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CPR IN ALBANIA: LA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA SMONTA IL MODELLO DEL GOVERNO MELONI
La Corte di giustizia dell’Unione europea sconfessa la linea del governo Meloni sulla questione del protocollo Italia – Albania, e in particolare sulle modalità con cui vengono deportate le persone nei centri di detenzione creati fuori dall’Italia. Secondo il Tavolo Asilo immigrazione, si tratta di una sconfessione piena della maggioranza di governo:  la Corte “ha stabilito un principio chiaro: uno Stato membro non può designare un Paese di origine sicuro senza garantire un controllo giurisdizionale effettivo e trasparente, né può mantenere tale designazione se nel Paese non è assicurata protezione a tutta la popolazione, senza eccezioni”. Il cosiddetto modello Albania è stato costruito e mantenuto su basi giuridiche oggi dichiarate – sottolinea il Tavolo – incompatibili con il diritto dell’Unione. La sentenza colpisce al cuore uno degli assi portanti dell’intero impianto: la possibilità di processare richieste di asilo in procedura accelerata, basandosi sulla presunzione automatica di sicurezza del Paese d’origine. Non è più possibile, alla luce della pronuncia, utilizzare atti legislativi opachi e privi di fonti verificabili per giustificare il respingimento veloce delle domande di protezione. E non è ammissibile trattare come sicuro un Paese che non offre garanzie a tutte le persone. È esattamente quanto avvenuto nei trasferimenti verso l’Albania”. La Corte Ue si è espressa su richiesta del Tribunale di Roma, che finora non ha riconosciuto la legittimità dei fermi disposti nei confronti dei migranti soccorsi nel Mediterraneo e trasferiti nei Cpr in Albania perché provenienti da Paesi ritenuti sicuri dal governo italiano, in particolare Egitto e Bangladesh. Il nodo centrale riguarda la definizione e dell’applicazione del concetto di ‘Paese terzo sicuro’ nell’ambito delle procedure accelerate per l’esame delle richieste d’asilo.  “C’è un altro fronte giuridico ancora aperto, e riguarda i trasferimenti verso l’Albania direttamente dai centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr): la questione è oggetto di un nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Ma si tratta di un iter che richiederà almeno due anni”. Nell’attesa, il Tavolo sollecita  il governo a non riattivare il Protocollo Italia-Albania: “una richiesta avanzata fin da prima dell’avvio delle operazioni, e che ora diventa più forte nella cornice di questa sentenza. Nell’ultimo anno l’esecutivo ha più volte cercato di piegare le sentenze al proprio racconto, presentando come legittimazione ciò che non lo era affatto. Ma questa volta la pronuncia della Corte è inequivocabile, ed è difficile immaginare che possa essere strumentalizzata. L’architettura giuridica del modello viene demolita”. Proprio nei giorni scorsi il Tavolo Asilo e Immigrazione aveva pubblicato il report Ferite di confine. La nuova fase del modello Albania, che aggiorna il report di marzo. Se la prima fase riguardava il trasferimento forzato in territorio albanese di persone richiedenti asilo intercettate in mare e provenienti da paesi classificati come sicuri dal governo italiano, il quadro operativo è radicalmente cambiato a partire da aprile, quando hanno cominciato a essere deportate persone non intercettate in mare, ma dai CPR italiani. “Il nuovo assetto prevede il trasferimento coatto nel centro di Gjadër di persone già trattenute nei centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) in Italia, dando forma a un meccanismo di detenzione amministrativa transnazionale caratterizzato da scarsa trasparenza e da un elevato potenziale lesivo dei diritti fondamentali, come evidenziato dalle missioni di monitoraggio condotte dal Tavolo asilo e immigrazione”. Ai nostri microfoni Francesco Ferri, esperto di migrazione di Action Aid, una delle associazioni che fa parte del Tavolo Asilo e Immigrazione Ascolta o scarica
La Corte di giustizia dell’Ue boccia il “modello Albania”
Il Tavolo Asilo e Immigrazione 1 ha dichiarato che con la decisione di oggi la Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito un principio chiaro: uno stato membro non può designare un Paese di “origine sicuro” senza garantire un controllo giurisdizionale effettivo e trasparente, né può mantenere tale designazione se nel paese non è assicurata protezione a tutta la popolazione, senza eccezioni. Si tratta di una decisione dirompente, che smentisce in modo radicale la linea del governo italiano. Il cosiddetto “modello Albania”, ideato per esternalizzare le procedure di frontiera verso centri collocati fuori dal territorio nazionale ma sotto giurisdizione italiana, è stato costruito e mantenuto su basi giuridiche oggi dichiarate incompatibili con il diritto dell’Unione europea. La sentenza colpisce al cuore uno degli assi portanti dell’intero impianto: la possibilità di processare richieste di asilo in procedura accelerata, basandosi sulla presunzione automatica di sicurezza del paese d’origine. Non è più possibile, alla luce della pronuncia, utilizzare atti legislativi opachi e privi di fonti verificabili per giustificare il respingimento veloce delle domande di protezione; e non è ammissibile trattare come “sicuro” un paese che non offre garanzie a tutte le persone. È esattamente quanto avvenuto nei trasferimenti verso l’Albania e ciò rende evidente che ogni ripresa di questa pratica comporterebbe gravi violazioni e un elevato rischio di annullamento da parte dei tribunali. Il Tavolo Asilo e Immigrazione sollecita il governo a non riattivare il protocollo Italia-Albania: una richiesta avanzata dal Tai fin da prima dell’avvio delle operazioni e che ora diventa più forte nella cornice di questa sentenza. Nell’ultimo anno l’esecutivo ha più volte cercato di piegare le sentenze al proprio racconto, presentando come legittimazione ciò che non lo era affatto. Questa volta la pronuncia della Corte è inequivocabile ed è difficile immaginare che possa essere strumentalizzata. L’architettura giuridica del modello viene demolita. C’è un altro fronte giuridico ancora aperto e riguarda i trasferimenti verso l’Albania direttamente dai centri di permanenza per il rimpatrio (CPR): la questione è oggetto di un nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. Si tratta di un iter che richiederà almeno due anni. Nel frattempo, anche il nuovo modello è stato oggetto di molteplici censure giudiziali ed è incompatibile con i diritti umani, come raccontato nel report “Ferite di confine” recentemente diffuso dal Tai. Il “modello Albania”, anche nella sua seconda fase, va dismesso immediatamente. Il Tavolo asilo e immigrazione chiede al governo di prendere atto della pronuncia, cessare ogni iniziativa orientata alla riattivazione del protocollo e ricondurre la politica migratoria all’interno del diritto internazionale ed europeo, e delle garanzie costituzionali. PER APPROFONDIRE: * Comunicato stampa della CGUE: “Protezione internazionale: la designazione di un paese terzo come «paese di origine sicuro» deve poter essere oggetto di un controllo giurisdizionale effettivo” * Leggi il report “Ferite di Confine” in pdf 1. A Buon Diritto, ACLI, Action Aid, Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo, Amnesty International Italia, ARCI, ASGI, Avvocato di Strada Onlus, Caritas Italiana, Casa dei Diritti Sociali, Centro Astalli, CGIL, CIES, CIR, CNCA, Commissione Migranti e GPIC Missionari Comboniani Italia, Comunità di Sant’Egidio, Comunità Papa Giovanni XXIII, CoNNGI, Emergency, Ero Straniero, Europasilo, FCEI, Fondazione Migrantes, Forum per cambiare l’ordine delle cose, International Rescue Committee Italia, INTERSOS, Legambiente, Medici del Mondo Italia, Medici per i Diritti Umani, Movimento Italiani senza Cittadinanza, Medici Senza Frontiere Italia, Oxfam Italia, Re.Co.Sol, Red Nova, Refugees Welcome Italia, Save the Children, Senza Confine, SIMM, UIL, UNIRE ↩︎
CPR di Gjadër e inadeguatezza cure sanitarie: immediata liberazione del trattenuto alla luce della sentenza costituzionale n. 96/2025
Il tribunale di Roma dopo un ricorso d’urgenza ex art. 700 ordina l’immediata liberazione di un cittadino straniero trattenuto nel CPR albanese. Assegnaci il tuo 5‰: scrivi 00994500288 Il Giudice anzitutto ribadisce quanto già affermato in precedenza 1 e ormai definitivamente confermato da Corte Costituzionale n. 96/2025, ossia che questa autorità rimane sempre competente quando al di fuori dei casi specificamente regolati dalla legge si debba richiedere la tutela di un diritto fondamentale del cittadino italiano o straniero che sia. Guida legislativa/CPR, Hotspot, CPA LA CORTE COSTITUZIONALE APRE A NUOVE BATTAGLIE CONTRO LA DETENZIONE AMMINISTRATIVA Avv.ti Salvatore Fachile e Gennaro Santoro Avv. Gennaro Santoro (Roma), Studio Legale Antartide (Roma) 4 Luglio 2025 Richiamando la sopracitata sentenza, in mancanza di una normativa che sancisca le competenze, i diritti e le garanzie al diritto alla salute considera inadeguate le cure apprestate dal CPR (posto che non è previsto che nei CPR l’assistenza sanitaria venga fornita direttamente dal Servizio Sanitario Nazionale, a differenza di quanto previsto per gli istituti penitenziari. L’effettiva gestione della presa in carico sanitaria ricade, infatti, sull’ente gestore privato del centro, il quale eroga i servizi secondo quanto previsto dal capitolato d’appalto specifico. Deve, pertanto, ritenersi che nel caso di specie l’unica misura idonea a tutelare il diritto alla salute del ricorrente sia la cessazione del trattenimento e la immediata liberazione). Un passaggio contenuto nella decisione (ndR.): “Consultando il diario clinico e il consenso alle cure ivi contenuto, nulla di tutto ciò sembra essere avvenuto. Non solo, quindi, il ricorrente non sta ricevendo cure adeguate alla sua condizione di salute, che appare essere in continuo peggioramento, ma la terapia appare essere stata somministrata al di fuori delle condizioni e delle garanzie previste dalla legge. Inoltre, la terapia psicologica consigliata fin dal suo ingresso a Gjader non risulta essere stata attivata, risultando essere stati effettuati solo colloqui di monitoraggio. Dal diario clinico non si evince nemmeno a quale ordine appartengano i medici che hanno in cura il ricorrente e se appartengano o meno al servizio sanitario italiano. Infatti, non risulta essere presente in Albania un presidio fisso del Servizio Sanitario Nazionale italiano, mentre appare evidente la necessità che il ricorrente debba essere preso in carico da una struttura adeguata quale il centro di salute mentale presso la ASL. Deve, pertanto, ritenersi che le modalità con cui attualmente il ricorrente è trattenuto presso il CPR di Gjader siano lesive del suo diritto fondamentale alla salute. L’irreparabilità dei danni che possono derivare dalla carenza delle cure e dal peggioramento costante delle condizioni di salute del ricorrente, dagli esiti imprevedibili, giustifica, poi, l’adozione del decreto inaudita altera parte“. In conclusione, il tribunale richiama la recente sentenza della Corte Costituzionale, ma ricorda come quest’ultima non ha fornito indicazioni in ordine ai poteri spettanti al giudice civile. E quindi si riserva eventualmente di interrogare la Corte di Cassazione con un rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art 363 bis c.p.c., al fine di chiarire quali siano le prerogative del giudice civile anche in ordine alle misure alternative, al trasferimento da un determinato Cpr etc. . Tribunale di Roma, decreto del 28 luglio 2025 Si ringrazia l’Avv. Salvatore Fachile per la segnalazione e il commento. 1. Si veda: Tribunale di Roma, ordinanza del 2 settembre 2024 ↩︎
CPR: “COSTI ELEVATISSIMI E RIMPATRI AI MINIMI STORICI”, LA DENUNCIA DI ACTIONAID ED UNIBA
Il lavoro di ricerca di Action Aid e dell’Università di Bari, ha fatto emergere nuovi dati che riguardano i 14 centri di reclusione per persone considerate non in regola con i documenti, in Italia e in Albania. Dall’analisi dei dati dai quali parte la denuncia, emergono costi elevatissimi e rimpatri ai minimi storici. Nel frattempo sono 287 i migranti giunti a Lampedusa dopo che le motovedette di guardia costiera, Frontex e Guardia di Finanza hanno soccorso 5 barconi.  Due dei migranti, con intossicazione da idrocarburi, sono stati trasferiti in elisoccorso al Civico di Palermo. Sui barconi, salpati da Zuwara e Zawija in Libia, gruppi di egiziani, siriani, iraniani, bengalesi, eritrei, pakistani e somali. “Il più costoso, inumano e inutile strumento nella storia delle politiche migratorie italiane”. Con queste parole ActionAid e l’Università degli studi di Bari definiscono il CPR di Gjader che, nel 2024, è stato “effettivamente operativo” per appena 5 giorni per un costo giornaliero di 114 mila euro. Il dossier, pubblicato sul portale “Trattenuti”, esamina i costi e l’efficienza del centro albanese, nato in seguito alla stipula del discusso protocollo tra Roma e Tirana. A fine marzo 2025, spiegano ActionAid e Unibari – a Gjader erano stati realizzati 400 posti. “Per la sola costruzione (compresa la struttura non alloggiativa di Shengjin) sono stati sottoscritti contratti, con un uso generalizzato dell’affidamento diretto, per 74,2 milioni – si legge nella ricerca. L’allestimento di un posto effettivamente disponibile in Albania è costato oltre 153mila euro. Il confronto con i costi per realizzare analoghe strutture in Italia è impietoso: nel 2024 il Cpr di Porto Empedocle è costato 1 milione di euro per realizzare 50 posti effettivi (poco più di 21.000 euro a posto)”. Inoltre, secondo i dati pubblicati sul portale, per l’ospitalità e la ristorazione delle forze di polizia impiegate sul territorio albanese, l’Italia ha speso una cifra che si aggira attorno ai 528 mila euro.  Nell’aggiornamento dei dati su tutti i Cpr presenti in Italia, ActionAid e l’Ateneo pugliese evidenziano inoltre come nel 2024 si sia registrato il minimo storico dei rimpatri negli ultimi dieci anni. Ci espone i dati della ricerca di ActionAid ed UniBari, Fabrizio Coresi, esperto migrazione di Action Aid. Ascolta o scarica
Controfuoco. Per una critica all’ordine delle cose (N° 2, giugno 2025)
> con·tro·fuò·co/ > Incendio, appiccato volontariamente, > per eliminare il materiale > combustibile e quindi contrastare > l’avanzata di un incendio di grandi > proporzioni, spec. nei boschi. ARCHITETTURE DEL CONFINAMENTO: IL TRATTENIMENTO COME INFRASTRUTTURA L’editoriale di Francesco Ferri e Omid Firouzi Tabar Sono passati oramai dieci anni dalla cosiddetta “crisi dei rifugiati” e appare sempre più chiaro come il regime complessivo di regolamentazione, filtraggio e selezione della mobilità delle persone migranti sia vivendo una preoccupante virata autoritaria e repressiva, una recrudescenza che vede nella privazione della libertà un fattore sempre più diffuso, strutturale e normalizzato. Questa “sicuritarizzazione” dell’apparato sicuritario-umanitario, che vediamo da alcuni anni intrecciare e ibridare dinamiche di controllo e segregazione con quelle dell’assistenzialismo compassionevole e infantilizzante, si sta progressivamente infiltrando gran parte dei contesti legati alle migrazioni. Lo vediamo nelle narrazioni mediatiche sempre più stigmatizzanti, nel piano normativo che restringe progressivamente diritti e garanzie e nelle prassi istituzionali sempre più segnate da dinamiche di abbandono socio-economico e dalla moltiplicazione degli ostacoli amministrativi e burocratici. Stiamo assistendo in primo luogo a un vero e proprio attacco frontale al diritto di asilo per come lo abbiamo conosciuto, che si materializza attraverso la progressiva centralità di concetti come “paesi sicuro” e alle conseguenti procedure “accelerate” o di “frontiera”. In questo senso la richiesta di protezione internazionale non è più soltanto preludio a una vera e propria trappola sociale, ma è sempre più un’opzione che viene semplicemente negata, soprattutto per sottrarre le persone al pacchetto di diritti che tutt’ora implicherebbe. In tale direzione vanno legislazioni nazionali e il nuovo Patto europeo su migrazioni e asilo, punto di svolta decisivo delle politiche migratorie continentali. A questa erosione del diritto di asilo si accompagna una sorta di “Hotspotizzazione” della regolamentazione delle persone anche oltre alle fasi successive all’approdo. Al netto della resistenza, talvolta anche ostinata, di alcuni tribunali, la prospettiva politica sembra essere quella di dare una progressiva centralità (non soltanto simbolica) a strutture classicamente detentive come i Cpr, ma anche a strutture ibride di trattenimento come i centri albanesi (e altri che fioriranno sul perimetro europeo per le “procedure di frontiera”), e quelli di Pozzallo e Porto Empedocle adibiti per le “procedure veloci”. In parallelo, la costante minaccia di “deportabilità” in questi luoghi, ben agevolata dalla diffusione di misure di militarizzazione urbana come le “Zone Rosse”, diventa ingrediente ricattatorio di estrema violenza. Senza scordarci, per completare questo cupo quadro, di una certa intensificazione della criminalizzazione delle pratiche solidali, soprattutto in mare, e di quella, statisticamente preoccupante, dello smuggling e dei cosiddetti “capitani”, che sta allargando la stretta penale su un numero sempre più vasto di migranti. Tutto ciò non sembra proiettarsi nella direzione di un rafforzamento di forme di mera esclusione ed estromissione delle persone dalla cosiddetta “Fortezza Europa”, concetto che ci appare oggi anche poco funzionale, talvolta del tutto fuorviante, per leggere in profondità i processi in corso e le razionalità che li sottendono. In campo sembra invece persistere un’economia politica del modello confinario imperniata su dinamiche di selettività e di violenta (im)mobilizzazione, orientate a garantire nuove linee di inclusione subalterna e di produzione di soggettività, più che a materializzare una rigida (e improduttiva) impermeabilizzazione del perimetro europeo. Più che alla tensione tra rigide linee che separano estromissione da e inclusione nello spazio europeo, dobbiamo in sintesi sforzarci a cogliere tensioni e conflittualità sempre più molecolari e interstiziali tra espressione di mobilità indisciplinata e tentativo di produzione di soggettività esposte a forme sempre più intensive di sfruttamento lavorativo e di stigmatizzazione utile a nutrire le retoriche sicuritarie. Questi nuovi sviluppi si materializzano dentro una congiuntura di guerra che, oltre alle uccisioni, ai massacri, ai genocidi e alle devastazioni che produce nelle zone di conflitto dove è materialmente in atto, si espande in quanto regime complessivo di produzione di linee di comando, ispirando drammaticamente molte politiche europee tra cui quelle che riguardano migrazioni e confini. In questo scenario bellico la costruzione dei blocchi e delle polarizzazioni, strutturati intorno a un ritorno di costruzioni identitarie come popolo, stato e nazione, produce inevitabili e considerevoli ripercussioni nei regimi di  “bordering” e di “othering”, ponendosi come frame perfettamente coerente con la stretta sicuritaria vissuta in questa fase storica in molti territori europei. Scendendo su un piano più concreto, l’analisi del “modello Albania” fornisce indicazioni utili per cogliere le tendenze che attraversano il regime confinario. Il funzionamento del centro di Gjader ha evidentemente caratteristiche peculiari ma non è, dal punto di vista della logica che lo informa, un’eccezione. Questo progetto, infatti, rende visibile e leggibile una delle traiettorie più rilevanti del governo della mobilità: l’estensione selettiva del trattenimento come pratica ordinaria. In Italia, la detenzione amministrativa si presenta come diffusa ma non generalizzata: uno scarto importante, da cogliere per darne preciso rilievo politico. Infatti, la gran parte delle persone rimpatriate non passa dai Cpr. Ma questo dato non ridimensiona il ruolo politico di quei centri. Al contrario, lo chiarisce: i Cpr non funzionano per volumi, ma per effetto. Producono una pedagogia della minaccia, inscrivono nella vita migrante una moltiforme precarietà costitutiva, alimentano una condizione permanente di esponibilità alla violenza e al rimpatrio. Il modello Albania riproduce questa stessa logica: poche persone effettivamente trattenute bastano a produrre un salto, simbolico e materiale, nell’architettura del confinamento. È per questo che l’analisi non può fermarsi ai numeri. Serve uno sguardo qualitativo e politico sulla detenzione, che è poi quello che questo numero di Controfuoco tenta di portare. Le molteplici forme del trattenimento non vanno valutate unicamente sulla base della capienza o del tasso di rimpatri che producono, ma interrogati come dispositivi: macchine selettive di produzione della soggettività e della forza-lavoro migrante. Le loro funzioni travalicano i corpi che rinchiudono. La violenza concreta che esercitano non va dunque ridimensionata, ma compresa nella sua estensione. La lista dei diritti violati – libertà personale, difesa, salute, unità familiare – è solo la soglia di un impatto più ampio: una violenza sistemica, che agisce al di là delle griglie giuridiche. È una violenza strutturale, fatta di trattamento differenziale, segregazione materiale e simbolica, disciplinamento sociale. Il trattenimento va allora letto come infrastruttura, non come eccezione. Non è una parentesi nella vita migrante, ma una condizione che incide sui tempi, gli spazi, le possibilità di movimento e di relazione. La deportabilità – più che la deportazione effettiva – è oggi la condizione generalizzata che definisce la collocazione sociale di ampi settori di soggettività migrante. Il rischio permanente della detenzione orienta le traiettorie, comprime le aspettative, spezza le reti, contribuisce alla collocazione nel mercato del lavoro, nei modelli dell’abitare. È in questo scenario che si colloca il presente numero di Controfuoco, dedicato alle molteplici forme del trattenimento. Le attraversa, le connette, le storicizza. Non per restituirne un’immagine unitaria, ma per mapparne le articolazioni, le ricadute, le resistenze. Il trattenimento non è ai margini: è un asse portante delle politiche migratorie. È dentro la società, ne riflette le gerarchie, ne rafforza i confini. L’ambizione di questo numero è chiara: contribuire, con strumenti agili e accessibili, alla politicizzazione del dibattito sul trattenimento. Passando in rassegna i vari contributi, Chiara Denaro presenta delle riflessioni che riguardano i nuovi piani di sperimentazione della detenzione migrante. Si parla dei centri di Pozzallo e Porto Empedocle, pensati per trattenere migranti giunti dai “paesi sicuri”, mentre viene esaminata la loro richiesta di protezione internazionale. L’autrice si sofferma in particolare sulla privazione della libertà vista come ingrediente sempre più diffuso del controllo delle migrazioni e sul ruolo svolto dai giudici e dal diritto in questo campo di tensioni. Francesco Ferri presenta una riflessione critica rispetto a un tema che ha avuto recentemente molta amplificazione mediatica, quello dei centri di detenzione in Albania. Ferri si sofferma nello specifico sulla funzione latente di questi luoghi, interpretati come strumenti punitivi che incarnano, anche in prospettiva delle nuove politiche europee, uno specifico modello di controllo della mobilità indisciplinata. In particolare emerge l’idea che tali luoghi rappresentino un confine interno esternalizzato, dove la dislocazione della detenzione pone, tra i vari, seri problemi dal punto di vista del controllo giurisdizionale e della tutela legale. Il tema della detenzione amministrativa è stato approfondito da Rocco Sapienza, in relazione alla struttura collocata a Palazzo San Gervasio, in Provincia di Potenza. Le riflessioni intorno a questo Cpr si soffermano non soltanto sulla violenza istituzionale agita con le forme del trattenimento all’interno di questo luogo, ma si sviluppano anche in riferimento alla sua collocazione nel territorio e in particolar modo nelle reti e infrastrutture dello sfruttamento lavorativo. La progressiva recrudescenza delle politiche di controllo delle migrazioni e la crescente centralità di strumenti necropolitici e repressivi è la cornice di riferimento del contributo di Francesca Esposito. L’autrice, focalizzandosi sul tema della detenzione amministrativa in Italia e in Europa, propone una riflessione critica di orientamento transfemminista e abolizionista indicando la necessità di guardare alle molteplici interconnessioni tra la violenza confinaria e violenza di genere, con particolare riferimento allo sguardo portato nel dibattito attuale dal femminismo anticarcerario. Anche il contributo di Luca Ceraolo affronta il tema della detenzione delle persone migranti all’interno del Cpr. Tenendo la salute mentale come cornice generale di riferimento, in questo contributo viene messa a fuoco la relazione tra diversi campi del sapere – con particolare attenzione a quello medico – nelle pratiche detentive e la materializzazione di un “continuum coloniale” nei processi di stigmatizzazione che riguardano le soggettività migranti. Luca Daminelli e Andrea Contenta si focalizzano sulla Grecia e sul borderscape rappresentato da quella particolare porta d’ingresso verso l’Europa, segnata fortemente dagli accordi con la Turchia che continuano ad avere molteplici conseguenze. In questo contributo l’attenzione è rivolta ai dispositivi di privazione della libertà, che fungono in modo sempre più diffuso e normalizzato come strategie di regolamentazione, esclusione ed inclusione subalterna dei migranti irregolarizzati, ma anche dei richiedenti asilo. Infine troviamo le riflessioni presentate da Giovanni Marenda, che volge lo sguardo verso la Bulgaria, di nuovo imperniate sull’analisi della centralità assunta dalla pratica della detenzione nel governo delle migrazioni indisciplinate. Secondo l’autore le prassi osservabili in quel territorio, segnate da diffusi soprusi e violenze discrezionali degli attori istituzionali, possono essere interpretate come una sorta di anticipazione del recente Patto europeo sulle migrazioni che tende ad incorporarle, legalizzandole. Quest’ultimo infatti viene immaginato non tanto come cambio di paradigma, ma come normalizzazione di un sistema che prevede lo strapotere di polizia e la generalizzazione della detenzione come fulcri operativi. CONTROFUOCO N° 2 GIUGNO 2025 SOMMARIO I nuovi centri di detenzione per i richiedenti asilo. Genealogia di un fallimento governativo Chiara Denaro Da dove viene la singolare pretesa di trasportare i migranti in Albania per aumentare i rimpatri? Francesco Ferri Geografia del controllo: note da Palazzo San Gervasio Rocco Sapienza Per una critica transfemminista abolizionista della detenzione amministrativa in Italia Francesca Esposito Politiche della diagnosi e continuum della colonia. Riflessioni sulla salute nella detenzione amministrativa Luca Ceraolo La Grecia scudo d’Europa. Di razzismo istituzionale, condizioni di vita inumane e politiche di morte Andrea Contenta e Luca Daminelli Reclusi alla periferia d’Europa. Uno sguardo sulla detenzione dei migranti in Bulgaria Giovanni Marenda Clicca sull’immagine di copertina per scaricare gratuitamente la rivista o qui sotto Download in pdf Acquista una copia cartacea Fotografie: Silvia Di Meo, Rami Sole, Luca Greco, Marios Lolos, Francesco Cibati, Rocco Sapienza, Stop CPR Roma e Mel Progetto grafico: Giacomo Bertorelle Gruppo redazionale: Jacopo Anderlini, Emilio Caja, Francesco Della Puppa, Francesco Ferri, Enrico Gargiulo, Barbara Barbieri, Stefano Bleggi, Giovanni Marenda, Omid Firouzi Tabar, Martina Lo Cascio La foto di copertina è stata scattata durante la mobilitazione del Network Against Migrant Detention in Albania l’1 e 2 dicembre 2024. NAMD è una rete di attivist* transnazionale che chiede l’abolizione della detenzione amministrativa. Cooperativa editrice Tele Radio City s.c.s., Vicolo Pontecorvo, 1/A – 35121 Padova, Italy, Iscr. Albo Soc. Coop. n. A121522 Melting Pot è una testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Padova in data 15/06/2015 n. 2359 del Registro Stampa. Controfuoco è un processo aperto e collettivo che vuole coinvolgere saperi e conoscenze composite e crescere a partire dalle diverse esperienze e biografie che intreccerà. Per contribuire scrivi a collaborazioni@meltingpot.org.
I campi di Gjadër e Shëngjin come il punto d’arrivo della civiltà italiana in Albania
Fabio Bego 1 I campi per persone migranti a Gjadër e Shëngjin sono alcune delle ultime manifestazioni delle politiche espansionistiche italiane nel Mediterraneo. Parafrasando l’argomentazione di Giorgio Agamben in Homo Sacer, col termine “campi” si intendono quei strumenti utilizzati per governare persone e comunità la cui umanità è stata sospesa. I campi sono un elemento ricorrente nella storia Albanese-Italiana. Essi sono utensili politici e culturali tramite cui l’Italia ha dato forma al paesaggio albanese come i palazzi che si trovano nel centro di Tirana. Questo articolo punta ad esaminare la posizione dei campi all’interno del quadro più ampio di politiche italiane in Albania. I CAMPI E IL MITO DEL SALVATORE ITALIANO I campi sono il punto d’arrivo del salvatore italiano, un mito del XIX secolo creato da diplomatici, scrittori e politici italiani per giustificare l’espansione italiana nei territori albanofoni dell’impero Ottomano. Il mito dipinge gli albanesi come una comunità perennemente povera, morta di fame, criminale e selvaggia, che non può progredire senza il sostegno dell’Italia. Nel passato come nel presente, i campi sono camuffati sotto la formula del progresso razziale e dell’europeizzazione. Gli Albanesi sono rappresentati a volte come bianchi, altre come non-bianchi, a seconda delle contingenze. Questa narrativa servì per giustificare l’annessione italiana dei territori albanesi tra il 1914 e il 1920, il controllo politico ed economico dell’Albania nel periodo interbellico, e la cosiddetta “unione” del 1939-1943. I campi non sono necessariamente delle entità territoriali, ma piuttosto strumenti per la territorializzazione dello spazio coloniale. L’architettura del campo inizia a prendere forma con la creazione delle frontiere albanesi nella Conferenza di Londra del 1913 e nella Conferenza di Pace di Parigi nel 1919. Similmente ad altri paesi colonizzati i cui destini furono decisi dalle Grandi Potenze, le frontiere dell’Albania furono designate a detrimento delle popolazioni locali. Le vie di mobilità che collegavano le aree rurali ai centri dei precedenti vilayet ottomani furono interrotte dalle nuove frontiere. La popolazione dovette scegliere tra la carestia, la migrazione e la resistenza armata. La militarizzazione delle regioni di frontiera e la lotta per le risorse e le lealtà politiche, trasformarono l’area in una zona di guerra che si protrasse per decenni. Le Grandi Potenze danno e le Grandi Potenze prendono. Cosi come avviene per altri Stati coloniali, le mappe dei Balcani sono fatte per durare fino al prossimo giro di spartizioni. Con lo scoppio della Grande Guerra, l’Impero Britannico, quello Francese e quello Russo, riconobbero all’Italia l’annessione di Valona e un protettorato sul resto dell’Albania. Le autorità italiane si auto-elogiavano per i lavori di modernizzazione a Valona, l’apertura di scuole, i servizi medici, le leggi civili e la costruzione di strade, dicendo di aver operato in continuità con la buona “tradizione coloniale di Roma“. Ma nonostante questa retorica civilizzatrice, la popolazione si sentì trattata coma “la peggiore delle colonie” ed attaccò le forze italiane nel sud dell’Albania a giugno del 1920. Dopo due mesi di combattimenti, il primo ministro italiano Giovanni Giolitti ritirò le truppe, risparmiando le vite dei soldati. > Questo risvolto non pose fine ai piani italiani per colonizzare l’Albania. > > Manifestazione del Network Against Migrant Detention al porto di Shëngjin > (1.12.2024) – PH: Ramiasole “L’abbandono di Valona” nutrì il mito della “vittoria mutilata” che portò il Partito Nazionale Fascista al potere nel 1922. Mussolini co-optò il Primo Ministro albanese Ahmet Zogolli – che divenne re dell’Albania nel 1928 – attraverso accordi politici, finanziari, e militari che diedero all’Italia un ruolo predominante nel Paese. Nel 1925, l’Italia e l’Albania siglarono accordi per la fondazione della Società per lo Sviluppo Economico dell’Albania (SVEA) e per la fondazione della Banca Nazionale d’Albania. La SVEA fu finanziata tramite un debito che Tirana contrasse con l’Italia. Gli accordi furono molto vantaggiosi per l’Italia, perché le consentirono di costruire l’infrastruttura necessaria per espandersi economicamente, politicamente e militarmente in Albania a spese degli albanesi. I termini “semi-colonia” o “protettorato” sono utilizzati per descrivere il posizionamento dell’Albania verso l’Italia nel periodo interbellico. Migliaia di Italiani si trasferirono in Albania per lavorare nei progetti della SVEA. La progressiva ingestione dell’Albania da parte dell’Italia fu accompagnata da una campagna propagandistica condotta da diplomatici, giornalisti e registi che perpetuarono il mito del salvatore italiano. L’Istituto LUCE produsse decine di film in Albania per promuovere il ruolo civilizzatore dell’Italia. Il giornalista Filippo Tajani offriva consigli per gli italiani che volevano fare fortuna nella semi-colonia, affermando che l’Albania aveva un potenziale economico ancora poco sfruttato. Sandro Giuliani, direttore de Il Popolo d’Italia, incoraggiava gli albanesi ad “aprire le porte” agli italiani, una frase che suona amaramente ironica se comparata con le attuali politiche migratorie dell’Italia. Dopo aver trasformato l’Albania in un’appendice dell’Italia, il potere di Zog svanì il 7 aprile 1939, quando l’Italia invase e annesse lo Stato vicino. La propaganda fascista giustificò l’annessione presentandola come un debito che gli albanesi dovevano all’Italia per il suo lavoro di civilizzazione. Così come in altri contesti coloniali, il campo divenne un mezzo fondamentale per governare le popolazioni locali. Il giornalista Indro Montanelli nel suo libro Albania una e mille, scrisse che l’Albania aveva bisogno di disciplina fascista e che lo “Stato albanese“, un’espressione usata per indicare il governo di Tirana che era controllato dagli italiani, doveva essere forte e pronto allo spargimento di sangue se necessario. I campi erano una modalità di prendersi cura coloniale e un risolutivo mezzo di civiltà. Secondo gli storici albanesi, l’Italia costruì circa venti campi di concentramento nei territori albanesi. Molti prigionieri furono internati solo sulla base del sospetto o per legami famigliari con oppositori del regime. A Porto Romano, nei sobborghi di Durazzo, non molto lontano da Shëngjin, fu costruito il campo di concentramento “0“. Un testimone raccontava che nel campo erano detenuti oltre 2000 prigionieri tra albanesi, jugoslavi e greci. A loro venivano dati 150 grammi di pane al giorno, un po’ di brodo e mezza gavetta d’acqua. A volte erano lasciati senza niente nel caldo dell’estate. Quelli che si lamentavano venivano picchiati e alcuni morirono per gli abusi. Mentre nella memoria collettiva italiana non si preserva quasi alcuna traccia di questi eventi, in Albania socialista il campo di Porto Romano è stato descritto nel libro di memorie Nell’inferno fascista (Në skëterrën fashiste, 1968) di Ylli Poloska e nel film Inferno 43′ (Skëterrë 43′, 1980), diRikard Ljarja. I campi sono designati per la reclusione di persone e comunità sradicate dalle loro terre al fine di facilitare la conquista imperiale e annientare la resistenza anti-coloniale. In recenti video postati dall’amministrazione statunitense, le deportazioni hanno assunto un carattere performativo al fine di sembrare efficaci e suscitare reazioni emotive in chi guarda. Durante la Seconda Guerra Mondiale migliaia di albanesi furono deportati in campi di concentramento in Italia. I prigionieri erano spesso fatti passare davanti alla popolazione civile italiana per provocare aggressioni razziste. Ma i campi erano anche luoghi di resistenza e mobilitazione anti-coloniale transnazionale. Nel campo di Ustica i prigionieri albanesi incontrarono l’ex sindaco di Piana degli Albanesi Francesco Cuccia il quale era stato condannato all’internamento a vita perché aveva insultato il Duce. Cuccia, che era Arbëresh, era felice di incontrare i suoi compatrioti e condivise con loro porzioni extra di cibo. A Ustica, gli albanesi solidarizzarono con comunisti italiani e jugoslavi organizzando eventi per celebrare il primo maggio. L’Albania riconquistò la sua indipendenza dopo la Seconda guerra mondiale, ma non riuscì a disfarsi dello stigma del povero-selvaggio-criminale-morto-di-fame. Durante la Guerra Fredda, l’Albania era vista non solo come povera, ma anche come una colonia sovietica e una minaccia per il “mondo libero“. Dopo la rottura con Mosca nel 1961, essa fu etichettata come “isolazionista“, “stalinista” e “dogmatica“. Questi termini non erano ricavati da studi approfonditi, ma erano ispirati dalla retorica della Guerra Fredda e furono utili a perpetuare la narrazione degli albanesi come un popolo violento e primitivo. Manifestazione del Network Against Migrant Detention al CPR a Gjader (1° dicembre 2024) – PH: Ramiasole LA STORIA SI RIPETE Come tragedia o come farsa, la storia non cesserà mai di ripetersi finché le gerarchie coloniali saranno alla base delle relazioni tra Stati e comunità. Dopo aver attivamente sostenuto la caduta del regime comunista – il cui progetto modernista riproduceva la logica del campo – l’Italia così come gli altri Paesi dell’Europa Occidentale continuarono a tenere le frontiere dell’Albania sigillate. Le politiche neo-liberali mirano ad organizzare il mondo tramite relazioni di potere asimmetriche affinché Paesi benestanti Occidentali possano liberamente disporre dei Paesi “in via di sviluppo” e delle loro popolazioni. La funzione di quest’ultimi nel contesto globale è diventare una risorsa poco costosa per lavoro e sesso. Ma i giovani dei ghetti non sono sempre disposti ad accettare il futuro che le Grandi Potenze si cimentano a (ri)scrivere per loro. Così come i dannati descritti Fanon, gli albanesi degli anni Novanta assalirono le cittadelle dei neo-colonizzatori squartando navi e attraversando mari. L’Italia reagì spostando le frontiere in avanti, all’interno del territorio albanese. Nel 1991, il governo post-comunista – che era sussidiato dall’Italia e da altri Stati Occidentali – permise all’Esercito italiano di condurre una presunta missione umanitaria in Albania chiamata “Operazione Pellicano“. Il governo albanese accettò inoltre che la Marina Militare italiana controllasse le sue acque territoriali. Nel frattempo, narrazioni razziste propagate dalle televisioni e dai giornali del Bel Paese, pompavano il mito del salvatore italiano e dell’albanese selvaggio-criminale-povero-morto-di-fame. Gli albanesi che cercarono di andare in Italia divennero ciò che Sarah Ahmed ha chiamato “oggetti di frontiera“, e cioè persone designate ad ispirare odio, paura e disgusto al fine di consolidare l’unità nazionale e razziale. I campi divennero di nuovo il punto culminante del salvatore italiano. Nel 1991, circa 20.000 albanesi furono rinchiusi nel vecchio stadio di Bari sotto il sole di agosto senza acqua e cibo come nel campo di concentramento “0“. La narrazione razzista dell’albanese selvaggio-criminale-povero-morto-di-fame raggiunse l’apice nel 1997, quando l’Albania affrontò una grande crisi finanziaria e politica causata dall’introduzione dell'”economia di mercato“. Il 28 marzo 1997, circa 130 albanesi presero una barca a Valona e si diressero verso l’Italia. La Marina Militare mise in atto un blocco navale, bullizzando e uccidendo gli albanesi. La Katër i Radës, l’imbarcazione su cui viaggiavano gli albanesi, fu speronata ed affondata dalla nave di guerra Sibilla, che era molto più grande. Il numero dei morti è incerto, ma fonti ministeriali albanesi basate sulle testimonianze dei sopravvissuti riportano 92 vittime. I pochi che sopravvissero furono messi nei campi per migranti con migliaia di altri compatrioti. Una campagna di deportazioni di massa fu condotta in modo violento davanti alle telecamere all’inizio di dicembre del 1997. In aprile 1997, l’Esercito italiano ritornò in Albania come membro di una più vasta operazione internazionale di peacekeeping chiamata Operation Alba che durò fino ad agosto. La presenza dei militari italiani in Albania è stata normalizzata negli anni Novanta. In quel periodo la Guardia di Finanza stabilì presidi permanenti a Durazzo e Valona. L’abitudine alle divise italiane, è una delle ragioni per cui pochi albanesi si scandalizzarono quando Edi Rama autorizzò l’Italia a costruire campi per migranti. Gli albanesi sanno che il loro governo ha una limitata sovranità sui territori nazionali e non ha la capacità di difenderlo da aggressioni esterne. La configurazione territoriale dell’Albania rimane revisionabile e l’Italia occuperà di nuovo il Paese nel caso emergano gravi tensioni internazionali o se dovesse scoppiare una guerra. Manifestazione del Network Against Migrant Detention al porto di Shëngjin (1.12.2024) – PH: Ramiasole IL COLONIALISMO DEI VEGLIARDI Sin dal XIX secolo gli albanesi sono stati per gli Italiani con popolo criminale con tradizioni selvagge. Questa immagine caratterizza la maggior parte dell’opinione pubblica italiana sugli albanesi, come si può notare leggendo i giornali, i commenti nei social media o guardando film recenti come Svaniti Nella Notte (Renato De Maria, 2024). Tuttavia ultimamente l’Albania è stata rappresentata anche come un Paese che sta progredendo, soprattutto grazie all’Italia. Questa campagna mira ad incoraggiare aziende italiane ad “investire” in Albania al fine di approfittare dei bassi costi di produzione. L’Italia è orgogliosa e gelosa di essere il primo partner commerciale dell’Albania grazie all’alto numero di scambi commerciali ed alle presunte 3000 aziende italiane che operano nel Paese vicino. I tentativi dell’Italia di migliorare la percezione pubblica dell’Albania si sono intensificati dopo la firma dell’accordo per la costruzione dei campi per convincere le masse elettorali che l’Albania è un partner affidabile. Il Giro d’Italia del 2025 era parte di questa attività promozionale. La RAI ha mostrato l’Albania come un luogo esotico per possibili vacanzieri italiani. La politica dell’Italia è sostenuta da politici, uomini d’affari e giornalisti albanesi per i loro interessi personali con un grado di servilismo tale da mettere in imbarazzo anche le stesse autorità italiane. La “trattoria Meloni” a Shëngjin e i gesti di sottomissione che Edi Rama mette in atto ogni volta che vede la sua omologa italiana sono i casi più emblematici. Un nuovo picco di servilismo è stato raggiunto nel programma Realitete Shqiptaro-Italiane (Realtà italo-albanesi). Dal reportage “Cronache da Shëngjin” di Linda Dalmonte e Ilaria Mohamud Giama Trasmesso dalla TV nazionale RTSH, il programma è il tentativo più degradante di disseminare il mito del salvatore italiano che abbia mai visto. Il programma inizia con una raccapricciante foto di Rama e Meloni dopo la firma del “protocollo” che autorizzò la costruzione dei campi. Lo scopo di ogni episodio o puntata come vengono definite dal presentatore nel tentativo di italianizzare il vocabolario albanese, è rappresentare l’Italia come il Paese che sta portando l’Albania in Europa. L’Albania è descritta come un Paese sicuro per aziende italiane e pensionati che beneficiano di un regime di tassazione ridotta. Il programma sembra suggerire che nel XXI secolo, i tipici coloni italiani non sono più giovani lavoratori, di cui peraltro l’Italia scarseggia anche in virtù di questioni demografiche. Ma sono soprattutto cittadini anziani alla ricerca di tranquillità e di servizi dentistici a buon mercato. Il presentatore albanese trascura il carattere violento e sfruttatore delle passate politiche dell’Italia in Albania. Evita inoltre di menzionare il trattamento brutale riservato ai migranti albanesi dalle autorità italiane e non fa parola dei campi di Gjadër e Shëngjin. Ovviamente non parla nemmeno delle torture che i migranti devono sopportare ogni giorno in campi simili in Italia. Queste forme di “civiltà” europea che l’Italia ha esportato in Albania sin dal XIX secolo non hanno posto nella sua favoletta. Invece di dar voce alle migliaia di albanesi che vivono e lavorano in Italia da molti anni e sono trattati come cittadini di seconda classe perché non gli vengono concessi i documenti o la cittadinanza, il presentatore fantastica sull’esistenza di un popolo “italo-albanese” che a suo avviso starebbe emergendo grazie a famiglie di origine mista. La sua narrativa è molto simile a quella del regime di occupazione negli anni 1939-1943 che dipingeva l’annessione dell’Albania come una volontaria “unione di destini“. Ma questa favola è smontata da alcuni intervistati. Una ragazza albanese nata in Italia afferma che i sui genitori ebbero una vita difficile per il modo in cui erano trattati dagli italiani. Una pensionata italiana dice di sperare che l’Albania non diventi mai come l’Italia che è stata svenduta. Nella sezione di commenti delle pagine YouTube dove sono caricati i video del programma, alcuni accusano il giornalista di aver tradito il suo Paese e di fare propaganda per l’Italia. Porto di Shëngjin (1° dicembre 2024) PH: Simone Rosa VIOLENZA E ANIMA COLONIALE Nel passato come nel presente i campi sono solo una parte del progetto espansionista italiano in Albania e non devono essere considerati separatamente. Il controllo dei corpi e la necessita di disciplinarli tramite mezzi di terrore e violenza sono direttamente legati alle politiche economiche per la produzione di energia e di armi che l’Italia ha intrapreso nella regione. Nel gennaio 2025, Italia, Albania ed Emirati Arabi Uniti hanno siglato un accordo per lo sviluppo di progetti che puntano a trasformare l’Albania in un luogo per la produzione di energie “rinnovabili” da trasferire in Italia. In quell’occasione, Giorgia Meloni ha parlato della necessità di considerare l’energia atomica facendo ipotizzare l’avvio di negoziati la costruzione di centrali nucleari italiane in Albania. L’8 aprile, Fincantieri e l’agenzia di Stato albanese per la produzione di armi Kayo hanno siglato un “Memorandum of Understanding” per la costruzione di navi da guerra. In una recente intervista con il giornalista albanese Blendi Fevziu, il nuovo ambasciatore Italiano a Tirana Marco Alberti, ha annunciato che la più grande azienda Italiana produttrice di armi Leonardo, sta per arrivare in Albania. Similmente alla propaganda condotta dall’Italia nel periodo interbellico, Alberti pensa che il potenziale dell’Albania non è ancora sfruttato a dovere. L’arrivo dell’industria militare italiana è inserita all’interno di un discorso che mostra come l’Italia stia portando l’Albania più vicina all’UE. I campi di Gjadër e Shëngjin sono la continuazione di una storia di espansione imperialista, morbosa cura coloniale e disciplina fascista. I campi di concentramento della Seconda Guerra mondale e i più recenti campi per migranti non sono il risultato di politiche contingenti necessarie per affrontare eventi eccezionali come un conflitto globale o una “crisi migranti“. La costruzione dei campi è la proiezione della coscienza imperialista Occidentale e il prodotto dell’addomesticamento dello spazio albanese. Il rapporto coloniale non è qualcosa che va è viene; non è uno spirito errante, ma un’anima che risiede all’interno relazioni italo-albanesi. La storia dell’Italia verso l’Albania è una storia di colonizzazione, mentre la storia dell’Albania verso l’Italia è una storia di resistenza. I campi sono la concrezione di questo rapporto dialettico. Nota: Una prima versione di questo articolo è stata presentata nella conferenza “Coloniality and Migration Governance” organizzata dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Palermo il 26 e il 27 maggio 2025. 1. Sono ricercatore e curatore cinematografico, co-fondatore del Festival del Cinema Albanese “Albania si Gira” che si tiene a Roma. Mi occupo principalmente di narrazioni balcaniche e postcoloniali, temi che esploro attraverso pubblicazioni accademiche e progetti come Kinostories a Bruxelles. Collaboro con l’Istituto di Storia dell’Accademia Bulgara delle Scienze e ho scritto per riviste e piattaforme come Nationalities Papers, Black Camera, Hope Not Hate e Balkan Insight. Faccio parte della comunità di esperti dell’EU Knowledge Hub on the Prevention of Radicalisation ↩︎
MIGRANTI: RINVIO ALLA CORTE UE SUL PROTOCOLLO ITALIA-ALBANIA. LA CASSAZIONE SOLLEVA DUBBI SULLA LEGITTIMITÀ
La Corte di Cassazione ha trasmesso due questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per chiarire la compatibilità del Protocollo Italia-Albania con il diritto comunitario. Un passaggio che mette in discussione la legittimità del trasferimento di richiedenti asilo nei Centri di permanenza e rimpatrio (CPR) previsti sul territorio albanese. In particolare, la Cassazione ha sollevato dubbi circa la coerenza del protocollo con la Direttiva Rimpatri e la Direttiva Accoglienza, due capisaldi del sistema europeo in materia di gestione delle migrazioni e protezione internazionale. Una risposta potrebbe arrivare in pochi mesi. Le questioni riguardano due casi: quello di un migrante in situazione di irregolarità amministrativa e quello di un richiedente asilo che ha fatto domanda di protezione internazionale da dietro le sbarre di quel Cpr. Per il primo il dubbio è che il trasferimento dall’Italia all’Albania contrasti con la direttiva rimpatri. Per il secondo un analogo sospetto riguarda la direttiva accoglienza. Il tema è quello della territorialità: la prima sezione penale, afferma il Manifesta che ha anticipato la notizia, è tornata sui propri passi capovolgendo una precedente decisione in cui aveva equiparato il Cpr di Gjader a quelli che si trovano in Italia. Il rinvio alla Corte europea arriva dopo una serie di pronunce contrarie da parte delle sezioni immigrazione e delle Corti d’appello italiane, che hanno più volte sottolineato profili di incostituzionalità o contrarietà ai trattati internazionali. Ai microfoni di Radio Onda d’Urto, l’intervista all’avvocato Nicola Canestrini. Ascolta o scarica.
ALBANIA: ‘INSIEME’ ENTRA IN PARLAMENTO PER “PORTARE LA VOCE DEI PIÙ DEBOLI E DELLA CLASSE LAVORATRICE”
Ampia vittoria del Partito socialista del premier Edi Rama alle elezioni parlamentari che si sono svolte domenica 11 maggio in Albania. Secondo i risultati ufficiali diffusi, i socialisti hanno ottenuto il 52,1% contro il 34,2% della destra di Sali Berisha. Per Edi Rama, il cui partito ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi, inizia quindi il quarto mandato alla guida del paese delle aquile. Restano ancora da conteggiare poche schede provenienti dai residenti all’estero, che non cambieranno in maniera sostanziale i risultati attuali. Entra in parlamento per la prima volta anche “Insieme” – Lëvizja Bashkë – giovanissimo partito politico nato come movimento dal basso e a sinistra. Alfred Bushi, esponente di “Insieme” nuovamente ai nostri microfoni, ha sottolineato come la campagna elettorale di Edi Rama sia stata vuota di contenuti. Il primo ministro “ha usato la sua influenza, il controllo sui media e il clientelismo” per consolidare il proprio potere. Lëvizja Bashkë ha svolto una campagna elettorale praticamente senza budget e mettendo l’accento sui problemi reali dell’Albania: “un paese in cui il salario minimo si aggira intorno ai 400 euro, la pensione minima intorno ai 100 euro, il costo della vita è largamente inadeguato agli stipendi, i servizi pubblici e la sanità non funzionano, un paese da dove centinaia di migliaia di persone sono emigrate”. Il seggio in parlamento ottenuto da Lëvizja Bashkë sarà occupato da Redi Muçi, che avrà il compito di proseguire le lotte del movimento “dando la priorità alle persone coraggiose, preparate e non corrotte”. Redi Muçi, già ospite ai nostri microfoni per commentare l’accordo Italia-Albania per la costruzione del lager per migranti, è un giovane professore alla facoltà di geologia ed è stato uno dei fondatori del partito. Avrà il non facile compito di “portare in parlamento le voci dei più deboli e della classe lavoratrice”. Il collegamento da Tirana con Alfred Bushi, esponente di Lëvizja Bashkë – Insieme. Ascolta o scarica