Tag - (Neo)colonialismo

Lotte Baye Fall – Solidarietà contro il colonialismo, le frontiere e le prigioni
DEANNA DADUSC, MADIEYE DIEYE, BARABARA GRISANTI, CHEIKH SENE “Capitani, scafisti, detenuti, migranti, rifugiati. Veniamo chiamati tanti nomi, e tante persone ci vedono solo attraverso queste etichette, nel bene e nel male. Questa serie podcast è il risultato di un 

percorso di formazione su lotte, solidarietà e filosofia Baye Fall, in cui tentiamo di proporre nuovi linguaggi e immaginari che mettono al centro il nostro sguardo e la nostra esperienza, e far capire che la nostra esistenza, le nostre lotte e le nostre pratiche di solidarietà hanno una storia che precede il momento in cui cominciamo ad esistere agli occhi europei. Prima di diventare migranti, capitani, detenuti siamo stati e continuiamo a essere movimenti di solidarietà e resistenza, con una filosofia, religione e spiritualità profonde, nonostante tutti i tentativi, correnti e storici, di disumanizzarci, reprimerci e incasellarci in etichette o prigioni”. L’associazione “Ragazzi Baye Fall a Palermo” è un’associazione basata sui principi della solidarietà e del mutuo supporto ed è composta da difensori dei diritti umani provenienti dal Senegal e dal Gambia, molti dei quali lavoravano come pescatori e, vista la loro conoscenza del mare, sono diventati conducenti delle imbarcazioni che li hanno portati in Europa. Per questo sono stati criminalizzati come capitani/scafisti. In un contesto politico in cui le leggi e le politiche di frontiera vengono spesso messe in discussione dalla società civile, le persone migranti nel mirino di queste leggi continuano a essere de-umanizzate e la loro voce politica è spesso silenziata o filtrata. A parte alcune eccezioni i saperi e le memorie delle persone che migrano e di quelle criminalizzate sono messe a tacere da narrazioni neo-coloniali e euro-centriche che tendono a essenzializzare come vittime o criminali piuttosto che come attori politici. Diventa quindi necessario riportare al centro delle lotte la voce e le narrazioni di chi questa violenza la ha vissuta sulla propria pelle, per formulare analisi che de-centrino i punti di vista nati da prospettive Europee ed eurocentriche.  Per questo, in collaborazione altre realtà 1, i Ragazzi Baye Fall hanno organizzando un percorso di formazione che ha seguito le storie e le memorie delle persone Baye Fall a partire dalle pratiche di espropriazione coloniale e di resistenza in Senegal e Gambia fino alle lotte contro la criminalizzazione in Europa. Il percorso è stato pensato come strumento per evidenziare e valorizzare la capacità di analisi, le forme di solidarietà e il potere politico delle persone che sono direttamente colpite da leggi, pratiche e discorsi che le confinano, le discriminano e le incarcerano. Il tentativo è quello di smettere di essenzializzare le persone migranti assecondando etichette e categorie prodotte dal regime di frontiera europeo, e dalle forme di apartheid razzista che esso sostiene, al fine di produrre immaginari e linguaggi che possano situare la criminalizzazione delle migrazioni all’interno di più ampi percorsi geografici, storici e (anti)coloniali delle persone che migrano, a partire dalla decostruzione di categorizzazioni binarie tra criminale/vittima, così come l’antitesi migrante/salvatore, che dominano il linguaggio non solo degli attori politici che criminalizzano, ma anche di coloro che difendono le persone migranti. Nel primo episodio parliamo della storia e della filosofia Baye Fall, nata da pratiche di resistenza anti-coloniali in Senegal, e centrata su modi di vita solidali, e di mutuo-aiuto. Parliamo di come Cheikh Amadou Bamba è stato criminalizzato, esiliato e incarcerato per essersi opposto alle leggi dei coloni francesi che volevano proibire le pratiche spirituali e religiose senegalesi. Una repressione che però non ha piegato ma al contrario ha amplificato le sue lotte, trasformandole in un movimento di lotta anti-coloniale e spirituale che ad oggi è uno dei più grandi del Senegal e diffuso in tutta la diaspora.  Ci siamo poi spostati a Lampedusa per condividere, insieme alle persone che si occupano di pesca sull’isola, un’analisi delle pratiche di vita e di sussistenza legate al mare, e dei processi neocoloniali di sea-grabbing/saccheggio del mare da parte di enti Europei che hanno portato alla necessità di intraprendere un percorso migratorio.  Siamo tornati a Palermo per un approfondimento sulla solidarietà Baye Fall innescata durante il processo migratorio, forme di solidarietà e auto-organizzazione che spesso vengono criminalizzate con l’etichetta di “facilitazione dell’immigrazione clandestina”. Da qui, abbiamo dato spazio a riflessioni sulla criminalizzazione delle persone che hanno guidato le imbarcazioni verso l’Europa, situando tale analisi all’interno di un percorso storico e politico di cui abbiamo precedentemente evidenziato le matrici (neo)coloniali. Le forme di solidarietà migrante e Baye Fall però, non si sono fatte fermare dal carcere.  Il percorso si è tenuto in presenza presso Maldusa Palermo (con l’eccezione di una sessione a Lampedusa – il 14 aprile). Ogni sessione è stata registrata per produrre una serie podcast. Le musiche e i canti Baye Fall sono state registrate a Lampedusa, durante l’evento sulla pesca e sul furto del mare. Di seguito potete trovare gli episodi o sul canale Spotify di radio alqantara, o scaricando il file MP3 dal sito di Maldusa. Sito Maldusa per Scaricare MP3 Spotify radio alqantara  Sito Ragazzi Baye Fall 1. Il progetto è stato realizzato con il supporto di un fondo di UK Art and Humanities Research Council (AHRC), gestito da Dr. Deanna Dadusc, School of Humanities and Social Science, University of Brighton. Il percorso è stato ideato e sviluppato in una collaborazione tra i Ragazzi Baye Fall, FAC research, Maldusa e radio alqantara. Un ringraziamento speciali ai membri dei Ragazzi Baye Fall che hanno sia partecipato al percorso, sia contribuito alla sua ideazione e sviluppo: Amadou Niang, Assane Seck, Bacary Sagna, Cheikh Sene, Djibril Badji, Lamine Diop, Madieye Dieye, Mor Diop e Sini Ndiaye. Un ringraziamento speciale anche all3 attivist3 di Maldusa e radio aqantara che hanno collaborato alla creazione del percorso e alla realizzazione della serie podcast: Barbara Grisanti, Beatrice Tagliabue, Chadli Aloui, Claudia Spagnulo, Giuliana Spera and Sara Biasci ↩︎
Nati nel limbo
Sono a Cipro da cinque giorni, è aprile 2024. Atterro a Pafos, sulla costa ovest, passando per Limassol,  risalgo poi verso Nicosia. Cammino in un’isola che è uno Stato e allo stesso tempo due. Non per chiunque, e nemmeno da sempre. Oggi, nel paesaggio e nelle istituzioni restano impressi i segni di una divisione che la storia politica recente ha inciso, trasformando differenze culturali, religiose e identitarie in una frattura politica e militare quotidiana. Cipro oggi è un Paese sovrano e membro dell’Unione Europea. A sud si estende la Repubblica di Cipro, riconosciuta dalla comunità internazionale, a nord la Repubblica Turca di Cipro del Nord, proclamata nel 1983 e sostenuta soltanto da Ankara. In mezzo corre la buffer zone delle Nazioni Unite che attraversa l’isola e divide in due anche la capitale. Camminando a Nicosia si avverte la cesura. A sud botteghe e caffè si alternano a palazzi veneziani, moschee e tribunali coloniali, strade dritte e viali ombreggiati portano a edifici moderni e torri di vetro. L’aria sa di Mediterraneo ma richiama anche Londra. A nord la lingua si fa turca, la moneta lira, le stesse case hanno un aspetto più dimesso, i ritmi rallentano e l’isolamento si percepisce nei servizi incerti e nelle strade meno curate. La città conserva la sua ossatura comune, ma ogni lato racconta un destino che si è allontanato dall’altro. La presenza greco-ortodossa e turco-musulmana risale al 1570, con l’arrivo degli ottomani. Cipro era già un crocevia conteso, ma il sistema dei millet organizzava la società in comunità confessionali autonome: gli ortodossi nel millet rum, i musulmani in quello islamico. Ogni gruppo amministrava matrimonio, eredità e istruzione attraverso le proprie istituzioni. Non esisteva una cittadinanza unitaria, ma una pluralità di sudditi che condividevano lo stesso spazio, con frizioni quotidiane che non degeneravano in antagonismo. Il vero salto avviene nel 1878, con l’amministrazione britannica. Londra non abolisce i millet, li riconfigura. La distinzione religiosa viene codificata come etnica e nazionale: gli ortodossi sono classificati come greco-ciprioti, i musulmani come turco-ciprioti. La cittadinanza coloniale, pur includendoli come natives of the colony, li etnicizza dall’interno, avviando un processo di nazionalizzazione che cancella la dimensione comune. Scuole, manuali e lingue d’insegnamento consolidano due identità contrapposte. Nel 1931, quando i greco-ciprioti si sollevano, la repressione britannica mostra come la priorità fosse impedire l’emergere di un’identità condivisa più che contenere i nazionalismi opposti. TIMELINE DI CIPRO 1570: Arrivo Ottomani 1878: Amministrazione britannica 1950: Referendum unione con la Grecia 1964: Scontri intercomunitari 1974: Colpo di Stato e intervento turco 1983: Nascita Turkish Republic of Northern Cyprus Dopo la Seconda guerra mondiale la spirale accelera. Con Makarios III e il referendum del 1950, in cui il 95% dei greco-ciprioti vota per l’unione con la Grecia, il nazionalismo greco-cipriota si istituzionalizza. Nasce l’EOKA, che considera i turco-ciprioti un ostacolo. La risposta arriva con l’appoggio di Ankara: prende forma il TMT, che rilancia con il progetto opposto, il taksim, la divisione dell’isola. Due nazionalismi costruiti in opposizione si fronteggiano, compiendo fino in fondo il meccanismo coloniale che aveva tradotto la differenza in conflitto. Il punto di rottura matura nel decennio che precede il 1974. Già negli anni Sessanta le tensioni esplodono in violenza, lo mostrano le fotografie di Don McCullin: nel 1964, nelle strade di Nicosia, immortala una donna in lacrime per un familiare ucciso durante gli scontri intercomunitari, un’immagine che gli valse il World Press Photo. Una donna greco-cipriota piange la morte di un familiare durante la guerra civile a Cipro. Don McCullin, Cipro (1964; stampa 2013), © Don McCullin. Per gentile concessione delle National Galleries of Scotland Dieci anni più tardi la crisi si radicalizza con il colpo di Stato greco-cipriota e l’intervento militare della Turchia, presentato come difesa della comunità turco-cipriota. Da quel momento l’isola si ridisegna: i turco-ciprioti vengono concentrati a nord, lasciando case e quartieri condivisi per generazioni con i vicini greci, mentre i greco-ciprioti residenti a nord vengono trasferiti a sud. LA TUTELA CHE DIVENTA CONTROLLO: IL PESO TURCO SU CIPRO Nel periodo successivo agli scontri intercomunitari molte persone trascorrono anni in alloggi provvisori o in villaggi recintati. La neonata repubblica de facto, riconosciuta soltanto dalla Turchia, si trova fin da subito in isolamento internazionale: embargo commerciale, esclusione da eventi sportivi e culturali, divieto di collegamenti aerei diretti con l’estero. Una condizione che alimenta una dipendenza strutturale da Ankara, che provvede a stipendi pubblici, investimenti e garanzie militari. Fattori che assicurano una stabilità solo apparente e che diventano al tempo stesso gli strumenti con cui la Turchia imprime sull’isola un preciso progetto politico e culturale.  Uno dei principali strumenti di rafforzamento del legame con Ankara è stato il progressivo trasferimento di popolazione dalla Turchia verso Cipro Nord, organizzato in diverse ondate dopo il 1974 e tale da modificare in profondità la composizione demografica dell’area. La prima, tra il 1974 e il 1979, portò circa quindicimila cittadini turchi a ottenere la cittadinanza della Turkish Republic of Northern Cyprus (TRNC) e l’assegnazione di villaggi e proprietà appartenuti ai greco-ciprioti. Negli anni Ottanta arrivarono professionisti e studenti, mentre negli anni Novanta il boom edilizio e la liberalizzazione dei permessi di lavoro alimentarono ulteriormente i flussi. Tra il 1996 e il 2011 il numero di cittadini turchi residenti nella TRNC passò da 3.700 a oltre 80.000. Le stime più recenti collocano la popolazione complessiva tra 400.000 e 800.000 abitanti, ma l’assenza di un censimento ufficiale dopo il 2011 impedisce di conoscere con precisione la consistenza attuale dei turco-ciprioti sull’isola.  Accanto ai cambiamenti demografici si è consolidata anche una pressione culturale. I turco-ciprioti, storicamente influenzati dal kemalismo – l’ideologia laica e nazionalista promossa da Mustafa Kemal Atatürk nella Turchia del Novecento, che relegava la religione alla sfera privata – si trovano oggi esposti a un processo inverso promosso da Ankara. Negli ultimi vent’anni sono state costruite più di cinquantadue nuove moschee, un numero che supera quello delle scuole. Sono stati aperti centri di formazione religiosa come l’Hala Sultan College of Theology e avviati corsi coranici finanziati dalla Diyanet e da fondazioni turche. Sul piano linguistico, il dialetto turco-cipriota, il Gibrislidja, è stato escluso dai media nazionali nel 2009 e definito un ‘turco sbagliato’.  Anche la vita politica è stata influenzata. Le elezioni presidenziali del 2020 sono state segnate da episodi di ingerenza documentati dal report indipendente di Raporluyoruz 1, un gruppo di avvocati, ricercatori e membri della società civile, che descrive il ruolo diretto dell’intelligence turca (MIT) nella campagna elettorale. Secondo il report, ad alcuni collaboratori del presidente uscente Mustafa Akıncı fu comunicato che sarebbe stato “meglio per lui, la sua famiglia e i suoi colleghi” ritirare la candidatura. Bambini che tornano da scuola attraversano la strada a Nicosia (Lefkoşa), sullo sfondo il volto di Erdoğan e una bandiera turca dominano la scena. PH: Federico Rinaldi Lo stesso documento segnala che l’ambasciata turca a Nicosia Nord convocò parlamentari locali per fare pressione a favore di Ersin Tatar e che quest’ultimo compì due visite improvvise ad Ankara, ricevendo la promessa di iniezioni di fondi nell’economia turco-cipriota. BÜLENT E LE SUE SORELLE: CRESCIUTI A NICOSIA, CITTADINI ALTROVE Una visuale del quartiere di Samanbahçe. PH: Federico Rinaldi Durante il mio viaggio, alloggio nella parte greca di Nicosia e continuo a muovermi avanti e indietro, passaporto alla mano. Un giorno capito per caso nel quartiere di Samanbahçe, nella parte turco-cipriota della città. È il primo progetto di edilizia popolare dell’isola: venti case disposte su una griglia regolare, una fontana bianca e grigia al centro che ne riprende i colori. L’atmosfera è ordinata, silenziosa e un po’ sospesa. Incontro per caso Pembe e Hamide, che vivono l’una di fronte all’altra da anni con le rispettive famiglie. Pembe e Hamide si incontrano dopo pranzo per una chiacchierata davanti casa Hamide e Fevzi davanti alla porta di casa Hamide è sposata con Fevzi, un uomo sulla sessantina, presenza autorevole e occhi gentili. Corre avanti e indietro per Nicosia in sella al suo motorino, e io l’ho soprannominato “Örümcek Adam”, l’uomo ragno. Insieme hanno tre figli: Bülent, il maggiore, e le sorelle minori Yağmur e Gülseren di ventitré e ventuno anni.  Bülent ne ha venticinque. Chiama le sorelle Anaconda e Kobra, dice che hanno sempre risposte taglienti e cattive. Non ha molti amici e, tra venti giorni, partirà per il servizio militare in Turchia, dove rimarrà per sei mesi,  ha infatti cittadinanza turca. Lo stesso vale per le sorelle: sono nate in Turchia e i genitori le hanno portate a Cipro all’età di due anni. Davanti alla porta di casa di Hamide con lei la figlia Gülseren a destra e Pembe a sinistra Di recente Bülent non ha lavorato e non sembra avere molta voglia di cercare un impiego. Sul braccio ha tatuato la frase fuck work, drink beer, che riassume con ironia la sua filosofia di vita. Mi fa sorridere, ma al tempo stesso dà l’idea di un giovane che fatica a immaginare un futuro diverso. Il mercato del lavoro per i coetanei turco-ciprioti, mi racconta, offre poco più del corrispettivo di  3 euro l’ora. Nonostante sia cresciuto a Nicosia, Bülent è cittadino turco, così come le sorelle. Per la legge della Repubblica di Cipro non sono considerati ciprioti perché la madre è arrivata sull’isola dopo il 1974 attraverso porti e aeroporti che Nicosia sud considera ‘illegali’. Questa esclusione non riguarda solo la loro famiglia, ma migliaia di casi simili, ed è il risultato diretto della normativa sulla cittadinanza. Nel 2002 è entrato in vigore il Civil Registry Law: l’articolo 109(1) stabilisce che chi nasce a Cipro dopo il 16 agosto 1960 è cittadino se almeno uno dei genitori lo è, a meno che l’ingresso o la permanenza di un genitore nella Repubblica non sia stato ‘illegale’. In questi casi la domanda passa al Consiglio dei Ministri. Poiché tutti gli ingressi dal Nord dopo il 1974 sono classificati come illegali, migliaia di richieste si trovano sospese in questa corsia discrezionale, inclusi i figli di matrimoni misti. La situazione si è irrigidita nel 2007, quando il Consiglio dei Ministri ha introdotto criteri ancora più restrittivi che hanno di fatto bloccato la quasi totalità delle domande, congelando migliaia di pratiche. Le stime parlano di almeno diecimila persone coinvolte, altre fonti alzano il numero fino a trentamila 2: giovani cresciuti a Cipro, che parlano il dialetto locale e hanno frequentato le scuole dell’isola, ma che non hanno mai ottenuto il documento che li renderebbe cittadini europei. È una questione che si trascina da quasi vent’anni e che ha creato una generazione sospesa in un limbo giuridico. Il paradosso è che il principio dello ius sanguinis, applicato senza esitazioni in altri casi, riconosce la cittadinanza anche a chi nasce a migliaia di chilometri dall’isola da un genitore cipriota, mentre chi cresce qui, da padre o madre turco-cipriota, ne resta escluso. Le domande di cittadinanza presentate dai figli di coppie miste vengono trasmesse al Consiglio dei Ministri e, dal 2007, la maggior parte resta sospesa o non giunge mai a esito. La Corte Suprema ha stabilito che questi giovani non sono tecnicamente apolidi, poiché possiedono quasi sempre la cittadinanza turca. Tuttavia la mancata cittadinanza della Repubblica di Cipro li priva dei diritti europei, con conseguenze dirette nella vita quotidiana. Sul piano dello studio, non possono iscriversi come studenti comunitari nelle università dell’UE e si trovano a dover pagare tasse elevate come studenti internazionali, con accesso limitato a borse e programmi di mobilità Erasmus+. Quanto al lavoro, non hanno la possibilità di esercitare liberamente la professione in Europa e necessitano di visti o permessi specifici, un ostacolo che li spinge spesso a cercare impiego in Turchia o nel mercato non riconosciuto del Nord. La mobilità è ugualmente condizionata: senza passaporto cipriota non possono viaggiare nell’UE senza visto, devono appoggiarsi a documenti turchi e spesso subiscono controlli più severi ai checkpoint interni dell’isola. Questa esclusione ha portato il tema al centro dell’agenda politica e internazionale. L’Unione Europea e le Nazioni Unite hanno più volte richiesto che le pratiche vengano trattate in modo trasparente e non discriminatorio: lo testimoniano la petizione al Parlamento europeo 3, i rilievi dell’Alto Commissariato ONU per i diritti umani e le raccomandazioni espresse nell’Universal Periodic Review del 2019 4 e del 2024 5.  Nel 2024 il governo di Nikos Christodoulides ha annunciato quattordici misure correttive 6, tra cui la revisione delle domande arretrate e interventi su servizi, istruzione e attraversamenti di frontiera. Questi provvedimenti sono stati accolti con scetticismo dalle autorità del Nord, ma rappresentano un segnale di possibile apertura. OLTRE IL CONFINE: DIRITTI, MEMORIE E FUTURO Il principio di autodeterminazione, pilastro del diritto internazionale, per i turco-ciprioti resta una formula teorica. Tra la pressione culturale esercitata dalla Turchia e l’esclusione legale dalla cittadinanza della Repubblica di Cipro, la comunità subisce da anni un processo lento ma costante di cancellazione. Le sue radici, che affondano nella lingua, nella memoria e nella storia dell’isola, sono minacciate da due Stati antagonisti, e a pagarne il prezzo è il patrimonio storico e culturale incarnato in migliaia di vite. Hannah Arendt ricordava il paradosso dei diritti umani: restano fragili quando non esiste uno Stato pronto a difenderli. Nel caso della comunità turco-cipriota il paradosso è ancora più netto, perché non è l’assenza ma l’azione di due Stati a renderli vulnerabili. In questo vuoto, la società civile turco-cipriota ha mantenuto un ruolo decisivo di mediazione e difesa. Associazioni, sindacati e gruppi spontanei hanno dato voce a chi rischiava di restare invisibile, aprendo spazi di confronto e di tutela dei diritti. Le campagne del Movement for Resolution of the Mixed Marriage Problem per il riconoscimento dei figli di coppie miste, l’impegno del sindacato degli insegnanti KTÖS contro le interferenze di Ankara e i progetti culturali del Home for Cooperation e di PeacePlayers, che coinvolgono giovani greco- e turco-ciprioti, mostrano la pluralità di un attivismo che rimane centrale nel dibattito sull’isola.  Dal 2003, i nove checkpoint lungo la linea verde hanno reso più permeabile un confine che per decenni era invalicabile. Organizzazioni locali come HADE! chiedono l’apertura di nuovi varchi e il miglioramento di quelli esistenti, spesso congestionati da file interminabili. L’idea che questi passaggi possano trasformarsi in strumenti di pace è ormai parte della dinamica cipriota.  Io posso attraversare i checkpoint con un passaporto in mano, superare le postazioni dei caschi blu e in pochi minuti trovarmi dall’altra parte. Per Bülent invece, che qui è nato e cresciuto, quel confine resta spesso invalicabile. Ci siamo salutati con la promessa di rivederci a Nicosia al suo ritorno, immaginando un giorno in cui per lui sarà facile varcare quella linea quanto lo è oggi per me.  Bülent sulla sinistra accanto a Pembe e a suo marito, i vicini di casa 1. Report on the Interference in the 2020 TRNC Presidential Elections ↩︎ 2. In search of a legal bond: Turkish Cypriot children of mixed marriages in Cyprus, European Network on Statelessness (2023) ↩︎ 3. Petition No 0754/2020 by Derya Beyatli (Cypriot) on the discrimination of Turkish speaking Cypriots as EU-citizens ↩︎ 4. Cyprus’ responses to recommendations (as of 13 September 2019) ↩︎ 5. All country summary and recommendations related to the right to a nationality and the rights of stateless persons, European Network on Statelessness ↩︎ 6. Christodoulides reveals 14 CBMs for Turkish Cypriots, Financial Mirror (gennaio 2024) ↩︎
I campi di Gjadër e Shëngjin come il punto d’arrivo della civiltà italiana in Albania
Fabio Bego 1 I campi per persone migranti a Gjadër e Shëngjin sono alcune delle ultime manifestazioni delle politiche espansionistiche italiane nel Mediterraneo. Parafrasando l’argomentazione di Giorgio Agamben in Homo Sacer, col termine “campi” si intendono quei strumenti utilizzati per governare persone e comunità la cui umanità è stata sospesa. I campi sono un elemento ricorrente nella storia Albanese-Italiana. Essi sono utensili politici e culturali tramite cui l’Italia ha dato forma al paesaggio albanese come i palazzi che si trovano nel centro di Tirana. Questo articolo punta ad esaminare la posizione dei campi all’interno del quadro più ampio di politiche italiane in Albania. I CAMPI E IL MITO DEL SALVATORE ITALIANO I campi sono il punto d’arrivo del salvatore italiano, un mito del XIX secolo creato da diplomatici, scrittori e politici italiani per giustificare l’espansione italiana nei territori albanofoni dell’impero Ottomano. Il mito dipinge gli albanesi come una comunità perennemente povera, morta di fame, criminale e selvaggia, che non può progredire senza il sostegno dell’Italia. Nel passato come nel presente, i campi sono camuffati sotto la formula del progresso razziale e dell’europeizzazione. Gli Albanesi sono rappresentati a volte come bianchi, altre come non-bianchi, a seconda delle contingenze. Questa narrativa servì per giustificare l’annessione italiana dei territori albanesi tra il 1914 e il 1920, il controllo politico ed economico dell’Albania nel periodo interbellico, e la cosiddetta “unione” del 1939-1943. I campi non sono necessariamente delle entità territoriali, ma piuttosto strumenti per la territorializzazione dello spazio coloniale. L’architettura del campo inizia a prendere forma con la creazione delle frontiere albanesi nella Conferenza di Londra del 1913 e nella Conferenza di Pace di Parigi nel 1919. Similmente ad altri paesi colonizzati i cui destini furono decisi dalle Grandi Potenze, le frontiere dell’Albania furono designate a detrimento delle popolazioni locali. Le vie di mobilità che collegavano le aree rurali ai centri dei precedenti vilayet ottomani furono interrotte dalle nuove frontiere. La popolazione dovette scegliere tra la carestia, la migrazione e la resistenza armata. La militarizzazione delle regioni di frontiera e la lotta per le risorse e le lealtà politiche, trasformarono l’area in una zona di guerra che si protrasse per decenni. Le Grandi Potenze danno e le Grandi Potenze prendono. Cosi come avviene per altri Stati coloniali, le mappe dei Balcani sono fatte per durare fino al prossimo giro di spartizioni. Con lo scoppio della Grande Guerra, l’Impero Britannico, quello Francese e quello Russo, riconobbero all’Italia l’annessione di Valona e un protettorato sul resto dell’Albania. Le autorità italiane si auto-elogiavano per i lavori di modernizzazione a Valona, l’apertura di scuole, i servizi medici, le leggi civili e la costruzione di strade, dicendo di aver operato in continuità con la buona “tradizione coloniale di Roma“. Ma nonostante questa retorica civilizzatrice, la popolazione si sentì trattata coma “la peggiore delle colonie” ed attaccò le forze italiane nel sud dell’Albania a giugno del 1920. Dopo due mesi di combattimenti, il primo ministro italiano Giovanni Giolitti ritirò le truppe, risparmiando le vite dei soldati. > Questo risvolto non pose fine ai piani italiani per colonizzare l’Albania. > > Manifestazione del Network Against Migrant Detention al porto di Shëngjin > (1.12.2024) – PH: Ramiasole “L’abbandono di Valona” nutrì il mito della “vittoria mutilata” che portò il Partito Nazionale Fascista al potere nel 1922. Mussolini co-optò il Primo Ministro albanese Ahmet Zogolli – che divenne re dell’Albania nel 1928 – attraverso accordi politici, finanziari, e militari che diedero all’Italia un ruolo predominante nel Paese. Nel 1925, l’Italia e l’Albania siglarono accordi per la fondazione della Società per lo Sviluppo Economico dell’Albania (SVEA) e per la fondazione della Banca Nazionale d’Albania. La SVEA fu finanziata tramite un debito che Tirana contrasse con l’Italia. Gli accordi furono molto vantaggiosi per l’Italia, perché le consentirono di costruire l’infrastruttura necessaria per espandersi economicamente, politicamente e militarmente in Albania a spese degli albanesi. I termini “semi-colonia” o “protettorato” sono utilizzati per descrivere il posizionamento dell’Albania verso l’Italia nel periodo interbellico. Migliaia di Italiani si trasferirono in Albania per lavorare nei progetti della SVEA. La progressiva ingestione dell’Albania da parte dell’Italia fu accompagnata da una campagna propagandistica condotta da diplomatici, giornalisti e registi che perpetuarono il mito del salvatore italiano. L’Istituto LUCE produsse decine di film in Albania per promuovere il ruolo civilizzatore dell’Italia. Il giornalista Filippo Tajani offriva consigli per gli italiani che volevano fare fortuna nella semi-colonia, affermando che l’Albania aveva un potenziale economico ancora poco sfruttato. Sandro Giuliani, direttore de Il Popolo d’Italia, incoraggiava gli albanesi ad “aprire le porte” agli italiani, una frase che suona amaramente ironica se comparata con le attuali politiche migratorie dell’Italia. Dopo aver trasformato l’Albania in un’appendice dell’Italia, il potere di Zog svanì il 7 aprile 1939, quando l’Italia invase e annesse lo Stato vicino. La propaganda fascista giustificò l’annessione presentandola come un debito che gli albanesi dovevano all’Italia per il suo lavoro di civilizzazione. Così come in altri contesti coloniali, il campo divenne un mezzo fondamentale per governare le popolazioni locali. Il giornalista Indro Montanelli nel suo libro Albania una e mille, scrisse che l’Albania aveva bisogno di disciplina fascista e che lo “Stato albanese“, un’espressione usata per indicare il governo di Tirana che era controllato dagli italiani, doveva essere forte e pronto allo spargimento di sangue se necessario. I campi erano una modalità di prendersi cura coloniale e un risolutivo mezzo di civiltà. Secondo gli storici albanesi, l’Italia costruì circa venti campi di concentramento nei territori albanesi. Molti prigionieri furono internati solo sulla base del sospetto o per legami famigliari con oppositori del regime. A Porto Romano, nei sobborghi di Durazzo, non molto lontano da Shëngjin, fu costruito il campo di concentramento “0“. Un testimone raccontava che nel campo erano detenuti oltre 2000 prigionieri tra albanesi, jugoslavi e greci. A loro venivano dati 150 grammi di pane al giorno, un po’ di brodo e mezza gavetta d’acqua. A volte erano lasciati senza niente nel caldo dell’estate. Quelli che si lamentavano venivano picchiati e alcuni morirono per gli abusi. Mentre nella memoria collettiva italiana non si preserva quasi alcuna traccia di questi eventi, in Albania socialista il campo di Porto Romano è stato descritto nel libro di memorie Nell’inferno fascista (Në skëterrën fashiste, 1968) di Ylli Poloska e nel film Inferno 43′ (Skëterrë 43′, 1980), diRikard Ljarja. I campi sono designati per la reclusione di persone e comunità sradicate dalle loro terre al fine di facilitare la conquista imperiale e annientare la resistenza anti-coloniale. In recenti video postati dall’amministrazione statunitense, le deportazioni hanno assunto un carattere performativo al fine di sembrare efficaci e suscitare reazioni emotive in chi guarda. Durante la Seconda Guerra Mondiale migliaia di albanesi furono deportati in campi di concentramento in Italia. I prigionieri erano spesso fatti passare davanti alla popolazione civile italiana per provocare aggressioni razziste. Ma i campi erano anche luoghi di resistenza e mobilitazione anti-coloniale transnazionale. Nel campo di Ustica i prigionieri albanesi incontrarono l’ex sindaco di Piana degli Albanesi Francesco Cuccia il quale era stato condannato all’internamento a vita perché aveva insultato il Duce. Cuccia, che era Arbëresh, era felice di incontrare i suoi compatrioti e condivise con loro porzioni extra di cibo. A Ustica, gli albanesi solidarizzarono con comunisti italiani e jugoslavi organizzando eventi per celebrare il primo maggio. L’Albania riconquistò la sua indipendenza dopo la Seconda guerra mondiale, ma non riuscì a disfarsi dello stigma del povero-selvaggio-criminale-morto-di-fame. Durante la Guerra Fredda, l’Albania era vista non solo come povera, ma anche come una colonia sovietica e una minaccia per il “mondo libero“. Dopo la rottura con Mosca nel 1961, essa fu etichettata come “isolazionista“, “stalinista” e “dogmatica“. Questi termini non erano ricavati da studi approfonditi, ma erano ispirati dalla retorica della Guerra Fredda e furono utili a perpetuare la narrazione degli albanesi come un popolo violento e primitivo. Manifestazione del Network Against Migrant Detention al CPR a Gjader (1° dicembre 2024) – PH: Ramiasole LA STORIA SI RIPETE Come tragedia o come farsa, la storia non cesserà mai di ripetersi finché le gerarchie coloniali saranno alla base delle relazioni tra Stati e comunità. Dopo aver attivamente sostenuto la caduta del regime comunista – il cui progetto modernista riproduceva la logica del campo – l’Italia così come gli altri Paesi dell’Europa Occidentale continuarono a tenere le frontiere dell’Albania sigillate. Le politiche neo-liberali mirano ad organizzare il mondo tramite relazioni di potere asimmetriche affinché Paesi benestanti Occidentali possano liberamente disporre dei Paesi “in via di sviluppo” e delle loro popolazioni. La funzione di quest’ultimi nel contesto globale è diventare una risorsa poco costosa per lavoro e sesso. Ma i giovani dei ghetti non sono sempre disposti ad accettare il futuro che le Grandi Potenze si cimentano a (ri)scrivere per loro. Così come i dannati descritti Fanon, gli albanesi degli anni Novanta assalirono le cittadelle dei neo-colonizzatori squartando navi e attraversando mari. L’Italia reagì spostando le frontiere in avanti, all’interno del territorio albanese. Nel 1991, il governo post-comunista – che era sussidiato dall’Italia e da altri Stati Occidentali – permise all’Esercito italiano di condurre una presunta missione umanitaria in Albania chiamata “Operazione Pellicano“. Il governo albanese accettò inoltre che la Marina Militare italiana controllasse le sue acque territoriali. Nel frattempo, narrazioni razziste propagate dalle televisioni e dai giornali del Bel Paese, pompavano il mito del salvatore italiano e dell’albanese selvaggio-criminale-povero-morto-di-fame. Gli albanesi che cercarono di andare in Italia divennero ciò che Sarah Ahmed ha chiamato “oggetti di frontiera“, e cioè persone designate ad ispirare odio, paura e disgusto al fine di consolidare l’unità nazionale e razziale. I campi divennero di nuovo il punto culminante del salvatore italiano. Nel 1991, circa 20.000 albanesi furono rinchiusi nel vecchio stadio di Bari sotto il sole di agosto senza acqua e cibo come nel campo di concentramento “0“. La narrazione razzista dell’albanese selvaggio-criminale-povero-morto-di-fame raggiunse l’apice nel 1997, quando l’Albania affrontò una grande crisi finanziaria e politica causata dall’introduzione dell'”economia di mercato“. Il 28 marzo 1997, circa 130 albanesi presero una barca a Valona e si diressero verso l’Italia. La Marina Militare mise in atto un blocco navale, bullizzando e uccidendo gli albanesi. La Katër i Radës, l’imbarcazione su cui viaggiavano gli albanesi, fu speronata ed affondata dalla nave di guerra Sibilla, che era molto più grande. Il numero dei morti è incerto, ma fonti ministeriali albanesi basate sulle testimonianze dei sopravvissuti riportano 92 vittime. I pochi che sopravvissero furono messi nei campi per migranti con migliaia di altri compatrioti. Una campagna di deportazioni di massa fu condotta in modo violento davanti alle telecamere all’inizio di dicembre del 1997. In aprile 1997, l’Esercito italiano ritornò in Albania come membro di una più vasta operazione internazionale di peacekeeping chiamata Operation Alba che durò fino ad agosto. La presenza dei militari italiani in Albania è stata normalizzata negli anni Novanta. In quel periodo la Guardia di Finanza stabilì presidi permanenti a Durazzo e Valona. L’abitudine alle divise italiane, è una delle ragioni per cui pochi albanesi si scandalizzarono quando Edi Rama autorizzò l’Italia a costruire campi per migranti. Gli albanesi sanno che il loro governo ha una limitata sovranità sui territori nazionali e non ha la capacità di difenderlo da aggressioni esterne. La configurazione territoriale dell’Albania rimane revisionabile e l’Italia occuperà di nuovo il Paese nel caso emergano gravi tensioni internazionali o se dovesse scoppiare una guerra. Manifestazione del Network Against Migrant Detention al porto di Shëngjin (1.12.2024) – PH: Ramiasole IL COLONIALISMO DEI VEGLIARDI Sin dal XIX secolo gli albanesi sono stati per gli Italiani con popolo criminale con tradizioni selvagge. Questa immagine caratterizza la maggior parte dell’opinione pubblica italiana sugli albanesi, come si può notare leggendo i giornali, i commenti nei social media o guardando film recenti come Svaniti Nella Notte (Renato De Maria, 2024). Tuttavia ultimamente l’Albania è stata rappresentata anche come un Paese che sta progredendo, soprattutto grazie all’Italia. Questa campagna mira ad incoraggiare aziende italiane ad “investire” in Albania al fine di approfittare dei bassi costi di produzione. L’Italia è orgogliosa e gelosa di essere il primo partner commerciale dell’Albania grazie all’alto numero di scambi commerciali ed alle presunte 3000 aziende italiane che operano nel Paese vicino. I tentativi dell’Italia di migliorare la percezione pubblica dell’Albania si sono intensificati dopo la firma dell’accordo per la costruzione dei campi per convincere le masse elettorali che l’Albania è un partner affidabile. Il Giro d’Italia del 2025 era parte di questa attività promozionale. La RAI ha mostrato l’Albania come un luogo esotico per possibili vacanzieri italiani. La politica dell’Italia è sostenuta da politici, uomini d’affari e giornalisti albanesi per i loro interessi personali con un grado di servilismo tale da mettere in imbarazzo anche le stesse autorità italiane. La “trattoria Meloni” a Shëngjin e i gesti di sottomissione che Edi Rama mette in atto ogni volta che vede la sua omologa italiana sono i casi più emblematici. Un nuovo picco di servilismo è stato raggiunto nel programma Realitete Shqiptaro-Italiane (Realtà italo-albanesi). Dal reportage “Cronache da Shëngjin” di Linda Dalmonte e Ilaria Mohamud Giama Trasmesso dalla TV nazionale RTSH, il programma è il tentativo più degradante di disseminare il mito del salvatore italiano che abbia mai visto. Il programma inizia con una raccapricciante foto di Rama e Meloni dopo la firma del “protocollo” che autorizzò la costruzione dei campi. Lo scopo di ogni episodio o puntata come vengono definite dal presentatore nel tentativo di italianizzare il vocabolario albanese, è rappresentare l’Italia come il Paese che sta portando l’Albania in Europa. L’Albania è descritta come un Paese sicuro per aziende italiane e pensionati che beneficiano di un regime di tassazione ridotta. Il programma sembra suggerire che nel XXI secolo, i tipici coloni italiani non sono più giovani lavoratori, di cui peraltro l’Italia scarseggia anche in virtù di questioni demografiche. Ma sono soprattutto cittadini anziani alla ricerca di tranquillità e di servizi dentistici a buon mercato. Il presentatore albanese trascura il carattere violento e sfruttatore delle passate politiche dell’Italia in Albania. Evita inoltre di menzionare il trattamento brutale riservato ai migranti albanesi dalle autorità italiane e non fa parola dei campi di Gjadër e Shëngjin. Ovviamente non parla nemmeno delle torture che i migranti devono sopportare ogni giorno in campi simili in Italia. Queste forme di “civiltà” europea che l’Italia ha esportato in Albania sin dal XIX secolo non hanno posto nella sua favoletta. Invece di dar voce alle migliaia di albanesi che vivono e lavorano in Italia da molti anni e sono trattati come cittadini di seconda classe perché non gli vengono concessi i documenti o la cittadinanza, il presentatore fantastica sull’esistenza di un popolo “italo-albanese” che a suo avviso starebbe emergendo grazie a famiglie di origine mista. La sua narrativa è molto simile a quella del regime di occupazione negli anni 1939-1943 che dipingeva l’annessione dell’Albania come una volontaria “unione di destini“. Ma questa favola è smontata da alcuni intervistati. Una ragazza albanese nata in Italia afferma che i sui genitori ebbero una vita difficile per il modo in cui erano trattati dagli italiani. Una pensionata italiana dice di sperare che l’Albania non diventi mai come l’Italia che è stata svenduta. Nella sezione di commenti delle pagine YouTube dove sono caricati i video del programma, alcuni accusano il giornalista di aver tradito il suo Paese e di fare propaganda per l’Italia. Porto di Shëngjin (1° dicembre 2024) PH: Simone Rosa VIOLENZA E ANIMA COLONIALE Nel passato come nel presente i campi sono solo una parte del progetto espansionista italiano in Albania e non devono essere considerati separatamente. Il controllo dei corpi e la necessita di disciplinarli tramite mezzi di terrore e violenza sono direttamente legati alle politiche economiche per la produzione di energia e di armi che l’Italia ha intrapreso nella regione. Nel gennaio 2025, Italia, Albania ed Emirati Arabi Uniti hanno siglato un accordo per lo sviluppo di progetti che puntano a trasformare l’Albania in un luogo per la produzione di energie “rinnovabili” da trasferire in Italia. In quell’occasione, Giorgia Meloni ha parlato della necessità di considerare l’energia atomica facendo ipotizzare l’avvio di negoziati la costruzione di centrali nucleari italiane in Albania. L’8 aprile, Fincantieri e l’agenzia di Stato albanese per la produzione di armi Kayo hanno siglato un “Memorandum of Understanding” per la costruzione di navi da guerra. In una recente intervista con il giornalista albanese Blendi Fevziu, il nuovo ambasciatore Italiano a Tirana Marco Alberti, ha annunciato che la più grande azienda Italiana produttrice di armi Leonardo, sta per arrivare in Albania. Similmente alla propaganda condotta dall’Italia nel periodo interbellico, Alberti pensa che il potenziale dell’Albania non è ancora sfruttato a dovere. L’arrivo dell’industria militare italiana è inserita all’interno di un discorso che mostra come l’Italia stia portando l’Albania più vicina all’UE. I campi di Gjadër e Shëngjin sono la continuazione di una storia di espansione imperialista, morbosa cura coloniale e disciplina fascista. I campi di concentramento della Seconda Guerra mondale e i più recenti campi per migranti non sono il risultato di politiche contingenti necessarie per affrontare eventi eccezionali come un conflitto globale o una “crisi migranti“. La costruzione dei campi è la proiezione della coscienza imperialista Occidentale e il prodotto dell’addomesticamento dello spazio albanese. Il rapporto coloniale non è qualcosa che va è viene; non è uno spirito errante, ma un’anima che risiede all’interno relazioni italo-albanesi. La storia dell’Italia verso l’Albania è una storia di colonizzazione, mentre la storia dell’Albania verso l’Italia è una storia di resistenza. I campi sono la concrezione di questo rapporto dialettico. Nota: Una prima versione di questo articolo è stata presentata nella conferenza “Coloniality and Migration Governance” organizzata dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Palermo il 26 e il 27 maggio 2025. 1. Sono ricercatore e curatore cinematografico, co-fondatore del Festival del Cinema Albanese “Albania si Gira” che si tiene a Roma. Mi occupo principalmente di narrazioni balcaniche e postcoloniali, temi che esploro attraverso pubblicazioni accademiche e progetti come Kinostories a Bruxelles. Collaboro con l’Istituto di Storia dell’Accademia Bulgara delle Scienze e ho scritto per riviste e piattaforme come Nationalities Papers, Black Camera, Hope Not Hate e Balkan Insight. Faccio parte della comunità di esperti dell’EU Knowledge Hub on the Prevention of Radicalisation ↩︎