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Come cambia il panorama religioso globale
Secondo un’analisi condotta tra il 2010 e il 2020 dal Pew Research Center, un centro di informazione imparziale che conduce sondaggi di opinione, ricerche demografiche, analisi dei contenuti e altre ricerche di scienze sociali (https://www.pewresearch.org/), i cristiani sono rimasti il gruppo religioso più numeroso al mondo, aumentando di 122 milioni e raggiungendo i 2,3 miliardi. Anche se, in percentuale rispetto alla popolazione mondiale, i cristiani sono scesi di 1,8 punti percentuali, attestandosi al 28,8%. I musulmani sono quelli che hanno avuto invece la crescita più rapida nel corso del decennio, aumentando di 347 milioni. I buddisti sono stati l’unico grande gruppo religioso ad avere meno fedeli nel 2020 rispetto a un decennio prima, diminuendo di 19 milioni e scendendo a 324 milioni. Il numero degli indù è aumentato di 126 milioni, raggiungendo 1,2 miliardi. Quanto agli ebrei, il loro numero nel mondo è cresciuto di quasi 1 milione, raggiungendo i 14,8 milioni. Tutte le altre religioni (inclusi Bahá’í, Taoisti, Giainisti, Sikh, seguaci di religioni popolari e numerosi altri gruppi) sono rimaste stabili. Anche le persone senza alcuna affiliazione religiosa sono aumentate di 270 milioni, raggiungendo 1,9 miliardi. Nel complesso, nel 2020 il 75,8% della popolazione mondiale si identificava con una religione, mentre il 24,2% non si identificava con alcuna religione, rendendo le persone senza affiliazione religiosa il terzo gruppo più numeroso, dopo cristiani e musulmani. Anche se in questo periodo la quota della popolazione mondiale che ha una qualche affiliazione religiosa è diminuita di quasi 1 punto percentuale (dal 76,7%), mentre la quota senza affiliazione è aumentata della stessa quantità (dal 23,3%). L’Africa subsahariana ospita il maggior numero di cristiani, superando l’Europa: nel 2020, il 30,7% dei cristiani del mondo viveva nell’Africa subsahariana, rispetto al 22,3% che viveva in Europa. Questo cambiamento è stato alimentato dalle differenze nei tassi di crescita naturale delle due regioni (con tassi di fertilità molto più elevati in Africa che in Europa), nonché dalla diffusa disaffiliazione cristiana nell’Europa occidentale. Nel 2020, i cristiani erano la maggioranza in 120 paesi e territori, in calo rispetto ai 124 di un decennio prima. I cristiani sono scesi sotto il 50% della popolazione nel Regno Unito (49%), in Australia (47%), in Francia (46%) e in Uruguay (44%). In ognuno di questi luoghi, le persone senza affiliazione religiosa rappresentano ora il 40% o più della popolazione, mentre gruppi religiosi più piccoli come musulmani, indù, buddisti, ebrei o seguaci di altre religioni (insieme) rappresentano l’11% o meno. Anche la concentrazione regionale degli ebrei è cambiata: nel 2020, il 45,9% degli ebrei viveva nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa, mentre il 41,2% risiedeva in Nord America, mentre nel 2010 il Nord America era la regione in cui viveva il maggior numero di ebrei. Questo cambiamento è stato principalmente dovuto alla crescita della popolazione ebraica di Israele da 5,8 milioni a 6,8 milioni tra il 2010 e il 2020, attraverso una combinazione di crescita naturale e migrazione. Lo studio si occupa anche del “cambio di religione”, sottolineando come sia un fenomeno diffuso. I cristiani hanno subito le perdite nette maggiori a causa del passaggio di religione (3,1 se ne sono andati per ogni 1,0 che si è iscritto). La maggior parte degli ex cristiani non si identifica più con alcuna religione, ma alcuni ora si identificano con una religione diversa. Anche tra i buddisti il numero di coloro che hanno abbandonato la religione è stato maggiore di coloro che ne hanno aderito (1,8 hanno abbandonato la religione, 1,0 si sono uniti). Stesso discorso per gli indù che hanno avuto più persone che hanno abbandonato la religione rispetto a quelle che vi hanno aderito, mentre vale il contrario per i musulmani. Tuttavia, il passaggio di religione è relativamente raro e, quindi, le modeste differenze nel rapporto tra coloro che abbandonano la religione e coloro che vi aderiscono hanno un impatto complessivo limitato sulle dimensioni delle popolazioni indù e musulmane . I cristiani rappresentano il gruppo più diffuso geograficamente: la quota maggiore di cristiani vive nell’Africa subsahariana (31%), seguita dalla regione dell’America Latina e dei Caraibi (24%) e dall’Europa (22%). Si tratta di un cambiamento geografico significativo rispetto ai primi anni del 1900, quando i cristiani nell’Africa subsahariana rappresentavano l’1% della popolazione cristiana mondiale e due terzi dei cristiani vivevano in Europa. Qui per approfondire la ricerca: https://www.pewresearch.org/religion/2025/06/09/how-the-global-religious-landscape-changed-from-2010-to-2020/. Giovanni Caprio
Gaza, il coraggio di una minoranza dà lezioni al mondo
Il conflitto asimmetrico che vede oggi l’invasione di terra di Gaza da parte delle forze armate israeliane, ormai palesemente volto alla pulizia etnica definita senza mezzi termini dal Segretario di Stato vaticano Parolin “una guerra senza limiti”, ci regala un esempio eccezionale e che assume un significato globale: la scelta dei cristiani della Striscia di Gaza di non abbandonare il territorio. Si tratta di una comunità drammaticamente ridotta rispetto al secolo scorso, quando nel 1948 contava circa 35.000 fedeli. Nonostante la marginalità numerica, pari allo 0,05% di oltre 2,3 milioni di abitanti, la loro presenza, legata ad attori meno marginali come il Vaticano o la Chiesa ortodossa, ha assunto una dimensione politica che certamente mette in ambasce Israele e più ancora i suoi alleati, non ultima la cattolica Italia. Le scuole cattoliche e ortodosse hanno offerto rifugio a migliaia di sfollati musulmani durante i bombardamenti del 2023–2024. La Chiesa di San Porfirio, tra le più antiche della città, è stata trasformata in rifugio comune per centinaia di persone e la condivisione di aiuti medici e alimentari ha dato supporto a tutta la comunità, cristiana o musulmana che fosse. In termini simbolici, ciò significa che una comunità apparentemente irrisoria è diventata una spina nel fianco per Israele: da piccola “debole” minoranza si è fatta moltiplicatore di protezione e solidarietà. Da quando l’aggressività colonica di Israele si è intensificata negli ultimi anni, i patriarchi delle tre principali Chiese cristiane di Gerusalemme – latino, greco-ortodosso e armeno – hanno pubblicato dichiarazioni congiunte per denunciare l’occupazione, difendere i luoghi santi e chiedere corridoi umanitari. Non è solo ecumenismo religioso, ma una scelta politica: di fronte a un conflitto che produce divisioni, comunità cristiane di tradizioni diverse hanno trovato un linguaggio comune. A Gaza ormai questa unità è diventata vita quotidiana: aprire spazi, condividere risorse, proteggere civili. È qui che il locale diventa globale: una metafora di un’altra via percorribile, dove le diversità possano cooperare anche in condizioni estreme. La stessa logica si riflette nell’approccio vaticano alla Cina. Con l’accordo provvisorio del 2018 sulla nomina dei vescovi, più volte rinnovato, la Santa Sede ha scelto di non interrompere il dialogo con Pechino, mantenendo un canale aperto. Non è il numero dei fedeli a contare, ma la scelta di restare come a testimoniare contro le logiche di blocco. Il Vaticano quindi si oppone de facto alla politica dei blocchi e all’uso strumentale della religione, particolarmente evidente nei discorsi del governo israeliano. In questo quadro va letto anche lo scisma delle Chiese ortodosse in Ucraina che trascina le chiese in guerra, con implicazioni dirette nel conflitto. In America Latina, la crescita delle chiese evangeliche, sostenute da reti nordamericane legate al conservatorismo trumpiano e alla galassia MAGA, ha modificato gli equilibri politici tradizionali, rafforzando in diversi Paesi il peso dei blocchi conservatori. Questo stesso circuito alimenta il legame con il governo israeliano, con il quale condivide le politiche liberticide e aggressive, e dove la religione viene usata come arma estrema, pilastro ideologico di politiche disumanizzanti che lasciano un retrogusto amaro, nero, fascista. Parallelamente, gli attori come Falun Gong e il suo braccio mediatico, l’Epoch Times, storici sostenitori del trumpismo, spostano il discorso sul fronte cinese, dipingendo Pechino come nemico assoluto. Così il cerchio si chiude: religione, geopolitica e informazione diventano un’unica trama di polarizzazione globale. È esattamente contro questa logica che il Vaticano sembra muoversi in direzione ostinata e contraria: diplomazia di pace, presenza silenziosa ma costante, resistenza all’uso strumentale della fede. In questo forse ci sarà un calcolo politico che riporti la fede cattolica al centro della scena, ma finché torna al centro della politica come elemento di unione in un mondo che sembra vivere solo di divisioni, anche da non praticanti, non possiamo che felicitarci di un attore di tale portata che muove in questa direzione. A Gaza quindi si sta scrivendo un capitolo importante della storia: i cristiani restano, i gazawi resistono, l’una si nutre dell’altra. Restare significa non farsi cancellare, resistere significa opporsi: due sfumature di un’etimologia comune, entrambe legate allo stesso etimo del verbo stare. Restare è la fermezza di chi rimane radicato, resistere è la forza di chi si oppone. Quando questa radice etimologica dello stare incontra la radice cum-, nascono le altre parole del vocabolario necessario: compatire, patire insieme, comprendere e comunità. La comunità sono palestinesi, cristiane e musulmane. Restano e resistono, e insieme sono già una comunità di destino. Una lezione grandissima – per l’Europa e per il mondo intero.   Redazione Italia