Gaza, il coraggio di una minoranza dà lezioni al mondo
Il conflitto asimmetrico che vede oggi l’invasione di terra di Gaza da parte
delle forze armate israeliane, ormai palesemente volto alla pulizia etnica
definita senza mezzi termini dal Segretario di Stato vaticano Parolin “una
guerra senza limiti”, ci regala un esempio eccezionale e che assume un
significato globale: la scelta dei cristiani della Striscia di Gaza di non
abbandonare il territorio. Si tratta di una comunità drammaticamente ridotta
rispetto al secolo scorso, quando nel 1948 contava circa 35.000 fedeli.
Nonostante la marginalità numerica, pari allo 0,05% di oltre 2,3 milioni di
abitanti, la loro presenza, legata ad attori meno marginali come il Vaticano o
la Chiesa ortodossa, ha assunto una dimensione politica che certamente mette in
ambasce Israele e più ancora i suoi alleati, non ultima la cattolica Italia. Le
scuole cattoliche e ortodosse hanno offerto rifugio a migliaia di sfollati
musulmani durante i bombardamenti del 2023–2024. La Chiesa di San Porfirio, tra
le più antiche della città, è stata trasformata in rifugio comune per centinaia
di persone e la condivisione di aiuti medici e alimentari ha dato supporto a
tutta la comunità, cristiana o musulmana che fosse. In termini simbolici, ciò
significa che una comunità apparentemente irrisoria è diventata una spina nel
fianco per Israele: da piccola “debole” minoranza si è fatta moltiplicatore di
protezione e solidarietà.
Da quando l’aggressività colonica di Israele si è intensificata negli ultimi
anni, i patriarchi delle tre principali Chiese cristiane di Gerusalemme –
latino, greco-ortodosso e armeno – hanno pubblicato dichiarazioni congiunte per
denunciare l’occupazione, difendere i luoghi santi e chiedere corridoi
umanitari. Non è solo ecumenismo religioso, ma una scelta politica: di fronte a
un conflitto che produce divisioni, comunità cristiane di tradizioni diverse
hanno trovato un linguaggio comune. A Gaza ormai questa unità è diventata vita
quotidiana: aprire spazi, condividere risorse, proteggere civili. È qui che il
locale diventa globale: una metafora di un’altra via percorribile, dove le
diversità possano cooperare anche in condizioni estreme.
La stessa logica si riflette nell’approccio vaticano alla Cina. Con l’accordo
provvisorio del 2018 sulla nomina dei vescovi, più volte rinnovato, la Santa
Sede ha scelto di non interrompere il dialogo con Pechino, mantenendo un canale
aperto. Non è il numero dei fedeli a contare, ma la scelta di restare come a
testimoniare contro le logiche di blocco.
Il Vaticano quindi si oppone de facto alla politica dei blocchi e all’uso
strumentale della religione, particolarmente evidente nei discorsi del governo
israeliano. In questo quadro va letto anche lo scisma delle Chiese ortodosse in
Ucraina che trascina le chiese in guerra, con implicazioni dirette nel
conflitto. In America Latina, la crescita delle chiese evangeliche, sostenute da
reti nordamericane legate al conservatorismo trumpiano e alla galassia MAGA, ha
modificato gli equilibri politici tradizionali, rafforzando in diversi Paesi il
peso dei blocchi conservatori. Questo stesso circuito alimenta il legame con il
governo israeliano, con il quale condivide le politiche liberticide e
aggressive, e dove la religione viene usata come arma estrema, pilastro
ideologico di politiche disumanizzanti che lasciano un retrogusto amaro, nero,
fascista. Parallelamente, gli attori come Falun Gong e il suo braccio mediatico,
l’Epoch Times, storici sostenitori del trumpismo, spostano il discorso sul
fronte cinese, dipingendo Pechino come nemico assoluto. Così il cerchio si
chiude: religione, geopolitica e informazione diventano un’unica trama di
polarizzazione globale.
È esattamente contro questa logica che il Vaticano sembra muoversi in direzione
ostinata e contraria: diplomazia di pace, presenza silenziosa ma costante,
resistenza all’uso strumentale della fede. In questo forse ci sarà un calcolo
politico che riporti la fede cattolica al centro della scena, ma finché torna al
centro della politica come elemento di unione in un mondo che sembra vivere solo
di divisioni, anche da non praticanti, non possiamo che felicitarci di un attore
di tale portata che muove in questa direzione.
A Gaza quindi si sta scrivendo un capitolo importante della storia: i cristiani
restano, i gazawi resistono, l’una si nutre dell’altra. Restare significa non
farsi cancellare, resistere significa opporsi: due sfumature di un’etimologia
comune, entrambe legate allo stesso etimo del verbo stare. Restare è la fermezza
di chi rimane radicato, resistere è la forza di chi si oppone. Quando questa
radice etimologica dello stare incontra la radice cum-, nascono le altre parole
del vocabolario necessario: compatire, patire insieme, comprendere e comunità.
La comunità sono palestinesi, cristiane e musulmane. Restano e resistono, e
insieme sono già una comunità di destino. Una lezione grandissima – per l’Europa
e per il mondo intero.
Redazione Italia