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La vergogna dell’Europa
Questa Europa che si prepara alla guerra contro la Russia, che urla frasi di violenza per abituarci al conflitto, questa Europa che non è certo la culla della democrazia si indigna per dei razzi rozzi o uno sconfinamento aereo sulla Lettonia ma non dice nulla e sopratutto non fa nulla contro il genocidio compiuto da Israele sul popolo palestinese. Perché la NATO non protegge il popolo palestinese?  E’ questo il vero volto della libertà propagandata dall’Europa e sopratutto dagli USA?  Come possiamo non soffrire per le donne e di bambini macellati in Palestina? Questa Europa non ha il diritto di esistere come Unione pacifica di popoli perché, a senso unico promuove e prepara una guerra sanguinosa, perché con gli USA ha sempre voluto e preparato il conflitto in Ucraina, ed ora, vergognosamente non fa nulla contro il governo Israeliano che uccide degli innocenti in Palestina.  Sono ormai oltre 10 anni che l’Europa ha attuato l’embargo contro la Russia e da 70 anni non fa nulla contro Israele? Perché pur esistendo due risoluzioni dell’ONU, che obbligherebbero Israele a ritirarsi dalla vallate del Golan, nessuno va a farle applicare?  Dove sono i famigerati  (ricordate pristina) caschi Blu che dovrebbero  difendere gli innocenti? Certo, siamo alla fine  del diritto internazionale, siamo alla fine dei trattati sui diritti dell’uomo. Il becero interesse alla guerra sta vincendo e solo noi possiamo fermarlo. Acquistare, investire in bombe ed armi vuol dire prepararsi alla guerra e forse viene fatto per nascondere e giustificare la crisi  economica devastante che sta per arrivare. Si! Da sempre la guerre sono state un businness e queste ancora di più. Che vergogna l’Europa. Redazione Italia
Perche Trump non fermerà mai Netanyahu
Se ancora qualcuno ingenuamente spera che Trump possa contribuire alla fine del genocidio a Gaza o all’occupazione illegale in Cisgiordania coltiva una fatua illusione. Un coacervo di ragioni economiche, politiche e familiari, avvalorate da esternazioni di Trump o figure a lui referenti, rendono ad oggi assolutamente impossibile l’avverarsi di tale auspicio di pacificazione. Ecco le  ragioni e dichiarazioni che dimostrano quanto Trump sia un ferreo sostenitore di Netanyahu: 1. 1. Trump ha dichiarato a fine 2024: «… se volete che Israele sopravviva dovete votare Donald Trump. Siete sotto attacco come mai prima. Io sono il presidente più pro-Israele, Kamala Harris è anti-Israele….» 2. L’ultima campagna elettorale di Trump è stata finanziata dalla miliardaria israeliana Miriam Adelson, la quinta donna più ricca degli USA, per 100 milioni $ mentre  nella campagna del 2016 i coniugi Adelson finanziarono Trump per 25 milioni $. 3. Uno dei primi atti firmati dal neoeletto presidente USA a fine gennaio 2025 è stato quello di revocare il blocco imposto alcuni mesi prima da Biden sulla fornitura a Israele delle super-bombe da 2.000 libbre (900 kg). 4. Il 5.02.2025 Netanyahu è stato il primo leader straniero a visitare la Casa Bianca dall’inizio del secondo mandato di Trump e lo ha così ringraziato:  “Sei il nostro più grande amico” . 5. Il padre del genero di Trump, Charles Kushner, ospitava a casa propria l’amico di famiglia Netanyahu in occasione dei suoi viaggi negli USA, ancor prima che divenisse primo ministro. 6. A gennaio 2025 il neo nominato ambasciatore degli USA in Israele, Mike Huckabee, ha dichiarato alla radio dell’esercito israeliano che “Trump appoggerà il governo israeliano nell‘annessione degli insediamenti in Cisgiordania.” 7. A gennaio 2025 la neo nominata ambasciatrice degli USA all’ONU, Elise Stefanik ha affermato che Tel Aviv ha un “diritto biblico sull’intera Cisgiordania e che  “gli Stati Uniti devono stare incondizionatamente con Israele all’Onu”. 8. A febbraio 2025 Trump ha dichiarato “Mi impegno ad acquistare e controllare Gaza” precisando che la vorrebbe trasformare nella “riviera del medio oriente” e che “I palestinesi non avranno diritto a ritornare perché avranno alloggi molto migliori.” Il Jerusalem Post il 3.05.2024 rivelava on line la visione di Netanyahu di Gaza al 2035, che poi si rivelerà condivisa con Trump, così immaginata: Gaza pullula di lussuosi grattacieli, ferrovie, corsi d’acqua, campi solari e stazioni di estrazione del gas dal giacimento marino “Gaza Marine” ubicato nella porzione di mare che gli accordi di Oslo hanno assegnato alla Palestina. E’ impossibile poi non citare l’osceno video creato da Trump con l’IA che lo raffigura a Gaza flirtare con una ballerina del ventre seminuda e quindi sorseggiare un cocktail con Benjamin distesi in costume su due sdraio con lo sfondo dei nuovi, lussuosi grattacieli di Gaza. Infine a fine agosto anche la ministra della scienza israeliana realizza un nuovo video con l’AI, dove si vedono Trump e Netanyahu passeggiare con le mogli sul lungomare di Gaza, privo di palestinesi, e con lo sfondo una scintillante Trump Tower. 9. A gennaio 2025 il genero di Trump Gerard Kuschner, ebreo di famiglia, viene ricevuto a  Tel Aviv da Netanyahu e diventa primo azionista  del colosso israeliano Phoenix Financial Ltd, attivo nei finanziamenti immobiliari nei territori occupati. 10. L’inviato speciale USA per il Medio Oriente, Witkoff, prima della seconda elezione di Trump si è recato in Cisgiordania per inaugurare una colonia illegale israeliana sui territori occupati. Profeticamente sulla facciata di una casa della nuova colonia illegale campeggiava la scritta “We’ll make Israel great again.” 11. Trump ha sanzionato a febbraio 2025 tutti i componenti della Corte Penale Internazionale dell’Aia in quanto avevano osato emettere il 21.11.2024 un mandato di cattura internazionale per l’amico Netaniahu per crimini di guerra e contro l’umanità commessi a Gaza. 12. A maggio 2025 per volere di Trump e Netanyahu è stata creata la Gaza Humanitarian Foundation imposta da Israele come unica distributrice degli aiuti nella striscia di Gaza. Dopo poche settimane, e centinaia di gazawi assassinati in fila per ricevere cibo, l’ONU e decine di ONG hanno accusato la GHF di essere un’arma di pressione politica e militare. 13. A marzo 2025 Marco Rubio ha annunciato l’espulsione dagli USA di 300 studenti nell’ambito del programma “Catch and Revoke” finalizzato ad espellere studenti stranieri che hanno semplicemente partecipato a manifestazioni a favore della Palestina. 14. Il genero di Trump Gerard Kuschner e l’ex premier inglese Tony Blair il 28.08.2025 hanno presentato in un incontro riservato con Trump alla Casa Bianca, presenti anche l’inviato speciale per il Medio Oriente, Steve Witkoff e Marco Rubio, le loro idee sul dopoguerra a Gaza, ovvero i dettagli del piano “Aurora”, che prevede la ricostruzione della striscia in una lussuosa Gaza-riviera previa deportazione di tutti i gazawi. 15. Trump ha sanzionato, alla stregua dei peggiori terroristi, anche la nostra Francesca Albanese, rea di aver scritto il rapporto intitolato Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio, evidenziando il ruolo complice che 44 grandi “entità aziendali” mondiali hanno nel sostenere il progetto coloniale israeliano di sfollamento e occupazione. 16. A fine agosto Trump ha revocato ai membri dell’OLP e dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) i visti per partecipare all’assemblea dell’ONU di settembre, come ritorsione agli annunci del riconoscimento della Palestina in quell’occasione da parte di alcuni Stati europei. 17. Da ricordare infine che nel 2020 Trump ha promosso la stipula degli Accordi di Abramo per “aprire” i rapporti tra Israele e alcuni Paesi arabi, tra cui gli Emirati Arabi Uniti. Redazione Italia
Autodifesa femminile non è contrasto alla violenza di genere
Leggo con sgomento della presentazione (da parte di un movimento politico femminile) dell’ennesimo corso di autodifesa per donne che viene presentato come “un passo concreto nel contrasto alla violenza di genere” aggiungendo che si tratta di “un cammino volto a rafforzare consapevolezza, fiducia e sicurezza”. Proviamo ad analizzare i diversi concetti che emergono: 1. Le donne devono imparare a difendersi, questo è il loro ineluttabile destino a cui non possono sottrarsi perché non sono meritevoli di rispetto al pari degli uomini e, quindi, si devono attrezzare. 2. La violenza di genere che intendono contrastare è la violenza fisica che un uomo può fare ad una donna. Ma sappiamo benissimo che la violenza di genere è ben altro, ha molteplici componenti e, soprattutto, che i percorsi da intraprendere per intervenire in modo concreto sono ben più complessi. 3. Le donne sono deboli infatti lo scopo del corso è di rafforzarle in consapevolezza, fiducia e sicurezza perché il problema sono le donne (vittime) e non gli uomini (aggressori). Insomma, l’ennesima occasione in cui le donne sono considerate i soggetti deboli da proteggere perché hanno poca autostima e vanno protette e aiutate… Si tratta di un approccio al tema maschile e maschilista come l’idea che ad atti di forza si debba rispondere con forza. Aggiungiamo, poi, che le tecniche di autodifesa possono risultare utili in situazioni uno contro uno pressoché paritarie come in tentate rapine mentre le aggressioni a scopo sensuale vengono agite in gruppo o contro vittime che sono state offuscate con alcool o droghe. La libertà che le donne, invece, devono avere è che ogni NO deve essere rispettato a prescindere dal contesto, dalla situazione o dall’abbigliamento. La violenza di genere a cui si riferisco (fisica a scopo sessuale) sarà sconfitta solo quando il NO sarà riconosciuto e rispettato. Infatti il contrasto alla violenza di genere si realizza mediante interventi multidisciplinari finalizzati a cambiare l’approccio culturale degli uomini, delle giovani generazioni e delle donne che subiscono i retaggi patriarcali.   Paola Petrucci Esperta in tematiche di genere Redazione Italia
La narrativa cristiana della lotta non violenta contro le strutture di violenza (o di peccato)
Gandhi ha esteso l’antico insegnamento dello Jainismo (ahimsa) ad una capacità di lottare non violentemente contro ogni struttura negativa della società. Per ispirarsi alla tradizione millenaria dei testi sacri indù la sua lotta non violenta egli ha dato una nuova interpretazione alla Bagavad Gita: ha ribaltato il senso della guerra affrontata da Arjuna in una lotta non violenta con se stesso e con gli altri (Gandhi, Gandhi commenta la Bagavad Gita, Ed. Mediterranee, Roma, 2012).   A noi non violenti interessa sapere se ci sono altre tradizioni religiose che con particolari insegnamenti religiosi abbiano anticipato il senso spirituale della lotta non violenta. Per i cristiani, qual è la maniera di affrontare i conflitti senza “reagire al male senza fare il male” (Mt 5, 39; Rm 12, 17)?  Una risposta viene da una corretta interpretazione delle Beatitudini (Mt 5). Su di esse Lanza del Vasto (LdV) ha avuto un suggerimento fondamentale: le Beatitudini debbono essere lette in sequenza, una dopo l’altra (L’arca aveva una vigna per vela, Jaca book, Milano, pp. 242-243). Così esse esprimono un crescendo, dalla reazione intima o personale (vivere la povertà, piangere, restare miti, avere sete di giustizia) alla azione nella società (avere misericordia, darsi un impegno sociale, fare la pace, lottare per la giustizia sociale). Anche la ricompensa a questi impegni di lotta cresce in parallelo: da quelli di consolazione solo intima o personale (sentirsi in cielo, essere consolati, ricevere la propria terra, avere una soddisfazione di giustizia), al crescere spiritualmente nei rapporti sociali (ricevere misericordia, vedere Dio nelle persone, essere chiamati figli di Dio, realizzare qui la vita Trinitaria).  (Si noti però che questa sequenza è chiara se 1) si scambia l’ordine della seconda con la terza; 2) si rimedia alla mancanza di alcune parole nella sesta Beatitudine: “Beati coloro che hanno il cuore puro [invece: … che si impegnano nella vita sociale purificando il cuore] perché vedranno Dio [nelle persone]”e 3) si migliora l’ultima Beatitudine: “Beati coloro che combattono l’ingiustizia fino al sacrificio personale, perché con essi si rappresenta la vita della Trinità sulla Terra”).  Queste “reazioni al male senza ricorrere al male” sono ricompensate dallo Spirito Santo in quanto Lui fa leva sulla reazione umana per invertire i mali in beni trascendenti, cioè in quello che le corrispondenti Beatitudini promettono.   Un altro suggerimento fondamentale di LdV è che quando nella società il male diventa strutturale, si concretizza in uno tra quattro flagelli, tutti “fatti da mano d’uomo”: Miseria, Sedizione, Guerra e Servitù (Lanza del Vasto, Les quatre Fléaux, Denoël, Parigi, 1959; SEI, Torino, 1996, cap. 1, par. 1). Allora l’inizio di ogni beatitudine indica una sofferta reazione non tanto ad un male generico, ma soprattutto al male diventato strutturale, ad uno di questi quattro flagelli. Allora scopriamo che il testo delle beatitudini deve essere completato con una parte rimasta implicita: ognuna di esse deve dichiarare all’inizio a quale flagello si sta reagendo. Per questo occorre premettere ad ogni beatitudine, ad es. la prima: “Contro la Miseria, beati…” Ma i flagelli sono quattro e le Beatitudini sono otto. In effetti le Beatitudini sono le reazioni ai flagelli elencati due volte; le prime quattro indicano la politica delle reazioni personali, le seconde quattro la politica di intervento nella società. Pertanto, le Beatitudini nel complesso sono una precisa politica di azione non violenta contro tutti i principali casi del male strutturato nella società. Tutto quanto sopra era incomprensibile prima del XX secolo, quando è stata scoperta la non violenza e a sua prova Gandhi ha realizzato “tre miracoli storici (politici): una liberazione nazionale senza spargimento di sangue, una rivoluzione sociale senza rivolta, l’arresto di una guerra” (ibidem, cap. v, §§. 34, 46); ai quali  oggi si può aggiungere il miracolo storico delle rivoluzioni non violente delle popolazioni dell’Europa orientale negli anni 1989 e seguenti; le quali ci hanno liberato dall’antagonismo sordo dei Due Blocchi e dalla loro Guerra Fredda che minacciava una guerra di sterminio colossale.   Da tutto ciò ricaviamo un nuovo testo delle beatitudini che è pienamente significativo e aderente alla vita di oggi.  Nuovo Testo delle Beatitudini Contro la Miseria, beati quelli che sono poveri in virtù dello Spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Contro la Sedizione, beati quelli che piangono, perché saranno consolati. Contro la Guerra, beati quelli che sono miti, perché possederanno la terra.  Contro la  Servitù, beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati.  Contro la Miseria, beati quelli che si piegano alla misericordia, perché riceveranno misericordia. Contro la Sedizione, beati quelli che si impegnano nel sociale con cuore puro, perché vedranno Dio nelle persone. Contro la Guerra, beati quelli che fanno la pace nel prossimo, perché saranno chiamati figli di Dio. Contro la Miseria, beati quelli che lottano per la giustizia sociale fino al sacrificio personale, perché con essi si rappresenta la vita trinitaria di Dio sulla terra.   Ma in che cosa consiste la vita interiore di chi lotta non violentemente, così come è indicata da ogni Beatitudine? L’ha rappresentata in pittura e scultura una lunga tradizione popolare, che è nata nel basso medioevo (a mia conoscenza, la sua prima immagine è una scultura nella cattedrale di Compostela in cima alla colonna centrale del portico del paradiso (1211); la più famosa è quella della Trinità di Masaccio in S. Maria Novella a Firenze del 1427). E’ stata una lotta non violenta quella con cui il Figlio ha risolto il conflitto del peccato originale dell’umanità con Dio (cioè la massima violenza strutturale); questa sua lotta ha comportato la sua incarnazione, la sua lotta (contro sia il potere religioso dell’Ebraismo di allora, autoritario e formalista, che quello della dominazione politica dell’Impero Romano), la sua crocifissione e la sua resurrezione. L’immagine suddetta dice che tutto l’evento è stato sostenuto dalla volontà del Padre (che sostiene la croce) ed è stato assistito dallo Spirito Santo (che aveva progettato il tutto). In sintesi, questa immagine dice che il conflitto degli uomini con Dio è stato risolto dal Figlio, che, come esperienza compiuta, l’ha fatto entrare dentro la vita di Dio stesso.  Notiamo che la risoluzione del conflitto passa sì per la morte in croce, ma è data infine dalla risurrezione; senza di essa la fede cristiana è stolta. Il fatto che lui dopo la morte è risorto è la promessa dello Spirito Santo: chiunque combatte così come fece Gesù contro i peccati (o violenze) strutturali in modo non violento, vincerà sulla Terra o in Cielo. Quindi il Dio cristiano si pone come il Dio che essenzialmente fa la pace nei conflitti. E’ in questo senso preciso che il Dio cristiano è amore, non lo è in senso generico. Ma dovendo combattere strutture anche schiaccianti con la non violenza, cioè solamente con la forza dello spirito, dove si può trovare la forza spirituale per fare il Davide davanti al Golia di una struttura di violenza che nella società magari si impone come assoluta? La risposta del cristianesimo è: la comunione. Ma che cosa è in fondo la comunione? Per la Chiesa cattolica è dogma che con essa avviene una comunione dell’uomo con Gesù. La tradizione teologica dice che ciò avverrebbe in quanto c’è una “transustanziazione” (cioè con la trasformazione del pane e vino in Gesù). Questa parola indica una trasformazione materiale di oggetti materiali (pane e vino), la quale avverrebbe al di fuori di ogni relazione sociale. Però essa non è stata finora spiegata da alcuna dottrina filosofica o metafisica.  Ma ai non violenti non può interessare granché che cosa fanno nella comunione le sostanze materiali (pane e vino), se esse subiscano o no un processo di tramutazione alchemica o nucleare; Noi non violenti abbiamo una altra interpretazione da suggerire: a noi interessa che le persone che si impegnano con tutta la loro interiorità in una lotta non violenta potenzialmente schiacciante, si trasformino, per opera di Dio, nel massimo delle loro capacità spirituali; cioè si identifichino il più possibile con il Cristo per diventare sin nel profondo cristiani, cioè veri seguaci di Cristo. La comunione è il massimo aiuto che il Figlio di Dio poteva dare ad un cristiano che lotta non violentemente, anche al rischio della morte, contro un peccato strutturale: unirsi con lui mediante una compartecipazione di cose elementari concrete, pane e vino, in modo da agire assieme.  In passato alcuni nonviolenti hanno scoperto dalle idee che caratterizzano in maniera approssimata la trasformazione nonviolenta che si deve compiere dentro un conflitto: (a parte l’Aufhebung nella fuorviante, perché metafisica, dialettica di Hegel) l’”osare la pace” del pastore Dietrich Bonhoeffer; il saper “portare una libera aggiunta” di Aldo Capitini; il cercare il punto di conciliazione di due linee apparentemente parallele anche se esso è posto all’infinito (Lanza del Vasto), il “trascendere” di Johan Galtung. E’ anche interessante quanto diceva in proposito un grande riformatore del Cristianesimo: Martin Lutero (sermone del 1520, anno della sua scomunica):  … vi è un largo uso di questo sacramento, senza alcuna intelligenza del suo significato, né alcun esercizio in esso… Molte persone [che prendono la comunione, poi di fatto] non vogliono essere solidali, non vogliono aiutare i poveri, sopportare i peccati, aver cura dei miserabili, soffrire con i sofferenti, pregare per gli altri, e neppure vogliono difendere la verità e promuovere il miglioramento della Chiesa… Non sanno far altro, con questo sacramento, che temere e onorare, con le loro orazioncelle e le loro devozioni, il Cristo presente nel pane e nel vino… Gesù ha preferito queste forme del pane e del vino per esprimere più ampiamente [possibile] l’unità e la comunione che si compiono in questo sacramento; perché non v’è unione più intima, profonda e indivisa che l’unione del cibo con colui che ne viene nutrito, in quanto il cibo penetra e si trasforma nella natura stessa e diventa un essere solo con chi se ne ciba. Altri modi di unire, come con chiodi, colla, corda o altre cose simili, non fanno una unità indivisibile.  Alcuni esercitano la loro arte e le loro sottigliezze per cercare dove rimane il pane quando è trasformato nella carne di Cristo e il vino nel suo sangue, e anche come in una così piccola particella di pane e di vino possa essere contenuto tutto il Cristo, la sua carne e il suo sangue. Ma non importa nulla che tu non lo veda. Basta che tu sappia che è un segno divino, in cui la carne e il sangue di Cristo sono veramente contenuti; il come e il dove rimettilo a Lui… Allo stesso modo anche noi, nel sacramento, veniamo uniti con Cristo e incorporati con i suoi santi a tal punto che egli assume le nostre parti, [cosicché] egli fa o non fa per noi, come se egli fosse quello che siamo; e che quello che ci accade, [accada] anche a lui e più che a noi; affinché anche noi possiamo assumere le sue parti, come se fossimo quello che egli è… Così profonda e totale è la comunione di Cristo e di tutti santi con noi… Ma attenzione! Con questo aiuto formidabile, il massimo che un Dio può dare, un cristiano dovrebbe essere il primo a buttarsi nella lotta non violenta contro i flagelli che colpiscono una popolazione! Se non lo fa, resta “un pagano battezzato a metà…; o segue il suo battesimo o diventa doppiamente colpevole.” (ibidem, cap. V, par. 24 ) Antonino Drago
Il nome dice tutto: dal Ministero della Difesa al Ministero della Guerra
Il presidente statunitense Trump ha deciso di ripristinare dopo 78 anni il nome ministero della Guerra al ministero della Difesa. Il ripristino del nome originale e non orwelliano al ministero della Guerra degli Stati Uniti dovrebbe avere un impatto positivo sul linguaggio e sulla comprensione delle persone. Trump senza dubbio lo fece per celebrare la sadica malevolenza associata alla parola “guerra”. Ha agito mentre persegue orribili guerre in Palestina e Ucraina, minacciando (e iniziando) guerre contro Venezuela e Iran, spostando enormi risorse dai bisogni umani e ambientali ai preparativi di guerra negli Stati Uniti e nei paesi seguaci membri della NATO. Minacciò di invadere Chicago e di mostrarle il significato del nome appena ripristinato. Sicuramente 78 anni di propaganda non si annullano rapidamente. Tutti o la maggior parte dei governi di tutto il mondo che hanno copiato gli Stati Uniti nel rinominare i loro eserciti “difesa” resisteranno con fervore al ripristino del vecchio nome. Anche gli attivisti per la pace parlano incessantemente di “Ministero della Difesa”, “industria della difesa”, “appaltatori della difesa”, ecc. Se decenni di appassionati appelli da parte di alcune persone per non aver ripetuto a pappagallo la stessa propaganda contro cui lavoriamo non hanno avuto praticamente alcun impatto, ci si può aspettare che ci vogliano almeno alcune settimane prima che le persone capovolgano le loro abitudini linguistiche per obbedire a un buffone fascista. Cambiare quelle abitudini linguistiche, per qualsiasi motivo, sarebbe un beneficio per tutti. Le parole modellano il nostro pensiero tanto quanto lo comunicano. Non dovremmo applaudire Trump per aver abbandonato l’idea che le guerre siano condotte non per sadismo, potere o profitto, ma perché sta cercando di normalizzare l’esaltazione di sadismo, potere e profitto. Se coloro che si oppongono al male abbandonassero l’idea che il più grande male del mondo sia “difensivo” e “umanitario”, staremmo molto meglio. Se il Congresso dovesse approvare National War Authorization and Appropriations Acts invece dei cosiddetti Nation “Defense” Acts, subito si potrebbe dare una spinta ai modi di agire di una o tre “teste” del Congresso in movimento. La Costituzione degli Stati Uniti consente al Congresso di radunare e sostenere eserciti per non più di due anni alla volta. Non prevede il complesso permanente di think tank accademici dei media militari industriali congressuali “di intelligence”. Gli infiniti e massicci War Authorization Acts in continua crescita potrebbero far sì che il Congresso si fermi e noti l’assenza negli ultimi 84 anni di qualsiasi Dichiarazione di Guerra, o di qualsiasi momento in cui il ministero della Guerra degli Stati Uniti non fosse in guerra, o di qualsiasi guerra che sia servita a qualcosa. Trump crede che ripristinando il nome “Ministero della Guerra” ripristinerà un’era immaginaria in cui gli Stati Uniti “hanno vinto” le guerre — una potente ammissione che per 78 anni il governo degli Stati Uniti ha speso trilioni di dollari uccidendo milioni di persone, distruggendo società, distruggendo lo stato di diritto, causando danni ambientali orribili e duraturi, alimentando il bigottismo, limitando le libertà civili, corrodendo la cultura e privando iniziative positive di risorse che avrebbero potuto trasformare il mondo in meglio. Ma, nelle parole di Jeanette Rankin, che ha votato al Congresso degli Stati Uniti contro entrambe le “belle” guerre mondiali, non si può vincere una guerra più di un uragano. Gli Stati Uniti “vinsero” le guerre imperialiste e di coalizione ai tempi del Ministero della Guerra commettendo massacri e genocidi ritenuti inaccettabili nell’era che porta all’attuale genocidio in diretta streaming a Gaza e consentendo ad alleati come l’Unione Sovietica di uccidere e morire (un po’ come gli ucraini oggi) prima di produrre innumerevoli film di Hollywood che suggeriscono una storia diversa. Ripristinare con il nome l’accettabilità di genocidi, bombardamenti a tappeto e bombardamenti nucleari non deriva per forza dal ripristinare il nome dell’istituzione responsabile. Riconoscendo l’orrore irragionevole di tali cose potrebbe consentire lo sviluppo di un significativo movimento di protesta contro la guerra negli Stati Uniti. Un tale movimento non dovrebbe essere semplicemente anti-Trump. Non dovremmo essere preoccupati da ciò che egli chiama la macchina da guerra, ma dalla macchina da guerra stessa, anche quando il cambio di nome viene osteggiato o invertito. Un modo per aiutare a lungo termine sarebbe rimuovere coscientemente dal nostro linguaggio e dai nostri pensieri, non solo la parola “difesa”, ma tutta la varietà di insidiosi termini di propaganda di guerra. Si potrebbe  provare anche a dare nomi onesti a ogni dipartimento governativo, prendere in considerazione alternative alla guerra o addirittura di abolirla. Traduzione dall’inglese di Filomena Santoro. Revisione di Thomas Schmid. David Swanson
Donald Trump e l’egemonia culturale a Gerusalemme
La figura di Donald Trump è il simbolo dell’espansionismo israeliano a Gerusalemme, attraverso azioni culturali che rafforzano l’egemonia statunitense nella vita quotidiana della città. E’ il 26 febbraio 2025 quando sugli account del neoeletto presidente Donald Trump appare un video generato dall’intelligenza artificiale ritraente una versione distopica della Striscia di Gaza, con resort fronte mare in pieno stile statunitense, bambini divertiti dai palloncini a forma di Trump e statue dorate del presidente americano. Soprassedendo sul clamore che il video ha suscitato nel dibattito pubblico internazionale -al contrario delle migliaia di video di Gaza (reali!) che da mesi circolano sui social- vale la pena soffermarsi sul ruolo giocato dal capo della Casa Bianca nelle mire espansionistiche di Israele oltre i propri confini. A ben vedere, agli occhi della classe politica e della società civile dello Stato ebraico – anche quella meno irredentista  – Donald Trump gode di una sorta di status di “garante delle occupazioni” fin dal suo primo mandato, durante il quale gli sono state perfino intitolate delle colonie nelle alture del Golan. Oltre che nella Striscia di Gaza e nel sud-ovest della Siria, la figura di Trump è entrata di diritto anche nello storico contenzioso fra l’Autorità Nazionale Palestinese e Israele per il possesso di Gerusalemme, grazie ad azioni inedite come lo spostamento dell’ambasciata americana nella città santa e la designazione di Gerusalemme come capitale di Israele nel celebre “Peace for prosperity plan” del 2020. Nonostante ciò, l’importanza del leader repubblicano nel contesto di Gerusalemme non può essere ridotta alle sole azioni politiche e diplomatiche, che sono simultaneamente causa ed effetto dell’egemonia culturale che il tycoon statunitense impartisce sulla città. Stuart Hall definisce tale egemonia come lo sfruttamento delle pratiche culturali – film, sport, celebrazioni nazionali e musei – per costruire un consenso spontaneo nell’elettorato. Alcuni casi di egemonia culturale nella rappresentazione di Trump a Gerusalemme sono Piazza Donald Trump, la Stazione Donald Trump, il Beitar Jerusalem e il Mikdash Educational Center, attraverso i quali l’immagine del magnate newyorkese esce dai palazzi del potere e popola le strade e la quotidianità di Gerusalemme. Il primo caso è Piazza Donald Trump, creata il 3 luglio 2019nel quadrante sud-est di Gerusalemme, vicino alla “nuova” ambasciata americana. In quell’occasione, l’allora sindaco Nir Barkat rilasciò la seguente dichiarazione: “Il presidente Trump ha deciso di riconoscere Gerusalemme come capitale del popolo ebraico, di schierarsi dalla parte della verità e di fare la cosa giusta”. Nonostante non sia mai stato ufficialmente adottato, il nome della piazza viene informalmente utilizzato, richiamando l’analoga piazza di Tel Aviv. Il secondo caso è la Stazione Donald Trump, un progetto della città di Gerusalemme annunciato nel 2019 dal Ministro dei Trasporti Yisrael Katz come ringraziamento per “aver riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele”. La mitizzazione di Donald Trump però, non trova la propria raison d’etre solamente in progetti istituzionali, ma anche la stessa società civile israeliana dimostra da sempre una certa affezione per il presidente statunitense. Il caso più eclatante è la squadra di calcio del Beitar Gerusalemme, da sempre oggetto di controversie in tema di islamofobia (è l’unica squadra israeliana a non aver mai ingaggiato calciatori arabi). Eli Tabib, all’epoca proprietario del club, decise nel 2018 di cambiare il nome della squadra da Beitar Gerusalemme a “Beitar Trump Gerusalemme” per “onorare il presidente americano per il suo affetto e sostegno”, come dichiarato in un comunicato diffuso sulle pagine social ufficiali della squadra. Ancora oggi è facile imbattersi in articoli di merchandising online che accostano il nome di Donald Trump e quello de “la familia”, storico gruppo di supporter gerosolimitani vicini al sionismo revisionista e all’estrema destra israeliana. L’ultimo caso è il Mikdash Educational Center, un’organizzazione educativa e religiosa no-profit che nel 2018 ha coniato una moneta da collezione raffigurante il volto di Donald Trump e quello del re Ciro II di Persia (detto il Grande). Il paragone fra i due, già promosso da altre figure chiave dell’espansionismo israeliano come Benjamin Netanyahu, richiama la costruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme, legittimando il controllo dello Stato ebraico sulla città attraverso la connessione biblica con la sedicente terra d’Israele. Da questi elementi appare dunque chiaro come le speculazioni geopolitiche non possano esaurire il discorso sulle occupazioni israeliane. L’espansionismo di Tel Aviv – iniziato all’indomani della Guerra dei sei giorni e mai affievolitosi, nemmeno durante la stagione di Oslo –  non è solo frutto delle scelte politiche della Knesset, ma rappresenta anche un sentimento radicato nel tessuto sociale israeliano ed espresso attraverso l’istruzione, lo sport e altre manifestazioni culturali. La presenza capillare della figura di Donald Trump nella quotidianità di Gerusalemme rappresenta un esempio interessante, elevando la portata coloniale delle politiche estere israeliane e statunitensi. Se l’intitolazione di piazze, stazioni, squadre sportive e monete da collezione può sembrare parte del progetto di Hasbara (diplomazia pubblica), promosso da Israele per presentarsi al mondo come partner statunitense, appare chiaro come la società israeliana stessa subisca il fascino di Washington in una sorta di “mimesi” bhabhiana, ovvero il fenomeno per cui i colonizzati tendono a replicare le pratiche dei colonizzatori. Per dare un senso al non plus ultra della violenza raggiunto negli ultimi mesi a Gaza e nei territori occupati della Cisgiordania (e Gerusalemme Est), bisogna confrontarsi anche con la forza egemonica che Donald Trump esercita sulla società israeliana: se è vero che nel video pubblicato dal presidente repubblicano a “Trump Gaza” sono presenti gadget, statue e palloncini a forma di Trump, vale la pena ricordare che a pochi chilometri da quel luogo martoriato esiste già una “Trump Jerusalem” le cui piazze e squadre sportive portano il nome del presidente degli Stati Uniti, quasi a riaffermare il fatto che l’americanizzazione della Striscia di Gaza deve prima passare per l’americanizzazione di Israele. Redazione Italia
Un percorso didattico di storia ed educazione civica su Israele e Palestina
Le persone che lavorano come docenti a scuola e si sentono professionalmente ed eticamente impegnate nella formazione della conoscenza e nella costruzione di un mondo di pace si pongono in questo momento l’interrogativo su come parlare di tutto ciò che sta accadendo nei territori israeliano e palestinese. Ecco come cercherei di parlarne io – per la crescita delle studentesse, degli studenti… e mia, che pure ho già una visione abbastanza ben definita su nascita, processo, torti e ragioni di quel conflitto (Storia). Non parlerei di questa mia visione e non certo per sottrarmi alle responsabilità personali che l’insegnamento necessariamente implica; piuttosto, direi, per impedirmi la possibilità di manipolazione – involontaria, è ovvio – delle mie classi, per evitare di fare ciò che vorrei che docenti che hanno una visione ben diversa dalla mia non facessero, cioè raccontare la ‘propria’ storia ognuno alle proprie classi. Perché so che il mio racconto (come, analogamente, anche il racconto degli ‘altri’) dipende dalla mia biografia – dalle mie esperienze, dalle persone che ho incontrato, dai libri sui quali sono stato educato e da quelli che mi è capitato di leggere per iniziativa personale (e che forse, a un certo punto, ho ricercato tra quelli all’interno della mia bolla culturale), dai miei presupposti e dalle mie speranze. Allora, qual è la responsabilità che mi assumo? E’ quella (pesante, faticosa, onesta) di cercare di farmi, con la classe, un’idea ancora più ricca di quale possa essere la storia di questo conflitto – fermo restando che l’etica impone intanto di riconoscere sempre le vittime, specialmente tutte quelle innocenti, a qualsiasi popolo esse appartengano. E come farmi un’idea più ricca di quella che ho adesso, per quanto essa derivi anche dall’aver letto non pochi libri? E, poiché forse vale lo stesso per l”altro’ docente, quello che racconta in classe la storia che io considero sbagliata, e le classi non sono il giocattolo dei loro docenti (sia pure in buona fede), come sfuggire al “paradosso del Buono”, che rischia di operare come il “Cattivo”, cioè presentando la sua narrazione come quella corretta? ll modo che vedo è quello di prendersi in mano, a titolo esemplificativo, due libri, uno di un filo israeliano e uno di un filo palestinese (attenzione: non ho detto “di un israeliano e di un palestinese”), e vedere in classe come raccontano quella storia, con quali presupposti, con quale ‘punteggiatura’ cronologica, con quali diverse interpretazioni di uno stesso “fatto” etc. Per ragioni di tempo scolastico – o universitario – non posso farlo con la classe? Posso farlo forse per conto mio e poi raccontare le due versioni, mostrando cosa sottolinea l’una e cosa l’altra, cosa omette l’una e cosa l’altra, quali implicazioni, nel modo di raccontare, ha ciascuna di esse, per esempio in termini di ‘educazione’ all’odio e rendermi conto del fatto che la violenza attualmente al massimo può derivare anche dai libri su cui gli stessi attori del conflitto hanno studiato… E potrei scoprire l’esistenza di una realtà frastagliata all’interno di ogni ‘fronte’, con gruppi che lavorano per la pace sia nell’uno sia nell’altro. Ne verrebbe fuori una complessità inaspettata che invita a non esprimere giudizi sommari e dicotomici, come invece siamo stati sempre abituati a fare: tutto il Male da una parte, tutto il Bene dall’altra. La quale sarebbe ancora più complessa e “giusta” se, senza fissare l’attenzione solo su israeliani e palestinesi, mettesse in campo costantemente anche il ruolo delle terze parti, quelle non direttamente coinvolte nel conflitto armato, ma che forse hanno contribuito in grandissima parte sia (attivamente) alla sua nascita sia (attivamente e passivamente) alla sua continuazione. Un elemento ulteriore, e preliminare dal punto di vista logico, che, anche senza bisogno di citare Marc Bloch, mi pare indispensabile che i docenti chiariscano – a se stessi innanzitutto e alla classe poi – è che “comprendere non significa giustificare” (una delle confusioni più diffuse trasversalmente, tra i ragazzi di 12 anni, tra i docenti, tra i giornalisti e tra gli intellettuali che vanno per la maggiore). Per semplificare: comprendere le ragioni degli oppressori, oltre che quelle degli oppressi, non ha nulla a che fare con la giustificazione dell’oppressione. Comprendere anche le ragioni dell’oppressore (anche per come le espone lui) significa darsi la possibilità di pensare il conflitto in termini non moralizzanti (basati sulla “propria” morale e sulle “proprie” informazioni) e capire, e abituare a capire, come le “percezioni” (anche sbagliate) delle parti in conflitto influiscano sul loro modo di agire, e come dunque i popoli e i governi potrebbero ‘lavorare’ su quelle percezioni in maniera proficua incontrandosi, per mettere in crisi l’idea dell’inevitabile ricorso alla violenza. Questo per l’aspetto storico. Invece, per una concreta soluzione all’orrore odierno (Educazione civica), proporrei di trascurare momentaneamente la Storia e di chiedersi: se avessi tutti i miei amici più cari, la mia famiglia e i miei parenti equamente distribuiti a Gaza e in Israele – alcuni dei quali magari impegnati lì e qui contro la violenza della propria parte verso l’altra – cosa proporrei, cosa vorrei che avvenisse? Andrea Cozzo, Università di Palermo, Dipartimento Culture e Società Bibliografia minima 2024. Marzano, Questa terra è nostra da sempre, Roma-Bari 2024. 2025. Podeh, S. Alayan (Eds.), Multiple Alterities. Views of Others in Textbooks of the Middle East, London 2018. 2026. Sandri, Città santa e lacerata. Gerusalemme per ebrei, cristiani, musulmani, Saronno 2001. Redazione Palermo
Blocco del porto di Trieste contro le armi per Israele e per l’applicazione del Trattato di pace. La mobilitazione di USB
Nei prossimi giorni, Trieste diventerà un epicentro della protesta sociale: sindacati, movimenti, associazioni e partiti politici si uniranno per sostenere la Sumud Flotilla globale e chiedere un Trattato di pace reale, puntando a fermare il traffico di armi verso Israele. L’USB ha iniziato venerdì con una mobilitazione presso Ronchi dei Legionari, da cui è partito un corteo verso la sede di Leonardo, azienda di armi coinvolta in accordi con imprese israeliane e nella fornitura di sistemi considerati utili all’esercito israeliano per i bombardamenti su Gaza. Fonti affidabili segnalano che Leonardo ha firmato partnership con l’Israeli Innovation Authority e l’Università di Tel Aviv (Ramot) nell’ambito dell’innovazione, un terreno che includerebbe tecnologie con applicazioni militari. Secondo Greenpeace Italia, Leonardo è coinvolta in esportazioni dal 2019 al 2023 verso Israele che includono elicotteri leggeri (AW119 Koala) e cannoni navali, oltre al contributo attraverso radar e componenti elettronici. Leonardo ha affermato che non sono state concesse nuove autorizzazioni all’export di armi verso Israele dopo il 7 ottobre (data che ha segnato l’inizio degli attuali eventi in Gaza); ma organizzazioni per la trasparenza chiedono chiarimenti su quali siano effettivamente i materiali implicati. Nel mirino anche la joint venture con la turca Baykar, che ha dato impulso alla produzione di droni, veicoli senza pilota e sistemi avanzati per il puntamento. Tuttavia, non tutte le fonti confermano che Leonardo produca proprio quei droni specifici usati sulla Striscia di Gaza; ciò che è certo è che l’azienda è tra i player del complesso militare-industriale con relazioni economiche/inventariali verso Ma è il futuro del porto franco di Trieste a concentrarsi come tema centrale della protesta. Il corteo partirà da Piazza Sant’Antonio per rivendicare che venga finalmente applicato il Trattato di pace del 1947, che prevedeva Trieste come “zona neutrale” (Stato di zona neutrale). Si tratta di una norma che, secondo gli organizzatori, è rimasta largamente disattesa. Oggi si denunciano violazioni gravi: trasformazione dello scalo in una piattaforma per il transito di merci belliche, e un coinvolgimento sempre più evidente nella logica strategica NATO. Preoccupa i lavoratori portuali anche la ricaduta che avrà su di loro il progetto IMEC (“corridor network” infrastrutturale che collegherebbe India, Medio Oriente e Europa), che farebbe passare merci — anche militari — attraverso porti come Haifa (Israele) e tramite Trieste come snodo europeo. Fonti istituzionali confermano infatti che Trieste è candidata come porto europeo del corridoio IMEC, in virtù della sua posizione strategica e delle infrastrutture logistiche della regione. Il 15 settembre dunque è previsto uno sciopero in porto, con presidio dei lavoratori che si rifiuteranno di movimentare merci con destinazione o origine israeliana. È una modalità di protesta che punta concretamente a bloccare la catena logistica. Questa mobilitazione non è isolata: si inserisce in una campagna nazionale dell’USB, già attiva in porti come Genova e Livorno. Il motto è chiaro: “Facciamo noi l’embargo se non lo fa lo Stato.” Giovanni Ceraolo, coordinatore nazionale porti USB, annuncia che sono in corso contatti con delegazioni europee per estendere queste azioni di boicottaggio. Ruben Cernelli, portuale triestino, sintetizza l’obiettivo: “Vogliamo riuscire a chiudere completamente con la guerra e con la possibilità del passaggio di merci belliche nei porti”. La manifestazione testimonia la forza del dissenso collettivo. A Trieste nasce un fronte di resistenza che non si limita a parole, ma agisce con concretezza per spezzare la catena che va dalle fabbriche ai moli adriatici e sostiene le popolazioni oppresse. La protesta vale non solo come gesto simbolico, ma come azione politica incisiva: mette sotto accusa chi beneficia, direttamente o indirettamente, del commercio delle armi, e chiede trasparenza, responsabilità, indipendenza del porto e rispetto del diritto internazionale. Il porto triestino sta diventando sempre di più uno snodo logistico essenziale per i fronti bellici. Il diritto internazionale è chiarissimo a riguardo e il Trattato di Pace, all’Allegato VI, Articolo 3 – tuttora vigente – stabilisce con estrema chiarezza la neutralità e la smilitarizzazione del Territorio Libero e del Porto Franco Internazionale di Trieste. “Il nostro Porto non può e non deve divenire parte attiva di qualsiasi conflitto in corso, e i triestini vanno informati tempestivamente su ogni traffico di materiale bellico. Chiediamo piena trasparenza su questo genere di traffici, spesso opachi quando non proprio secretati, i venti di guerra si faranno sempre più forti, anche qui a Trieste”, affermano i lavoratori dell’USB. Il porto di Trieste, pur chiudendo il primo semestre 2025 sostanzialmente stabile in termini di tonnellaggio movimentato (–0,21%) rispetto al 2024, sta crescendo nei collegamenti Ro-Ro e nei treni con la Germania, elemento che testimonia la sua importanza logistica nell’Europa centro-orientale e nell’asse commerciale verso Est e Medio Oriente. Questa protesta assume quindi un valore doppio: internazionale, perché si lega a questioni umanitarie e geopolitiche ben oltre i confini locali, e concreto, perché tenta di incidere sulle strutture materiali del potere — porti, traffici, industrie. Laura Tussi
La politica della violenza e il futuro di Zohran Mamdani
Il tragico assassinio dell’attivista di destra Charlie Kirk ha scosso il panorama politico americano. Innanzitutto chiariamo una cosa: un atto di violenza del genere è assolutamente orribile e indifendibile. Come persona che crede profondamente nella nonviolenza gandhiana, lo condanno con la massima fermezza. Nessun disaccordo politico, per quanto profondo, dovrebbe mai sfociare in violenza fisica. La violenza non solo ruba una vita, ma danneggia anche la democrazia stessa. Ma una volta superato lo shock iniziale e il dolore, dobbiamo anche porci alcune domande difficili: come viene presentato questo crimine dai potenti mezzi di comunicazione e dai politici dell’establishment? E quale effetto potrebbe avere sul futuro di candidati progressisti come Zohran Mamdani, che ora è sotto i riflettori come serio contendente per la carica di sindaco di New York City? Da vittima a simbolo: la costruzione mediatica di Kirk Alcuni grandi media hanno già iniziato a elevare Kirk a figura simbolica, un martire dell’estrema destra, dipinto come un difensore quasi santo della “libertà” e dei “valori tradizionali”. Per una contorta ironia, coloro che hanno tratto il massimo vantaggio dalla politica divisiva e spesso incendiaria di Kirk ora stanno per ottenere ulteriori vantaggi politici dalla sua morte. Da morto, Kirk diventa più utile per loro di quanto non lo sia mai stato in vita. Il quadro è chiaro: Kirk è presentato come una vittima di una società che, secondo loro, è diventata “troppo radicale”, “troppo violenta” e “troppo intollerante”. Questa narrazione non è casuale, ma ha uno scopo ben preciso: associare l’ascesa della politica progressista al caos e alla violenza, indipendentemente da chi abbia commesso il crimine o quali fossero le reali motivazioni. La legge e l’ordine come arma politica L’establishment usa da tempo la retorica “legge e ordine” come arma politica. Da Nixon negli anni Sessanta a Giuliani negli anni Novanta, il tema è stato sempre lo stesso: la paura vende. Amplificando la criminalità – reale o esagerata – chi detiene il potere crea un senso di insicurezza tra la gente comune, che poi giustifica misure repressive e scoraggia la sperimentazione politica. In questo caso, l’assassinio di Kirk rischia di diventare l’ultimo strumento di questo arsenale. I leader progressisti come Mamdani, che parlano di giustizia economica, uguaglianza razziale e socialismo democratico, potrebbero essere dipinti come parte del problema: troppo “radicali”, troppo “indulgenti nei confronti della criminalità” o addirittura indirettamente responsabili di alimentare un “clima di violenza”. Nessuna di queste accuse avrebbe un fondamento fattuale, ma nel mondo della manipolazione mediatica, la percezione spesso conta più della verità. La sfida di Mamdani: rimanere fedele ai propri valori Zohran Mamdani è emerso come una rara voce di autentico socialismo democratico nella politica cittadina americana. La sua campagna per la carica di sindaco trova riscontro nei newyorkesi stanchi dell’aumento vertiginoso degli affitti, della crescente disuguaglianza e del controllo delle aziende sul governo cittadino. Tuttavia, proprio per questo motivo, l’establishment lo vede come una minaccia. All’indomani dell’assassinio di Kirk, la sfida di Mamdani sarà duplice. In primo luogo, dovrà prendere inequivocabilmente le distanze – insieme all’intero movimento progressista – da qualsiasi associazione con la violenza. Ciò è essenziale non solo dal punto di vista etico, ma anche politico. Deve ricordare ai newyorkesi che la tradizione della sinistra è radicata nella nonviolenza, nella solidarietà e nell’organizzazione di base, non nello spargimento di sangue. In secondo luogo, Mamdani deve smascherare l’ipocrisia dei politici dell’establishment e dei loro alleati nei media. Mentre versano lacrime di coccodrillo per Kirk, rimangono in silenzio sulla violenza sistematica: sfratti di massa, brutalità della polizia, profilazione razziale, detenzione degli immigrati, distruzione dell’ambiente. La violenza della povertà e della disuguaglianza uccide molte più persone di qualsiasi assassinio politico. Eppure quelle vittime raramente vengono trasformate in martiri nei programmi televisivi in prima serata. Questo danneggerà le sue prospettive? La domanda rimane: l’assassinio di Kirk danneggerà le possibilità di Mamdani di diventare sindaco? La risposta dipende in gran parte dall’efficacia con cui lui e i suoi alleati riusciranno a controllare la narrazione. Se prevarrà la visione dell’establishment, che dipinge i progressisti come radicali irresponsabili, allora Mamdani potrebbe davvero trovarsi in difficoltà. La paura, dopotutto, è un potente motivatore in politica. Ma se Mamdani riuscirà a spostare il dibattito sulla violenza strutturale più profonda della disuguaglianza e sui fallimenti della leadership dell’establishment, potrebbe neutralizzare la propaganda e persino uscirne più forte. In effetti, la storia dimostra che quando i progressisti rimangono radicati nella verità e nel potere della base, possono superare tali sfide. La chiave è non ritirarsi per paura, ma parlare con più coraggio del tipo di società che desideriamo costruire: una società basata sulla giustizia, la compassione e la sicurezza reale per tutti. L’assassinio di Charlie Kirk è una tragedia che non deve mai ripetersi, ma è anche un momento che rivela il cinico funzionamento dei media politici. Le forze dell’establishment stanno già utilizzando questo crimine per cercare di delegittimare la politica progressista. Il compito di Zohran Mamdani è quello di superare questa manipolazione, riaffermare il suo impegno per la nonviolenza e connettersi con i newyorkesi comuni sulle loro reali preoccupazioni: alloggi, lavoro, assistenza sanitaria, istruzione e dignità. Se riuscirà a farlo, nessuna manipolazione mediatica potrà far deragliare la sua campagna. Alla fine, saranno le persone a decidere se sarà la paura o la speranza a guidare il futuro di New York City. Riferimenti: ⁠Chomsky, Noam. Media Control: The Spectacular Achievements of Propaganda. Seven Stories Press, 2002. West, Cornel. Democracy Matters: Winning the Fight Against Imperialism. Penguin, 2005. Nixon, Richard. “Law and Order” campaign speeches, 1968 U.S. Presidential Election. Mamdani, Zohran. Campaign speeches and policy statements, 2024–2025. Gitlin, Todd. The Whole World Is Watching: Mass Media in the Making and Unmaking of the New Left. University of California Press, 1980. Herman, Edward S. and Noam Chomsky. Manufacturing Consent: The Political Economy of the Mass Media. Pantheon, 1988. Traduzione dall’inglese di Anna Polo Partha Banerjee
You have no idea
Ventiquattro anni dopo l’attentato al World Trade Organization che segnò l’inizio della guerra civile globale, siamo di fronte a un salto che potrebbe precipitare definitivamente nel caos gli Stati Uniti. “You have no idea of what you have unleashed”, ha detto la moglie di Charlie Kirk (rivolgendosi al responsabile dell’omicidio). Cerchiamo allora di farcene un’idea poiché la cosa non riguarda solo gli statunitensi, – che forse entrano in una sanguinosa agonia -, ma tutti gli abitanti del pianeta poiché sappiamo che la guerra civile statunitense ha e avrà sempre più una proiezione globale. Il collasso psico-politico del gigante imperialista ha carattere suicidario, ma si tratta di un suicidio micidiale (suicide by cop), come quello che da anni compiono migliaia di giovani statunitensi. Prendono il fucile e vanno a sparare davanti a una scuola nella speranza che arrivi qualcuno armato per aiutarli a uscire dall’incubo che è stata la loro esistenza. Da Columbine in poi abbiamo imparato a riconoscere questo tipo di suicidio delegato come una particolarità della vita interna a questo paese disgraziato. Ora il suicide by cop si sta proiettando su scala mondiale. 11 settembre 2025 La pallottola che ha ucciso Charlie Kirk (pace all’anima sua) è partita proprio mentre lui stava dicendo che le vittime innocenti che capitano durante i mass shooting sono un piccolo sacrificio che dobbiamo sopportare per difendere la libertà di portare armi. Questa volta la vittima dello shooting non è innocente, dal momento che ha sempre difeso la proliferazione di armi da fuoco. Perciò è difficile unirsi all’ipocrita rammarico generale: chi di spada ferisce di spada perisce, e qui la spada è un fucile di precisione che ha sparato dalla distanza di duecento metri. Per un giorno e mezzo ci siamo chiesti chi fosse lo sparatore. Qualcuno ha fatto l’ipotesi che l’assassino fosse un tiratore scelto dello stato profondo, poi ci hanno detto che si chiama Tyler Robinson, ha ventidue anni, e sui proiettili aveva scritto Bella Ciao e “beccati questa fascista”. Hanno trovato quello che stavano cercando, e adesso racconteranno che si tratta di un omicidio politico. Non so se Tyler ha scritto davvero quelle frasi, ma so che secondo il Gun Violence Archive nel 2024 le sparatorie di massa sono state 503, le stragi sono state trenta e i morti per arma da fuoco 16.725. Tyler Robinson, come Thomas Crooks, il ventenne che mancò la testa di Donald Trump, come innumerevoli altri da Columbine (1999) ha preso il fucile per partecipare a questo sport nazionale: una guerra civile psicotica. Un popolo di bambini incattiviti ha sostituito la ragione politica con la demenza aggressiva amplificata dai media. La crisi psicotica della più grande potenza militare di tutti i tempi iniziò l’11 settembre 2001 con l’abbattimento delle due torri simbolo. Seguirono due guerre inconcludenti e catastrofiche, poi il suprematismo umiliato trovò in Donald Trump la sua vendetta. Poi un’armata caricaturale diede l’assalto al Campidoglio, e la grande democrazia fu incapace di reagire alla violenza e soprattutto al ridicolo. Infine Trump ha vinto di nuovo, e questa volta fa sul serio: ha condotto e sta conducendo una guerra contro le città governate dal Partito democratico. Una guerra ridicola se volete, ma c’è poco da ridere. Al contempo l’Immigration and Custom Enforcement (ICE) è stato trasformato in una milizia finanziata dai contribuenti direttamente al servizio del presidente: un corpo di agenti incappucciati e armati che vanno in giro a minacciare malmenare e sequestrare persone per poi deportarle in campi di concentramento sul territorio nazionale e fuori del territorio nazionale. Il Ku Klux Klan come guardia pretoriana dell’Imperatore. Ross Douthat del NYT (Will Trump’s Imperial Presidency Last?) parla del cesarismo di Trump e si chiede se le sue riforme autoritarie sono destinate a cambiare la natura dello stato sul lungo periodo. Io direi che la questione non è di lungo periodo, perché nel breve periodo assisteremo a una disintegrazione politica, sociale e soprattutto psichica, del paese che con Israele si contende il primato di più violento del mondo. È questa disintegrazione ormai in corso che cambierà il lungo periodo, forse cancellandolo anticipatamente. Che fare in una tempesta di merda? Nel 2001 l’Occidente entrò in una sorta di guerra civile che l’ha progressivamente travolto. Da quel momento la democrazia venne liquidata. Il 20 luglio del 2001, a Genova, il governo di Berlusconi e Fini scatenò la violenza armata contro una manifestazione pacifica di trecentomila persone. Da allora capimmo che la vita sociale non sarebbe più stata la stessa. Nel ventesimo secolo, in Europa, il potere politico funzionava secondo le regole della “democrazia”: la politica si fondava sul consenso, e conviveva con il dissenso: l’oggetto del contendere era il “senso” della relazione sociale. Nel nuovo secolo il “senso” della relazione sociale è perduto: la legge ha lasciato il posto alla forza. La persuasione ideologica ha ceduto il posto alla pervasione mediatica. La ragione ha ceduto il posto alla psicosi di massa. Nelle condizioni del secolo passato “dimostrare” aveva una funzione utile: parlare, gridare, manifestare erano modi per spostare il senso condiviso della società: esprimere dissenso serviva a spostare il consenso, poiché l’esercizio del potere si fondava sulla mediazione e sul consenso. A Genova capimmo che questa dinamica era finita. Da quel momento il potere ha modificato la sua forma e la fonte della sua legittimità. La società, investita da una tempesta mediatica sempre più intensa, non ruotava più intorno alla persuasione – ma intorno alla pervasione, al dominio bruto. La psicosi ha preso il posto della politica, e si tratta di una psicosi omicida, con una fortissima vocazione suicida. Ma la questione è: che fare in questa tempesta di merda? Possiamo continuare a dimostrare finché ce lo permettono: possiamo essere contenti di essere tanti a protestare nelle piazze, ma dobbiamo sapere che la forza non si piega alla ragione. Dimostrare non è inutile: in piazza incontriamo amiche e amici, e testimoniamo l’esistenza di una resistenza etica al genocidio. Ma la resistenza etica non cambia i rapporti di forza. Siamo costretti a guardare lo spettacolo, attendiamo che la psicosi armata conduca alla disintegrazione del mostro occidentale. Ma intanto quanto costa alla società questa guerra civile psicotica? Una crisi di gelosia Mentre a Pechino si incontrano quelli che preparano la vendetta e le armi ultra della vendetta, Trump e Vance fanno i bulli ammazzando undici persone su una barchetta davanti alla costa venezuelana. Trump rappresenta la maggioranza del popolo americano, ma questo vuol dire solo che la maggioranza del popolo statunitense ha perduto ogni contatto con la realtà e che gli US sono precipitati in un vortice di demenza autodistruttiva. Tradito e dileggiato dall’amato Putin Trump potrebbe reagire come fanno talora gli amanti traditi: con un’aggressione suicida ovvero suicidio aggressivo. “You’ll see things happen”, ha minacciato il presidente rivolgendosi a Putin. E ha scritto un messaggio stizzito, stizzitissimo a Xi Jin Ping: “Please give my warmest regards to Vladimir Putin, and Kim Jong Un, as you conspire against The United States of America”, “ti prego di rivolgere i miei più calorosi saluti a Vladimir Putin e Kin Jong Un, mentre cospirate insieme contro gli Stati Uniti d’America”. Comune-info