Tag - Trattenimento - detenzione

CPR di Gjadër e inadeguatezza cure sanitarie: immediata liberazione del trattenuto alla luce della sentenza costituzionale n. 96/2025
Il tribunale di Roma dopo un ricorso d’urgenza ex art. 700 ordina l’immediata liberazione di un cittadino straniero trattenuto nel CPR albanese. Assegnaci il tuo 5‰: scrivi 00994500288 Il Giudice anzitutto ribadisce quanto già affermato in precedenza 1 e ormai definitivamente confermato da Corte Costituzionale n. 96/2025, ossia che questa autorità rimane sempre competente quando al di fuori dei casi specificamente regolati dalla legge si debba richiedere la tutela di un diritto fondamentale del cittadino italiano o straniero che sia. Guida legislativa/CPR, Hotspot, CPA LA CORTE COSTITUZIONALE APRE A NUOVE BATTAGLIE CONTRO LA DETENZIONE AMMINISTRATIVA Avv.ti Salvatore Fachile e Gennaro Santoro Avv. Gennaro Santoro (Roma), Studio Legale Antartide (Roma) 4 Luglio 2025 Richiamando la sopracitata sentenza, in mancanza di una normativa che sancisca le competenze, i diritti e le garanzie al diritto alla salute considera inadeguate le cure apprestate dal CPR (posto che non è previsto che nei CPR l’assistenza sanitaria venga fornita direttamente dal Servizio Sanitario Nazionale, a differenza di quanto previsto per gli istituti penitenziari. L’effettiva gestione della presa in carico sanitaria ricade, infatti, sull’ente gestore privato del centro, il quale eroga i servizi secondo quanto previsto dal capitolato d’appalto specifico. Deve, pertanto, ritenersi che nel caso di specie l’unica misura idonea a tutelare il diritto alla salute del ricorrente sia la cessazione del trattenimento e la immediata liberazione). Un passaggio contenuto nella decisione (ndR.): “Consultando il diario clinico e il consenso alle cure ivi contenuto, nulla di tutto ciò sembra essere avvenuto. Non solo, quindi, il ricorrente non sta ricevendo cure adeguate alla sua condizione di salute, che appare essere in continuo peggioramento, ma la terapia appare essere stata somministrata al di fuori delle condizioni e delle garanzie previste dalla legge. Inoltre, la terapia psicologica consigliata fin dal suo ingresso a Gjader non risulta essere stata attivata, risultando essere stati effettuati solo colloqui di monitoraggio. Dal diario clinico non si evince nemmeno a quale ordine appartengano i medici che hanno in cura il ricorrente e se appartengano o meno al servizio sanitario italiano. Infatti, non risulta essere presente in Albania un presidio fisso del Servizio Sanitario Nazionale italiano, mentre appare evidente la necessità che il ricorrente debba essere preso in carico da una struttura adeguata quale il centro di salute mentale presso la ASL. Deve, pertanto, ritenersi che le modalità con cui attualmente il ricorrente è trattenuto presso il CPR di Gjader siano lesive del suo diritto fondamentale alla salute. L’irreparabilità dei danni che possono derivare dalla carenza delle cure e dal peggioramento costante delle condizioni di salute del ricorrente, dagli esiti imprevedibili, giustifica, poi, l’adozione del decreto inaudita altera parte“. In conclusione, il tribunale richiama la recente sentenza della Corte Costituzionale, ma ricorda come quest’ultima non ha fornito indicazioni in ordine ai poteri spettanti al giudice civile. E quindi si riserva eventualmente di interrogare la Corte di Cassazione con un rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art 363 bis c.p.c., al fine di chiarire quali siano le prerogative del giudice civile anche in ordine alle misure alternative, al trasferimento da un determinato Cpr etc. . Tribunale di Roma, decreto del 28 luglio 2025 Si ringrazia l’Avv. Salvatore Fachile per la segnalazione e il commento. 1. Si veda: Tribunale di Roma, ordinanza del 2 settembre 2024 ↩︎
Marco Cavallo scende in piazza: un viaggio contro i CPR, lager del presente
Marco Cavallo è una grande scultura azzurra, alta circa quattro metri, realizzata nel 1973 dai pazienti e dagli operatori del manicomio di San Giovanni a Trieste, durante l’esperienza di Franco Basaglia. Nella sua pancia, i ricoverati inserirono biglietti con i loro desideri. Il 21 gennaio 1973 Marco Cavallo fu portato fuori dal manicomio in un corteo che abbatté muri fisici e simbolici. Quel momento divenne il simbolo della lotta contro l’internamento psichiatrico e per la libertà, contribuendo alla riforma che chiuse i manicomi in Italia. Oggi Marco Cavallo torna a camminare per abbattere un’altra forma di esclusione: i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR). Il progetto, lanciato a febbraio, dal Forum Salute Mentale e inserito nella campagna nazionale #180 Bene Comune, ha già raccolto decine di adesioni da associazioni, gruppi, operatori, comitati, attivisti e reti locali e nazionali 1. Un fronte plurale che chiede con forza la chiusura dei CPR e la fine della detenzione amministrativa. «Come poteva il Forum della Salute Mentale, che tanto si è battuto per la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari e che accompagnò il Cavallo azzurro nelle manifestazioni, restare indifferente davanti allo scandalo dei CPR?» scrive Francesca de Carolis, una delle voci editoriali del Forum. «Strutture che, per molti aspetti, ricordano gli OPG, ma che sono ancora più crudeli. Qui sono rinchiuse persone il cui “reato” è stato varcare un confine, spinte da guerre, difficoltà economiche e dal desiderio legittimo di una vita migliore. Migranti colpevoli di “desiderio di vivere”». Nel suo articolo de Carolis racconta come Marco Cavallo si muova verso i CPR per denunciarne l’orrore. Oggi in Italia ci sono dieci CPR, nati con la legge Turco-Napolitano del 1998 e trasformati nel tempo, con la recente legge Minniti-Orlando che ha prolungato la detenzione fino a 180 giorni. Il viaggio ufficiale di Marco Cavallo partirà il 6 settembre con una manifestazione a Gradisca d’Isonzo. Nei mesi successivi farà tappa a Milano, Roma, Gradisca e altre città. Ogni fermata di questo percorso di denuncia, sarà un’occasione per portare alla luce la realtà dei CPR, raccontare storie dimenticate e denunciare la disumanizzazione di chi vi è rinchiuso. Ogni tappa prevede assemblee pubbliche, performance, letture e momenti di riflessione collettiva. Il Forum Salute Mentale ha lanciato anche una campagna di raccolta fondi per coprire le spese del viaggio (trasporti, accoglienza, materiali, supporto tecnico), coinvolgendo concretamente la società civile. Marco Cavallo non è solo una scultura: è un corpo collettivo in cammino, una memoria che non vuole tacere, un sogno di libertà senza confini. Unitevi al viaggio. 1. Qui le adesioni ↩︎
Bari, fuoco e repressione nel CPR: la protesta che nessuno vuole vedere
In Puglia sono attualmente attivi due Centri di Permanenza per il Rimpatrio: uno a Bari-Palese, l’altro a Restinco, frazione di Brindisi 1. Entrambe le strutture si trovano in aree periferiche, militarizzate e difficilmente accessibili da osservatori esterni. Quello di Bari 2 è attivo come CPR dal 2017; ad oggi, vi sono state trattenute circa 750 persone. Ed è proprio in questo centro che, nella notte tra il 22 e il 23 luglio, è esplosa una nuova protesta. Le persone recluse hanno appiccato incendi all’interno dei moduli detentivi, incendiando materassi e suppellettili. Alcuni si sono rifugiati sui tetti per sfuggire al fumo, lanciando slogan come “libertà” e “tutti liberi”. Le rivolte sono l’esito di condizioni di detenzione estreme: caldo insopportabile, scarsa igiene, cibo avariato, deterioramento della salute fisica e mentale. Gli attivisti della rete Mai più lager – No ai CPR documentano un clima di disperazione, con episodi di autolesionismo e tentativi di fuga, in un contesto in cui l’unico orizzonte possibile resta la detenzione stessa. Secondo quanto riferito dai collettivi locali – che denunciano le «condizioni disumane» del centro e si sono recati subito sul posto documentando con foto e video gli incendi – una delle persone trattenute ha riportato fratture agli arti durante un tentativo di fuga, restando intrappolata per ore senza ricevere soccorsi. La Prefettura ha dichiarato che l’assistenza medica è avvenuta tempestivamente, ma la discrepanza tra le dichiarazioni ufficiali e le testimonianze raccolte all’interno alimenta il sospetto che il sistema operi in una condizione di opacità. L’intervento delle forze dell’ordine per sedare le proteste è stato descritto come violento da attivisti e testimoni diretti, con punizioni collettive e isolamento forzato. PROTESTA DI INIZIO LUGLIO E PROCESSO LAMPO Anche all’inizio di luglio erano state denunciate proteste da parte dei detenuti. La segnalazione era stata lanciata dalla comunità Intifada Studentesca, che ha riferito di «tantissime persone salite sui tetti in segno di rivolta» durante il primo fine settimana del mese, per chiedere di parlare con la direttrice della struttura. Un episodio specifico, avvenuto nei primi giorni di luglio, ha visto tre persone recluse – tutti incensurate – protagoniste di una protesta interna più contenuta, che è però sfociata in arresti in flagranza. Nel processo per direttissima, davanti al giudice Mario Matromatteo, hanno spiegato di aver agito dopo settimane di condizioni igienico-sanitarie degradanti e totale mancanza di ascolto da parte delle autorità. Dopo tentativi pacifici, come lo sciopero della fame, hanno deciso di protestare in modo più eclatante. «Portateci in carcere, ma non di nuovo in quell’inferno», è una delle frasi che hanno detto. 3 Assistiti dalle avvocate Loredana Liso e Uliana Gazidede, i tre hanno patteggiato sei mesi di reclusione con pena sospesa (dequalificati da “organizzatori” a semplici partecipanti), mentre il giudice ha disposto il trasferimento degli atti e del verbale dell’udienza alla Procura, affinché siano verificate le condizioni del centro e accertate eventuali responsabilità legate alla sua cattiva gestione. ATTI DI AUTOLESIONISMO Il 1° maggio 2025 un giovane trattenuto all’interno del centro, dopo una settimana di sciopero della fame, è stato portato all’ospedale San Paolo di Bari in seguito all’ingestione di shampoo. Accanto alla denuncia dell’evento, sono emerse testimonianze su atti di autolesionismo compiuti da un secondo “ospite” del centro e sul tentato suicidio di un terzo. L’assemblea No CPR Puglia ha inoltre segnalato l’abuso di psicofarmaci, l’uso sistematico di isolamento dei detenuti, l’erogazione di pasti deteriorati e una scarsa assistenza medica. STRETTA DEL GOVERNO SULLE VISITE ISPETTIVE NEI CPR Non sarà semplice, ora, poter appurare i fatti e verificare le condizioni dei detenuti: il diritto di ispezione sulle strutture è stato progressivamente compromesso. Una circolare del Ministero dell’Interno, datata 18 aprile 2025, ha introdotto nuove restrizioni formali all’accesso di parlamentari, consiglieri regionali ed eurodeputati nei CPR. Le visite “ispettive” sono state ridimensionate – nella pratica, ostacolate – imponendo che gli accompagnatori siano “soggetti funzionalmente incardinati”, una condizione non prevista dalla normativa primaria, che di fatto limita l’accesso indipendente a queste strutture di detenzione amministrativa. Approfondimenti/Circolari del Ministero dell'Interno/CPR, Hotspot, CPA CPR: VIETATO ENTRARE Il Ministero dell’Interno limita e depotenzia le visite ispettive ai Centri di Permanenza per i Rimpatri Avv. Arturo Raffaele Covella 18 Luglio 2025 Intanto in provincia di Gorizia, al CPR di Gradisca d’Isonzo, attivisti della rete No CPR e trattenuti denunciano da settimane la diffusione di un’epidemia di scabbia tra i reclusi, in un contesto di sovraffollamento, scarsa igiene e cibo di bassa qualità. Le tensioni, legate anche alla diffusione della malattia, hanno generato proteste ripetute. Non c’è più tempo da perdere. I CPR vanno chiusi. 1. Alla fine del 2024, la capienza effettiva della struttura era tornata a 48 posti. Fonte Action Aid. ↩︎ 2. La scheda di questo CPR su Action Aid ↩︎ 3. Bari, protesta dei migranti nel Cpr di Palese: atti ai Pm sulle condizioni del centro, La Gazzetta del Mezzogiorno (10 luglio 2025) ↩︎
Non convalida del trattenimento presso il CPR del richiedente asilo tunisino: la Corte distingue tra richiedente “primario” e “secondario”
Una decisione della Corte di Appello di Venezia molto importante in quanto le Corti di Appello non avevano mai differenziato i richiedenti in “primari” e “secondari” ed ogni volta, a fronte di una situazione giuridica tipica del richiedente con precedenti penali, si limitano a convalidare il trattenimento per tutta la durata della procedura di protezione internazionale, il che comporta la violazione della libertà personale per molto tempo. Assegnaci il tuo 5‰: scrivi 00994500288 Nel caso di specie, il cittadino tunisino aveva presentato in data 25.06.2025 la richiesta di protezione internazionale presso la Questura di Venezia e veniva trattenuto presso il CPR di Bari – Palese ai sensi dell’art. 6 comma 2 lett. b del D.lgs. n. 142/20215, trovandosi il prevenuto nelle condizioni di cui all’art. 13 comma 2 lett. c) del D.Lgs. n. 286/1998 ovvero essendo il medesimo abitualmente dedito a traffici delittuosi e che per condotta di vita debba ritenersi vivere abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose. La Questura di Venezia applicava il trattenimento ai sensi dell’art. 6 comma 2 lett. c) del D.Lgs. n. 142/2015, costituendo egli un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica e risultando a suo carico una condanna per il reato di cui all’art. 73 comma 5 del D.P.R. 309/1990 ed essendo necessario determinare gli elementi su cui si basava la domanda di protezione internazionale che non potrebbero essere acquisiti senza il trattenimento, ricorrendo il pericolo di fuga, non essendo il prevenuto in possesso di passaporto o altro equipollente documento di identità. La Corte di Appello di Venezia – Consigliere – Dott. Luca Boccuni non convalidava il trattenimento con la seguente motivazione: “In primo luogo, ed a prescindere dalla ricorrenza del presupposto previsto dall’art. 6 D.Lgs. n. 142/2015, ovvero la sussistenza dello stato di richiedente protezione internazionale del prevenuto, non emergono in atti i presupposti per il disposto trattenimento, secondo l’art. 6 comma 2 lett. b) e c) del D.Lgs. n. 149/2015. In effetti, la questura di Venezia, nel disporre il trattenimento ed al fine di giustificare la sua richiesta di convalida indica unicamente la commissione di un reato relativo al traffico di sostanze stupefacenti per fatto di lieve entità, visto il richiamo all’art. 73 comma 5 del D.P.R. n. 309/1990. Mentre in atti non emerge in alcun modo, al di là della indicata condanna, quando illecito sarebbe stato commesso, tenuto conto che il prevenuto ha fatto ingresso in Italia, per quanto indicato dalla questura, nel dicembre del 2022 attraverso la frontiera di Domus De Maria. Dette circostanze impediscono di verificare positivamente, non solo l’abitualità ai traffici delittuosi, ma anche l’attualità e la gravità della pericolosità del trattenuto, intesa quale probabilità che il medesimo reiteri fatti di reato, non emergendo gli elementi che giustificano il trattenimento secondo le ipotesi normative richiamate. Peraltro, con considerazione che è, in ogni caso, assorbente e che, quindi, rileva anche ai fini della convalida del trattenimento disposto ai sensi dell’art. 6 comma 2 lett. d) del D.Lgs. n. 142/2015, si osserva che la questura di Venezia dà contezza della circostanza che il prevenuto ha presentato domanda di protezione internazionale alla competente commissione territoriale di Cagliari che ha rigettato la sua istanza con decisione del 24 febbraio 2024, non risultando che il medesimo abbia proposto impugnazione avanti al Tribunale di detta decisione e neppure constando che egli abbia proposto nuova domanda di protezione trovandosi nel CPR di Bari – “Palese”, ove ora è ristretto, in modo da ritardare l’esecuzione di un provvedimento di respingimento o di espulsione all’esito del rigetto della sua domanda di protezione da parte della commissione di Cagliari. La conseguenza di quanto evidenziato è che il prevenuto non si trova nel CPR in quanto richiedente “primario” di protezione internazionale e nelle condizioni indicate dal questore nel suo provvedimento di trattenimento di cui all’art. 6 comma 2 D.Lgs. n. 142/2015, ma sostanzialmente in quanto in attesa dell’esecuzione di un provvedimento di espulsione ai sensi dell’art. 14 D.Lgs. n. 286/1998, neppure risultando che il medesimo prevenuto abbia formulato in detta condizione di limitazione della sua libertà personale ulteriore domanda di protezione internazionale da reputarsi pretestuosa e presentata allo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione dell’espulsione, a mente dell’art. 6 comma 3 D.Lgs. n. 142/2015 e per cui sia possibile trattenimento del richiedente “secondario””. Corte di Appello di Venezia, decisione del 27 giugno 2025 Si ringrazia l’Avv. Uljana Gazidede per la segnalazione e il commento.
Controfuoco. Per una critica all’ordine delle cose (N° 2, giugno 2025)
> con·tro·fuò·co/ > Incendio, appiccato volontariamente, > per eliminare il materiale > combustibile e quindi contrastare > l’avanzata di un incendio di grandi > proporzioni, spec. nei boschi. ARCHITETTURE DEL CONFINAMENTO: IL TRATTENIMENTO COME INFRASTRUTTURA L’editoriale di Francesco Ferri e Omid Firouzi Tabar Sono passati oramai dieci anni dalla cosiddetta “crisi dei rifugiati” e appare sempre più chiaro come il regime complessivo di regolamentazione, filtraggio e selezione della mobilità delle persone migranti sia vivendo una preoccupante virata autoritaria e repressiva, una recrudescenza che vede nella privazione della libertà un fattore sempre più diffuso, strutturale e normalizzato. Questa “sicuritarizzazione” dell’apparato sicuritario-umanitario, che vediamo da alcuni anni intrecciare e ibridare dinamiche di controllo e segregazione con quelle dell’assistenzialismo compassionevole e infantilizzante, si sta progressivamente infiltrando gran parte dei contesti legati alle migrazioni. Lo vediamo nelle narrazioni mediatiche sempre più stigmatizzanti, nel piano normativo che restringe progressivamente diritti e garanzie e nelle prassi istituzionali sempre più segnate da dinamiche di abbandono socio-economico e dalla moltiplicazione degli ostacoli amministrativi e burocratici. Stiamo assistendo in primo luogo a un vero e proprio attacco frontale al diritto di asilo per come lo abbiamo conosciuto, che si materializza attraverso la progressiva centralità di concetti come “paesi sicuro” e alle conseguenti procedure “accelerate” o di “frontiera”. In questo senso la richiesta di protezione internazionale non è più soltanto preludio a una vera e propria trappola sociale, ma è sempre più un’opzione che viene semplicemente negata, soprattutto per sottrarre le persone al pacchetto di diritti che tutt’ora implicherebbe. In tale direzione vanno legislazioni nazionali e il nuovo Patto europeo su migrazioni e asilo, punto di svolta decisivo delle politiche migratorie continentali. A questa erosione del diritto di asilo si accompagna una sorta di “Hotspotizzazione” della regolamentazione delle persone anche oltre alle fasi successive all’approdo. Al netto della resistenza, talvolta anche ostinata, di alcuni tribunali, la prospettiva politica sembra essere quella di dare una progressiva centralità (non soltanto simbolica) a strutture classicamente detentive come i Cpr, ma anche a strutture ibride di trattenimento come i centri albanesi (e altri che fioriranno sul perimetro europeo per le “procedure di frontiera”), e quelli di Pozzallo e Porto Empedocle adibiti per le “procedure veloci”. In parallelo, la costante minaccia di “deportabilità” in questi luoghi, ben agevolata dalla diffusione di misure di militarizzazione urbana come le “Zone Rosse”, diventa ingrediente ricattatorio di estrema violenza. Senza scordarci, per completare questo cupo quadro, di una certa intensificazione della criminalizzazione delle pratiche solidali, soprattutto in mare, e di quella, statisticamente preoccupante, dello smuggling e dei cosiddetti “capitani”, che sta allargando la stretta penale su un numero sempre più vasto di migranti. Tutto ciò non sembra proiettarsi nella direzione di un rafforzamento di forme di mera esclusione ed estromissione delle persone dalla cosiddetta “Fortezza Europa”, concetto che ci appare oggi anche poco funzionale, talvolta del tutto fuorviante, per leggere in profondità i processi in corso e le razionalità che li sottendono. In campo sembra invece persistere un’economia politica del modello confinario imperniata su dinamiche di selettività e di violenta (im)mobilizzazione, orientate a garantire nuove linee di inclusione subalterna e di produzione di soggettività, più che a materializzare una rigida (e improduttiva) impermeabilizzazione del perimetro europeo. Più che alla tensione tra rigide linee che separano estromissione da e inclusione nello spazio europeo, dobbiamo in sintesi sforzarci a cogliere tensioni e conflittualità sempre più molecolari e interstiziali tra espressione di mobilità indisciplinata e tentativo di produzione di soggettività esposte a forme sempre più intensive di sfruttamento lavorativo e di stigmatizzazione utile a nutrire le retoriche sicuritarie. Questi nuovi sviluppi si materializzano dentro una congiuntura di guerra che, oltre alle uccisioni, ai massacri, ai genocidi e alle devastazioni che produce nelle zone di conflitto dove è materialmente in atto, si espande in quanto regime complessivo di produzione di linee di comando, ispirando drammaticamente molte politiche europee tra cui quelle che riguardano migrazioni e confini. In questo scenario bellico la costruzione dei blocchi e delle polarizzazioni, strutturati intorno a un ritorno di costruzioni identitarie come popolo, stato e nazione, produce inevitabili e considerevoli ripercussioni nei regimi di  “bordering” e di “othering”, ponendosi come frame perfettamente coerente con la stretta sicuritaria vissuta in questa fase storica in molti territori europei. Scendendo su un piano più concreto, l’analisi del “modello Albania” fornisce indicazioni utili per cogliere le tendenze che attraversano il regime confinario. Il funzionamento del centro di Gjader ha evidentemente caratteristiche peculiari ma non è, dal punto di vista della logica che lo informa, un’eccezione. Questo progetto, infatti, rende visibile e leggibile una delle traiettorie più rilevanti del governo della mobilità: l’estensione selettiva del trattenimento come pratica ordinaria. In Italia, la detenzione amministrativa si presenta come diffusa ma non generalizzata: uno scarto importante, da cogliere per darne preciso rilievo politico. Infatti, la gran parte delle persone rimpatriate non passa dai Cpr. Ma questo dato non ridimensiona il ruolo politico di quei centri. Al contrario, lo chiarisce: i Cpr non funzionano per volumi, ma per effetto. Producono una pedagogia della minaccia, inscrivono nella vita migrante una moltiforme precarietà costitutiva, alimentano una condizione permanente di esponibilità alla violenza e al rimpatrio. Il modello Albania riproduce questa stessa logica: poche persone effettivamente trattenute bastano a produrre un salto, simbolico e materiale, nell’architettura del confinamento. È per questo che l’analisi non può fermarsi ai numeri. Serve uno sguardo qualitativo e politico sulla detenzione, che è poi quello che questo numero di Controfuoco tenta di portare. Le molteplici forme del trattenimento non vanno valutate unicamente sulla base della capienza o del tasso di rimpatri che producono, ma interrogati come dispositivi: macchine selettive di produzione della soggettività e della forza-lavoro migrante. Le loro funzioni travalicano i corpi che rinchiudono. La violenza concreta che esercitano non va dunque ridimensionata, ma compresa nella sua estensione. La lista dei diritti violati – libertà personale, difesa, salute, unità familiare – è solo la soglia di un impatto più ampio: una violenza sistemica, che agisce al di là delle griglie giuridiche. È una violenza strutturale, fatta di trattamento differenziale, segregazione materiale e simbolica, disciplinamento sociale. Il trattenimento va allora letto come infrastruttura, non come eccezione. Non è una parentesi nella vita migrante, ma una condizione che incide sui tempi, gli spazi, le possibilità di movimento e di relazione. La deportabilità – più che la deportazione effettiva – è oggi la condizione generalizzata che definisce la collocazione sociale di ampi settori di soggettività migrante. Il rischio permanente della detenzione orienta le traiettorie, comprime le aspettative, spezza le reti, contribuisce alla collocazione nel mercato del lavoro, nei modelli dell’abitare. È in questo scenario che si colloca il presente numero di Controfuoco, dedicato alle molteplici forme del trattenimento. Le attraversa, le connette, le storicizza. Non per restituirne un’immagine unitaria, ma per mapparne le articolazioni, le ricadute, le resistenze. Il trattenimento non è ai margini: è un asse portante delle politiche migratorie. È dentro la società, ne riflette le gerarchie, ne rafforza i confini. L’ambizione di questo numero è chiara: contribuire, con strumenti agili e accessibili, alla politicizzazione del dibattito sul trattenimento. Passando in rassegna i vari contributi, Chiara Denaro presenta delle riflessioni che riguardano i nuovi piani di sperimentazione della detenzione migrante. Si parla dei centri di Pozzallo e Porto Empedocle, pensati per trattenere migranti giunti dai “paesi sicuri”, mentre viene esaminata la loro richiesta di protezione internazionale. L’autrice si sofferma in particolare sulla privazione della libertà vista come ingrediente sempre più diffuso del controllo delle migrazioni e sul ruolo svolto dai giudici e dal diritto in questo campo di tensioni. Francesco Ferri presenta una riflessione critica rispetto a un tema che ha avuto recentemente molta amplificazione mediatica, quello dei centri di detenzione in Albania. Ferri si sofferma nello specifico sulla funzione latente di questi luoghi, interpretati come strumenti punitivi che incarnano, anche in prospettiva delle nuove politiche europee, uno specifico modello di controllo della mobilità indisciplinata. In particolare emerge l’idea che tali luoghi rappresentino un confine interno esternalizzato, dove la dislocazione della detenzione pone, tra i vari, seri problemi dal punto di vista del controllo giurisdizionale e della tutela legale. Il tema della detenzione amministrativa è stato approfondito da Rocco Sapienza, in relazione alla struttura collocata a Palazzo San Gervasio, in Provincia di Potenza. Le riflessioni intorno a questo Cpr si soffermano non soltanto sulla violenza istituzionale agita con le forme del trattenimento all’interno di questo luogo, ma si sviluppano anche in riferimento alla sua collocazione nel territorio e in particolar modo nelle reti e infrastrutture dello sfruttamento lavorativo. La progressiva recrudescenza delle politiche di controllo delle migrazioni e la crescente centralità di strumenti necropolitici e repressivi è la cornice di riferimento del contributo di Francesca Esposito. L’autrice, focalizzandosi sul tema della detenzione amministrativa in Italia e in Europa, propone una riflessione critica di orientamento transfemminista e abolizionista indicando la necessità di guardare alle molteplici interconnessioni tra la violenza confinaria e violenza di genere, con particolare riferimento allo sguardo portato nel dibattito attuale dal femminismo anticarcerario. Anche il contributo di Luca Ceraolo affronta il tema della detenzione delle persone migranti all’interno del Cpr. Tenendo la salute mentale come cornice generale di riferimento, in questo contributo viene messa a fuoco la relazione tra diversi campi del sapere – con particolare attenzione a quello medico – nelle pratiche detentive e la materializzazione di un “continuum coloniale” nei processi di stigmatizzazione che riguardano le soggettività migranti. Luca Daminelli e Andrea Contenta si focalizzano sulla Grecia e sul borderscape rappresentato da quella particolare porta d’ingresso verso l’Europa, segnata fortemente dagli accordi con la Turchia che continuano ad avere molteplici conseguenze. In questo contributo l’attenzione è rivolta ai dispositivi di privazione della libertà, che fungono in modo sempre più diffuso e normalizzato come strategie di regolamentazione, esclusione ed inclusione subalterna dei migranti irregolarizzati, ma anche dei richiedenti asilo. Infine troviamo le riflessioni presentate da Giovanni Marenda, che volge lo sguardo verso la Bulgaria, di nuovo imperniate sull’analisi della centralità assunta dalla pratica della detenzione nel governo delle migrazioni indisciplinate. Secondo l’autore le prassi osservabili in quel territorio, segnate da diffusi soprusi e violenze discrezionali degli attori istituzionali, possono essere interpretate come una sorta di anticipazione del recente Patto europeo sulle migrazioni che tende ad incorporarle, legalizzandole. Quest’ultimo infatti viene immaginato non tanto come cambio di paradigma, ma come normalizzazione di un sistema che prevede lo strapotere di polizia e la generalizzazione della detenzione come fulcri operativi. CONTROFUOCO N° 2 GIUGNO 2025 SOMMARIO I nuovi centri di detenzione per i richiedenti asilo. Genealogia di un fallimento governativo Chiara Denaro Da dove viene la singolare pretesa di trasportare i migranti in Albania per aumentare i rimpatri? Francesco Ferri Geografia del controllo: note da Palazzo San Gervasio Rocco Sapienza Per una critica transfemminista abolizionista della detenzione amministrativa in Italia Francesca Esposito Politiche della diagnosi e continuum della colonia. Riflessioni sulla salute nella detenzione amministrativa Luca Ceraolo La Grecia scudo d’Europa. Di razzismo istituzionale, condizioni di vita inumane e politiche di morte Andrea Contenta e Luca Daminelli Reclusi alla periferia d’Europa. Uno sguardo sulla detenzione dei migranti in Bulgaria Giovanni Marenda Clicca sull’immagine di copertina per scaricare gratuitamente la rivista o qui sotto Download in pdf Acquista una copia cartacea Fotografie: Silvia Di Meo, Rami Sole, Luca Greco, Marios Lolos, Francesco Cibati, Rocco Sapienza, Stop CPR Roma e Mel Progetto grafico: Giacomo Bertorelle Gruppo redazionale: Jacopo Anderlini, Emilio Caja, Francesco Della Puppa, Francesco Ferri, Enrico Gargiulo, Barbara Barbieri, Stefano Bleggi, Giovanni Marenda, Omid Firouzi Tabar, Martina Lo Cascio La foto di copertina è stata scattata durante la mobilitazione del Network Against Migrant Detention in Albania l’1 e 2 dicembre 2024. NAMD è una rete di attivist* transnazionale che chiede l’abolizione della detenzione amministrativa. Cooperativa editrice Tele Radio City s.c.s., Vicolo Pontecorvo, 1/A – 35121 Padova, Italy, Iscr. Albo Soc. Coop. n. A121522 Melting Pot è una testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Padova in data 15/06/2015 n. 2359 del Registro Stampa. Controfuoco è un processo aperto e collettivo che vuole coinvolgere saperi e conoscenze composite e crescere a partire dalle diverse esperienze e biografie che intreccerà. Per contribuire scrivi a collaborazioni@meltingpot.org.
I campi di Gjadër e Shëngjin come il punto d’arrivo della civiltà italiana in Albania
Fabio Bego 1 I campi per persone migranti a Gjadër e Shëngjin sono alcune delle ultime manifestazioni delle politiche espansionistiche italiane nel Mediterraneo. Parafrasando l’argomentazione di Giorgio Agamben in Homo Sacer, col termine “campi” si intendono quei strumenti utilizzati per governare persone e comunità la cui umanità è stata sospesa. I campi sono un elemento ricorrente nella storia Albanese-Italiana. Essi sono utensili politici e culturali tramite cui l’Italia ha dato forma al paesaggio albanese come i palazzi che si trovano nel centro di Tirana. Questo articolo punta ad esaminare la posizione dei campi all’interno del quadro più ampio di politiche italiane in Albania. I CAMPI E IL MITO DEL SALVATORE ITALIANO I campi sono il punto d’arrivo del salvatore italiano, un mito del XIX secolo creato da diplomatici, scrittori e politici italiani per giustificare l’espansione italiana nei territori albanofoni dell’impero Ottomano. Il mito dipinge gli albanesi come una comunità perennemente povera, morta di fame, criminale e selvaggia, che non può progredire senza il sostegno dell’Italia. Nel passato come nel presente, i campi sono camuffati sotto la formula del progresso razziale e dell’europeizzazione. Gli Albanesi sono rappresentati a volte come bianchi, altre come non-bianchi, a seconda delle contingenze. Questa narrativa servì per giustificare l’annessione italiana dei territori albanesi tra il 1914 e il 1920, il controllo politico ed economico dell’Albania nel periodo interbellico, e la cosiddetta “unione” del 1939-1943. I campi non sono necessariamente delle entità territoriali, ma piuttosto strumenti per la territorializzazione dello spazio coloniale. L’architettura del campo inizia a prendere forma con la creazione delle frontiere albanesi nella Conferenza di Londra del 1913 e nella Conferenza di Pace di Parigi nel 1919. Similmente ad altri paesi colonizzati i cui destini furono decisi dalle Grandi Potenze, le frontiere dell’Albania furono designate a detrimento delle popolazioni locali. Le vie di mobilità che collegavano le aree rurali ai centri dei precedenti vilayet ottomani furono interrotte dalle nuove frontiere. La popolazione dovette scegliere tra la carestia, la migrazione e la resistenza armata. La militarizzazione delle regioni di frontiera e la lotta per le risorse e le lealtà politiche, trasformarono l’area in una zona di guerra che si protrasse per decenni. Le Grandi Potenze danno e le Grandi Potenze prendono. Cosi come avviene per altri Stati coloniali, le mappe dei Balcani sono fatte per durare fino al prossimo giro di spartizioni. Con lo scoppio della Grande Guerra, l’Impero Britannico, quello Francese e quello Russo, riconobbero all’Italia l’annessione di Valona e un protettorato sul resto dell’Albania. Le autorità italiane si auto-elogiavano per i lavori di modernizzazione a Valona, l’apertura di scuole, i servizi medici, le leggi civili e la costruzione di strade, dicendo di aver operato in continuità con la buona “tradizione coloniale di Roma“. Ma nonostante questa retorica civilizzatrice, la popolazione si sentì trattata coma “la peggiore delle colonie” ed attaccò le forze italiane nel sud dell’Albania a giugno del 1920. Dopo due mesi di combattimenti, il primo ministro italiano Giovanni Giolitti ritirò le truppe, risparmiando le vite dei soldati. > Questo risvolto non pose fine ai piani italiani per colonizzare l’Albania. > > Manifestazione del Network Against Migrant Detention al porto di Shëngjin > (1.12.2024) – PH: Ramiasole “L’abbandono di Valona” nutrì il mito della “vittoria mutilata” che portò il Partito Nazionale Fascista al potere nel 1922. Mussolini co-optò il Primo Ministro albanese Ahmet Zogolli – che divenne re dell’Albania nel 1928 – attraverso accordi politici, finanziari, e militari che diedero all’Italia un ruolo predominante nel Paese. Nel 1925, l’Italia e l’Albania siglarono accordi per la fondazione della Società per lo Sviluppo Economico dell’Albania (SVEA) e per la fondazione della Banca Nazionale d’Albania. La SVEA fu finanziata tramite un debito che Tirana contrasse con l’Italia. Gli accordi furono molto vantaggiosi per l’Italia, perché le consentirono di costruire l’infrastruttura necessaria per espandersi economicamente, politicamente e militarmente in Albania a spese degli albanesi. I termini “semi-colonia” o “protettorato” sono utilizzati per descrivere il posizionamento dell’Albania verso l’Italia nel periodo interbellico. Migliaia di Italiani si trasferirono in Albania per lavorare nei progetti della SVEA. La progressiva ingestione dell’Albania da parte dell’Italia fu accompagnata da una campagna propagandistica condotta da diplomatici, giornalisti e registi che perpetuarono il mito del salvatore italiano. L’Istituto LUCE produsse decine di film in Albania per promuovere il ruolo civilizzatore dell’Italia. Il giornalista Filippo Tajani offriva consigli per gli italiani che volevano fare fortuna nella semi-colonia, affermando che l’Albania aveva un potenziale economico ancora poco sfruttato. Sandro Giuliani, direttore de Il Popolo d’Italia, incoraggiava gli albanesi ad “aprire le porte” agli italiani, una frase che suona amaramente ironica se comparata con le attuali politiche migratorie dell’Italia. Dopo aver trasformato l’Albania in un’appendice dell’Italia, il potere di Zog svanì il 7 aprile 1939, quando l’Italia invase e annesse lo Stato vicino. La propaganda fascista giustificò l’annessione presentandola come un debito che gli albanesi dovevano all’Italia per il suo lavoro di civilizzazione. Così come in altri contesti coloniali, il campo divenne un mezzo fondamentale per governare le popolazioni locali. Il giornalista Indro Montanelli nel suo libro Albania una e mille, scrisse che l’Albania aveva bisogno di disciplina fascista e che lo “Stato albanese“, un’espressione usata per indicare il governo di Tirana che era controllato dagli italiani, doveva essere forte e pronto allo spargimento di sangue se necessario. I campi erano una modalità di prendersi cura coloniale e un risolutivo mezzo di civiltà. Secondo gli storici albanesi, l’Italia costruì circa venti campi di concentramento nei territori albanesi. Molti prigionieri furono internati solo sulla base del sospetto o per legami famigliari con oppositori del regime. A Porto Romano, nei sobborghi di Durazzo, non molto lontano da Shëngjin, fu costruito il campo di concentramento “0“. Un testimone raccontava che nel campo erano detenuti oltre 2000 prigionieri tra albanesi, jugoslavi e greci. A loro venivano dati 150 grammi di pane al giorno, un po’ di brodo e mezza gavetta d’acqua. A volte erano lasciati senza niente nel caldo dell’estate. Quelli che si lamentavano venivano picchiati e alcuni morirono per gli abusi. Mentre nella memoria collettiva italiana non si preserva quasi alcuna traccia di questi eventi, in Albania socialista il campo di Porto Romano è stato descritto nel libro di memorie Nell’inferno fascista (Në skëterrën fashiste, 1968) di Ylli Poloska e nel film Inferno 43′ (Skëterrë 43′, 1980), diRikard Ljarja. I campi sono designati per la reclusione di persone e comunità sradicate dalle loro terre al fine di facilitare la conquista imperiale e annientare la resistenza anti-coloniale. In recenti video postati dall’amministrazione statunitense, le deportazioni hanno assunto un carattere performativo al fine di sembrare efficaci e suscitare reazioni emotive in chi guarda. Durante la Seconda Guerra Mondiale migliaia di albanesi furono deportati in campi di concentramento in Italia. I prigionieri erano spesso fatti passare davanti alla popolazione civile italiana per provocare aggressioni razziste. Ma i campi erano anche luoghi di resistenza e mobilitazione anti-coloniale transnazionale. Nel campo di Ustica i prigionieri albanesi incontrarono l’ex sindaco di Piana degli Albanesi Francesco Cuccia il quale era stato condannato all’internamento a vita perché aveva insultato il Duce. Cuccia, che era Arbëresh, era felice di incontrare i suoi compatrioti e condivise con loro porzioni extra di cibo. A Ustica, gli albanesi solidarizzarono con comunisti italiani e jugoslavi organizzando eventi per celebrare il primo maggio. L’Albania riconquistò la sua indipendenza dopo la Seconda guerra mondiale, ma non riuscì a disfarsi dello stigma del povero-selvaggio-criminale-morto-di-fame. Durante la Guerra Fredda, l’Albania era vista non solo come povera, ma anche come una colonia sovietica e una minaccia per il “mondo libero“. Dopo la rottura con Mosca nel 1961, essa fu etichettata come “isolazionista“, “stalinista” e “dogmatica“. Questi termini non erano ricavati da studi approfonditi, ma erano ispirati dalla retorica della Guerra Fredda e furono utili a perpetuare la narrazione degli albanesi come un popolo violento e primitivo. Manifestazione del Network Against Migrant Detention al CPR a Gjader (1° dicembre 2024) – PH: Ramiasole LA STORIA SI RIPETE Come tragedia o come farsa, la storia non cesserà mai di ripetersi finché le gerarchie coloniali saranno alla base delle relazioni tra Stati e comunità. Dopo aver attivamente sostenuto la caduta del regime comunista – il cui progetto modernista riproduceva la logica del campo – l’Italia così come gli altri Paesi dell’Europa Occidentale continuarono a tenere le frontiere dell’Albania sigillate. Le politiche neo-liberali mirano ad organizzare il mondo tramite relazioni di potere asimmetriche affinché Paesi benestanti Occidentali possano liberamente disporre dei Paesi “in via di sviluppo” e delle loro popolazioni. La funzione di quest’ultimi nel contesto globale è diventare una risorsa poco costosa per lavoro e sesso. Ma i giovani dei ghetti non sono sempre disposti ad accettare il futuro che le Grandi Potenze si cimentano a (ri)scrivere per loro. Così come i dannati descritti Fanon, gli albanesi degli anni Novanta assalirono le cittadelle dei neo-colonizzatori squartando navi e attraversando mari. L’Italia reagì spostando le frontiere in avanti, all’interno del territorio albanese. Nel 1991, il governo post-comunista – che era sussidiato dall’Italia e da altri Stati Occidentali – permise all’Esercito italiano di condurre una presunta missione umanitaria in Albania chiamata “Operazione Pellicano“. Il governo albanese accettò inoltre che la Marina Militare italiana controllasse le sue acque territoriali. Nel frattempo, narrazioni razziste propagate dalle televisioni e dai giornali del Bel Paese, pompavano il mito del salvatore italiano e dell’albanese selvaggio-criminale-povero-morto-di-fame. Gli albanesi che cercarono di andare in Italia divennero ciò che Sarah Ahmed ha chiamato “oggetti di frontiera“, e cioè persone designate ad ispirare odio, paura e disgusto al fine di consolidare l’unità nazionale e razziale. I campi divennero di nuovo il punto culminante del salvatore italiano. Nel 1991, circa 20.000 albanesi furono rinchiusi nel vecchio stadio di Bari sotto il sole di agosto senza acqua e cibo come nel campo di concentramento “0“. La narrazione razzista dell’albanese selvaggio-criminale-povero-morto-di-fame raggiunse l’apice nel 1997, quando l’Albania affrontò una grande crisi finanziaria e politica causata dall’introduzione dell'”economia di mercato“. Il 28 marzo 1997, circa 130 albanesi presero una barca a Valona e si diressero verso l’Italia. La Marina Militare mise in atto un blocco navale, bullizzando e uccidendo gli albanesi. La Katër i Radës, l’imbarcazione su cui viaggiavano gli albanesi, fu speronata ed affondata dalla nave di guerra Sibilla, che era molto più grande. Il numero dei morti è incerto, ma fonti ministeriali albanesi basate sulle testimonianze dei sopravvissuti riportano 92 vittime. I pochi che sopravvissero furono messi nei campi per migranti con migliaia di altri compatrioti. Una campagna di deportazioni di massa fu condotta in modo violento davanti alle telecamere all’inizio di dicembre del 1997. In aprile 1997, l’Esercito italiano ritornò in Albania come membro di una più vasta operazione internazionale di peacekeeping chiamata Operation Alba che durò fino ad agosto. La presenza dei militari italiani in Albania è stata normalizzata negli anni Novanta. In quel periodo la Guardia di Finanza stabilì presidi permanenti a Durazzo e Valona. L’abitudine alle divise italiane, è una delle ragioni per cui pochi albanesi si scandalizzarono quando Edi Rama autorizzò l’Italia a costruire campi per migranti. Gli albanesi sanno che il loro governo ha una limitata sovranità sui territori nazionali e non ha la capacità di difenderlo da aggressioni esterne. La configurazione territoriale dell’Albania rimane revisionabile e l’Italia occuperà di nuovo il Paese nel caso emergano gravi tensioni internazionali o se dovesse scoppiare una guerra. Manifestazione del Network Against Migrant Detention al porto di Shëngjin (1.12.2024) – PH: Ramiasole IL COLONIALISMO DEI VEGLIARDI Sin dal XIX secolo gli albanesi sono stati per gli Italiani con popolo criminale con tradizioni selvagge. Questa immagine caratterizza la maggior parte dell’opinione pubblica italiana sugli albanesi, come si può notare leggendo i giornali, i commenti nei social media o guardando film recenti come Svaniti Nella Notte (Renato De Maria, 2024). Tuttavia ultimamente l’Albania è stata rappresentata anche come un Paese che sta progredendo, soprattutto grazie all’Italia. Questa campagna mira ad incoraggiare aziende italiane ad “investire” in Albania al fine di approfittare dei bassi costi di produzione. L’Italia è orgogliosa e gelosa di essere il primo partner commerciale dell’Albania grazie all’alto numero di scambi commerciali ed alle presunte 3000 aziende italiane che operano nel Paese vicino. I tentativi dell’Italia di migliorare la percezione pubblica dell’Albania si sono intensificati dopo la firma dell’accordo per la costruzione dei campi per convincere le masse elettorali che l’Albania è un partner affidabile. Il Giro d’Italia del 2025 era parte di questa attività promozionale. La RAI ha mostrato l’Albania come un luogo esotico per possibili vacanzieri italiani. La politica dell’Italia è sostenuta da politici, uomini d’affari e giornalisti albanesi per i loro interessi personali con un grado di servilismo tale da mettere in imbarazzo anche le stesse autorità italiane. La “trattoria Meloni” a Shëngjin e i gesti di sottomissione che Edi Rama mette in atto ogni volta che vede la sua omologa italiana sono i casi più emblematici. Un nuovo picco di servilismo è stato raggiunto nel programma Realitete Shqiptaro-Italiane (Realtà italo-albanesi). Dal reportage “Cronache da Shëngjin” di Linda Dalmonte e Ilaria Mohamud Giama Trasmesso dalla TV nazionale RTSH, il programma è il tentativo più degradante di disseminare il mito del salvatore italiano che abbia mai visto. Il programma inizia con una raccapricciante foto di Rama e Meloni dopo la firma del “protocollo” che autorizzò la costruzione dei campi. Lo scopo di ogni episodio o puntata come vengono definite dal presentatore nel tentativo di italianizzare il vocabolario albanese, è rappresentare l’Italia come il Paese che sta portando l’Albania in Europa. L’Albania è descritta come un Paese sicuro per aziende italiane e pensionati che beneficiano di un regime di tassazione ridotta. Il programma sembra suggerire che nel XXI secolo, i tipici coloni italiani non sono più giovani lavoratori, di cui peraltro l’Italia scarseggia anche in virtù di questioni demografiche. Ma sono soprattutto cittadini anziani alla ricerca di tranquillità e di servizi dentistici a buon mercato. Il presentatore albanese trascura il carattere violento e sfruttatore delle passate politiche dell’Italia in Albania. Evita inoltre di menzionare il trattamento brutale riservato ai migranti albanesi dalle autorità italiane e non fa parola dei campi di Gjadër e Shëngjin. Ovviamente non parla nemmeno delle torture che i migranti devono sopportare ogni giorno in campi simili in Italia. Queste forme di “civiltà” europea che l’Italia ha esportato in Albania sin dal XIX secolo non hanno posto nella sua favoletta. Invece di dar voce alle migliaia di albanesi che vivono e lavorano in Italia da molti anni e sono trattati come cittadini di seconda classe perché non gli vengono concessi i documenti o la cittadinanza, il presentatore fantastica sull’esistenza di un popolo “italo-albanese” che a suo avviso starebbe emergendo grazie a famiglie di origine mista. La sua narrativa è molto simile a quella del regime di occupazione negli anni 1939-1943 che dipingeva l’annessione dell’Albania come una volontaria “unione di destini“. Ma questa favola è smontata da alcuni intervistati. Una ragazza albanese nata in Italia afferma che i sui genitori ebbero una vita difficile per il modo in cui erano trattati dagli italiani. Una pensionata italiana dice di sperare che l’Albania non diventi mai come l’Italia che è stata svenduta. Nella sezione di commenti delle pagine YouTube dove sono caricati i video del programma, alcuni accusano il giornalista di aver tradito il suo Paese e di fare propaganda per l’Italia. Porto di Shëngjin (1° dicembre 2024) PH: Simone Rosa VIOLENZA E ANIMA COLONIALE Nel passato come nel presente i campi sono solo una parte del progetto espansionista italiano in Albania e non devono essere considerati separatamente. Il controllo dei corpi e la necessita di disciplinarli tramite mezzi di terrore e violenza sono direttamente legati alle politiche economiche per la produzione di energia e di armi che l’Italia ha intrapreso nella regione. Nel gennaio 2025, Italia, Albania ed Emirati Arabi Uniti hanno siglato un accordo per lo sviluppo di progetti che puntano a trasformare l’Albania in un luogo per la produzione di energie “rinnovabili” da trasferire in Italia. In quell’occasione, Giorgia Meloni ha parlato della necessità di considerare l’energia atomica facendo ipotizzare l’avvio di negoziati la costruzione di centrali nucleari italiane in Albania. L’8 aprile, Fincantieri e l’agenzia di Stato albanese per la produzione di armi Kayo hanno siglato un “Memorandum of Understanding” per la costruzione di navi da guerra. In una recente intervista con il giornalista albanese Blendi Fevziu, il nuovo ambasciatore Italiano a Tirana Marco Alberti, ha annunciato che la più grande azienda Italiana produttrice di armi Leonardo, sta per arrivare in Albania. Similmente alla propaganda condotta dall’Italia nel periodo interbellico, Alberti pensa che il potenziale dell’Albania non è ancora sfruttato a dovere. L’arrivo dell’industria militare italiana è inserita all’interno di un discorso che mostra come l’Italia stia portando l’Albania più vicina all’UE. I campi di Gjadër e Shëngjin sono la continuazione di una storia di espansione imperialista, morbosa cura coloniale e disciplina fascista. I campi di concentramento della Seconda Guerra mondale e i più recenti campi per migranti non sono il risultato di politiche contingenti necessarie per affrontare eventi eccezionali come un conflitto globale o una “crisi migranti“. La costruzione dei campi è la proiezione della coscienza imperialista Occidentale e il prodotto dell’addomesticamento dello spazio albanese. Il rapporto coloniale non è qualcosa che va è viene; non è uno spirito errante, ma un’anima che risiede all’interno relazioni italo-albanesi. La storia dell’Italia verso l’Albania è una storia di colonizzazione, mentre la storia dell’Albania verso l’Italia è una storia di resistenza. I campi sono la concrezione di questo rapporto dialettico. Nota: Una prima versione di questo articolo è stata presentata nella conferenza “Coloniality and Migration Governance” organizzata dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Palermo il 26 e il 27 maggio 2025. 1. Sono ricercatore e curatore cinematografico, co-fondatore del Festival del Cinema Albanese “Albania si Gira” che si tiene a Roma. Mi occupo principalmente di narrazioni balcaniche e postcoloniali, temi che esploro attraverso pubblicazioni accademiche e progetti come Kinostories a Bruxelles. Collaboro con l’Istituto di Storia dell’Accademia Bulgara delle Scienze e ho scritto per riviste e piattaforme come Nationalities Papers, Black Camera, Hope Not Hate e Balkan Insight. Faccio parte della comunità di esperti dell’EU Knowledge Hub on the Prevention of Radicalisation ↩︎
Detenzione amministrativa: sistemi carcerari e apartheid in Palestina e Grecia
Nel nuovo episodio del programma radiofonico di Against Detention Centers Athens, attivistə palestinesi e grecə riflettono sulle pratiche di detenzione amministrativa e sui regimi carcerari nei rispettivi contesti 1. Attraverso testimonianze dirette, un quadro giuridico della detenzione amministrativa in Grecia e in Palestina, il podcast mette in luce le connessioni tra l’apartheid israeliana e le politiche migratorie repressive dell’Europa, con particolare attenzione alla Grecia 2. Un dialogo transnazionale che rompe il silenzio sulle violenze istituzionali, evidenziando la continuità tra detenzione senza processo, razzismo sistemico e controllo coloniale delle popolazioni indesiderate. 🎧 Ascolta il podcast: Radio Program – Administrative detention, apartheid, prison systems in Palestine and Greece 1. Questo programma radiofonico è una registrazione dell’evento organizzato dall’Assemblea contro i centri di detenzione il 6 marzo 2025 ad Atene ↩︎ 2. Un database fa luce sulla violenza nelle strutture di detenzione greche: Detention Landscapes, una collaborazione tra Border Criminologies, Mobile Info Team e Border Violence Monitoring Network, mette insieme testimonianze, resoconti di incidenti, ricerche open-source e prove visive per creare una risorsa unica nel suo genere che documenta le forme attive e insidiose di violenza che le persone in movimento subiscono all’interno dei diversi spazi di contenimento in Grecia ↩︎