I campi di Gjadër e Shëngjin come il punto d’arrivo della civiltà italiana in AlbaniaFabio Bego 1
I campi per persone migranti a Gjadër e Shëngjin sono alcune delle ultime
manifestazioni delle politiche espansionistiche italiane nel Mediterraneo.
Parafrasando l’argomentazione di Giorgio Agamben in Homo Sacer, col termine
“campi” si intendono quei strumenti utilizzati per governare persone e comunità
la cui umanità è stata sospesa.
I campi sono un elemento ricorrente nella storia Albanese-Italiana. Essi sono
utensili politici e culturali tramite cui l’Italia ha dato forma al paesaggio
albanese come i palazzi che si trovano nel centro di Tirana.
Questo articolo punta ad esaminare la posizione dei campi all’interno del quadro
più ampio di politiche italiane in Albania.
I CAMPI E IL MITO DEL SALVATORE ITALIANO
I campi sono il punto d’arrivo del salvatore italiano, un mito del XIX secolo
creato da diplomatici, scrittori e politici italiani per giustificare
l’espansione italiana nei territori albanofoni dell’impero Ottomano. Il mito
dipinge gli albanesi come una comunità perennemente povera, morta di fame,
criminale e selvaggia, che non può progredire senza il sostegno dell’Italia.
Nel passato come nel presente, i campi sono camuffati sotto la formula del
progresso razziale e dell’europeizzazione. Gli Albanesi sono rappresentati a
volte come bianchi, altre come non-bianchi, a seconda delle contingenze.
Questa narrativa servì per giustificare l’annessione italiana dei territori
albanesi tra il 1914 e il 1920, il controllo politico ed economico dell’Albania
nel periodo interbellico, e la cosiddetta “unione” del 1939-1943.
I campi non sono necessariamente delle entità territoriali, ma piuttosto
strumenti per la territorializzazione dello spazio coloniale.
L’architettura del campo inizia a prendere forma con la creazione delle
frontiere albanesi nella Conferenza di Londra del 1913 e nella Conferenza di
Pace di Parigi nel 1919. Similmente ad altri paesi colonizzati i cui destini
furono decisi dalle Grandi Potenze, le frontiere dell’Albania furono designate a
detrimento delle popolazioni locali. Le vie di mobilità che collegavano le aree
rurali ai centri dei precedenti vilayet ottomani furono interrotte dalle nuove
frontiere.
La popolazione dovette scegliere tra la carestia, la migrazione e la resistenza
armata. La militarizzazione delle regioni di frontiera e la lotta per le risorse
e le lealtà politiche, trasformarono l’area in una zona di guerra che si
protrasse per decenni.
Le Grandi Potenze danno e le Grandi Potenze prendono. Cosi come avviene per
altri Stati coloniali, le mappe dei Balcani sono fatte per durare fino al
prossimo giro di spartizioni. Con lo scoppio della Grande Guerra, l’Impero
Britannico, quello Francese e quello Russo, riconobbero all’Italia l’annessione
di Valona e un protettorato sul resto dell’Albania.
Le autorità italiane si auto-elogiavano per i lavori di modernizzazione a
Valona, l’apertura di scuole, i servizi medici, le leggi civili e la costruzione
di strade, dicendo di aver operato in continuità con la buona “tradizione
coloniale di Roma“.
Ma nonostante questa retorica civilizzatrice, la popolazione si sentì trattata
coma “la peggiore delle colonie” ed attaccò le forze italiane nel sud
dell’Albania a giugno del 1920. Dopo due mesi di combattimenti, il primo
ministro italiano Giovanni Giolitti ritirò le truppe, risparmiando le vite dei
soldati.
> Questo risvolto non pose fine ai piani italiani per colonizzare l’Albania.
>
> Manifestazione del Network Against Migrant Detention al porto di Shëngjin
> (1.12.2024) – PH: Ramiasole
“L’abbandono di Valona” nutrì il mito della “vittoria mutilata” che portò il
Partito Nazionale Fascista al potere nel 1922. Mussolini co-optò il Primo
Ministro albanese Ahmet Zogolli – che divenne re dell’Albania nel 1928 –
attraverso accordi politici, finanziari, e militari che diedero all’Italia un
ruolo predominante nel Paese.
Nel 1925, l’Italia e l’Albania siglarono accordi per la fondazione della Società
per lo Sviluppo Economico dell’Albania (SVEA) e per la fondazione della Banca
Nazionale d’Albania. La SVEA fu finanziata tramite un debito che Tirana
contrasse con l’Italia. Gli accordi furono molto vantaggiosi per l’Italia,
perché le consentirono di costruire l’infrastruttura necessaria per espandersi
economicamente, politicamente e militarmente in Albania a spese degli albanesi.
I termini “semi-colonia” o “protettorato” sono utilizzati per descrivere il
posizionamento dell’Albania verso l’Italia nel periodo interbellico. Migliaia di
Italiani si trasferirono in Albania per lavorare nei progetti della SVEA.
La progressiva ingestione dell’Albania da parte dell’Italia fu accompagnata da
una campagna propagandistica condotta da diplomatici, giornalisti e registi che
perpetuarono il mito del salvatore italiano.
L’Istituto LUCE produsse decine di film in Albania per promuovere il ruolo
civilizzatore dell’Italia. Il giornalista Filippo Tajani offriva consigli per
gli italiani che volevano fare fortuna nella semi-colonia, affermando che
l’Albania aveva un potenziale economico ancora poco sfruttato.
Sandro Giuliani, direttore de Il Popolo d’Italia, incoraggiava gli albanesi ad
“aprire le porte” agli italiani, una frase che suona amaramente ironica se
comparata con le attuali politiche migratorie dell’Italia. Dopo aver trasformato
l’Albania in un’appendice dell’Italia, il potere di Zog svanì il 7 aprile 1939,
quando l’Italia invase e annesse lo Stato vicino. La propaganda fascista
giustificò l’annessione presentandola come un debito che gli albanesi dovevano
all’Italia per il suo lavoro di civilizzazione.
Così come in altri contesti coloniali, il campo divenne un mezzo fondamentale
per governare le popolazioni locali. Il giornalista Indro Montanelli nel suo
libro Albania una e mille, scrisse che l’Albania aveva bisogno di disciplina
fascista e che lo “Stato albanese“, un’espressione usata per indicare il governo
di Tirana che era controllato dagli italiani, doveva essere forte e pronto allo
spargimento di sangue se necessario.
I campi erano una modalità di prendersi cura coloniale e un risolutivo mezzo di
civiltà. Secondo gli storici albanesi, l’Italia costruì circa venti campi di
concentramento nei territori albanesi. Molti prigionieri furono internati solo
sulla base del sospetto o per legami famigliari con oppositori del regime.
A Porto Romano, nei sobborghi di Durazzo, non molto lontano da Shëngjin, fu
costruito il campo di concentramento “0“. Un testimone raccontava che nel campo
erano detenuti oltre 2000 prigionieri tra albanesi, jugoslavi e greci. A loro
venivano dati 150 grammi di pane al giorno, un po’ di brodo e mezza gavetta
d’acqua. A volte erano lasciati senza niente nel caldo dell’estate.
Quelli che si lamentavano venivano picchiati e alcuni morirono per gli abusi.
Mentre nella memoria collettiva italiana non si preserva quasi alcuna traccia di
questi eventi, in Albania socialista il campo di Porto Romano è stato descritto
nel libro di memorie Nell’inferno fascista (Në skëterrën fashiste, 1968) di Ylli
Poloska e nel film Inferno 43′ (Skëterrë 43′, 1980), diRikard Ljarja.
I campi sono designati per la reclusione di persone e comunità sradicate dalle
loro terre al fine di facilitare la conquista imperiale e annientare la
resistenza anti-coloniale. In recenti video postati dall’amministrazione
statunitense, le deportazioni hanno assunto un carattere performativo al fine di
sembrare efficaci e suscitare reazioni emotive in chi guarda. Durante la Seconda
Guerra Mondiale migliaia di albanesi furono deportati in campi di concentramento
in Italia.
I prigionieri erano spesso fatti passare davanti alla popolazione civile
italiana per provocare aggressioni razziste. Ma i campi erano anche luoghi di
resistenza e mobilitazione anti-coloniale transnazionale. Nel campo di Ustica i
prigionieri albanesi incontrarono l’ex sindaco di Piana degli Albanesi Francesco
Cuccia il quale era stato condannato all’internamento a vita perché aveva
insultato il Duce.
Cuccia, che era Arbëresh, era felice di incontrare i suoi compatrioti e
condivise con loro porzioni extra di cibo. A Ustica, gli albanesi
solidarizzarono con comunisti italiani e jugoslavi organizzando eventi per
celebrare il primo maggio.
L’Albania riconquistò la sua indipendenza dopo la Seconda guerra mondiale, ma
non riuscì a disfarsi dello stigma del povero-selvaggio-criminale-morto-di-fame.
Durante la Guerra Fredda, l’Albania era vista non solo come povera, ma anche
come una colonia sovietica e una minaccia per il “mondo libero“. Dopo la rottura
con Mosca nel 1961, essa fu etichettata come “isolazionista“, “stalinista” e
“dogmatica“.
Questi termini non erano ricavati da studi approfonditi, ma erano ispirati dalla
retorica della Guerra Fredda e furono utili a perpetuare la narrazione degli
albanesi come un popolo violento e primitivo.
Manifestazione del Network Against Migrant Detention al CPR a Gjader (1°
dicembre 2024) – PH: Ramiasole
LA STORIA SI RIPETE
Come tragedia o come farsa, la storia non cesserà mai di ripetersi finché le
gerarchie coloniali saranno alla base delle relazioni tra Stati e comunità. Dopo
aver attivamente sostenuto la caduta del regime comunista – il cui progetto
modernista riproduceva la logica del campo – l’Italia così come gli altri Paesi
dell’Europa Occidentale continuarono a tenere le frontiere dell’Albania
sigillate.
Le politiche neo-liberali mirano ad organizzare il mondo tramite relazioni di
potere asimmetriche affinché Paesi benestanti Occidentali possano liberamente
disporre dei Paesi “in via di sviluppo” e delle loro popolazioni. La funzione di
quest’ultimi nel contesto globale è diventare una risorsa poco costosa per
lavoro e sesso.
Ma i giovani dei ghetti non sono sempre disposti ad accettare il futuro che le
Grandi Potenze si cimentano a (ri)scrivere per loro. Così come i dannati
descritti Fanon, gli albanesi degli anni Novanta assalirono le cittadelle dei
neo-colonizzatori squartando navi e attraversando mari.
L’Italia reagì spostando le frontiere in avanti, all’interno del territorio
albanese. Nel 1991, il governo post-comunista – che era sussidiato dall’Italia e
da altri Stati Occidentali – permise all’Esercito italiano di condurre una
presunta missione umanitaria in Albania chiamata “Operazione Pellicano“. Il
governo albanese accettò inoltre che la Marina Militare italiana controllasse le
sue acque territoriali.
Nel frattempo, narrazioni razziste propagate dalle televisioni e dai giornali
del Bel Paese, pompavano il mito del salvatore italiano e dell’albanese
selvaggio-criminale-povero-morto-di-fame.
Gli albanesi che cercarono di andare in Italia divennero ciò che Sarah Ahmed ha
chiamato “oggetti di frontiera“, e cioè persone designate ad ispirare odio,
paura e disgusto al fine di consolidare l’unità nazionale e razziale. I campi
divennero di nuovo il punto culminante del salvatore italiano.
Nel 1991, circa 20.000 albanesi furono rinchiusi nel vecchio stadio di Bari
sotto il sole di agosto senza acqua e cibo come nel campo di concentramento “0“.
La narrazione razzista dell’albanese selvaggio-criminale-povero-morto-di-fame
raggiunse l’apice nel 1997, quando l’Albania affrontò una grande crisi
finanziaria e politica causata dall’introduzione dell'”economia di mercato“. Il
28 marzo 1997, circa 130 albanesi presero una barca a Valona e si diressero
verso l’Italia. La Marina Militare mise in atto un blocco navale, bullizzando e
uccidendo gli albanesi.
La Katër i Radës, l’imbarcazione su cui viaggiavano gli albanesi, fu speronata
ed affondata dalla nave di guerra Sibilla, che era molto più grande. Il numero
dei morti è incerto, ma fonti ministeriali albanesi basate sulle testimonianze
dei sopravvissuti riportano 92 vittime.
I pochi che sopravvissero furono messi nei campi per migranti con migliaia di
altri compatrioti. Una campagna di deportazioni di massa fu condotta in modo
violento davanti alle telecamere all’inizio di dicembre del 1997.
In aprile 1997, l’Esercito italiano ritornò in Albania come membro di una più
vasta operazione internazionale di peacekeeping chiamata Operation Alba che durò
fino ad agosto. La presenza dei militari italiani in Albania è stata
normalizzata negli anni Novanta. In quel periodo la Guardia di Finanza stabilì
presidi permanenti a Durazzo e Valona.
L’abitudine alle divise italiane, è una delle ragioni per cui pochi albanesi si
scandalizzarono quando Edi Rama autorizzò l’Italia a costruire campi per
migranti. Gli albanesi sanno che il loro governo ha una limitata sovranità sui
territori nazionali e non ha la capacità di difenderlo da aggressioni esterne.
La configurazione territoriale dell’Albania rimane revisionabile e l’Italia
occuperà di nuovo il Paese nel caso emergano gravi tensioni internazionali o se
dovesse scoppiare una guerra.
Manifestazione del Network Against Migrant Detention al porto di Shëngjin
(1.12.2024) – PH: Ramiasole
IL COLONIALISMO DEI VEGLIARDI
Sin dal XIX secolo gli albanesi sono stati per gli Italiani con popolo criminale
con tradizioni selvagge. Questa immagine caratterizza la maggior parte
dell’opinione pubblica italiana sugli albanesi, come si può notare leggendo i
giornali, i commenti nei social media o guardando film recenti come Svaniti
Nella Notte (Renato De Maria, 2024).
Tuttavia ultimamente l’Albania è stata rappresentata anche come un Paese che sta
progredendo, soprattutto grazie all’Italia. Questa campagna mira ad incoraggiare
aziende italiane ad “investire” in Albania al fine di approfittare dei bassi
costi di produzione.
L’Italia è orgogliosa e gelosa di essere il primo partner commerciale
dell’Albania grazie all’alto numero di scambi commerciali ed alle presunte 3000
aziende italiane che operano nel Paese vicino. I tentativi dell’Italia di
migliorare la percezione pubblica dell’Albania si sono intensificati dopo la
firma dell’accordo per la costruzione dei campi per convincere le masse
elettorali che l’Albania è un partner affidabile.
Il Giro d’Italia del 2025 era parte di questa attività promozionale. La RAI ha
mostrato l’Albania come un luogo esotico per possibili vacanzieri italiani.
La politica dell’Italia è sostenuta da politici, uomini d’affari e giornalisti
albanesi per i loro interessi personali con un grado di servilismo tale da
mettere in imbarazzo anche le stesse autorità italiane. La “trattoria Meloni” a
Shëngjin e i gesti di sottomissione che Edi Rama mette in atto ogni volta che
vede la sua omologa italiana sono i casi più emblematici. Un nuovo picco di
servilismo è stato raggiunto nel programma Realitete Shqiptaro-Italiane (Realtà
italo-albanesi).
Dal reportage “Cronache da Shëngjin” di Linda Dalmonte e Ilaria Mohamud Giama
Trasmesso dalla TV nazionale RTSH, il programma è il tentativo più degradante di
disseminare il mito del salvatore italiano che abbia mai visto. Il programma
inizia con una raccapricciante foto di Rama e Meloni dopo la firma del
“protocollo” che autorizzò la costruzione dei campi.
Lo scopo di ogni episodio o puntata come vengono definite dal presentatore nel
tentativo di italianizzare il vocabolario albanese, è rappresentare l’Italia
come il Paese che sta portando l’Albania in Europa.
L’Albania è descritta come un Paese sicuro per aziende italiane e pensionati che
beneficiano di un regime di tassazione ridotta. Il programma sembra suggerire
che nel XXI secolo, i tipici coloni italiani non sono più giovani lavoratori, di
cui peraltro l’Italia scarseggia anche in virtù di questioni demografiche. Ma
sono soprattutto cittadini anziani alla ricerca di tranquillità e di servizi
dentistici a buon mercato.
Il presentatore albanese trascura il carattere violento e sfruttatore delle
passate politiche dell’Italia in Albania. Evita inoltre di menzionare il
trattamento brutale riservato ai migranti albanesi dalle autorità italiane e non
fa parola dei campi di Gjadër e Shëngjin. Ovviamente non parla nemmeno delle
torture che i migranti devono sopportare ogni giorno in campi simili in Italia.
Queste forme di “civiltà” europea che l’Italia ha esportato in Albania sin dal
XIX secolo non hanno posto nella sua favoletta. Invece di dar voce alle migliaia
di albanesi che vivono e lavorano in Italia da molti anni e sono trattati come
cittadini di seconda classe perché non gli vengono concessi i documenti o la
cittadinanza, il presentatore fantastica sull’esistenza di un popolo
“italo-albanese” che a suo avviso starebbe emergendo grazie a famiglie di
origine mista.
La sua narrativa è molto simile a quella del regime di occupazione negli anni
1939-1943 che dipingeva l’annessione dell’Albania come una volontaria “unione di
destini“. Ma questa favola è smontata da alcuni intervistati. Una ragazza
albanese nata in Italia afferma che i sui genitori ebbero una vita difficile per
il modo in cui erano trattati dagli italiani. Una pensionata italiana dice di
sperare che l’Albania non diventi mai come l’Italia che è stata svenduta.
Nella sezione di commenti delle pagine YouTube dove sono caricati i video del
programma, alcuni accusano il giornalista di aver tradito il suo Paese e di fare
propaganda per l’Italia.
Porto di Shëngjin (1° dicembre 2024) PH: Simone Rosa
VIOLENZA E ANIMA COLONIALE
Nel passato come nel presente i campi sono solo una parte del progetto
espansionista italiano in Albania e non devono essere considerati separatamente.
Il controllo dei corpi e la necessita di disciplinarli tramite mezzi di terrore
e violenza sono direttamente legati alle politiche economiche per la produzione
di energia e di armi che l’Italia ha intrapreso nella regione.
Nel gennaio 2025, Italia, Albania ed Emirati Arabi Uniti hanno siglato un
accordo per lo sviluppo di progetti che puntano a trasformare l’Albania in un
luogo per la produzione di energie “rinnovabili” da trasferire in Italia. In
quell’occasione, Giorgia Meloni ha parlato della necessità di considerare
l’energia atomica facendo ipotizzare l’avvio di negoziati la costruzione di
centrali nucleari italiane in Albania.
L’8 aprile, Fincantieri e l’agenzia di Stato albanese per la produzione di armi
Kayo hanno siglato un “Memorandum of Understanding” per la costruzione di navi
da guerra. In una recente intervista con il giornalista albanese Blendi Fevziu,
il nuovo ambasciatore Italiano a Tirana Marco Alberti, ha annunciato che la più
grande azienda Italiana produttrice di armi Leonardo, sta per arrivare in
Albania.
Similmente alla propaganda condotta dall’Italia nel periodo interbellico,
Alberti pensa che il potenziale dell’Albania non è ancora sfruttato a dovere.
L’arrivo dell’industria militare italiana è inserita all’interno di un discorso
che mostra come l’Italia stia portando l’Albania più vicina all’UE.
I campi di Gjadër e Shëngjin sono la continuazione di una storia di espansione
imperialista, morbosa cura coloniale e disciplina fascista. I campi di
concentramento della Seconda Guerra mondale e i più recenti campi per migranti
non sono il risultato di politiche contingenti necessarie per affrontare eventi
eccezionali come un conflitto globale o una “crisi migranti“.
La costruzione dei campi è la proiezione della coscienza imperialista
Occidentale e il prodotto dell’addomesticamento dello spazio albanese. Il
rapporto coloniale non è qualcosa che va è viene; non è uno spirito errante, ma
un’anima che risiede all’interno relazioni italo-albanesi.
La storia dell’Italia verso l’Albania è una storia di colonizzazione, mentre la
storia dell’Albania verso l’Italia è una storia di resistenza. I campi sono la
concrezione di questo rapporto dialettico.
Nota: Una prima versione di questo articolo è stata presentata nella conferenza
“Coloniality and Migration Governance” organizzata dal Dipartimento di
Giurisprudenza dell’Università di Palermo il 26 e il 27 maggio 2025.
1. Sono ricercatore e curatore cinematografico, co-fondatore del Festival del
Cinema Albanese “Albania si Gira” che si tiene a Roma. Mi occupo
principalmente di narrazioni balcaniche e postcoloniali, temi che esploro
attraverso pubblicazioni accademiche e progetti come Kinostories a
Bruxelles. Collaboro con l’Istituto di Storia dell’Accademia Bulgara delle
Scienze e ho scritto per riviste e piattaforme come Nationalities Papers,
Black Camera, Hope Not Hate e Balkan Insight. Faccio parte della comunità di
esperti dell’EU Knowledge Hub on the Prevention of Radicalisation ↩︎