una cella, da solo, “eliminando” il problema. Di fatto, non gli è stata garantita alcuna assistenza né supporto psicologico. QUALI RESPONSABILITÀ AVEVANO LA DIREZIONE DEL CPR E IL PERSONALE MEDICO NEI CONFRONTI DI MOUSSA – E DOVE RITIENE CHE ABBIANO FALLITO? Una recente sentenza del Consiglio di Stato ha annullato il capitolato nazionale di gestione dei CPR proprio perché carente nell’assistenza sanitaria e psicologica e privo di protocolli dedicati al rischio suicidario. La stessa sentenza ribadisce che, al di là delle lacune dell’appalto, gli enti privati che gestiscono i CPR hanno comunque l’obbligo di garantire la salute psicofisica delle persone trattenute. Approfondimenti/CPR, Hotspot, CPA CPR, IL CONSIGLIO DI STATO CONFERMA: VIOLATO IL DIRITTO ALLA SALUTE DEI TRATTENUTI Una sentenza che svela la patogenicità della detenzione amministrativa Avv. Arturo Raffaele Covella 11 Novembre 2025 Questo, per Moussa e per molti altri, non è stato fatto. La valutazione dell’idoneità al trattenimento, ad esempio, si limita a verificare l’assenza di malattie contagiose e la capacità della persona di vivere in una comunità – non in “quel tipo” di comunità, cioè un luogo di detenzione, ma in una comunità generica. In pratica, ci si concentra quasi esclusivamente sull’eventuale presenza di gravi malattie infettive, senza prestare alcuna attenzione alle condizioni psichiche della persona migrante. Oltre a non riconoscere né considerare quella vulnerabilità, né a fornire alcun tipo di supporto, Moussa è stato anche isolato, lasciato da solo in una condizione di ulteriore abbandono, che non poteva che accrescere il rischio di comportamenti autolesivi. CREDE CHE IL SUICIDIO DI MOUSSA POTESSE ESSERE EVITATO CON UN ADEGUATO SUPPORTO MEDICO E PSICOLOGICO? Un’adeguata presa in carico psicologica avrebbe certamente potuto aiutare Moussa a superare quel momento di estrema fragilità. Ma garantire davvero questo tipo di supporto, all’interno del centro, avrebbe richiesto attività di monitoraggio e osservazione costante: un impegno ulteriore che non è stato messo in campo. Al contrario, Moussa è stato collocato da solo nella cella di isolamento, senza alcun sostegno. Quella cella, situata nei cosiddetti “ospedaletti” e separata dalle altre aree del CPR, era totalmente inadatta a qualsiasi forma di osservazione sanitaria. Il Garante nazionale dei detenuti l’aveva descritta come “una gabbia dei vecchi zoo”, a testimonianza delle condizioni disumane dello spazio. Il suo corpo è stato trovato la mattina. La sera precedente, l’infermiera incaricata di somministrargli la terapia si era avvicinata alla cella e lo aveva chiamato. Non avendo ricevuto risposta, ha semplicemente lasciato il bicchierino con i farmaci su un muretto, senza verificare il suo stato. Non sappiamo nemmeno se, in quel momento, Moussa fosse ancora vivo e se un intervento tempestivo avrebbe potuto salvarlo. C’è poi un ulteriore elemento decisivo: non è stata mai presa in considerazione quella che avrebbe dovuto essere l’“opzione zero”. Di fronte alle sue condizioni, alla vulnerabilità evidente e all’aggressione appena subita, le autorità avrebbero dovuto decidere di non detenerlo affatto, avviando semmai un percorso di presa in carico. Evitare la detenzione sarebbe stato, senza dubbio, il modo più efficace per prevenire il rischio di un gesto suicidario. LA SUA FAMIGLIA HA DICHIARATO CHE “SI VEDEVA CHE STAVA MALE“, EPPURE NON SONO STATI INFORMATI DELLA SUA MORTE. PERCHÉ, SECONDO LEI, LE AUTORITÀ NON LI HANNO AVVISATI TEMPESTIVAMENTE? Moussa, come tutte le persone migranti trattenute, non era più visto come una persona, con i diritti e gli affetti che questo comporta. Era ridotto a un semplice soggetto – o addirittura oggetto – da detenere. Quando una persona viene trattenuta, nessuno si preoccupa di capire se abbia una famiglia, legami affettivi o qualcuno da avvisare. Anzi, chi ha appena perso la libertà perde spesso anche il diritto alle relazioni esterne: durante quel periodo, Moussa è stato privato del suo telefono, impossibilitato a comunicare con chi gli era vicino. Nessuno si preoccupa di dire ai parenti che è detenuto; perchè dovrebbero preoccuparsi di avvisarli che è morto? Così è stato anche per Moussa: i suoi familiari in Guinea hanno saputo dell’accaduto solo tramite altre persone, senza alcun contatto diretto dalle autorità italiane. Né lo Stato, né l’ente gestore del CPR hanno mai cercato di mettersi in contatto con la famiglia, neanche per esprimere un minimo segno di vicinanza. Qualche settimana dopo la sua morte, la Ministra dell’Interno, rispondendo a un’interrogazione parlamentare, ha limitato la propria dichiarazione ad affermare che “era stato fatto tutto regolarmente”, senza mostrare alcuna forma di dispiacere o un minimo sentimento di cordoglio e umanità per quella perdita. PH: Mai più lager – NO ai CPR C’È UN PROCEDIMENTO LEGALE IN CORSO, E CHI VIENE RITENUTO RESPONSABILE: IL DIRETTORE DEL CPR, IL PERSONALE MEDICO, LO STATO? Attualmente a Torino è in corso un processo nei confronti della direttrice del centro e del responsabile medico, accusati di omicidio colposo per non aver fornito a Moussa un’adeguata assistenza, per non aver predisposto un protocollo di prevenzione del rischio suicidiario e per averlo collocato in isolamento. Nessuno dei funzionari della Questura o, ancor più, della Prefettura è sotto processo. Inizialmente erano stati indagati anche alcuni funzionari per aver utilizzato e consentito l’uso di un luogo di isolamento non previsto da alcuna norma di legge. Tuttavia, il procedimento si è concluso con un’archiviazione, perché quegli spazi – i cosiddetti “ospedaletti” – erano utilizzati da anni e nessuno si era accorto che trattenere una persona lì, senza alcuna base normativa, costituisse un sequestro di persona. Lo Stato, dunque, si è assolto, e sotto processo ci sono solo i gestori privati di quella detenzione. RITIENE CHE IL CASO DI MOUSSA SIA UNA TRAGEDIA ISOLATA O FACCIA PARTE DI UN PROBLEMA SISTEMICO NEL MODO IN CUI L’ITALIA TRATTA I MIGRANTI NEI CENTRI DI DETENZIONE? Il caso di Moussa, purtroppo, è tutt’altro che una eccezione. È quel tipo di detenzione che porta con sé, come conseguenza quasi necessaria, che la persona sia dimenticata in una cella, abbandonata e sottoposta all’arbitrio di chi gestisce il centro (e di chi dovrebbe controllare quella gestione). Di Moussa si è saputo e se ne è parlato solo perché c’era il video della sua aggressione, e perché era evidente che era una vittima e avrebbe dovuto essere trattato come tale. Invece di ricevere aiuto, lo Stato gli ha inflitto l’ulteriore violenza della cella e dell’isolamento. Purtroppo, situazioni simili accadono ogni giorno. Ricordo, ad esempio, anni fa una donna straniera priva di permesso di soggiorno: dopo ore di violenza in una fabbrica abbandonata era riuscita a fuggire e a fermare una volante. Pur potendo denunciare il suo aguzzino, la sua condizione di “clandestina” ha subito avuto la meglio: le è stato notificato un decreto di espulsione. Un altro caso riguarda una badante senza permesso, investita insieme all’anziano che assisteva. Invece di scappare, si era fermata ad aspettare i soccorsi, arrivati insieme alla polizia. Nonostante fosse vittima, la sua posizione irregolare ha prevalso e le è stato notificato un decreto di espulsione. Anche in occasione di un altro decesso al CPR di Torino, quello di Fatih nel 2008, si sospettò che non fosse stato soccorso nonostante un malore. Nel tentativo di far interrogare gli altri detenuti e proteggerli dall’espulsione, un Pubblico Ministero mi rispose che non c’era motivo di agitarsi, perché si trattava “solo di un clandestino” e non c’erano responsabili. Un caso più recente, quello di Faisal nel 2019, conferma lo stesso schema: con evidenti problemi psichici, Faisal era stato collocato nell’“ospedaletto” per valutare la sua compatibilità psicologica con il trattenimento, e lì era rimasto isolato per oltre cinque mesi, fino alla morte. Anche in questo caso, il centro si era limitato a “dimenticare” una persona vulnerabile. Questa disattenzione alle persone è la normalità; non solo a Torino, ma in ogni luogo di detenzione amministrativa. QUALI RIFORME O CAMBIAMENTI STRUTTURALI SAREBBERO NECESSARI PER EVITARE CHE UNA TRAGEDIA DEL GENERE SI RIPETA? È l’intero sistema di gestione dell’immigrazione a dover essere rivoluzionato. La libertà di circolazione dovrebbe essere un diritto per tutte e tutti, mentre da anni si fanno sforzi continui per ostacolarla e limitarla, pur liberalizzando al contempo la circolazione dei capitali e dei flussi finanziari, favorendo nuove forme di colonialismo e affermando il “nostro” diritto di muoverci liberamente. Che senso ha subordinare la possibilità di cercare lavoro alla necessità di “avere già” un lavoro? Proprio questa politica crea l’imbuto in cui si ritrovano molte persone migranti: l’unica via d’accesso diventa la richiesta di protezione internazionale, con tempi di attesa lunghi e spesso frustranti, e infine il tritacarne della detenzione. Il sistema è costruito per non funzionare: trasforma le persone migranti in una massa di forza lavoro facilmente ricattabile, ridotta a semplice fattore produttivo, di cui ci si può facilmente disfare quando diventa “inutile” o quando inizia a rivendicare diritti. PH: Mai più lager – NO ai CPR HA AVUTO ACCESSO A DOCUMENTI, REGISTRAZIONI VIDEO O TESTIMONIANZE UTILI PER COSTRUIRE IL CASO? HA INCONTRATO OSTACOLI NEL REPERIRE QUESTE INFORMAZIONI? Per quanto riguarda l’aggressione subita a Ventimiglia, nel corso del processo sono stati acquisiti tutti i video delle telecamere di sorveglianza, compresa quella della polizia: l’aggressione, infatti, è avvenuta proprio sotto le finestre del più grande commissariato della città. Per quanto riguarda il CPR, è stato acquisito tutto ciò che era possibile ottenere. Il problema principale è che l’“ospedaletto” – formalmente una stanza di osservazione sanitaria – non dispone di alcun sistema di videosorveglianza interno (né esterno). Tutto ciò che accade all’interno rimane quindi invisibile a chiunque dall’esterno. COSA PENSA SIA PIÙ IMPORTANTE CHE L’OPINIONE PUBBLICA SAPPIA SU CHI ERA MOUSSA, AL DI LÀ DEI TITOLI DI GIORNALE? Come molti giovani migranti che arrivano in Italia e in Europa, Moussa era una persona piena di desiderio e gioia di vivere, che inseguiva sogni e speranze. Il folle sistema di gestione della migrazione lo ha prima inserito nel circuito dell’accoglienza, per poi non offrirgli alcuna via d’uscita, gettandolo nell’irregolarità. Moussa è stato vittima non solo della violenza di chi lo ha aggredito, ma anche del razzismo di una società che lo ha visto – come vede altri in difficoltà – come un corpo estraneo da espellere. È stato vittima del razzismo istituzionale di un Paese che rifiuta di comprendere che persone come lui rappresentano una risorsa preziosa. Non dimenticherò mai il suo sguardo spento e disperato, quando mi diceva che non sarebbe rimasto nel CPR, così come non dimenticherò il suo sguardo luminoso in un video di qualche anno prima, in cui raccontava quanto stesse apprezzando la vita in Italia, prima di essere tradito nelle sue speranze e gettato via. QUALE MESSAGGIO DESIDERA LANCIARE ALL’OPINIONE PUBBLICA E AI RESPONSABILI POLITICI ATTRAVERSO QUESTO PROCESSO? Il processo è il luogo deputato ad accertare se è stato commesso un reato, e ad accertare se a commetterlo sono state le persone che in quel processo compaiono come imputati. Insieme ai familiari, che si sono costituiti parte civile, alla Garante cittadina dei diritti delle persone private della libertà, all’ASGI, all’Associazione Franz Fanon, anche loro costituiti parte civile, vorremmo che questo processo servisse anche a far emergere l’inutilità e la disumanità dei CPR, aggiungendo un tassello al percorso verso la loro chiusura. Il processo accerterà se gli imputati siano colpevoli, ma ci auguriamo che dimostri anche a tutti come molti, a diversi livelli, siano responsabili di quella morte e di altre simili. COME STA AFFRONTANDO TUTTO QUESTO LA FAMIGLIA DI MOUSSA? È COINVOLTA NEL PERCORSO GIUDIZIARIO? Come dicevo i familiari, i genitori e le sorelle e i fratelli, si sono costituiti parte civile, e stanno seguendo il processo con enorme dolore ma anche con una straordinaria dignità. Ripetono sempre che questo deve essere un processo che porti verità e giustizia per la morte di Moussa, ma che allo stesso tempo costituisca un passo verso verità e giustizia per tutte le persone migranti che sono state e sono detenute in questi luoghi. Credo che tutti noi possiamo trarre un insegnamento da chi, pur avendo perso un figlio a causa dell’insensibilità di questo Paese, non cerca vendetta, ma giustizia per tutte le persone migranti.
A Trento sabato 13 dicembre una manifestazione contro la costruzione del CPR
Sabato 13 dicembre il Coordinamento Trentino-Alto Adige/Südtirol No CPR chiama la cittadinanza a scendere in piazza alle ore 14.30 contro la costruzione del Centro di Permanenza per il Rimpatrio previsto in Destra Adige, vicino al quartiere di Piedicastello. La manifestazione arriva dopo una partecipata assemblea che si è svolta il 12 novembre al Centro sociale Bruno, che ha segnato una nuova tappa di un percorso condiviso tra oltre quaranta realtà sociali e politiche del territorio, la maggior parte delle quali sono impegnate quotidianamente nella solidarietà e nel sostegno alle persone migranti 1. Il progetto del CPR nasce dall’accordo firmato il 24 ottobre 2025 2 tra il presidente della Provincia Maurizio Fugatti e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e potrebbe essere il primo realizzato dal governo Meloni su suolo italiano, perché la Provincia di Trento si è impegnata a finanziare l’opera e ad andare in deroga a qualsiasi criterio urbanistico, economico e di trasparenza pur di accelerarne la costruzione. Per il Coordinamento si tratta di «una gigantesca gabbia stretta tra l’autostrada e la tangenziale di tremila metri quadrati, con container, filo spinato, barriere e telecamere, destinata a rinchiudere decine di persone che non hanno commesso alcun reato» e il risultato «di anni di retorica razzista che parla di “sicurezza” mentre crea esclusione sociale e paura del migrante». Nell’appello, le realtà promotrici ricordano che i CPR sono strutture detentive dove vengono trattenute persone che non hanno ottenuto «il documento giusto», cioè «uomini e donne colpevoli soltanto di un’irregolarità amministrativa, puniti con la privazione della libertà personale». È un sistema che da «ben ventisette anni […] produce solo violenza, soprusi e morte» e che continua a esistere grazie a politiche che creano irregolarità «discriminando in base al paese di origine, allo status giuridico e alla classe di appartenenza». I CPR, si legge, sono lo strumento di deterrenza per eccellenza: «perché se sei senza documenti, sei ricattabile e disposto ad accettare qualunque sopruso pur di evitare di finire inghiottito nel gorgo dei CPR». Oggi in Italia sono dieci i CPR attivi, a cui si aggiunge la struttura aperta in Albania, frutto di un accordo definito «neocoloniale» nell’appello, perché esternalizza la detenzione fuori dai confini mantenendone la gestione italiana. Il Coordinamento definisce i CPR «il simbolo di una violenza sistemica normalizzata, luoghi di tortura legalizzata», come vengono descritti dalle persone che vi sono rinchiuse e dalle organizzazioni che da anni ne documentano le condizioni. Sono anche definiti «i manicomi del presente», spazi che nascondono alla vista pubblica chi viene ritenuto indesiderato o non produttivo. Non esiste, sostengono, una forma “mite” di detenzione amministrativa: «Non c’è modo di renderli “più umani”, come non è possibile riformare questo sistema: i CPR sono lager di Stato, perché non esiste un modo giusto per fare una cosa ingiusta». Questo dispositivo, aggiunge l’appello, è incompatibile con i principi fondamentali dello Stato di diritto poiché «legittima la privazione della libertà senza reato e introduce un doppio binario razziale, di vera e propria apartheid, tra cittadini e cittadine appartenenti alla stessa comunità». La costruzione del CPR si colloca inoltre dentro un quadro più ampio che ricadute ben visibile anche a livello locale: «Lo smantellamento del sistema di accoglienza, l’aumento dell’esclusione e della povertà, la cancellazione di qualsiasi ipotesi di regolarizzazione e il progressivo restringimento dei diritti di chi vive e lavora in Italia». A Trento tra le 1.200 e le 1.500 persone richiedenti asilo che avrebbero diritto a un’accoglienza dignitosa sono già oggi «escluse da qualsiasi forma di assistenza, lasciate in strada, a serio rischio di irregolarità». L’accordo del 24 ottobre prevede inoltre un dimezzamento dei posti nel sistema di accoglienza per richiedenti asilo che passerebbero dagli attuali 700 a 350. Per queste ragioni le realtà del Coordinamento parlano di «un salto di crudeltà della giunta Fugatti e dell’ennesima falsa soluzione a problemi complessi». E invitano la popolazione a mobilitarsi: «È il momento di opporsi alla costruzione del CPR nel nostro territorio». E invitano alla partecipazione collettiva: «Scendiamo in piazza unit* per dire che la vera sicurezza non nasce dalla sofferenza, né dall’esclusione: nasce dal pieno riconoscimento dei diritti di cittadinanza e dalla giustizia sociale. È ora che le istituzioni smettano di eludere i propri doveri». Il documento si chiude con una piattaforma politica articolata, che non viene proposta come una lista di richieste ma come un orizzonte comune: «Per la chiusura di tutti i centri di detenzione amministrativa: questo sistema non è riformabile; per il ripristino e potenziamento del sistema di accoglienza diffusa come alternativa strutturale alla realizzazione dei CPR in Trentino-Alto Adige/Südtirol; per l’abolizione della legge Bossi-Fini e dei cosiddetti decreti “sicurezza”; vogliamo percorsi di regolarizzazione, diritti e inclusione, vogliamo allargare il diritto fondamentale alla libera circolazione anche ai cittadini e alle cittadine non comunitarie». Notizie/CPR, Hotspot, CPA TRENTO DICE NO AL CPR: UN’INTERA CITTÀ CONTRO L’ACCORDO FUGATTI-PIANTEDOSI Cresce la mobilitazione: “Né qui né altrove” Redazione 30 Ottobre 2025 1. Aderiscono al Coordinamento regionale: Assemblea Antirazzista Trento; Bozen Solidale, Centro Sociale Bruno; Spazio autogestito 77; Scuola di italiano Libera La parola Trento; Coordinamento Studentesco Trento; Collettivo Mamadou; Gruppo Trentino con Mimmo Lucano; CucinaCultura; SOS Bozen; Scioglilingua Bolzano; Alleanza Verdi e Sinistra del Trentino; Sinistra die Linke; Ambiente e Salute – Umwelt und Gesundheit; Unione Popolare Alto Adige; LINX; Rifondazione Comunista (Trentino e Alto Adige); Pace Terra Dignità Alto Adige; OMAS GEGEN RECHTS – Bozen; ANPI (Trentino e Alto Adige); Rete dei diritti dei senza voce; Mediterranea Trento; Centro Pace ecologia e diritti – Rovereto; Il Gioco degli Specchi APS; Associazione Oratorio S. Antonio; Comunità di S. Francesco Saverio; Donne per la Pace Trento; Arcigay del Trentino; GrIS Trentino; Associazione A scuola di Solidarietà; ATAS Onlus; Donne in nero di Rovereto; Arci del Trentino; Cortili di Pace di Pergine; Yaku onlus; Extinction Rebellion Trento; Associazione 46° Parallelo ETS / Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo; Onda Trentino (in aggiornamento…) ↩︎ 2. Scarica l’accordo di collaborazione ↩︎
Illegittimità del trattenimento in CPR per assenza di un adeguato certificato medico attestante l’assenza di vulnerabilità psichiatrica
AVV. ANTONELLO CIERVO, AVV. GENNARO SANTORO Con decreto del 12 novembre 2025, la Corte di Appello di Roma ha disposto la liberazione di un richiedente asilo trattenuto presso il CPR di Roma ”stante la presumibile sussistenza di una condizione di vulnerabilità del richiedente asilo incompatibile con il suo trattenimento presso il Centro di permanenza per i rimpatri” e l’assenza di “un adeguato certificato medico attestante detta compatibilità ai sensi dell’art. 3 del DM 19 maggio 2022”. La decisione si inserisce nel filone giurisprudenziale secondo il quale l’incompatibilità sanitaria al trattenimento in CPR non si limita alle patologie acute o in fase di scompenso, ma si estende anche a condizioni potenziali o pregresse che necessitino di monitoraggio specialistico continuativo. (cfr., tra le altre, Corte di Appello di Roma, decreto del 21 marzo 2025).  LA VICENDA E LA DIFESA IN SEDE DI CONVALIDA DEL TRATTENIMENTO Nel caso di specie, un cittadino marocchino, dopo la convalida del trattenimento del Giudice di Pace di Roma del 4 novembre 2025, ha manifestato la volontà di chiedere la protezione internazionale. Il successivo 12 novembre si è quindi celebrata l’udienza di convalida innanzi alla competente Corte di Appello di Roma.  La difesa, con una memoria di udienza e relativa documentazione, ha evidenziato che il richiedente asilo era consumatore abituale di sostanze stupefacenti e assuntore del farmaco antipsicotico Seroquel, la cui sospensione avrebbe potuto comportare gravi rischi anche dal punto di vista suicidario. Per questi motivi la difesa ha sin da subito richiesto la cartella clinica dello straniero, ha prontamente informato il medico dell’ente gestore e l’Asl Roma 3 del possibile stato di tossicodipendenza dell’interessato e della verosimile patologia psichiatrica, sollecitando una nuova visita di idoneità alla vita ristretta, come disposto dall’art. 4, comma 3 del D.M. 19 maggio 2022 (c.d. “Decreto Lamorgese”). Nonostante tale richiesta, nessuna risposta è pervenuta dalla Asl Roma 3, mentre l’ente gestore si è solo riservato di effettuare una eventuale nuova visita dopo l’esame della documentazione sanitaria. Tuttavia, alla data dell’udienza non sono stati comunicati gli eventuali ulteriori accertamenti sanitari effettuati. Ancora, è stata contestata l’inidoneità del primo certificato di idoneità alla vita ristretta limitato al solo accertamento dell’assenza di malattie infettive. Sul punto si osserva che di recente il Consiglio di Stato, con la sentenza del 7 ottobre 2025, nel dichiarare la parziale illegittimità dello schema di capitolato di appalto CPR, per carenze relative alla tutela del diritto alla salute e alla prevenzione del rischio suicidario, ha così stigmatizzato la prassi  – documentata anche nel caso di cui si occupa – relativa alla visita di idoneità per il trattenimento in CPR: “Le verifiche sanitarie all’ingresso sono sovente limitate all’accertamento dell’assenza di malattie infettive, senza considerare disturbi psichiatrici o patologie croniche degenerative che non possono ricevere un trattamento adeguato nelle strutture detentive. È stata rilevata una considerevole presenza di problemi di tossicodipendenza e psicologici tra i migranti trattenuti, il che renderebbe necessario un forte coinvolgimento dei servizi sanitari locali a supporto dei medici dell’ente gestore, per la fornitura di servizi specialistici. Tuttavia, persiste una scarsa coordinazione tra le strutture sanitarie interne ai CPR e il Servizio Sanitario Nazionale, con gravi criticità nella gestione della salute mentale e nella somministrazione dei farmaci specialistici. In alcuni CPR, le prescrizioni di farmaci specialistici vengono formalmente emesse da medici esterni che non conoscono la persona, su richiesta dei medici del centro, una pratica che solleva serie preoccupazioni, specialmente per i farmaci psicotropi e la continuità delle terapie”. D’altronde, l’assenza di approfondimenti sanitari era provata anche dalla cartella clinica dell’ente gestore, costituita esclusivamente dalla scheda di primo ingresso,  che non riportava l’assunzione dell’antipsicotico Seroquel e non conteneva informazioni essenziali per una reale presa in carico dello straniero. E’ stata quindi eccepita l’omessa attuazione dell’art. 3, comma 4 del Decreto Lamorgese nella parte in cui prevede la necessità di una nuova visita sulla idoneità alla vita ristretta, così come sollecitata, anche alla luce delle carenze organizzative e materiali del CPR di Roma Ponte Galeria.  Infine, ed in via subordinata, nel solco di quanto già accertato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 96 del 2025, si è sollecitato il Giudice della convalida a sottoporre nuovamente dinanzi alla Consulta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14 co. 2 del D.lgs n. 286/1998, in riferimento agli articoli 13, secondo comma, 24, 32 e 117, primo comma Cost., in relazione all’art. 5, par. 1 CEDU. LA DECISIONE La Corte di Appello, aderendo alla tesi difensiva, ha sancito che “la richiesta di convalida del trattenimento non può trovare accoglimento stante la presumibile sussistenza di una condizione di vulnerabilità del richiedente asilo incompatibile con il suo trattenimento presso il Centro di permanenza per i rimpatri […] allo stato vi sono elementi sintomatici e gravi che inducono a ritenere che il richiedente possa essere persona vulnerabile ai sensi dell’art. 17, comma 1 del D.lgs. n. 142/2015, in quanto affetto da gravi disturbi psichici, incompatibili con il trattenimento […] Sul punto, non può dunque assumere rilevanza decisiva la certificazione medica di compatibilità delle condizioni di salute del cittadino richiedente asilo con il trattenimento presso il CPR, là dove non sono state specificamente considerate le patologie di cui lo stesso soffre, nè sono state effettuate apposite visite specialistiche in tal senso, nonostante dette problematiche di salute siano state tempestivamente segnalate dalla difesa del trattenuto sia al medico dell’ente gestore sia alla ASL RM 3, con la conseguenza che non risulta in atti un adeguato certificato medico attestante detta compatibilità ai sensi dell’art. 3 del DM 19 maggio 2022. […] Peraltro, ciò vale a maggior ragione alla luce dei principi espressi dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 96/2025 del 3 luglio 2025, con la quale, nonostante la dichiarazione di inammissibilità delle questioni sollevate, è stata accertata l’illegittimità della disciplina del trattenimento come disegnata dall’art. 14, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, e, in attuazione dello stesso, dall’art. 21, comma 8, del d.P.R. n. 394 del 1999 perché carente di elementi essenziali. […] Nel caso di specie, dunque, l’assenza di una specifica disciplina dei modi di trattenimento, incide in concreto su un diritto fondamentale della persona quale quello alla salute, la cui tutela allo stato è rimessa a norme regolamentari e provvedimenti amministrativi discrezionali, con conseguente lesione specifica di tale diritto, riscontrabile già nella fase della convalida e che rende illegittimo il trattenimento amministrativo”. La decisione in commento conferma (ed amplia) il principio per cui l’accertamento sanitario costituisce una condizione ineludibile di validità del trattenimento e deve essere effettuato prima della convalida della misura (così già Cass., n. 15106/2017): tale valutazione deve essere approfondita e non può trascurare la presenza di vulnerabilità psichiatriche. Sul punto si richiama anche il decreto della Corte di Appello di Roma del 20 ottobre 2025, ove si legge che “La valutazione delle condizioni di salute, fisica e psichica, del trattenuto deve essere completa e adeguata allo scopo e, pertanto, esaustiva, non potendo residuare dubbi sull’assenza di profili di vulnerabilità nell’accezione di legge e sul rischio di aggravare le possibili problematiche di salute già patite dal trattenuto. Tale accertamento deve logicamente precedere e non seguire la misura del trattenimento, pena la legittimità della misura […]”.  Nella medesima decisione si afferma inoltre che: “la Questura ha depositato un certificato medico di sanitario della Città Metropolitana di Milano, dal quale non emerge se le condizioni di salute del trattenuto consentano la permanenza dello stesso nel CPR, dandosi atto soltanto dell’idoneità al volo e all’inserimento in comunità ristretta del trattenuto, pur dandosi atto che non sono stati effettuati accertamenti strumentali o di laboratorio. Diversamente, il fascicolo sanitario depositato dalla difesa evidenzia la necessità di un percorso di assistenza e di vigilanza che allo stato non è possibile indicare se praticabile nel CPR”.  Non vi è dubbio che l’Autorità giudiziaria stia sempre più valorizzando il contenuto precettivo dell’art. 3 del Decreto Lamorgese, soprattutto con riferimento alla inderogabile necessità di una visita olistica ed esaustiva di primo ingresso dello straniero trattenuto. Viene tuttavia da domandarsi come sia possibile verificare le ipotesi di incompatibilità per vulnerabilità psichiatrica se sistematicamente le prime visite sull’idoneità sono effettuate in assenza di uno psichiatra. Accanto a questa sistematica violazione della norma rilevante – oltre che dell’art. 32 della Costituzione -, si riscontra, nella prassi, la mancata attivazione della nuova visita sulla idoneità del trattenimento allorquando sopravvengano fatti nuovi (come nel caso di tentativi di suicidio o di gesti anticonservativi e autolesionistici). Su questo aspetto, appare opportuno ricordare come sempre la sentenza del Consiglio di Stato del 7 ottobre 2025  ha dichiarato la parziale illegittimità dello schema di capitolato di appalto CPR, per carenze relative alla tutela del diritto alla salute e alla prevenzione del rischio suicidario. In particolare, il Collegio, parimenti a quanto denunciato in vari report dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, “concorda con la necessità che il capitolato impugnato sia reso più conforme alle seguenti disposizioni della direttiva ministeriale del 2022:- art. 3, comma 4, con riferimento alla necessità di una nuova valutazione della ASL, in caso emergano elementi che possano determinare l’incompatibilità con la vita in comunità ristretta e alla possibilità che gli stranieri vengano alloggiati in stanze di osservazione su disposizione del medico”. Ad oggi lo schema di capitolato non è ancora stato emesso: ciò nonostante, sempre la stessa sentenza citata rammenta che, nelle more della nuova attuazione, deve essere attuato quanto prescritto, in via diretta, dalla disposizione per ultimo citata, aggiungendo anche (fine punto 5.1. in diritto) che “Resta fermo, peraltro, che i gestori dei Centri devono rispettare quanto previsto dalla direttiva ministeriale, anche qualora le relative disposizioni non siano esplicitamente richiamate nel capitolato di gara”.  Dunque, anche in attesa del nuovo schema di capitolato, la disposizione da ultimo richiamata è da ritenersi cogente e, nell’esperienza quotidiana dei CPR viene frequentemente disattesa.  Soffermando l’attenzione al solo Centro di Roma Ponte Galeria, basti considerare che a seguito di accesso parlamentare dello scorso 27 maggio, dalla consultazione del registro eventi critici risultavano “66 eventi critici registrati in appena tre mesi, di cui 44 atti anticonservativi come tentativi di impiccagione, ingestione di oggetti e autolesionismo. Nonostante questo, «non sono previsti protocolli di prevenzione del rischio suicidario» e in diversi casi non è stato disposto il ricovero in Pronto soccorso”.  Pur in assenza di dati ufficiali con riferimento alle nuove visite sull’idoneità che dovevano conseguire ai 44 gesti anticonservativi trascritti nel registro eventi critici, può affermarsi che nella stragrande maggioranza dei casi le stesse non hanno avuto luogo, come del resto accertato anche dalla magistratura ordinaria A titolo esemplificativo, la Corte di Appello di Roma, con decreto del 7 luglio 2025, ha disposto l’immediata liberazione di un trattenuto rilevando dubbi in relazione alla sua vulnerabilità, avendo manifestato segni di disagio psichico anche prima dell’ingresso nel CPR, posto che la visita psichiatrica era stata fissata successivamente alla convalida, nonostante lo stesso avesse già commesso atti autolesivi prima ancora dell’ingresso nel CPR. Tale pronuncia – non isolata – viene richiamata in quanto evidenzia con chiarezza come l’assistenza sanitaria e psicologica all’interno del Centro di Roma Ponte Galeria sia del tutto insufficiente e come, di fatto, il trattenimento avviene anche nei confronti di persone inidonee alla vita ristretta. Senza la possibilità, neanche nel corso del trattenimento, che vi sia, in via sistematica e tempestiva, una nuova visita sull’idoneità. Sembra dunque possibile sostenere senza possibilità di essere smentiti che il divieto di trattenere persone con vulnerabilità psichiatrica nel Cpr di Roma Ponte Galeria è quasi sempre assicurato solo a seguito di intervento dell’Autorità giudiziaria e non è invece garantito, in via ordinaria, sistematica e tempestiva, dall’Autorità sanitaria. Corte di Appello di Roma, decreto del 12 novembre 2025
Presentazioni della rivista ControFuoco: “Alle frontiere della detenzione. Genealogie, politiche, lotte”
«Controfuoco è un processo aperto e collettivo che vuole coinvolgere saperi e conoscenze composite e crescere a partire dalle diverse esperienze e biografie che intreccerà». «La rivista si pone come spazio di inchiesta e confronto, un cantiere collettivo per leggere criticamente l’ordine delle cose, a partire dalle lotte e dalle contraddizioni che lo attraversano». (dall’editoriale di ControFuoco N. 2, giugno 2025) Il secondo numero della rivista ControFuoco, intitolato “Alle frontiere della detenzione. Genealogie, politiche, lotte”, uscito a fine giugno, prosegue il percorso di ricerca collettiva e militante avviato con il primo numero, dedicato alle “figure della migrazione”. Il focus è sul sistema della detenzione amministrativa e sulle nuove frontiere del confinamento: dall’accordo Italia-Albania ai CPR in Italia ed Europa, dalle pratiche di resistenza ai saperi critici che ne smontano la legittimità. Approfondimenti/Il progetto/CPR, Hotspot, CPA CONTROFUOCO. PER UNA CRITICA ALL’ORDINE DELLE COSE (N° 2, GIUGNO 2025) «Alle frontiere della detenzione. Genealogie, politiche, lotte»: il nuovo numero della rivista di Melting Pot 22 Luglio 2025 Il numero è già stato presentato in diversi territori nel corso di approfondimenti dedicati al tema e per intrecciarlo alle mobilitazioni locali. A novembre sono previsti due nuovi appuntamenti, a Padova e a Trento, città dove è in corso una mobilitazione contro la costruzione di un nuovo CPR. PADOVA. VENERDÌ 14 NOVEMBRE, ORE 18:30 Spazio Stria – Piazza Gasparotto n. 4 “I centri di trattenimento costruiti in Albania sono l’emblema di un sistema di gestione delle migrazioni fondato sulla normalizzazione dello stato di emergenza e sulla negazione dei diritti e della dignità delle persone”. A partire da questa riflessione, Open Gates, in collaborazione con Mediterranea Padova, il Master in Criminologia critica e sicurezza sociale e Melting Pot Europa, promuove un incontro pubblico per discutere di politiche di frontiera, accoglienza, protezione internazionale e criminalizzazione della solidarietà. “Aprire spazi di confronto, inchiesta e discussione sulle nuove forme di governance dei movimenti migratori è oggi un’istanza sempre più urgente”. Insieme a Francesca Esposito (Università di Bologna) e Omid Firouzi Tabar (Università di Padova), autori di un approfondimento pubblicato nella rivista, sono stati invitati al confronto Rachele Scarpa, deputata del Partito Democratico, e Stefano Bleggi, della redazione di Melting Pot Europa e Controfuoco. Evento su FB e IG TRENTO. GIOVEDÌ 20 NOVEMBRE, ORE 17:30 Facoltà di Sociologia, Aula Kessler – via Verdi La presentazione della rivista si inserisce in un percorso di opposizione alla costruzione di un CPR a Trento, dopo il 24 ottobre la Provincia di Trento ha firmato un accordo con il ministro dell’Interno per iniziare i lavori nel 2026. Una scelta in continuità con le politiche territoriali di compressione dei diritti fondamentali e invisibilizzazione di chi è già quotidianamente marginalizzato. Attiviste dialogheranno con Omid Firouzi Tabar e Francesca Esposito. Evento su FB e IG Queste nuove presentazioni sono occasioni per mettere in relazione la ricerca con le lotte sui territori, per alimentare un sapere situato e condiviso. ControFuoco non vuole essere solo una rivista, ma uno strumento collettivo: una cassetta degli attrezzi per decostruire le narrazioni dominanti e rafforzare i movimenti che si oppongono alla violenza istituzionale delle frontiere e della detenzione. Acquista una copia cartacea nel nostro shop:
CPR, il Consiglio di Stato conferma: violato il diritto alla salute dei trattenuti
Il diritto dell’immigrazione è in continua evoluzione e la dinamicità che contraddistingue anche le politiche migratorie in questo particolare momento storico rappresenta una sfida per gli operatori del diritto. Sempre nuovi interventi legislativi adottati a livello nazionale si accompagnano a importanti e recenti pronunce giurisprudenziali che non sono passate sotto silenzio. Per non parlare, poi, di quelle riforme adottate a livello europeo che promettono di stravolgere ancora una volta il quadro di riferimento della normativa europea. Tra le novità giurisprudenziali che non sono passate inosservate e che hanno destato l’attenzione di molti commentatori 1, possiamo annoverare la sentenza della Corte costituzionale n. 96 del 2025, di cui in verità già abbiamo parlato, e la recentissima sentenza del 7 ottobre 2025, n. 7839 2 con la quale il Consiglio di Stato ha annullato parzialmente lo schema capitolato CPR per carenze relative alla tutela della salute e della prevenzione del rischio suicidario. Giurisprudenza italiana/Guida legislativa/CPR, Hotspot, CPA IL CDS ANNULLA IL CAPITOLATO D’APPALTO DEI CPR: STANDARD SANITARI INADEGUATI La sentenza dopo il ricorso di Asgi e Cittadinanzattiva Redazione 8 Ottobre 2025 L’ANTEFATTO Il 4 marzo 2024 il Ministero dell’Interno ha approvato con decreto lo schema di capitolato d’appalto per la gestione e il funzionamento dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR). L’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) e Cittadinanzattiva Aps hanno proposto ricorso al Tar Lazio contro il Decreto lamentandone l’incostituzionalità per violazione degli artt. 13 e 32, Cost. e contestando il mancato rispetto degli standard minimi di assistenza sanitaria. Inoltre, le suddette associazioni hanno denunciato la mancata considerazione delle peculiarità del contesto dei CPR e della specificità delle problematiche inerenti la salute mentale dei detenuti, legate spesso a traumi e torture subite. Il Tar Lazio ha respinto il ricorso, dichiarando le disposizioni del Decreto conformi al quadro normativo. LE RAGIONI DELL’APPELLO AL CONSIGLIO DI STATO Nonostante la prima battuta d’arresto, le Associazioni soccombenti in primo grado, hanno appellato la decisione dinanzi al Consiglio di Stato, censurando l’inadeguatezza del capitolato. In sede di appello, oltre a ribadire la mancanza di un sistema di regole uniforme volto a garantire l’assistenza sanitaria delle persone trattenute e l’assenza di misure specifiche essenziali per la tutela della salute mentale e la prevenzione del rischio suicidario, è stato contestato il difetto di istruttoria da parte del Ministero dell’Interno che avrebbe omesso di coinvolgere altre istituzioni competenti in materia di salute e detenzione e non avrebbe esaminato e considerato opportunamente i dati raccolti. LA DECISIONE DEL CONSIGLIO DI STATO Il Consiglio di Stato, nel dare ragione alle appellanti e nell’annullare in parte capitolato di gara impugnato, osserva che il punto di partenza per una corretta decisione deve essere proprio la disciplina specifica dei CPR e, in particolare, l’art. 14, comma 2, d. lgs. 286/1998 e la Direttiva del Ministro dell’Interno del 19 maggio 2022, “recante criteri per l’organizzazione dei centri di permanenza per i rimpatri”. Partendo da questo assunto, i giudici di appello arrivano ad affermare che il capitolato non rispetta alcune delle misure previste dalla normativa richiamata con specifico riferimento all’art. 3 commi 4,6 e 7. Nello specifico, le mancanze riguarderebbero la eventuale nuova visita di idoneità, l’inserimento della relazione del servizio socio-sanitario nel fascicolo processuale, la tenuta di un registro per gli atti di autolesionismo e suicidari, il diritto per il trattenuto di avere copia della propria cartella sanitaria. Ma non solo. Il Consiglio di Stato, infatti, ravvisa anche un difetto di istruttoria dovuto al mancato coinvolgimento di altre istituzioni, il Ministero della Salute e il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, quali “soggetti istituzionalmente deputati alla tutela della salute e, in generale, alla tutela dei soggetti in condizione di detenzione”. In particolare, secondo i giudici di appello “le Amministrazioni competenti sono chiamate ad un attento esame della situazione fattuale nei Centri, affinché la riformulazione delle disposizioni impugnate del capitolato possa tener conto di ogni elemento rilevante, nella prospettiva di garantire livelli di assistenza socio-sanitaria in linea con le previsioni costituzionali e sovranazionali”. Sulla scorta di queste considerazioni, il Consiglio di Stato è giunto alla conclusione che il capitolato di appalto impugnato doveva considerarsi parzialmente illegittimo. CONCLUSIONI E SCENARI FUTURI Ancora una volta ci troviamo al cospetto di una decisione giurisprudenziale che mette al centro la tutela della salute dei soggetti trattenuti e che supporta la tesi sostenuta da più parti della patogenicità dei Centri di Permanenza per i Rimpatri. Purtroppo, ancora oggi, nonostante i decessi avvenuti all’interno di tali strutture, nonostante i raccapriccianti report stilati da autorità di garanzia indipendenti, nonostante le tante denunce e segnalazioni provenienti dal mondo associativo e da singoli attivisti per i diritti umani, sono ancora tantissimi i giudici che ignorano questi aspetti e che non tengono in alcuna considerazione, nelle loro pronunce, la sistematica violazione del diritto alla salute che determina la detenzione in un Centro di Permanenza. Come, d’altra parte, è drammaticamente inspiegabile la paralisi delle Prefetture, delle Aziende Sanitarie e dello stesso Ministero dell’Interno, rispetto alle gravissime violazioni che vanno emergendo giorno dopo giorno. Tutto questo silenzio, tutta questa omertosa compartecipazione nella violazione del diritto alla salute delle persone trattenute, non è più accettabile. La sentenza del Consiglio di Stato apre spiragli per azioni importanti e rinvigorisce la lotta per la chiusura dei Centri di Permanenza per i Rimpatri, dimostrando ancora una volta che il gioco di squadra, la collaborazione, la circolazione dei “saperi” e delle competenze, è la strada maestra in una battaglia impari come quella che si sta combattendo. Senza farsi troppe illusioni, ma con la consapevolezza che non vi è altra strada da percorrere. Come dichiarato dall’avv. Salvatore Fachile in una recente intervista 3, “Il punto è che in questo momento ci sono centinaia di persone rinchiuse in strutture che sono regolate da un atto amministrativo che presenta profili d’illegittimità. Questi profili possono essere sollevati davanti a un giudice che può valutare sia sulla posizione del singolo sia su quella dell’intera comunità detenuta in quel luogo. Potenzialmente si può arrivare anche alla chiusura, mi riferisco per esempio a situazioni particolarmente problematiche come quella del Cpr di Palazzo San Gervasio 4”. Ed è proprio questo il nuovo terreno di scontro su cui si combatteranno probabilmente le battaglie giuridiche del presente e del futuro con la consapevolezza che in questo momento la strada è tutta in salita e l’obiettivo finale difficile da raggiungere. 1. Il Consiglio di Stato annulla parzialmente lo schema capitolato CPR per carenze relative alla tutela della salute e della prevenzione del rischio suicidario di Gennaro Santoro – Questione giustizia (5 novembre 2025) ↩︎ 2. ASGI e Cittadinanzattiva: Inadeguato il capitolato di appalto dei CPR per la tutela della salute delle persone trattenute ↩︎ 3. Il Consiglio di Stato boccia il capitolato dei Cpr. Che cosa succede ora, Luca Rondi – Altreconomia ↩︎ 4. Nel Cpr di Palazzo San Gervasio si continua a soffrire. Nonostante gli esposti in Procura, Luca Rondi – Altreconomia ↩︎
L’accordo Italia-Albania non è una questione italo-albanese
L’1 e il 2 Novembre 2025 si è tenuta in Albania la mobilitazione del Network Against Migrant Detention, una rete di realtà italiane e albanesi unite nell’obiettivo di contrastare l’accordo Rama-Meloni, che ha permesso la creazione di due centri detentivi per persone migranti in Albania sotto giurisdizione italiana. È la seconda protesta organizzata nel paese delle aquile, dopo quella dell’1 dicembre 2024, quando i centri erano ancora vuoti. Quest’anno il Network ha lanciato la manifestazione sotto lo slogan “From Albania to Europe: Abolish Migrant Detention Centers”, raccogliendo adesioni da una decina di paesi membri dell’Unione Europea e non solo. Rappresentanti di organizzazioni da Nantes, Bruxelles, Bilbao, Dresda, Berlino, Vienna, Pristina e Messico hanno raggiunto i gruppi albanesi e italiani per apprendere di più sull’accordo, sulle sue prospettive future e ragionare su possibili iniziative comuni.  “Ovunque, da Gjäder a Roma, da Bruxelles a Nantes, dagli USA al Messico, fino alla Libia, la Tunisia e oltre ancora, vogliamo la stessa cosa: libertà di movimento e dignità per tutti”. > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da STRIA (@spazio.stria) La mobilitazione si è svolta nella modalità ormai consolidata della due giorni: una dedicata alle azioni pubbliche, l’altra dedicata alla discussione politica attraverso panel e assemblee.  Sabato 1 novembre, più di 150 persone hanno sfilato per le vie di Tirana con interventi e denunce sotto l’ufficio del Primo ministro albanese, l’Ambasciata italiana e l’ufficio dell’Unione Europea in Albania. Un cartellone con le sagome di Meloni, Rama, Trump e Von Der Leyen vestiti da gerarchi e militari ha accompagnato i manifestanti lungo tutto il percorso, insieme a un cartellone con scritto “L’Europa predica democrazia ma abbraccia gli autocrati”.  Ph: Alessandro Muras «Rama mantiene il suo potere interno attraverso accordi stretti con queste figure, facendo un accordo illegale con la Meloni, che nel silenzio è stato approvato dall’Unione Europea. È proprio il silenzio dell’Unione Europea che non possiamo perdonare», ha dichiarato Edison Lika del collettivo Mesdhe, che ha organizzato e ospitato la mobilitazione.  Rama è fortemente contestato dalle realtà albanesi che si sentono in una democrazia solo su carta. I flussi di denaro e di affari pubblici sono opachi e la partecipazione politica è fortemente inibita dalla repressione, sia storica subita negli anni di Hoxha, ma anche per quella attuale spesso inflitta in forme subdole, come ad esempio i licenziamenti e le sospensioni delle già misere pensioni ai familiari di attivistə scomodə.  La manifestazione ha poi raggiunto le porte del CPR di Gjader, dove hanno commemorato le quarantasette vittime dei CPR italiani, portato solidarietà alle 24 persone attualmente trattenute nel centro al grido «You are not alone» ed esposto il grande striscione indirizzato ai leader ritratti in vesti militari: “You Remigration Prisons are Criminal. Stop funding wars and deporting people!”. Photo credit: Alessandro Murtas Domenica l’Università di Tirana ha ospitato l’assemblea transnazionale che ha visto attivistə di tutta Europa, e non solo, confrontarsi sul tema del razzismo, del colonialismo e sul significato che questo accordo ha all’interno delle politiche migratorie europee. L’evento, dal titolo “L’Europa è ancora il nostro sogno?”, ha messo in luce come di fatto l’adesione all’Unione Europea è stata sistematicamente condizionata allo spargimento di sangue ai suoi confini.  Questo è stato il caso anche dell’Italia, entrata a far parte dell’UE non prima di aver dimostrato il pugno duro sui confini proprio sulla pelle degli albanesi.  «Giorgio Napolitano nel ’98 ha detto che se non avessero istituito i CPT e non ci fosse stato il naufragio della Kater i Rades, non avrebbero saputo dimostrare all’UE di saper difendere i loro confini», ha affermato Clara Osma, attivista di Mesdhe e Italiani senza Cittadinanza, sotto l’imponente cancello di Gjäder. Oltre a una delegazione presente alla mobilitazione in Albania, i gruppi della rete Anti-CRA francese hanno organizzato un’azione comunicativa a Nantes in sostegno alla mobilitazione a Tirana.  Da segnalare che alcune attiviste che dovevano raggiungere la mobilitazione sono invece scese dal volo Bologna-Tirana per aver protestato alla vista di agenti delle forze dell’ordine impegnate in un’operazione di rimpatrio proprio di due cittadini albanesi presenti sul loro volo Ryanair. > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da Mediterranea Bologna (@mediterranea_bologna) UN PROGETTO FALLIMENTARE CHE PROSEGUE Che i centri in Albania non stiano funzionando come il governo Meloni aveva previsto è sotto gli occhi di tutti. L’hotspot di Shengjin è vuoto e il CPR di Gjader detiene in media una ventina di persone alla volta (a fronte di 880 posti disponibili in totale), ma le realtà del Network evidenziano che l’accordo ha già prodotto effetti inaccettabili, coinvolgendo più di 220 persone e portando alla morte del giovane Hamid Badoui, morto a soli 42 anni.  Questo è il quadro a fronte del quale il governo Meloni ha deciso di stanziare 670 milioni di euro dei contribuenti italiani per la realizzazione e mantenimento dei centri. Di questi, più di 127 milioni sarebbero ricavati da tagli a ministeri pubblici come quello dell’Economia e della Finanza, degli Affari Esteri e dell’Università e della Ricerca 1. Photo credit: Alessandro Murtas Milioni che al contempo non vanno a stimolare l’economia locale, ma principalmente a coprire i costi di costruzione, manutenzione e del personale, di cui gli albanesi sono circa una cinquantina in qualità di operatori e operatrici di Medihospes, ente gestore del CPR di Gjader e colosso del complesso industriale dell’accoglienza in Italia, che impiega con contratti precari e ridimensiona l’organico a fisarmonica in base alle evoluzioni discontinue dei centri. «Questi centri non sono solo incostituzionali: rappresentano un progetto coloniale che, con la complicità del governo albanese, segna un pericoloso precedente che l’Europa intende replicare attraverso il Nuovo Patto su Migrazione e Asilo”, ha denunciato il Network. Anche in questo senso l’accordo Italia-Albania non riguarda solo italiani e albanesi. Il timore è che il governo Meloni voglia preservarli in vista dell’implementazione del Nuovo Patto su Migrazione e Asilo prevista per giugno 2026 ed eventualmente trasformarli nei Return Hubs di cui si sta discutendo a livello europeo. “Dobbiamo rafforzare una prospettiva transnazionale ed europea che vada oltre le mobilitazioni locali e nazionali: una prospettiva capace di condividere pratiche, costruire reti, coordinare strategie per abolire il regime europeo e globale di apartheid e confinamento”. La mobilitazione si chiude con la speranza che questo appello venga raccolto dalle realtà coinvolte e con la volontà di organizzare dimostrazioni anche in altri paesi, europei e non, andando a rafforzare la transnazionalità di questa lotta e lo smantellamento del sistema detentivo di tutta Europa e altrove. 1. I centri per i migranti in Albania sono un flop: da dove arrivano i soldi per pagarli? Ecco il «conto», voce per voce, di Milena Gabanelli e Simona Ravizza – Dataroom, Corriere della Sera ↩︎