Gaza, il coraggio di una minoranza dà lezioni al mondo

Pressenza - Saturday, August 30, 2025

Il conflitto asimmetrico che vede oggi l’invasione di terra di Gaza da parte delle forze armate israeliane, ormai palesemente volto alla pulizia etnica definita senza mezzi termini dal Segretario di Stato vaticano Parolin “una guerra senza limiti”, ci regala un esempio eccezionale e che assume un significato globale: la scelta dei cristiani della Striscia di Gaza di non abbandonare il territorio. Si tratta di una comunità drammaticamente ridotta rispetto al secolo scorso, quando nel 1948 contava circa 35.000 fedeli.

Nonostante la marginalità numerica, pari allo 0,05% di oltre 2,3 milioni di abitanti, la loro presenza, legata ad attori meno marginali come il Vaticano o la Chiesa ortodossa, ha assunto una dimensione politica che certamente mette in ambasce Israele e più ancora i suoi alleati, non ultima la cattolica Italia. Le scuole cattoliche e ortodosse hanno offerto rifugio a migliaia di sfollati musulmani durante i bombardamenti del 2023–2024. La Chiesa di San Porfirio, tra le più antiche della città, è stata trasformata in rifugio comune per centinaia di persone e la condivisione di aiuti medici e alimentari ha dato supporto a tutta la comunità, cristiana o musulmana che fosse. In termini simbolici, ciò significa che una comunità apparentemente irrisoria è diventata una spina nel fianco per Israele: da piccola “debole” minoranza si è fatta moltiplicatore di protezione e solidarietà.

Da quando l’aggressività colonica di Israele si è intensificata negli ultimi anni, i patriarchi delle tre principali Chiese cristiane di Gerusalemme – latino, greco-ortodosso e armeno – hanno pubblicato dichiarazioni congiunte per denunciare l’occupazione, difendere i luoghi santi e chiedere corridoi umanitari. Non è solo ecumenismo religioso, ma una scelta politica: di fronte a un conflitto che produce divisioni, comunità cristiane di tradizioni diverse hanno trovato un linguaggio comune. A Gaza ormai questa unità è diventata vita quotidiana: aprire spazi, condividere risorse, proteggere civili. È qui che il locale diventa globale: una metafora di un’altra via percorribile, dove le diversità possano cooperare anche in condizioni estreme.

La stessa logica si riflette nell’approccio vaticano alla Cina. Con l’accordo provvisorio del 2018 sulla nomina dei vescovi, più volte rinnovato, la Santa Sede ha scelto di non interrompere il dialogo con Pechino, mantenendo un canale aperto. Non è il numero dei fedeli a contare, ma la scelta di restare come a testimoniare contro le logiche di blocco.

Il Vaticano quindi si oppone de facto alla politica dei blocchi e all’uso strumentale della religione, particolarmente evidente nei discorsi del governo israeliano. In questo quadro va letto anche lo scisma delle Chiese ortodosse in Ucraina che trascina le chiese in guerra, con implicazioni dirette nel conflitto. In America Latina, la crescita delle chiese evangeliche, sostenute da reti nordamericane legate al conservatorismo trumpiano e alla galassia MAGA, ha modificato gli equilibri politici tradizionali, rafforzando in diversi Paesi il peso dei blocchi conservatori. Questo stesso circuito alimenta il legame con il governo israeliano, con il quale condivide le politiche liberticide e aggressive, e dove la religione viene usata come arma estrema, pilastro ideologico di politiche disumanizzanti che lasciano un retrogusto amaro, nero, fascista. Parallelamente, gli attori come Falun Gong e il suo braccio mediatico, l’Epoch Times, storici sostenitori del trumpismo, spostano il discorso sul fronte cinese, dipingendo Pechino come nemico assoluto. Così il cerchio si chiude: religione, geopolitica e informazione diventano un’unica trama di polarizzazione globale.

È esattamente contro questa logica che il Vaticano sembra muoversi in direzione ostinata e contraria: diplomazia di pace, presenza silenziosa ma costante, resistenza all’uso strumentale della fede. In questo forse ci sarà un calcolo politico che riporti la fede cattolica al centro della scena, ma finché torna al centro della politica come elemento di unione in un mondo che sembra vivere solo di divisioni, anche da non praticanti, non possiamo che felicitarci di un attore di tale portata che muove in questa direzione.

A Gaza quindi si sta scrivendo un capitolo importante della storia: i cristiani restano, i gazawi resistono, l’una si nutre dell’altra. Restare significa non farsi cancellare, resistere significa opporsi: due sfumature di un’etimologia comune, entrambe legate allo stesso etimo del verbo stare. Restare è la fermezza di chi rimane radicato, resistere è la forza di chi si oppone. Quando questa radice etimologica dello stare incontra la radice cum-, nascono le altre parole del vocabolario necessario: compatire, patire insieme, comprendere e comunità. La comunità sono palestinesi, cristiane e musulmane. Restano e resistono, e insieme sono già una comunità di destino. Una lezione grandissima – per l’Europa e per il mondo intero.

 

Redazione Italia