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Trattare con i Talebani per “contrastare” i flussi migratori. Il vero volto della solidarietà europea
A fine ottobre la Commissione Europea ha scritto ai 27 Stati membri per esortarli ad accelerare i rimpatri e implementare gli accordi bilaterali con Paesi extra-Ue, anche con quelli che non rispettano il diritto umanitario, come l’Afghanistan. Una strategia brutale che getta una luce inquietante sugli aiuti umanitari che Bruxelles sta garantendo a Kabul. L’Unione Europea sta rispondendo con prontezza alle richieste delle Nazioni Unite e delle agenzie umanitarie di inviare aiuti all’Afghanistan alle prese con il freddo che avanza, catastrofi naturali, crisi economica e sospensione dei finanziamenti statunitensi. Ma è autentica solidarietà, generosa e disinteressata, o piuttosto un calcolato avvicinamento al governo talebano per convincerlo a riprendersi i “suoi” immigrati in Europa, in risposta alla sempre maggiore pressione delle forze di destra perché si liberino di questo “fardello”? Per provare a rispondere è utile fare un passo indietro e osservare come si sono mossi alcuni Stati europei in questi ultimi mesi. L’isolamento in cui il governo di fatto dell’Afghanistan è stato confinato con le sanzioni comminate nei confronti dei ministri talebani, che impediscono loro di viaggiare, dovrebbe rendergli impossibile incontrare funzionari di Paesi dell’Unione, tanto più in Europa. Invece la Germania già il 21 luglio non solo ha deportato a Kabul 81 migranti con il coordinamento dell’amministrazione talebana e l’aiuto del Qatar, ma ha persino invitato due rappresentanti diplomatici del governo talebano in Europa perché seguissero le pratiche dei respingimenti in futuro. E questi personaggi non sono stati trattati da funzionari con mansioni “tecniche”: sono stati riconosciuti come nuovi portavoce facenti funzioni consolari, dopo che i precedenti della vecchia Repubblica hanno dato le dimissioni proprio per protesta contro l’invito ai “nuovi” delegati. Si è così scavalcato di fatto ogni impegno al non riconoscimento del governo talebano che gli Stati europei e la stessa Germania continuano a ribadire come loro vincolo imperativo, prefigurando un cambio della politica europea nei confronti del governo de facto. La pensano così anche i Talebani, che infatti si sono affrettati a mettere in risalto il loro nuovo ruolo e a occupare tutti gli spazi resi disponibili in questo nuovo contesto, con grande rischio per gli emigrati e per le loro famiglie, perché ora tutta la documentazione relativa ai profughi che vivono in Germania e alle loro famiglie rimaste in Afghanistan è stata ceduta nelle loro mani. Questa decisione di Berlino ha creato un gravissimo precedente, che altri Stati europei si sono affrettati a seguire. Infatti già il 29 luglio funzionari svizzeri hanno chiesto al loro governo un dialogo diretto con i funzionari dell’Emirato islamico dell’Afghanistan per facilitare il processo di rimpatrio forzato dei richiedenti asilo afghani. Il 30 luglio anche la Svezia ha tentato di ricorrere alla burocrazia per rendere la vita difficile agli immigrati afghani e prepararne l’espulsione, dichiarando nulli i documenti di viaggio non regolari, unici documenti di cui sono in possesso i fuggitivi dall’Afghanistan. Intanto i Talebani hanno alzato il tiro: hanno informato la Svizzera che non avrebbero più accettato i rimpatri che non fossero stati firmati da esponenti del proprio governo, imponendo così di fatto i loro funzionari, tanto che il 23 agosto si sono recati a Ginevra per aiutare a identificare chi dovesse essere deportato in Afghanistan. Anche Vienna si è fatta avanti. A metà settembre una delegazione di cinque membri del Ministero degli Esteri talebano si è recata nella capitale austriaca per discutere le missioni diplomatiche e i servizi consolari ai cittadini afghani che vivono in Austria e in altri Paesi europei. Ma la tappa decisiva è stata l’istanza dei 19 Paesi europei che hanno sottoscritto il 19 ottobre di quest’anno una richiesta al Commissario Europeo per gli Affari interni e le migrazioni affinché venga facilitato il rimpatrio, volontario o forzato, dei cittadini extra-europei senza permesso di soggiorno o asilo, chiedendo quindi che le deportazioni siano trattate come una “responsabilità condivisa a livello dell’UE”. A sottoscrivere il documento sono stati i governi di Bulgaria, Cipro, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Austria, Polonia, Slovacchia, Svezia, Repubblica Ceca e Paesi Bassi. Si è poi aggiunta la Norvegia la quale, pur non essendo membro dell’UE, è un Paese Schengen. Questa stretta migratoria, se è molto grave perché rischia di ripercuotersi pesantemente su tutti i profughi rifugiatisi in Europa, ha una ricaduta ancora più inquietante quando i migranti presi di mira sono cittadini afghani, costretti a tornare a vivere sotto un regime dittatoriale e repressivo dal quale erano fuggiti spesso per salvare la pelle. Ma è ancor più grave per il risvolto internazionale che prefigura, perché si ripercuote sulle relazioni tra Europa e Afghanistan, facendo diventare il governo afghano protagonista di una trattativa che lo riconosce di fatto se non di diritto, secondo una scelta che sembra essere sempre più considerata necessaria anche dai Paesi occidentali, in quanto giustificata da esigenze pragmatiche. Infatti il respingimento degli afghani nel Paese di origine necessita dell’accordo con il governo dei Talebani, fondamentalista e gravemente persecutorio nei confronti delle donne, che nessuno al mondo tranne la Russia ha voluto finora riconoscere. Ma questo governo è disponibile a dare il suo consenso al rientro dei suoi concittadini solo in cambio di un avanzamento del suo posizionamento nel mondo verso il riconoscimento legale. Posizione che rimane sottotraccia nella richiesta di deportazione avanzata degli Stati europei. A estendere la nuova “linea politica” ci ha pensato la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, inviando il 22 ottobre una lettera a tutti i 27 Stati dell’Unione per esortarli ad accelerare i rimpatri e implementare gli accordi bilaterali con i Paesi extra-Ue, anche con quelli che non rispettano il diritto umanitario, tipo l’Afghanistan. Quindi trattare con il governo talebano, aprendo al dialogo e ai suoi ambasciatori, riconoscendogli di fatto un ruolo ufficiale sebbene ciò contraddica le dichiarazioni che la stessa UE continua a proclamare, è la nuova strategia europea per “ridurre” l’immigrazione. La politica di dialogo dell’UE con il governo talebano è stata del resto ribadita anche dal nuovo rappresentante UE per l’Afghanistan, Gilles Bertrand, che appena eletto si è recato a Kabul per confermare direttamente ai Talebani l’intenzione dell’UE di portare avanti il processo di dialogo stabilito nell’ambito degli accordi di Doha 3 – quelli cioè che escludono qualsiasi trattativa sui diritti delle donne per far piacere ai Talebani – offrendo e chiedendo collaborazione a vari livelli. È quanto del resto ha ribadito il Parlamento Europeo nel suo ultimo comunicato in cui, mentre prende una decisa posizione contro l’apartheid di genere e denuncia le responsabilità dei Talebani, anziché proporre provvedimenti per isolarli stringe i legami attraverso viaggi in Afghanistan e contatti segreti tra diplomatici, giustamente denunciati da alcune deputate europee. In questa ottica, assume una luce più inquietante e interessata l’erogazione di aiuti umanitari che Bruxelles sta garantendo a Kabul sotto varie forme: non appare come un libero impegno dei Paesi europei democratici, solidali nei confronti del popolo afghano affamato, ma invece come un sostegno al governo talebano per avere in cambio la deportazione dei migranti afghani e agevolare il consenso dell’opinione pubblica europea sempre più xenofoba. L’articolo è stato pubblicato su Altreconomia, 18 novembre 2025   Anna Polo
Tunisia: diffuse violazioni contro persone rifugiate e migranti
Amnesty International ha diffuso oggi un nuovo rapporto, intitolato “‘Nessuno ti sente quando urli’: la svolta pericolosa della politica migratoria in Tunisia”, evidenziando come negli ultimi tre anni le autorità tunisine abbiano progressivamente smantellato le tutele per le persone rifugiate, richiedenti asilo e migranti – in particolare per le persone nere provenienti dall’Africa subsahariana – passando pericolosamente a pratiche di polizia razziste e a diffuse violazioni dei diritti umani che mettono a rischio la loro vita, la loro sicurezza e la loro dignità. L’Unione europea rischia di rendersi complice di tutto ciò, mantenendo in piedi la cooperazione nel controllo dei flussi migratori senza garanzie effettive in materia di diritti umani. Nel nuovo rapporto Amnesty International documenta come, alimentate dalla retorica razzista di esponenti politici, le autorità tunisine abbiano effettuato arresti e detenzioni su base razziale, intercettamenti in mare pericolosi e sconsiderati, espulsioni collettive di decine di migliaia di persone rifugiate e migranti verso l’Algeria e la Libia e come abbiano sottoposto le stesse a maltrattamenti e torture tra cui stupri e altre forme di violenza sessuale, attuando al contempo una repressione contro la società civile che fornisce assistenza essenziale. Nel giugno 2024 le autorità tunisine hanno posto fine al ruolo dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati nella gestione delle domande d’asilo, cancellando di fatto l’unica possibilità di chiedere protezione nel paese. Nonostante questo grave arretramento, l’Unione europea ha continuato a cooperare con la Tunisia nel controllo dei flussi migratori senza prevedere garanzie efficaci in materia di diritti umani. Proseguendo su questa strada, l’Unione europea rischia di rendersi complice di gravi violazioni dei diritti umani e di contribuire a intrappolare un numero crescente di persone in una situazione in cui le loro vite e i loro diritti restano in pericolo. “Alimentando la xenofobia e abbattendo colpo dopo colpo la protezione dei rifugiati, le autorità tunisine si rendono responsabili di orribili violazioni dei diritti umani. Devono porre fine immediatamente a questo arretramento devastante e fermare l’incitamento al razzismo e le espulsioni collettive che mettono in pericolo vite umane. Devono garantire il diritto d’asilo e assicurare che nessuna persona sia espulsa verso un luogo dove rischi di subire gravi violazioni dei diritti umani. Il personale delle organizzazioni non governative e i difensori e le difensore dei diritti umani arrestati per aver assistito persone rifugiate e migranti devono essere scarcerati senza condizioni”, ha dichiarato Heba Morayef, direttrice regionale per il Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International. “L’Unione europea deve sospendere con urgenza ogni forma di assistenza nel controllo delle frontiere e dei flussi migratori finalizzata a trattenere le persone in Tunisia e interrompere i finanziamenti alle forze di sicurezza e ad altri soggetti responsabili di violazioni dei diritti umani contro le persone rifugiate e migranti. Invece di privilegiare la deterrenza e alimentare le violazioni dei diritti umani, la cooperazione con la Tunisia dovrebbe mirare a garantire misure di protezione adeguate e procedure d’asilo nel paese, integrando criteri e condizioni in materia di diritti umani chiari e vincolanti, per evitare qualsiasi complicità in tali violazioni”, ha aggiunto Morayef. Amnesty International ha condotto la propria ricerca tra febbraio 2023 e giugno 2025, intervistando 120 persone rifugiate e migranti provenienti da quasi 20 stati (92 uomini e 28 donne, comprese otto persone di età compresa tra 16 e 17 anni) a Tunisi, Sfax e Zarzis. L’organizzazione ha inoltre analizzato fonti delle Nazioni Unite, della stampa e della società civile, oltre ai profili social ufficiali delle autorità di Tunisi. Prima della pubblicazione, Amnesty International ha condiviso le proprie conclusioni con le autorità tunisine, europee e libiche. Al momento della pubblicazione non era pervenuta alcuna risposta. Una crisi alimentata dalla retorica razzista Le testimonianze raccolte rivelano un sistema di gestione della migrazione e dell’asilo concepito per escludere e punire, anziché proteggere. Almeno 60 delle persone intervistate, tra cui tre minorenni, due rifugiati e cinque richiedenti asilo, sono state arrestate e detenute in modo arbitrario. Persone rifugiate e migranti dell’Africa subsahariana sono state prese di mira da singoli soggetti e dalle forze di sicurezza in un contesto di profilazione razziale sistemica e in varie ondate di violenza razzista alimentate dalla propaganda d’odio razziale, a partire dalle dichiarazioni del presidente Kais Saied del febbraio 2023, riprese poi da altri funzionari e parlamentari. La situazione è peggiorata a causa della repressione che ha colpito almeno sei organizzazioni non governative che fornivano sostegno essenziale a persone migranti e rifugiate, con conseguenze umanitarie gravissime e un enorme vuoto di protezione. Dal maggio 2024 le autorità hanno detenuto arbitrariamente almeno otto loro operatori e due ex funzionari locali che avevano collaborato con esse. La prossima udienza del processo al personale di una delle organizzazioni non governative, il Consiglio tunisino per i rifugiati, è fissata per il 24 novembre. “Li abbiamo visti annegare” Amnesty International ha indagato su 24 intercettamenti in mare e ha raccolto le testimonianze di 25 persone rifugiate e migranti che hanno descritto comportamenti pericolosi, sconsiderati e violenti da parte della Guardia costiera tunisina: speronamenti, manovre ad alta velocità che hanno rischiato di far capovolgere le imbarcazioni, colpi inferti a persone e imbarcazioni con manganelli, lancio di gas lacrimogeni da distanza ravvicinata e la mancata valutazione individuale delle necessità di protezione al momento dello sbarco. “Céline”, una donna migrante camerunese intercettata dopo la partenza dalla regione orientale di Sfax nel giugno 2023, ha raccontato ad Amnesty International: “Continuavano a colpire la nostra barca di legno con lunghi bastoni appuntiti, l’hanno bucata… C’erano almeno due donne e tre neonati senza giubbotti di salvataggio. Li abbiamo visti annegare e poi non abbiamo più visto i corpi. Non ho mai avuto così tanta paura”. Nonostante le persistenti preoccupazioni per la mancanza di trasparenza nei dati sugli intercettamenti, nel 2024 le autorità tunisine hanno smesso di pubblicare statistiche ufficiali dopo aver istituito, con il sostegno dell’Unione europea, una zona di ricerca e soccorso marittimo. In precedenza, avevano riferito un aumento significativo degli intercettamenti. “Andate in Libia, là vi uccideranno” Dal giugno 2023 in poi le autorità tunisine hanno avviato espulsioni collettive di decine di migliaia di persone rifugiate e migranti, perlopiù provenienti dall’Africa subsahariana, dopo arresti su base razziale o intercettamenti in mare. Amnesty International ha accertato che, tra giugno 2023 e maggio 2025, sono state effettuate almeno 70 espulsioni collettive, che hanno riguardato oltre 11.500 persone. Le forze di sicurezza tunisine hanno sistematicamente abbandonato persone migranti, richiedenti asilo e rifugiate – anche donne incinte e bambini – in aree remote e desertiche ai confini con la Libia e l’Algeria, senza acqua né cibo, spesso dopo aver loro confiscato telefoni, documenti d’identità e denaro, esponendole così a gravi rischi per la vita e la sicurezza. Dopo la prima ondata di espulsioni, tra giugno e luglio del 2023, almeno 28 persone migranti sono state trovate morte lungo il confine libico-tunisino e 80 risultano disperse. Queste espulsioni sono state condotte senza alcuna garanzia procedurale e in violazione del principio di non respingimento. Mentre chi veniva spinto verso l’Algeria doveva camminare per settimane per tornare indietro o rischiare ulteriori respingimenti a catena fino al Niger, le persone che venivano condotte verso la Libia spesso finivano nelle mani delle guardie di frontiera locali o di milizie che le abbandonavano lì o le portavano in strutture non ufficiali. In Libia le persone migranti e rifugiate subiscono violazioni dei diritti umani gravi e sistematiche, commesse nell’impunità, che una missione d’inchiesta delle Nazioni Unite ha qualificato come crimini contro l’umanità. “Ezra”, un uomo della Costa d’Avorio, ha raccontato ad Amnesty International come le forze di polizia tunisine lo abbiano espulso verso il confine libico nella notte tra il 1° e il 2 luglio 2023, insieme ad altre 24 persone, almeno una delle quali minorenne: “Siamo arrivati nella zona di confine con la Libia verso le sei del mattino… Un ufficiale tunisino ha detto: ‘Andate in Libia, là vi uccideranno’. Un altro ha aggiunto: ‘O nuotate, o correte verso la Libia’. Ci hanno restituito un sacco pieno dei nostri telefoni distrutti…”. Le persone che facevano parte di questo gruppo hanno tentato di risalire la costa verso la Tunisia ma uomini in uniforme militare le hanno intercettate e inseguite con i cani, hanno picchiato quattro di loro e infine le hanno riportate al confine. “Ci hanno costretti a gridare più volte ‘Tunisia mai più, non torneremo mai più’ Le forze di sicurezza tunisine hanno sottoposto 41 uomini, donne e minorenni a maltrattamenti e torture durante intercettamenti, espulsioni o detenzioni. “Hakim”, cittadino camerunese, ha descritto come gli agenti lo abbiano portato e abbandonato al confine con l’Algeria nel gennaio 2025: “Ci hanno presi uno per uno, ci hanno circondati, ci hanno fatto sdraiare, ci hanno ammanettati… Ci picchiavano con tutto ciò che avevano: mazze, manganelli, tubi di ferro, bastoni di legno… Ci hanno costretti a ripetere più volte ‘Tunisia mai più, non torneremo mai più’. Ci colpivano e prendevano a calci ovunque”. Amnesty International ha inoltre documentato 14 casi di stupro o altre forme di violenza sessuale da parte delle forze di sicurezza tunisine, alcuni dei quali avvenuti durante perquisizioni corporali o denudamenti forzati condotti in modo umiliante, tali da configurare tortura. “Karine”, una donna camerunese, ha raccontato ad Amnesty International che il 26 maggio 2025 agenti della Guardia nazionale l’hanno violentata due volte: prima durante una perquisizione dopo un intercettamento nella regione di Sfax, poi al confine con l’Algeria, dopo un’espulsione collettiva. Il sostegno irresponsabile dell’Unione europea, a scapito di vite e dignità Ignorando le conseguenze devastanti della propria cooperazione con la Libia, l’attuale cooperazione tra l’Unione europea e Tunisia sul controllo delle migrazioni ha perseguito e ottenuto la detenzione di persone in un paese dove sono esposte a diffuse violazioni dei diritti umani. Tale cooperazione comprende il finanziamento delle capacità di ricerca e soccorso della guardia costiera tunisina e la fornitura di formazione ed equipaggiamento per la gestione delle frontiere, allo scopo di ridurre le partenze irregolari verso l’Europa. Nel luglio 2023 l’Unione europea ha firmato con la Tunisia un Memorandum d’intesa elaborato senza garanzie effettive in materia di diritti umani, come una valutazione d’impatto preventiva trasparente, un monitoraggio indipendente con procedure chiare per dare seguito alle denunce di violazioni dei diritti umani e una clausola di sospensione esplicita in caso di violazioni. Queste carenze sono state evidenziate nel 2024 dalla Mediatrice europea. La cooperazione prosegue da oltre due anni, nonostante numerose allarmanti e ben documentate segnalazioni di violazioni dei diritti umani. Nonostante stessero sacrificando il diritto internazionale per privilegiare il controllo delle migrazioni, funzionari europei l’hanno presentata come un successo, citando la diminuzione degli arrivi via mare di persone provenienti dalla Tunisia dal 2024. “Il silenzio dell’Unione europea e dei suoi stati membri di fronte a queste terribili violazioni dei diritti umani è particolarmente inquietante. Ogni giorno in cui l’Unione europea continua a sostenere in modo sconsiderato l’offensiva della Tunisia contro i diritti delle persone migranti e rifugiate e di chi le difende, senza una revisione sostanziale della cooperazione in corso, i leader europei rischiano di rendersi complici”, ha concluso Morayef. Nota: i nomi delle persone che hanno raccontato ad Amnesty International la loro esperienza sono stati cambiati per tutelare la loro incolumità. Amnesty International
Libia: MSF ha ricevuto l’ordine di lasciare il Paese entro il 9 novembre
Medici Senza Frontiere (MSF) annuncia di aver ricevuto una lettera dal Ministero degli Affari Esteri della Libia in cui viene ordinato all’organizzazione medico-umanitaria di lasciare il Paese entro il 9 novembre. Il 27 marzo 2025 MSF aveva ricevuto l’ordine di sospendere le attività in Libia dopo la chiusura imposta dall’Agenzia per la sicurezza interna (ISA) e l’interrogatorio di diversi membri del suo staff. Questa ondata di repressione ha colpito anche altre 9 organizzazioni umanitarie che operano nella parte occidentale del Paese. Da allora, MSF ha ripetutamente espresso il desiderio di poter tornare a fornire assistenza medica in Libia e ha continuato a dialogare con le autorità. “Siamo profondamente rammaricati per questa decisione e preoccupati per le conseguenze che avrà sulla salute delle persone che assistiamo” spiega Steve Purbrick, responsabile dei programmi di MSF in Libia. “Riteniamo di avere ancora un ruolo importante da svolgere in Libia, in particolare nella diagnosi e nel trattamento della tubercolosi, nel supporto al sistema sanitario libico, ma anche nel garantire l’accesso all’assistenza sanitaria ai rifugiati e alle persone migranti che sono escluse dalle cure e soggette a detenzioni arbitrarie e gravi violenze”.  In un contesto caratterizzato da crescenti ostruzioni alle attività delle ONG, da drastici tagli ai finanziamenti internazionali e dal rafforzamento delle politiche europee di collaborazione con le autorità libiche in materia di controllo delle frontiere, attualmente non vi sono ONG internazionali che forniscono assistenza medica ai rifugiati e ai migranti nella Libia occidentale. “Non è stata fornita alcuna motivazione per giustificare la nostra espulsione e il processo rimane poco chiaro. La registrazione di MSF presso le autorità competenti in Libia è ancora valida; speriamo, quindi, ancora di poter trovare una soluzione positiva a questa situazione” conclude Purbrick di MSF. In collaborazione con le autorità sanitarie libiche, MSF ha effettuato oltre 15.000 visite mediche nel 2024, 3.000 sessioni di salute mentale individuali e 2.000 visite per la tubercolosi. MSF si è occupata di identificare e accompagnare alcuni di questi pazienti non libici e particolarmente vulnerabili e di evacuarli attraverso un corridoio umanitario verso l’Italia. Dal 2024, 76 ex pazienti hanno beneficiato di questo programma e altri 63 avrebbero dovuto seguirli entro la fine dell’anno. Nel 2023, MSF ha anche fornito assistenza medica di emergenza in seguito alle inondazioni a Derna.     Medecins sans Frontieres
Gaza, il coraggio di una minoranza dà lezioni al mondo
Il conflitto asimmetrico che vede oggi l’invasione di terra di Gaza da parte delle forze armate israeliane, ormai palesemente volto alla pulizia etnica definita senza mezzi termini dal Segretario di Stato vaticano Parolin “una guerra senza limiti”, ci regala un esempio eccezionale e che assume un significato globale: la scelta dei cristiani della Striscia di Gaza di non abbandonare il territorio. Si tratta di una comunità drammaticamente ridotta rispetto al secolo scorso, quando nel 1948 contava circa 35.000 fedeli. Nonostante la marginalità numerica, pari allo 0,05% di oltre 2,3 milioni di abitanti, la loro presenza, legata ad attori meno marginali come il Vaticano o la Chiesa ortodossa, ha assunto una dimensione politica che certamente mette in ambasce Israele e più ancora i suoi alleati, non ultima la cattolica Italia. Le scuole cattoliche e ortodosse hanno offerto rifugio a migliaia di sfollati musulmani durante i bombardamenti del 2023–2024. La Chiesa di San Porfirio, tra le più antiche della città, è stata trasformata in rifugio comune per centinaia di persone e la condivisione di aiuti medici e alimentari ha dato supporto a tutta la comunità, cristiana o musulmana che fosse. In termini simbolici, ciò significa che una comunità apparentemente irrisoria è diventata una spina nel fianco per Israele: da piccola “debole” minoranza si è fatta moltiplicatore di protezione e solidarietà. Da quando l’aggressività colonica di Israele si è intensificata negli ultimi anni, i patriarchi delle tre principali Chiese cristiane di Gerusalemme – latino, greco-ortodosso e armeno – hanno pubblicato dichiarazioni congiunte per denunciare l’occupazione, difendere i luoghi santi e chiedere corridoi umanitari. Non è solo ecumenismo religioso, ma una scelta politica: di fronte a un conflitto che produce divisioni, comunità cristiane di tradizioni diverse hanno trovato un linguaggio comune. A Gaza ormai questa unità è diventata vita quotidiana: aprire spazi, condividere risorse, proteggere civili. È qui che il locale diventa globale: una metafora di un’altra via percorribile, dove le diversità possano cooperare anche in condizioni estreme. La stessa logica si riflette nell’approccio vaticano alla Cina. Con l’accordo provvisorio del 2018 sulla nomina dei vescovi, più volte rinnovato, la Santa Sede ha scelto di non interrompere il dialogo con Pechino, mantenendo un canale aperto. Non è il numero dei fedeli a contare, ma la scelta di restare come a testimoniare contro le logiche di blocco. Il Vaticano quindi si oppone de facto alla politica dei blocchi e all’uso strumentale della religione, particolarmente evidente nei discorsi del governo israeliano. In questo quadro va letto anche lo scisma delle Chiese ortodosse in Ucraina che trascina le chiese in guerra, con implicazioni dirette nel conflitto. In America Latina, la crescita delle chiese evangeliche, sostenute da reti nordamericane legate al conservatorismo trumpiano e alla galassia MAGA, ha modificato gli equilibri politici tradizionali, rafforzando in diversi Paesi il peso dei blocchi conservatori. Questo stesso circuito alimenta il legame con il governo israeliano, con il quale condivide le politiche liberticide e aggressive, e dove la religione viene usata come arma estrema, pilastro ideologico di politiche disumanizzanti che lasciano un retrogusto amaro, nero, fascista. Parallelamente, gli attori come Falun Gong e il suo braccio mediatico, l’Epoch Times, storici sostenitori del trumpismo, spostano il discorso sul fronte cinese, dipingendo Pechino come nemico assoluto. Così il cerchio si chiude: religione, geopolitica e informazione diventano un’unica trama di polarizzazione globale. È esattamente contro questa logica che il Vaticano sembra muoversi in direzione ostinata e contraria: diplomazia di pace, presenza silenziosa ma costante, resistenza all’uso strumentale della fede. In questo forse ci sarà un calcolo politico che riporti la fede cattolica al centro della scena, ma finché torna al centro della politica come elemento di unione in un mondo che sembra vivere solo di divisioni, anche da non praticanti, non possiamo che felicitarci di un attore di tale portata che muove in questa direzione. A Gaza quindi si sta scrivendo un capitolo importante della storia: i cristiani restano, i gazawi resistono, l’una si nutre dell’altra. Restare significa non farsi cancellare, resistere significa opporsi: due sfumature di un’etimologia comune, entrambe legate allo stesso etimo del verbo stare. Restare è la fermezza di chi rimane radicato, resistere è la forza di chi si oppone. Quando questa radice etimologica dello stare incontra la radice cum-, nascono le altre parole del vocabolario necessario: compatire, patire insieme, comprendere e comunità. La comunità sono palestinesi, cristiane e musulmane. Restano e resistono, e insieme sono già una comunità di destino. Una lezione grandissima – per l’Europa e per il mondo intero.   Redazione Italia
Aumentano nel mondo gli sfollamenti forzati
Alla fine del 2024, si stima che 123,2 milioni di persone in tutto il mondo siano state costrette a sfollare a causa di persecuzioni, conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani ed eventi che hanno gravemente turbato l’ordine pubblico. Si tratta di un aumento di 7 milioni di persone, pari al 6%, rispetto alla fine del 2023. Sebbene gli spostamenti forzati siano quasi raddoppiati a livello globale nell’ultimo decennio, il tasso di crescita ha subito un rallentamento nella seconda metà del 2024. Entro la fine di aprile 2025, l’UNHCR stima che il numero globale di persone costrette alla fuga sia probabilmente diminuito leggermente, dell’1%, attestandosi a 122,1 milioni, il primo calo in oltre un decennio. Lo rivela il rapporto annuale Global trends 2024, elaborato dall’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr). Se questa tendenza continuerà o si invertirà per il resto del 2025 dipenderà in larga misura dalla possibilità di raggiungere la pace o almeno la cessazione dei combattimenti, in particolare nella Repubblica Democratica del Congo, in Sudan e in Ucraina; se la situazione nel Sudan del Sud non peggiorerà ulteriormente; se le condizioni per il rimpatrio miglioreranno, in particolare in Afghanistan e Siria; e quanto grave sarà l’impatto degli attuali tagli ai finanziamenti sulla capacità di affrontare le situazioni di sfollamento forzato in tutto il mondo e di creare condizioni favorevoli per un rimpatrio sicuro e dignitoso. Le soluzioni per rifugiati e sfollati interni sono aumentate nel corso del 2024, con il numero di rifugiati che ha raggiunto il livello più alto degli ultimi vent’anni (1,6 milioni). Tuttavia, alla base di queste tendenze positive per ciascuna soluzione, vi sono preoccupazioni circa i rischi intrinseci per la protezione delle persone costrette alla fuga e la sostenibilità a lungo termine di queste soluzioni. Nell’ultimo anno, il 92% degli 1,6 milioni di rifugiati rimpatriati ha avuto come destinazione solo quattro Paesi: Afghanistan, Siria, Sud Sudan e Ucraina. Molti rifugiati afghani, siriani e sud sudanesi sono tornati in condizioni avverse e sono arrivati in situazioni di estrema fragilità. In Ucraina, nonostante la guerra sia entrata nel suo quarto anno, molti rifugiati vulnerabili hanno scelto di tornare in parte a causa delle difficoltà di accesso ai diritti e ai servizi nei Paesi ospitanti. In Afghanistan, i rimpatriati sono arrivati in un Paese afflitto da povertà dilagante, disoccupazione alle stelle, servizi pubblici gravemente inadeguati e diffusa insicurezza alimentare. Lo scorso anno si è registrato anche il numero più alto di rifugiati reinsediati in Paesi terzi da oltre 40 anni (188.800). Inoltre, nel 2024, quasi 88.900 rifugiati hanno ottenuto la cittadinanza del Paese ospitante o la residenza permanente. Oltre 8,2 milioni di sfollati interni sono tornati nelle loro aree di origine nel 2024, il secondo numero più alto mai registrato. Tuttavia, in assenza di pace e stabilità nel loro Paese, molti sfollati interni rimangono intrappolati in cicli di rimpatri seguiti da nuovi spostamenti, e i conflitti si stanno protraendo sempre di più. Molti di questi rimpatri potrebbero quindi non essere sostenibili.  Per quanto riguarda la Siria, la guerra ha causato una delle più grandi crisi di sfollamento forzato al mondo: alla fine del 2024 un quarto della popolazione era sfollata, inclusi 6,1 milioni di rifugiati e richiedenti asilo siriani e 7,4 milioni di sfollati interni. La caduta del governo di Assad, l’8 dicembre, ha riacceso la speranza di un ritorno, ma la situazione resta instabile, con il rischio costante di ulteriori nuovi espatri. A metà maggio, si stima che oltre 500.000 siriani siano rientrati in Siria dalla caduta del governo di Assad. Si stima che anche 1,2 milioni di sfollati interni siano tornati nelle loro aree di origine. La sostenibilità di questi ritorni dipenderà da molti fattori, tra cui l’evoluzione complessiva della situazione della sicurezza in Siria, nonché la disponibilità di alloggi, servizi pubblici, infrastrutture e la rivitalizzazione dell’economia. Tuttavia, si stima che entro la fine del 2025 potrebbero rientrare fino a 1,5 milioni di siriani provenienti dall’estero e 2 milioni di sfollati interni. L’UNHCR continua a esortare gli Stati a non rimpatriare forzatamente i siriani. Molte famiglie al loro ritorno trovano le loro case danneggiate o distrutte e affrontano ostacoli significativi nella ricostruzione delle loro vite. In questo momento cruciale, è fondamentale sostenere la ripresa della Siria. La popolazione globale di rifugiati è invece diminuita dell’1%, raggiungendo i 42,7 milioni nel corso dell’anno. Questa cifra include 36,8 milioni di rifugiati sotto il mandato dell’UNHCR, tra cui 4 milioni di persone in una situazione simile a quella dei rifugiati e 5,9 milioni di altre persone bisognose di protezione internazionale, nonché 5,9 milioni di rifugiati palestinesi sotto il mandato dell’UNRWA. Tuttavia, rispetto a dieci anni fa, il numero totale di rifugiati sotto il mandato dell’UNHCR è più che raddoppiato, raggiungendo i 36,8 milioni entro la fine del 2024. L’UNHCR parla di un sistema umanitario al limite della sopportazione: “Senza finanziamenti adeguati, non ci saranno sufficienti aiuti alimentari e un alloggio di base per gli sfollati. I servizi di protezione, compresi gli spazi sicuri per donne e ragazze rifugiate a rischio di violenza, saranno probabilmente interrotti. Le comunità che hanno generosamente ospitato le persone sfollate per anni rimarranno senza il supporto di cui hanno bisogno. E, forse la cosa più critica, le speranze di ritorno non si materializzeranno o il ritorno non sarà dignitoso e non sarà accompagnato da un aumento dei servizi adeguati nei Paesi di origine. Di conseguenza, le persone che tornano potrebbero non avere altra scelta che ripartire. Per ridurre il numero di persone costrette a spostarsi, è necessario compiere progressi significativi sulle cause profonde: conflitti, disprezzo per i principi fondamentali del diritto internazionale umanitario, altre forme di violenza e persecuzione. Nel frattempo, è più che mai essenziale reperire risorse per far fronte alle urgenti necessità umanitarie, per sostenere i Paesi ospitanti, per proteggere le persone dai rischi di pericolosi spostamenti e per aiutare i rifugiati e le altre persone costrette a sfollare a trovare soluzioni durature. Le conseguenze dell’inazione ricadranno su coloro che meno se lo potranno permettere”. Qui per scaricare il Rapporto: https://www.unhcr.org/global-trends-report-2024. Giovanni Caprio
Cultura e sostegno per l’accoglienza
-------------------------------------------------------------------------------- Foto Ciac -------------------------------------------------------------------------------- L’odissea dei rifugiati prosegue in un mare insidioso e ostile, in cui le difficoltà della fuga e dell’espatrio sono moltiplicate dai venti delle false narrazioni e delle politiche ostili. Vale la pena a questo riguardo di richiamare solo qualche aspetto del rapporto annuale che Unhcr ha appena pubblicato in occasione della giornata mondiale del rifugiato. Anzitutto, il 73% dei rifugiati, quasi tre su quattro, sono ospitati in Paesi a basso o medio reddito, non nei paesi “sviluppati” del Nord globale. La maggioranza sono sfollati interni: accolti cioè in una zona più sicura del loro stesso paese. Per esempio nel caso del Congo sconvolto dalla guerra (7,8 milioni di rifugiati), otto su dieci sono rimasti all’interno dei confini. Tra chi attraversa una frontiera, il 67% si ferma nei Paesi confinanti: non hanno né le risorse, né la preparazione, e spesso neppure la volontà di andare più lontano. Molti vogliono semplicemente rientrare nelle loro case. Anche una grave crisi come quella del Sudan (2,8 milioni di rifugiati) sta gravando sui paesi vicini: il poverissimo Ciad (1.1 milioni), l’Egitto (603.000), il Sud Sudan, a sua volta coinvolto in un’aspra guerra civile, oltre che agli ultimi posti nell’indice Onu dello sviluppo umano (488.000). Quella dell’invasione dell’Europa o del mondo sviluppato è una delle tante fake news che alimentano paura e rifiuto. In secondo luogo, quasi la metà dei rifugiati sono donne, il 40% minori. A fuggire sono intere famiglie, a volte donne sole con figli piccoli, altre volte minori non accompagnati. È un’umanità dolente e impaurita, non un’onda di rapaci conquistatori. In un panorama globalmente plumbeo (il conteggio è arrivato a 123,2 milioni, sette milioni in più del 2023) spunta anche qualche buona notizia. Quasi 10 milioni di rifugiati (9,8 milioni) sono rientrati nei luoghi di origine, tra cui 1,8 milioni di rifugiati internazionali, anche se non sempre volontariamente. Il cambio di regime in Siria e le speranze di rinascita del paese hanno contribuito a questo risultato. Quasi 190.000 rifugiati hanno invece potuto reinsediarsi in un paese più sicuro, benché la nuova presidenza Trump metta ora in pericolo questo risultato, il più alto finora registrato. Da alcuni Paesi i flussi di profughi tendono a rallentare, come nel caso afghano: c’è da sperare che non sia solo l’esito di maggiore repressione e minore accoglienza. In parallelo, Unhcr ha diffuso altro dati, ricavati da un sondaggio internazionale realizzato in collaborazione con Ipsos. Riguardano la disponibilità ad accogliere, e disegnano un quadro meno pregiudizievole di quanto il dibattito politico avrebbe fatto pensare: la maggioranza delle persone intervistate (22.000, in 29 paesi) pensa che i paesi più ricchi dovrebbero assumersi maggiori impegni nel sostenere i rifugiati. In particolare, lo pensa il 67% degli italiani, sia nei confronti di quelli accolti sul nostro territorio, sia verso quelli ospitati da altri paesi. Inoltre, il 49% degli italiani ritiene che la maggior parte dei rifugiati riusciranno a integrarsi con successo, superando i pessimisti (43%). Altri dati tuttavia sono più contraddittori: il 49% degli intervistati a livello globale vorrebbe la chiusura totale delle frontiere del proprio paese per i rifugiati, anche se in Italia il dato scende a un pur preoccupante 40%. In sostanza, l’opinione pubblica non appare nettamente contraria ai profughi, e lo è tanto meno in Italia. Sembra piuttosto oscillante, contesa fra emozioni contrastanti, incline all’apertura ma indecisa, e quindi manipolabile. Servono buona informazione, dati obiettivi, narrazioni positive, per sostenere quello spirito di accoglienza che tenacemente persiste nel corpo sociale, malgrado l’infiltrazione delle voci dei seminatori di paura e di arroccamento. Il terreno dell’ospitalità si coltiva con un lavoro culturale di cui si avverte più che mai il bisogno. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su “Avvenire” del 20 giugno 2025 (e qui con l’autorizzazione dell’autore). Docente di Sociologia dei processi migratori e sociologia urbana all’Università degli Studi di Milano. Tra i suoi ultimi libri L’invasione immaginaria. L’immigrazione oltre i luoghi comuni (Laterza). -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Cultura e sostegno per l’accoglienza proviene da Comune-info.
STATI UNITI: A 5 ANNI DALL’OMICIDIO FLOYD, “LA POLIZIA HA INTERIORIZZATO LO SPIRITO DEL SUPREMATISMO BIANCO”
A Minneapolis, nel Minnesota, cinque anni fa si verificò l’omicidio razzista e di Stato di George Floyd, soffocato dal ginocchio di un poliziotto. Domenica 25 maggio la morte del 46enne afroamericano è stata commemorata in piazza George Floyd, tra opere d’arte di protesta, rose gialle e un murales con la scritta “Hai cambiato il mondo, George”. L’omicida, il poliziotto bianco Derek Chauvin, condannato nel 2022 a 21 anni di reclusione, potrebbe vedersi concedere la grazia se il Presidente Donald Trump cedesse alle pressioni degli alleati più razzisti. Inoltre i dati raccolti tra il 2017 e il 2024, mostrano un aumento degli omicidi razziali nei confronti delle minoranze statunitensi nere e ispaniche. In calo invece i numeri delle persone bianche uccise dalla polizia. Questo attesterebbe una perdita di slancio del movimento Black Lives Matter a favore del trumpismo e del suprematismo bianco, cui esponenti stanno facendo cancellare tutte le riforme fatte per cercare di arginare il razzismo. Il Presidente Trump sta anche demolendo le politiche in favore di diversità, equità ed inclusione. Nonostante la eco globale delle proteste del movimento Black Lives Matter, il suprematismo bianco è oggi in continua ascesa, facendo arretrare sulle recenti conquiste dei movimenti antirazzisti. Anche le donazioni verso Fondazione Black Lives Matter sono in continuo calo: dai 79,6 milioni di dollari raccolti nel 2021, si è passati l’anno seguente a soli 8,5 milioni. Nel frattempo negli Stati Uniti stanno arrivando i primi cosiddetti rifugiati dal Sudafrica che fuggirebbero dal “razzismo contro i bianchi”. I discendenti dei coloni europei, gli Afrikaner, che imposero la segregazione razziale fino al 1991, possono ottenere l’asilo negli Stati Uniti: lo stesso diritto viene però negato alle persone che scappano da povertà, guerre e persecuzioni, come ad esempio i rifugiati Sudanesi e Congolesi, a cui l’amministrazione Trump ha bloccato le procedure per richiedere l’asilo. Ai nostri microfoni l’analisi dello scrittore Salvatore Palidda, già docente in sociologia presso l’Università di Genova. Ascolta o scarica