Il caso Moussa Baldé e la violenza strutturale della detenzione amministrativaLa vicenda di Moussa Baldé ha messo ancora una volta in luce la violenza
radicata nei CPR, rivelando come la deumanizzazione sia la regola all’interno di
queste strutture e sottolineando l’urgenza di continuare a lottare contro ogni
forma di razzismo sistemico e istituzionale.
In questa intervista, l’Avvocato Gianluca Vitale, che assiste la famiglia di
Moussa e segue il processo in corso, ricostruisce le responsabilità
istituzionali, le omissioni e le violenze – anche invisibili – che hanno
trasformato una vittima in un “irregolare” da espellere, fino all’isolamento e
al suicidio. Una testimonianza indispensabile per comprendere non solo ciò che è
accaduto a Moussa, ma ciò che accade ogni giorno nei CPR.
PH: Stop CPR Roma
QUALI SONO LE CIRCOSTANZE CHE HANNO PORTATO MOUSSA BALDÉ A ESSERE RINCHIUSO NEL
CPR DI TORINO, SOPRATTUTTO DOPO AVER SUBITO UNA VIOLENTA AGGRESSIONE?
Subito dopo l’aggressione, Moussa – pur essendo la vittima di un reato – è
tornato a essere considerato semplicemente un “clandestino”, da trattare come
tale: quindi da rinchiudere ed espellere.
Era arrivato in Italia qualche anno prima e aveva chiesto la protezione
internazionale, un passaggio quasi obbligato per chi entra nel Paese senza reali
canali di ingresso regolare. Aveva iniziato un percorso molto positivo: parlava
bene italiano e partecipava ad attività con gruppi antirazzisti.
Col tempo, però, l’attesa infinita e l’incertezza sul suo futuro hanno incrinato
questo equilibrio. Non sapendo se la sua domanda sarebbe mai stata accolta,
aveva tentato di raggiungere la Francia, ma era stato respinto. Da lì era
iniziata una vita ai margini, fino a perdere il permesso di soggiorno e
diventare irregolare.
Poi l’aggressione davanti a un supermercato di Ventimiglia. Dopo quel fatto,
Moussa è stato fermato dalla polizia che, accertata la sua irregolarità, lo ha
consegnato all’ufficio immigrazione. Da lì è iniziato il percorso verso il CPR.
COSA SAPPIAMO DELL’AGGRESSIONE SUBITA DA MOUSSA A VENTIMIGLIA? CI SONO INDAGINI
IN CORSO SU QUELL’EPISODIO DI VIOLENZA?
Il video dell’aggressione, ripreso da una residente, è circolato rapidamente
online. I tre aggressori italiani, temendo di essere riconosciuti, si sono
presentati spontaneamente alla polizia e sono stati denunciati a piede libero.
Moussa, invece, è finito al CPR.
Gli aggressori hanno tentato di sostenere di essersi solo difesi, accusando
Moussa di averli aggrediti, ma il processo ha poi smentito questa versione.
Il giorno successivo, mentre il video suscitava interrogativi e molti parlavano
già di un’aggressione a sfondo razzista, la polizia ha diffuso una dichiarazione
in cui escludeva motivazioni razziali, avallando la tesi – priva di riscontri –
della presunta “precedente aggressione”.
Il processo, celebrato a Imperia, si è concluso con la condanna dei tre
aggressori a due anni di reclusione con sospensione condizionale della pena.
Anche in quella sede la Procura ha deciso di non contestare l’aggravante
dell’odio etnico, nonostante un’aggressione del genere non possa che evocare,
almeno, un evidente rapporto di superiorità degli aggressori sulla vittima.
SECONDO LEI, MOUSSA AVREBBE DOVUTO ESSERE TRATTENUTO IN UN CENTRO DI DETENZIONE,
CONSIDERANDO LE SUE CONDIZIONI PSICOLOGICHE E FISICHE DOPO L’AGGRESSIONE?
Una volta classificato come straniero irregolare, Moussa ha perso ogni
riconoscimento della sua condizione di vittima, e la sua vulnerabilità non è
stata minimamente considerata.
Avrebbe avuto diritto a essere ascoltato, a presentare denuncia, forse a
chiedere un permesso per motivi di giustizia. Aveva bisogno di supporto. Ma
nessuno gli ha spiegato nulla.
In commissariato gli è stato semplicemente chiesto se volesse denunciare
l’aggressione, senza chiarire cosa comportasse. Impaurito e confuso, ha detto di
voler solo essere lasciato in pace. Da lì è stato trasferito all’ufficio
immigrazione, sempre senza capire cosa gli stesse accadendo.
È arrivato al CPR in uno stato di grande fragilità, senza comprendere le ragioni
della sua detenzione. È stato quasi subito messo in isolamento, perché
presentava delle lesioni cutanee e gli altri detenuti temevano potesse essere
scabbia.
La soluzione più comoda – anche per evitare tensioni interne – non è stata
quella di verificare se fosse psicologicamente idoneo alla detenzione o, in caso
contrario, rilasciarlo.
Né di spiegare agli altri detenuti che non correvano alcun rischio. Si è
preferito isolarlo in una cella, da solo, “eliminando” il problema. Di fatto,
non gli è stata garantita alcuna assistenza né supporto psicologico.
QUALI RESPONSABILITÀ AVEVANO LA DIREZIONE DEL CPR E IL PERSONALE MEDICO NEI
CONFRONTI DI MOUSSA – E DOVE RITIENE CHE ABBIANO FALLITO?
Una recente sentenza del Consiglio di Stato ha annullato il capitolato nazionale
di gestione dei CPR proprio perché carente nell’assistenza sanitaria e
psicologica e privo di protocolli dedicati al rischio suicidario. La stessa
sentenza ribadisce che, al di là delle lacune dell’appalto, gli enti privati che
gestiscono i CPR hanno comunque l’obbligo di garantire la salute psicofisica
delle persone trattenute.
Approfondimenti/CPR, Hotspot, CPA
CPR, IL CONSIGLIO DI STATO CONFERMA: VIOLATO IL DIRITTO ALLA SALUTE DEI
TRATTENUTI
Una sentenza che svela la patogenicità della detenzione amministrativa
Avv. Arturo Raffaele Covella
11 Novembre 2025
Questo, per Moussa e per molti altri, non è stato fatto. La valutazione
dell’idoneità al trattenimento, ad esempio, si limita a verificare l’assenza di
malattie contagiose e la capacità della persona di vivere in una comunità – non
in “quel tipo” di comunità, cioè un luogo di detenzione, ma in una comunità
generica.
In pratica, ci si concentra quasi esclusivamente sull’eventuale presenza di
gravi malattie infettive, senza prestare alcuna attenzione alle condizioni
psichiche della persona migrante.
Oltre a non riconoscere né considerare quella vulnerabilità, né a fornire alcun
tipo di supporto, Moussa è stato anche isolato, lasciato da solo in una
condizione di ulteriore abbandono, che non poteva che accrescere il rischio di
comportamenti autolesivi.
CREDE CHE IL SUICIDIO DI MOUSSA POTESSE ESSERE EVITATO CON UN ADEGUATO SUPPORTO
MEDICO E PSICOLOGICO?
Un’adeguata presa in carico psicologica avrebbe certamente potuto aiutare Moussa
a superare quel momento di estrema fragilità. Ma garantire davvero questo tipo
di supporto, all’interno del centro, avrebbe richiesto attività di monitoraggio
e osservazione costante: un impegno ulteriore che non è stato messo in campo. Al
contrario, Moussa è stato collocato da solo nella cella di isolamento, senza
alcun sostegno.
Quella cella, situata nei cosiddetti “ospedaletti” e separata dalle altre aree
del CPR, era totalmente inadatta a qualsiasi forma di osservazione sanitaria. Il
Garante nazionale dei detenuti l’aveva descritta come “una gabbia dei vecchi
zoo”, a testimonianza delle condizioni disumane dello spazio.
Il suo corpo è stato trovato la mattina. La sera precedente, l’infermiera
incaricata di somministrargli la terapia si era avvicinata alla cella e lo aveva
chiamato. Non avendo ricevuto risposta, ha semplicemente lasciato il bicchierino
con i farmaci su un muretto, senza verificare il suo stato. Non sappiamo nemmeno
se, in quel momento, Moussa fosse ancora vivo e se un intervento tempestivo
avrebbe potuto salvarlo.
C’è poi un ulteriore elemento decisivo: non è stata mai presa in considerazione
quella che avrebbe dovuto essere l’“opzione zero”. Di fronte alle sue
condizioni, alla vulnerabilità evidente e all’aggressione appena subita, le
autorità avrebbero dovuto decidere di non detenerlo affatto, avviando semmai un
percorso di presa in carico.
Evitare la detenzione sarebbe stato, senza dubbio, il modo più efficace per
prevenire il rischio di un gesto suicidario.
LA SUA FAMIGLIA HA DICHIARATO CHE “SI VEDEVA CHE STAVA MALE“, EPPURE NON SONO
STATI INFORMATI DELLA SUA MORTE. PERCHÉ, SECONDO LEI, LE AUTORITÀ NON LI HANNO
AVVISATI TEMPESTIVAMENTE?
Moussa, come tutte le persone migranti trattenute, non era più visto come una
persona, con i diritti e gli affetti che questo comporta. Era ridotto a un
semplice soggetto – o addirittura oggetto – da detenere.
Quando una persona viene trattenuta, nessuno si preoccupa di capire se abbia una
famiglia, legami affettivi o qualcuno da avvisare. Anzi, chi ha appena perso la
libertà perde spesso anche il diritto alle relazioni esterne: durante quel
periodo, Moussa è stato privato del suo telefono, impossibilitato a comunicare
con chi gli era vicino.
Nessuno si preoccupa di dire ai parenti che è detenuto; perchè dovrebbero
preoccuparsi di avvisarli che è morto?
Così è stato anche per Moussa: i suoi familiari in Guinea hanno saputo
dell’accaduto solo tramite altre persone, senza alcun contatto diretto dalle
autorità italiane. Né lo Stato, né l’ente gestore del CPR hanno mai cercato di
mettersi in contatto con la famiglia, neanche per esprimere un minimo segno di
vicinanza.
Qualche settimana dopo la sua morte, la Ministra dell’Interno, rispondendo a
un’interrogazione parlamentare, ha limitato la propria dichiarazione ad
affermare che “era stato fatto tutto regolarmente”, senza mostrare alcuna forma
di dispiacere o un minimo sentimento di cordoglio e umanità per quella perdita.
PH: Mai più lager – NO ai CPR
C’È UN PROCEDIMENTO LEGALE IN CORSO, E CHI VIENE RITENUTO RESPONSABILE: IL
DIRETTORE DEL CPR, IL PERSONALE MEDICO, LO STATO?
Attualmente a Torino è in corso un processo nei confronti della direttrice del
centro e del responsabile medico, accusati di omicidio colposo per non aver
fornito a Moussa un’adeguata assistenza, per non aver predisposto un protocollo
di prevenzione del rischio suicidiario e per averlo collocato in isolamento.
Nessuno dei funzionari della Questura o, ancor più, della Prefettura è sotto
processo.
Inizialmente erano stati indagati anche alcuni funzionari per aver utilizzato e
consentito l’uso di un luogo di isolamento non previsto da alcuna norma di
legge. Tuttavia, il procedimento si è concluso con un’archiviazione, perché
quegli spazi – i cosiddetti “ospedaletti” – erano utilizzati da anni e nessuno
si era accorto che trattenere una persona lì, senza alcuna base normativa,
costituisse un sequestro di persona.
Lo Stato, dunque, si è assolto, e sotto processo ci sono solo i gestori privati
di quella detenzione.
RITIENE CHE IL CASO DI MOUSSA SIA UNA TRAGEDIA ISOLATA O FACCIA PARTE DI UN
PROBLEMA SISTEMICO NEL MODO IN CUI L’ITALIA TRATTA I MIGRANTI NEI CENTRI DI
DETENZIONE?
Il caso di Moussa, purtroppo, è tutt’altro che una eccezione. È quel tipo di
detenzione che porta con sé, come conseguenza quasi necessaria, che la persona
sia dimenticata in una cella, abbandonata e sottoposta all’arbitrio di chi
gestisce il centro (e di chi dovrebbe controllare quella gestione).
Di Moussa si è saputo e se ne è parlato solo perché c’era il video della sua
aggressione, e perché era evidente che era una vittima e avrebbe dovuto essere
trattato come tale. Invece di ricevere aiuto, lo Stato gli ha inflitto
l’ulteriore violenza della cella e dell’isolamento. Purtroppo, situazioni simili
accadono ogni giorno.
Ricordo, ad esempio, anni fa una donna straniera priva di permesso di soggiorno:
dopo ore di violenza in una fabbrica abbandonata era riuscita a fuggire e a
fermare una volante. Pur potendo denunciare il suo aguzzino, la sua condizione
di “clandestina” ha subito avuto la meglio: le è stato notificato un decreto di
espulsione.
Un altro caso riguarda una badante senza permesso, investita insieme all’anziano
che assisteva. Invece di scappare, si era fermata ad aspettare i soccorsi,
arrivati insieme alla polizia. Nonostante fosse vittima, la sua posizione
irregolare ha prevalso e le è stato notificato un decreto di espulsione.
Anche in occasione di un altro decesso al CPR di Torino, quello di Fatih nel
2008, si sospettò che non fosse stato soccorso nonostante un malore. Nel
tentativo di far interrogare gli altri detenuti e proteggerli dall’espulsione,
un Pubblico Ministero mi rispose che non c’era motivo di agitarsi, perché si
trattava “solo di un clandestino” e non c’erano responsabili.
Un caso più recente, quello di Faisal nel 2019, conferma lo stesso schema: con
evidenti problemi psichici, Faisal era stato collocato nell’“ospedaletto” per
valutare la sua compatibilità psicologica con il trattenimento, e lì era rimasto
isolato per oltre cinque mesi, fino alla morte. Anche in questo caso, il centro
si era limitato a “dimenticare” una persona vulnerabile.
Questa disattenzione alle persone è la normalità; non solo a Torino, ma in ogni
luogo di detenzione amministrativa.
QUALI RIFORME O CAMBIAMENTI STRUTTURALI SAREBBERO NECESSARI PER EVITARE CHE UNA
TRAGEDIA DEL GENERE SI RIPETA?
È l’intero sistema di gestione dell’immigrazione a dover essere rivoluzionato.
La libertà di circolazione dovrebbe essere un diritto per tutte e tutti, mentre
da anni si fanno sforzi continui per ostacolarla e limitarla, pur liberalizzando
al contempo la circolazione dei capitali e dei flussi finanziari, favorendo
nuove forme di colonialismo e affermando il “nostro” diritto di muoverci
liberamente.
Che senso ha subordinare la possibilità di cercare lavoro alla necessità di
“avere già” un lavoro? Proprio questa politica crea l’imbuto in cui si ritrovano
molte persone migranti: l’unica via d’accesso diventa la richiesta di protezione
internazionale, con tempi di attesa lunghi e spesso frustranti, e infine il
tritacarne della detenzione.
Il sistema è costruito per non funzionare: trasforma le persone migranti in una
massa di forza lavoro facilmente ricattabile, ridotta a semplice fattore
produttivo, di cui ci si può facilmente disfare quando diventa “inutile” o
quando inizia a rivendicare diritti.
PH: Mai più lager – NO ai CPR
HA AVUTO ACCESSO A DOCUMENTI, REGISTRAZIONI VIDEO O TESTIMONIANZE UTILI PER
COSTRUIRE IL CASO? HA INCONTRATO OSTACOLI NEL REPERIRE QUESTE INFORMAZIONI?
Per quanto riguarda l’aggressione subita a Ventimiglia, nel corso del processo
sono stati acquisiti tutti i video delle telecamere di sorveglianza, compresa
quella della polizia: l’aggressione, infatti, è avvenuta proprio sotto le
finestre del più grande commissariato della città.
Per quanto riguarda il CPR, è stato acquisito tutto ciò che era possibile
ottenere. Il problema principale è che l’“ospedaletto” – formalmente una stanza
di osservazione sanitaria – non dispone di alcun sistema di videosorveglianza
interno (né esterno). Tutto ciò che accade all’interno rimane quindi invisibile
a chiunque dall’esterno.
COSA PENSA SIA PIÙ IMPORTANTE CHE L’OPINIONE PUBBLICA SAPPIA SU CHI ERA MOUSSA,
AL DI LÀ DEI TITOLI DI GIORNALE?
Come molti giovani migranti che arrivano in Italia e in Europa, Moussa era una
persona piena di desiderio e gioia di vivere, che inseguiva sogni e speranze.
Il folle sistema di gestione della migrazione lo ha prima inserito nel circuito
dell’accoglienza, per poi non offrirgli alcuna via d’uscita, gettandolo
nell’irregolarità.
Moussa è stato vittima non solo della violenza di chi lo ha aggredito, ma anche
del razzismo di una società che lo ha visto – come vede altri in difficoltà –
come un corpo estraneo da espellere. È stato vittima del razzismo istituzionale
di un Paese che rifiuta di comprendere che persone come lui rappresentano una
risorsa preziosa.
Non dimenticherò mai il suo sguardo spento e disperato, quando mi diceva che non
sarebbe rimasto nel CPR, così come non dimenticherò il suo sguardo luminoso in
un video di qualche anno prima, in cui raccontava quanto stesse apprezzando la
vita in Italia, prima di essere tradito nelle sue speranze e gettato via.
QUALE MESSAGGIO DESIDERA LANCIARE ALL’OPINIONE PUBBLICA E AI RESPONSABILI
POLITICI ATTRAVERSO QUESTO PROCESSO?
Il processo è il luogo deputato ad accertare se è stato commesso un reato, e ad
accertare se a commetterlo sono state le persone che in quel processo compaiono
come imputati.
Insieme ai familiari, che si sono costituiti parte civile, alla Garante
cittadina dei diritti delle persone private della libertà, all’ASGI,
all’Associazione Franz Fanon, anche loro costituiti parte civile, vorremmo che
questo processo servisse anche a far emergere l’inutilità e la disumanità dei
CPR, aggiungendo un tassello al percorso verso la loro chiusura.
Il processo accerterà se gli imputati siano colpevoli, ma ci auguriamo che
dimostri anche a tutti come molti, a diversi livelli, siano responsabili di
quella morte e di altre simili.
COME STA AFFRONTANDO TUTTO QUESTO LA FAMIGLIA DI MOUSSA? È COINVOLTA NEL
PERCORSO GIUDIZIARIO?
Come dicevo i familiari, i genitori e le sorelle e i fratelli, si sono
costituiti parte civile, e stanno seguendo il processo con enorme dolore ma
anche con una straordinaria dignità.
Ripetono sempre che questo deve essere un processo che porti verità e giustizia
per la morte di Moussa, ma che allo stesso tempo costituisca un passo verso
verità e giustizia per tutte le persone migranti che sono state e sono detenute
in questi luoghi.
Credo che tutti noi possiamo trarre un insegnamento da chi, pur avendo perso un
figlio a causa dell’insensibilità di questo Paese, non cerca vendetta, ma
giustizia per tutte le persone migranti.