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Il tesoro di Luisa Muraro
Riprendiamo dal sito della Libreria delle donne di Milano La pubblicazione nell’ultimo dei Quaderni di Via Dogana della conversazione integrale inedita di Luisa Muraro con Clara Jourdan svoltasi nel 2003 (Esserci davvero, Libreria delle donne, Milano 2025) ha anzitutto il pregio di farci scoprire gli aspetti meno scontati e più sorprendenti della personalità della ben nota filosofa della differenza sessuale. Sollecitata con garbata finezza da Clara Jourdan che non si limita a formulare domande ed esporre le proprie osservazioni, ma contestualizza, mette a punto, sottolinea rimandi a vita e opere, Luisa Muraro coglie e accoglie suggestioni, schizza una sorta di autoritratto enunciando i propri pensieri con audacia e nondimeno con sobrietà, si sofferma con franchezza sui tratti spinosi del proprio percorso esistenziale-politico sino ad affievolire l’alone di una certa baldanza caratteriale e a tentare di svelarne il punto cieco. Esserci davvero si apre con il riferimento di Luisa Muraro alla madre che ogni due mesi «sentiva l’esigenza interiore di andare al Santuario di Monte Berico» edificato sui colli di Vicenza e dedicato alla Madonna: un pellegrinaggio in forma di «divertimento autorizzato delle donne»; «una specie di allungamento religioso del cristianesimo, ma, sappiamo, era la religione precristiana della grande dea», data la presenza della Madonna sotto il cui manto trovano rifugio tutti; un viaggio verso un luogo di devozione mantenuto in vita dal sentimento religioso dell’umanità femminile. Ma non c’è traccia di una rappresentazione idealizzata della madre, giacché Luisa Muraro puntualizza: «[…] l’importanza di mia madre nella mia vita e per me è anche problematica e oscura. Io non sono una donna che ha avuto un rapporto buono con sua madre, nel senso di un rapporto felice. Ho avuto un rapporto buono nel senso di un rapporto che c’era effettivamente». Poche pagine più avanti le sue risposte acquisiscono una tonalità sempre più confidenziale: confessa che i suoi studi, in particolare nella giovinezza, sono stati orientati da qualcosa di instabile, nondimeno presente dentro di lei «in una maniera molto segreta»; invece, «per esserci concretamente in carne e ossa», dichiara di aver avuto bisogno di appoggiarsi a delle persone in una relazione, nella quale gioca «una parte non piccola di egocentrismo. Cioè, sono io che ho bisogno, e l’altro, l’altra, sono l’appoggio simbolico. Non è tanto una relazione di scambio. Certo che la relazione si stabilisce, e lo scambio si stabilisce, ma è uno scambio dispari». Così di volta in volta le è capitato di appoggiarsi «a chi ha l’aria di sapersi orientare» (Bontadini, Rosetta Infelise, Fachinelli, Lia Cigarini) e via via di sganciarsene, tranne nel caso dell’incontro con il femminismo della Cigarini, ovvero «una pratica di relazione, il partire da sé e l’efficacia che ha la modificazione di sé, della propria relazione con le cose». Grazie a questo incontro Luisa Muraro è infatti uscita dall’esserci «truccando i dadi», «facendo carte false», e ha avvertito finalmente con felicità un «esserci in prima persona in qualcosa che accade», un esserci davvero. Il desiderio fisiologico di scrittura che caratterizza il suo itinerario esistenziale, o meglio la sua strategia esistenziale, finisce dunque con il trovare casa e dimora nella pratica politica delle donne assunta come forma simbolica che le avrebbe permesso di scrivere. È ciò che le accadde con La Signora del gioco. Episodi della caccia alle streghe (Feltrinelli, 1976), il libro che segna un cambiamento di rotta nella rappresentazione storiografica delle donne: «Avevo un materiale, perché la caccia alle streghe mi interessava da tempo; avevo un materiale emotivo e anche contenutistico, culturale, gli ho dato la forma di una pratica politica che ha reso possibile la scrittura». È ciò che accadrà con le opere che più risolutamente aderiscono a questa strategia esistenziale, ne dà conferma la stessa autrice non senza cercare di snidare un altro suo aspetto radicato in profondità: «Certo, non è solo la scrittura, è l’avere a disposizione una domanda di scrittura – Luisa, scrivi! – che motiva e autorizza che io possa dedicarmi a questa attività che probabilmente fa dentro di me un ordine simbolico. Qualcosa che ha a che vedere con il dare forma, a me». Dopo essere stata sviata dalla ricerca su Della Porta (Giambattista Della Porta mago e scienziato, Feltrinelli 1978) e dopo la virata sulla linguistica che le ha ispirato quel piccolo grande libro che s’intitola Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia (Feltrinelli 1981), Luisa Muraro racconta come è andata con Guglielma e Maifreda. Storia di un’eresia femminista (La Tartaruga 1985), «una storia di grandezza femminile». Commuove leggere delle relazioni intrattenute con altri studiosi/e, va dritta al cuore la straordinaria passione che ha accompagnato il suo lavoro alla Biblioteca Ambrosiana: «… ero come in perenne estasi, perché ero tutta presa da questa ricerca, proprio in una maniera che dice qualcosa di questo rapporto che ho, quando la materia della storia, o della mia vita, o della vita degli altri, si può trasformare in scrittura». Ammaliata dagli sprazzi narrativi e dai brevi inserti speculativi – un’alternanza-commistione che è la cifra della scrittura di Muraro – vengo così a conoscenza anche del prezioso lavorìo di tessitura che sta dietro la sua composizione di Non credere di avere dei diritti (Rosenberg & Sellier, 1987), una messa in parole di una pratica politica, «una narrazione libera di donne che vogliono raccontare la loro storia», quella vissuta fra il 1966 e il 1986 a Milano e non solo. E questo vale altresì per l’impresa di Diotima, la comunità filosofica femminile nata tra il 1984 e il 1985 all’Università di Verona, e per il primo testo di Diotima, Il pensiero della differenza sessuale (La Tartaruga, 1987) come per quelli successivi. E ovviamente in Esserci davvero non può mancare il riferimento all’apporto fondamentale dato da Luisa Muraro fin dal primo numero, del giugno 1991, a Via Dogana, la rivista della Libreria delle donne di Milano che era stata inaugurata nel lontano 1975 e di cui ricorre quest’anno il cinquantenario. Una rivista di politica delle donne, vale a dire una politica che non mira alla spartizione del potere, perché quando è in gioco la libertà femminile il cambiamento «si sviluppa con la presa di coscienza e questa ha la stessa natura del fuoco, si accende, si alimenta e non diventa possesso» – come si legge sul sito https://www.libreriadelledonne.it/categorie_pubblicazioni/viadogana/. A proposito del libro coevo alla pubblicazione del primo numero di Via Dogana, L’ordine simbolico della madre (Editori Riuniti, 1991), che segna un taglio nella storia del pensiero, Luisa Muraro ne espone la genesi e riconosce che pur essendo autentico è per lei un libro oscuro: «l’ho scritto in condizioni che me lo rendono non uno specchio per me, e d’altra parte io sono una che non si specchia volentieri. Però le altre donne, non tutte, ma molte altre donne si sono specchiate nel libro e me lo hanno detto, diventando loro lo specchio per me. E allora ho capito. Più che nei miei prodotti io confido nelle lettrici. […] i lettori, le lettrici sono fondamentali per l’esistenza di un’opera – questo viene sempre più riconosciuto – ma possono essere fondamentali anche per la sopravvivenza degli autori». L’ultima tappa di questa conversazione così variegata e piroettante che è Esserci davvero riguarda la decisione di Luisa Muraro di dedicarsi allo studio di Margherita Porete (si veda Lingua materna scienza divina. La filosofia mistica di Margherita Porete, D’Auria M. 1995) e la sua dedizione alla scrittura mistica di donne. Sono pagine nelle quali si percepisce l’intensità del fervore che connota la scoperta della «libertà delle donne [che] diventa proprio un’apertura d’infinito», la scoperta di una teologia in lingua materna – e il pensiero corre a Le amiche di Dio. Scritti di mistica femminile (D’Auria M. 2001) e soprattutto a Il Dio delle donne (Mondadori 2003). La più bella intuizione che grazie a questo suo attraversamento delle mistiche mi/ci viene donata è che «tutto è storia ma la storia non è tutto. C’è qualcosa che eccede e questo qualcosa è vuoto, non è nominabile, non è dicibile, è un niente, è un niente che però io considero un passaggio all’essere». C’è altro, sostiene Muraro, ovvero c’è «il senso della incompiutezza di ogni impresa umana. Non è che vada sanata con la dimensione religiosa che per noi è perduta, ma la consapevolezza del c’è altro, il senso della incompiutezza e della fragilità, va salvaguardato, e senza cadere nel nichilismo e nella disperazione: come nella mistica, è nell’attesa che questo altro venga a noi». Si tratta di disfare la maglia di questo mondo per fare posto ad altro: «Altro, che cosa?». Luisa Muraro ha cercato la risposta nei testi delle scrittrici beghine e delle poetesse preferite e ha trovato, «come risposta, che questo “altro” è l’impossibile: la teologia in lingua materna insegna in pratica (e, entro certi limiti, anche in teoria) a stare al mondo con la certezza che in esso ha luogo, o può trovarlo, anche l’impossibile» (Il Dio delle donne, 2003, p. 84). In tempi di apparente agonia dell’umano imposta dai potenti di turno il tesoro di Luisa Muraro si racchiude in definitiva nella potenza del c’è altro, che tradotto nella nostra quotidianità consiste per l’appunto nella salvaguardia della fragilità e dell’incompiutezza e prepara ogni singolo/a a un altro ordine di rapporti ora, qui, su questa Terra.       Redazione Palermo
Non in nostro nome! Incontro a Milano con il Rabbino Dovid Feldman
Mercoledì 3 dicembre presso l’Università Statale si è svolto un interessante incontro con il Rabbino Dovid Feldman di New York, di passaggio a Milano dopo aver partecipato venerdì scorso 28 novembre alla manifestazione a Genova e sabato 29 a quella di Roma a favore della Palestina, sempre sfoggiando una kefiah al collo. Purtroppo i tempi per ottenere l’autorizzazione all’evento da parte dell’Università erano troppo stretti e gli organizzatori, il Prof. Antonio Violante e Alessandro Corti, hanno optato per tenere comunque l’incontro davanti all’Università. Erano presenti diverse decine di persone e molti passanti incuriositi si sono fermati per ascoltare. Il Rabbino Dovid Feldman appartiene al movimento Neturei Karta International, un gruppo religioso ebraico ortodosso che non riconosce l’autorità e la stessa esistenza dello Stato di Israele, in base all’interpretazione del giudaismo e della Tōrāh. I seguaci, concentrati principalmente a Gerusalemme, sono circa 5.000, ma sono presenti anche a New York, a Londra e in Canada. Nonostante le ridotte dimensioni la Neturei Karta  ha esercitato una notevole influenza nei dibattiti sulla relazione tra ebraismo e sionismo. I suoi membri non commerciano con banconote israeliane, non si uniscono alla riserva dell’esercito dello Stato ebraico, obbligatoria per i cittadini israeliani adulti, non cantano l’inno nazionale, non celebrano il Giorno dell’Indipendenza di Israele e non pregano nel luogo più sacro al giudaismo: il Muro del Pianto. Intrattengono rapporti con le autorità palestinesi e il mondo arabo e contestano ai sionisti la strumentalizzazione dell’Olocausto. Il movimento fu fondato nel 1938 a Gerusalemme da ebrei appartenenti all’antica comunità ortodossa stanziata da molte generazioni in Palestina. Gli antisionisti più radicali si raccolsero attorno ai Neturei Karta. Secondo questi la terra oggi occupata dallo Stato di Israele apparteneva a coloro che la abitavano da secoli: arabi, a qualunque confessione appartenessero ed ebrei che vivevano nelle terre palestinesi prima dell’affermarsi della colonizzazione. Il Rabbino Feldman ha tenuto il suo pacato e  lucido discorso in inglese. Non è sembrato vero poter udire una voce ebraica così autorevole e chiara nel definire lo stato attuale delle cose e le responsabilità dello Stato di Israele, nel genocidio del popolo palestinese, definendo criminali gli atti compiuti. Il rabbino ha insistito nel distinguere i concetti di ebraismo e sionismo, arrivando a dire: “ Il sionismo è proibito dalla religione ebraica. Il creatore del mondo ci ha mandato in esilio e ci ha proibito di lasciare tale esilio con il nostro potere umano. Lasciare l’esilio da soli sarebbe una ribellione contro Dio e quindi gli ebrei che credono in Dio non possono sostenere il sionismo. Ciò è ancora più vero alla luce del fatto che il progetto sionista è stato intrapreso a spese di molte persone innocenti e ha comportato la sottrazione della loro terra e delle loro proprietà, l’uccisione di molti di loro e l’espulsione degli altri senza che avessero alcuna colpa.” Il rabbino ha inoltre enumerato i vari pericoli dell’equiparare l’antisionismo all’antisemitismo, definendolo un crimine contro la verità, perché crea la falsa impressione che ebrei e sionismo siano una cosa sola. Si tratta di una profanazione del nome di Dio, poiché implica che gli ebrei si siano ribellati a Dio. Inoltre questa stessa nozione porta le persone a indirizzare erroneamente la loro opposizione politica ai crimini dello Stato di Israele verso tutti gli ebrei del mondo. La definizione di antisemita in realtà rischia di scatenare l’antisemitismo là dove tenta di mettere a tacere la rivendicazione palestinese, causando un effetto boomerang e portando molte persone a etichettare tutti gli ebrei come sionisti. In conclusione, afferma il rabbino, l’attribuzione del termine antisemita a chi si oppone al sionismo e allo stato di Israele è sbagliata e criminale. Voci come questa dovrebbero poter risuonare ovunque per fare chiarezza e giustizia di tanta confusione e iniquità che pervade i dibattiti e le nostre relazioni. Era presente anche il giovane Assessore del Municipio 1 Lorenzo Pacini, che ha salutato ed espresso solidarietà e posizioni davvero coraggiose rispetto al dramma palestinese e la questione sionista, in evidente contrasto con le opinioni e le dichiarazioni dei suoi colleghi. Un incontro emozionante per la chiarezza, la pulizia, la moralità e l’umanità che questo religioso ha saputo portare e trasmettere. Loretta Cremasco
Brasile di Lula tra la Cop30, i territori indigeni e le promesse mancate. Intervista a Loretta Emiri
Cop30, le trame oscure del “green capitalism”, la colonizzazione dei crediti di carbonio, le false soluzioni tecnocratiche alla crisi climatica, la lotta per il riconoscimento dei territori indigeni amazzonici e le mancate promesse del governo Lula, ormai totalmente dipendente dal Congresso Nazionale in mano alla destra neoliberista. In questa intervista c’è tutta la passione di una ecologista e indigenista italiana che ha vissuto con gli indigeni amazzonici del Brasile e con loro ha respirato la loro lingua, la loro cultura, la loro spiritualità, la profonda connessione con la Natura, la difesa dei loro sistemi di medicina tradizionale, la lotta per la difesa dell’Amazzonia e dei territori indigeni dall’estrattivismo e dalla deforestazione. Nel 1977 Loretta Emiri si è stabilita nell’Amazzonia brasiliana dove, per 18 anni, ha sempre lavorato con o per gli indios. I primi quattro anni e mezzo li ha vissuti con gli indigeni Yanomami delle regioni del Catrimâni, Ajarani e Demini. Fra di loro ha svolto lavori di assistenza sanitaria e un progetto chiamato Piano di Coscientizzazione, del quale l’alfabetizzazione di adulti nella lingua materna faceva parte. In quell’epoca ha prodotto saggi e lavori didattici, fra i quali: Gramática pedagógica da língua yãnomamè (Grammatica pedagogica della lingua yãnomamè), Cartilha yãnomamè (Abbecedario yãnomamè), Leituras yãnomamè (Letture yãnomamè), Dicionário Yãnomamè-Português (Dizionario Yãnomamè-Portoghese). Nel 1989 è stato pubblicato A conquista da escrita – Encontros de educação indígena (La conquista della scrittura – Incontri di educazione indigena), che Loretta ha organizzato insieme alla linguista Ruth Monserrat, e che include il capitolo Yanomami di cui è autrice. Nel 1992 ha pubblicato la raccolta poetica Mulher entre três culturas – Ítalo-brasileira ‘educada’ pelos Yanomami (Donna fra tre culture – Italo-brasiliana ‘educata’ dagli Yanomami). Alcune sue poesie sono state incluse nel volume 3 della Saciedade dos poetas vivos. Nel 1997 ha pubblicato Parole italiane per immagini amazzoniche, opera che riunisce ventisette poesie; tredici sono in portoghese, lingua nella quale sono state generate, accompagnate da versioni in italiano. Nel 1994 ha pubblicato il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver. Nel 2022 ha pubblicato Educada pelos Yanomami (Educata dagli Yanomami), libro di poesie e foto scattate tra gli Yanomami. In italiano, Loretta ha pubblicato i libri di racconti Amazzonia portatile, A passo di tartaruga – Storie di una latinoamericana per scelta, Discriminati che ha ottenuto il Premio Speciale Migliore Opera a Tematica Sociale del 12º Concorso Letterario Città di Grottammare-2021; le presentazioni degli ultimi due libri sono entrate nel programma ufficiale del Salone Internazionale del libro di Torino, rispettivamente nel 2017 e 2019; invece per Amazzone in tempo reale  ha ottenuto il Premio Speciale della Giuria per la Saggistica del Premio Franz Kafka Italia 2013. Nel 2020 ha pubblicato Mosaico indigeno, che riunisce testi con taglio giornalistico sulla congiuntura indigena. Loretta è anche autrice del romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne, 2011, e di Romanzo indigenista, 2023. Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più è stato divulgato in versione pdf nel gennaio del 2023. Suoi testi appaiono in blogs e riviste on-line, tra cui Sagarana, La macchina sognante, Fili d’aquilone, El ghibli, I giorni e le notti, AMAZZONIA ­– fratelli indios, Euterpe, Pressenza, La bottega del Barbieri, Sarapegbe, Atlante Residenze Creative, Cartesensibili. Nel maggio del 2018 è stata insignita del Premio alla Carriera “Novella Torregiani – Letteratura e Arti Figurative”, per la difesa dei diritti dei popoli indigeni brasiliani. Come è andata la Cop30 a Belem, in Brasile? Le conferenze climatiche sono sempre servite per stilare accordi tra capi di governo e esponenti del capitale globale. A ogni anno che passa, questa realtà è sempre più squallidamente evidente.   Tali accordi mascherano le disuguaglianze storiche e perpetuano le strutture coloniali. Ciò che cambia negli anni, sono le parole e le strategie usate per mantenere gli interessi autocratici e geopolitici determinati da coloro che detengono il potere economico. A Belem si è ripetuto il teatrino: nonostante la massiccia presenza di indigeni, comunità tradizionali, lavoratori, movimenti sociali, il processo ufficiale è stato dominato totalmente dai suddetti interessi economici. L’espressiva presenza delle minoranze e delle classi oppresse è servita, però, a mettere in evidenza, in modo eclatante, definitivo, proprio il distanziamento che c’è tra il potere costituito, asservito al capitalismo, e le popolazioni. La Cop30 in molti avevano previsto che sarebbe stata l’ennesima occasione persa, per via della prospettiva completamente eurocentrica che sembra aver preso in questi anni trattando fondamentalmente del tema del net-zero, della retorica sulla “neutralità carbonica” e delle false soluzioni tecnocratiche alla crisi climatica: quello che il presidente della Bolivia Luis Arce aveva definito “colonizzazione dei crediti di carbonio” e “capitalismo green”. Ha riscontrato anche lei questa tendenza? Rispondendo alla prima domanda, ho risposto parzialmente a questa. Ma il quesito posto merita un approfondimento a partire dalla definizione “green capitalism”. Dietro questo termine così moderno e accattivante si nasconde tutto il marciume del capitalismo selvaggio, dell’ipocrisia, del colonialismo tuttora vivo e vegeto. Ripeto: ciò che cambia sono le parole e le strategie. Vi faccio un esempio concreto parlandovi degli Yanomami, con i quali ho avuto il privilegio di vivere per oltre quattro anni nella loro patria/foresta, e di cui sono un’alleata storica. La gioielleria francese Cartier ha creato una fondazione attraverso la quale finanzia pubblicazioni e mostre che hanno a che vedere con gli Yanomami. Il territorio di questo popolo è sistematicamente violato dai cercatori d’oro; durante l’invasione organizzata nel 1987 dalle oligarchie locali, l’etnia ha rischiato l’estinzione; nel 1992 il suo territorio è stato ufficialmente omologato, ma ciò non ha fermato le invasioni; durante il governo Bolsonaro gli Yanomami hanno di nuovo rischiato di scomparire; nel marzo del 2024, il governo Lula ha ordinato la rimozione dalla Terra Indigena Yanomami dei cercatori d’oro, con la distruzione delle loro sofisticate armi e dei potenti macchinari di cui oggigiorno dispongono. Quest’ultima è stata senz’altro una iniziativa lodevole ma, storicamente, succede che i cercatori vengono allontanati per poi sempre tornare invadendo altre aree; i politici parlano di successi e conquiste, gli Yanomami continuano a denunciare le sistematiche nuove invasioni (che potrebbero essere evitate adottando provvedimenti più efficaci già identificati e ripetutamente suggeriti).  Come vogliamo definire la Cartier, potente gioielleria francese che finanzia iniziative relative gli Yanomami minacciati di estinzione proprio a causa dell’estrazione dell’oro nel loro territorio? È ipocrisia anche cercare di convincere l’opinione pubblica che l’estrazione legale dell’oro è differente da quella illegale, dato che gli habitat sono ugualmente distrutti, le popolazioni locali sono ugualmente sfruttate e si ammalano a causa dello stravolgimento dell’ambiente, mentre i capitalisti mondiali divengono più oscenamente obesi di quello che già sono.  Per non parlare di un altro fenomeno che sta sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno affronta: professionisti (antropologi, fotografi, scrittori, e persino filosofi o pseudo-tali) che hanno raggiunto notorietà e fama internazionale, nelle loro attività sono finanziati da fondazioni simili a quella della Cartier; fondazioni create da colossi mondiali che, attraverso il “capitalismo green”, perpetuano il colonialismo. Dal gennaio del 2023, cioè da quando Lula è tornato al potere, sono impegnata in una battaglia persa: fomento la creazione di un Centro di Formazione Yanomami, che potrebbe essere facilmente creato nell’unica area del loro territorio raggiungibile attraverso la strada. Una delle finalità della proposta è quella di incentivare l’unione e la collaborazione tra i gruppi locali, storicamente nemici fra di loro, perché solo l’unione e l’organizzazione permetterà agli Yanomami di sopravvivere fisicamente e culturalmente. Un’altra finalità è quella di preparare professionalmente i giovani, affinché assumano funzioni e ruoli a tutt’oggi svolti o controllati dai bianchi, mettendoli in condizione di prendere decisioni autonomamente e dispensare gli “intermediari”, cioè le poche persone che decidono per loro. L’unione e la formazione sono strumenti di lotta che rafforzerebbero l’organizzazione e l’autonomia della società yanomami. Io penso e scrivo le stesse cose da oltre quarant’anni, ma coloro che potrebbero concretizzare la proposta della formazione rivolta a tutta il popolo, e non solo ad alcuni privilegiati individui o gruppi locali, continuano, imperterriti, a fare “orecchie da mercante”. Come si sta muovendo il governo di Lula di fronte ai temi dell’ambiente? Sta portando avanti i temi della deforestazione, della fine dell’estrattivismo e della consegna delle terre agli indigeni come aveva promesso? Naturalmente, in occasione della Cop30 Lula ha omologato alcune poche terre indigene, tanto per dare un contentino; ma ce ne sono oltre sessanta di cui il processo amministrativo è stato completato e alle quali manca solo la sua firma. Lula è potuto tornare al governo facendo accordi a dir poco “ambigui”, così che può decidere ben poco. Chi decide è il Congresso Nazionale, nel cui seno sono confluiti loschi figuri legati al governo anteriore e quindi all’estremissima destra. E il Congresso non dà tregua: mi riferisco al Progetto di Legge definito Della Devastazione; al Senato che in cinque minuti ha approvato una legge che beneficia termoelettriche a carbone; alla crescente offensiva dell’agribusiness contro i popoli indigeni, offensiva incentivata dall’indecente tesi del Marco Temporale, tesi che contraddice quanto stabilito dal STF (Supremo Tribunale Federale), e cioè che la data della promulgazione della Costituzione Federale non può essere utilizzata per definire l’occupazione tradizionale delle terre indigene. Dato che era già stato approvato nella Camera dei Deputati, il suddetto progetto di legge venne inviato a Lula che ne vietò la tesi e altri dispositivi; i veti presidenziali vennero poi rigettati dal Congresso, cosi il progetto è diventato la Legge Nº 14.701/2023. Lo scienziato Philip Fearnside, ricercatore dell’INPA (Istituto Nazionale di Ricerche dell’Amazzonia), reputa che la Cop30 sai stata caratterizzata da una generalizzata mancanza di coraggio politico per affrontare i temi centrali della crisi climatica. Nell’intervista concessa alla rivista Amazônia Real, egli afferma che la conferenza ha ignorato i combustibili fossili e non ha fatto passi in avanti per combattere la deforestazione; decisioni queste che, secondo lui, mettono a rischio immediato la sopravvivenza dei popoli indigeni e delle comunità tradizionali dell’Amazzonia. Inoltre, Fearnside afferma che il Brasile sbaglia anche nella transizione energetica, mantenendo contraddizioni come l’asfaltatura della strada BR-319 e nuovi progetti di estrazione del petrolio, mentre i provvedimenti emergenziali in atto non hanno la capacità di accompagnare la velocità con cui avviene il surriscaldamento della terra. Alla vigilia della Cop30 l’Ibama (Istituto Brasiliano dell’Ambiente e delle Risorse Naturali Rinnovabili, che è un’autarchia federale) ha autorizzato la Petrobras a realizzare ricerche per rendere viabile l’esplorazione del petrolio a cinquecento km. dalla Foce del Fiume Amazonas, nel cosiddetto Margine Equatoriale, in alto mare, a confine tra gli Stati di Amapá e Pará. Mentre, appena la Cop30 si è conclusa, il Congresso ha rigettato i veti che erano stati suggeriti e ha autorizzato nuovi interventi in punti critici della strada BR-319; notizia, questa, del 27 novembre 2025. Durante la Cop30 sono successe cose che, per un spettatore esterno sembrerebbero assurde. Le proteste degli indigeni alla Cop30 sono state represse duramente. Cosa è successo precisamente? Il fatto che la Cop30 sia stata realizzata in Brasile ha permesso che un grande numero di indigeni ed esponenti di popolazioni tradizionali si facessero presenti a Belem, che è la capitale simbolica dell’Amazzonia brasiliana. La loro massiccia presenza, la coloratissima diversità culturale che li caratterizza, le manifestazioni che hanno saputo organizzare, le loro accorate dichiarazioni, che sono frutto di oltre cinquecento anni di soprusi e sofferenze, hanno messo sotto i riflettori le contraddizioni dell’attuale governo. A stento Lula si barcamena tra ciò che potrebbe fare, ma non ha il coraggio sufficiente per fare, e ciò che fa, costretto dall’estremissima destra che controlla il Congresso Nazionale. Le forze dell’ordine hanno represso i manifestanti, proprio come accade in qualsiasi altro Paese che pensa di essere democratico: le popolazioni vengono represse quando osano mettere in discussione le scelte di Stato. Txulunh Natieli, che è una giovane leader del popolo Laklãnõ-Xokleng, ha riassunto brillantemente il risultato della Cop30 dicendo che la conferenza ha esposto le contraddizioni stesse del Brasile, la cui politica è molto esterna e poco interna. Invece Luene, del popolo Karipuna, ha affermato che il Brasile potrà guidare la transizione climatica soltanto se dichiarerà l’Amazzonia “zona libera dai combustibili fossili”. Il documento finale della conferenza invita alla cooperazione globale, ma evita di citare paroline quali “petrolio”, “carbone”, “gas”; dal documento è stata esclusa anche la locuzione “eliminazione graduale”. Gli accordi firmati durante la Cop30 rivelano la squallida farsa della sostenibilità, le lobby dei fossili, dell’oro, dell’agribusiness. Nonostante siano stati fatti alcuni pontuali passi in avanti, la conferenza è terminata lasciando grandemente frustrati leader indigeni, specialisti, osservatori, cioè tutti coloro che si rifiutano di essere servi di un sistema sociale piramidale. Cosa è successo tra Raoni e Lula e perché ha fatto così scalpore? Raoni è molto amato dagli indigeni e dai loro alleati, ma è molto conosciuto anche all’estero da quando il cantante Sting lo aiutò a far uscire la problematica indigena dall’ambito brasiliano per proiettarla a livello mondiale. È un adorabile vecchietto, dai più considerato e amato come “nonno”.  Durante tutta la vita, è stato coraggioso e coerente; il tema più ricorrente nei suoi discorsi riguarda il riconoscimento e l’ufficializzazione delle terre indigene. Come può sopravvivere un popolo senza un territorio dove vivere bene e perpetuarsi? Quando Lula è stato rieletto, il giorno della cerimonia ufficiale per l’inizio del suo nuovo mandato di presidente, ha voluto Raoni accanto a sé. Ha salito la rampa che lo ha condotto nel Palazzo del Planalto, sede del Potere Esecutivo Federale, tenendo a braccetto il vecchio leader indigeno. Durante la Cop30, senza usare mezzi termini, Raoni ha manifestato la sua profonda delusione di fronte al fatto che alle solite promesse non fanno mai seguito le scelte politiche che andrebbero fatte e, naturalmente, la sua presa di posizione ha avuto una grande ripercussione sia in Brasile che all’estero. Gli indigeni, come sempre, sono solo usati, strumentalizzati. Le foto scattate a Lula al fianco di Raoni sono l’espressione visiva delle promesse mancate contrapposte alla cruda realtà dei fatti. Quale è la situazione delle popolazioni indigene amazzoniche ora e cosa bisogna cambiare? In Brasile gli indigeni dovrebbero rifiutare di farsi cooptare dal governo federale, dal momento che molto poco riescono a fare: molti di loro si sono già “bruciati”, cioè hanno deluso il movimento indigeno organizzato perché difendono o tacciono su molte scelte ambigue fatte dal governo. In Italia, quello che andrebbe fatto sarebbe smettere di definire “di sinistra” persone e governi. La sinistra esiste ancora solo attraverso i movimenti e le organizzazioni popolari. Se Lula è stato un solido leader sindacale, fondatore del Partito dei Lavoratori, non significa che per arrivare ad essere eletto e rieletto presidente di un paese continentale come il Brasile non abbia dovuto modificare principi e posizioni, non abbia dovuto allearsi alle più disparate e ambigue forze politiche. Inoltre, come spiegare il fatto che all’interno del suo partito, apparentemente, sembra non esserci nessuno in condizione di sostituirlo? Corre voce che si candiderà per l’ennesima volta; e questa, almeno per me, non è democrazia, ma il perpetuarsi di una posizione di potere. Quello che andrebbe fatto sarebbe di analizzare con più equilibrio, più attenzione, meno retorica la situazione politica brasiliana ma, soprattutto, dovrebbe essere denunciato coraggiosamente, senza mezzi termini, il “capitalismo green”, che è fortemente praticato anche da multinazionali di origine italiana. Ciò che andrebbe fatto è denunciare e porre fine al colonialismo, che continua vivo e vegeto attraverso l’invenzione di nuovi termini e nuove strategie, che sono così efficaci da ingannare individui e intere popolazioni.  Ciò che gli indigeni fanno, da oltre cinquecento anni, è resistere per esistere.   Bibliografia Amazônia Real https://amazoniareal.com.br/repercussao-da-cop30-oscila…/ Apib Oficial https://apiboficial.org/2025/10/13/as-vesperas-da-cop-povos-indigenas-cobram-demarcacao-de-terras-67-so-dependem-de-uma-assinatura-de-lula/? Mídia Ninja https://www.facebook.com/MidiaNINJA Loretta Emiri, “Amazzonia – Il piromane ha nome e cognome” https://www.pressenza.com/it/2019/09/amazzonia-il-piromane-ha-nome-e-cognome/ Centro de Formação Yanomami no Ajarani – Dossier https://drive.google.com/file/d/1O_A3dR4u28VLB_iyrj3Xpxk–xRyYkC0/view?usp=share_link Durante la privilegiata, come lei stessa sostiene, convivenza con gli Yanomami, ha raccolto oggetti della cultura materiale di questo popolo. Di particolare rilievo è il nucleo dedicato all’arte plumaria, collane ed orecchini. Per lunghi anni ha accarezzato il sogno di sistemare i materiali in luogo pubblico. Il sogno si è concretizzato all’inizio del 2001, quando il Museo Civico-Archeologico-Etnologico di Modena ha accolto i 176 pezzi della Collezione Emiri di Cultura Materiale Yanomami. Nel maggio del 2019, una parte della collezione è stata esposta al pubblico e ufficialmente inaugurata. Durante tutto il 2023 e 2024 si è dedicata, sistematicamente, al fomento della creazione del Centro di Formazione Yanomami, da strutturarsi nell’area indigena Ajarani, producendo e divulgando vari testi riuniti nel Dossier “Moyãmi Thèpè Yãno – A Casa dos Esclarecidos – Centro de Formação Yanomami – Dossiê”, Loretta Emiri, CPI/RR, 01-24. Lorenzo Poli
Immunoterapia contro l’invecchiamento: siamo vicini a rompere il ciclo vitale?
Dai primi miti sulla fonte dell’eterna giovinezza alle moderne terapie cellulari, la ricerca umana di prolungare la vita sembra entrare in una nuova fase, dove la scienza converge con un desiderio ancestrale. Da quando l’essere umano è consapevole della sua finitezza, ha sognato di sfuggirle. Nel Poema di Gilgamesh (circa 2100 a.C.), l’eroe mesopotamico intraprende un viaggio alla ricerca della pianta che dona la vita eterna. Gli alchimisti medievali cercavano instancabilmente l’elisir di lunga vita e le leggende della Fontana della Giovinezza hanno popolato l’immaginario delle culture di tutto il mondo. Oggi, quel sogno millenario viene perseguito nei laboratori di biotecnologia (eredi di quegli antichi alchimisti e dei loro laboratori), dove si sta sviluppando un vaccino progettato non per prevenire una malattia specifica, ma per combattere il processo stesso dell’invecchiamento. Una rivoluzione nella comprensione dell’invecchiamento L’invecchiamento, considerato per secoli un declino inevitabile e omogeneo, è ora inteso come un processo biologico con meccanismi specifici e potenzialmente curabili. Uno di questi meccanismi chiave è la senescenza cellulare. Nel corso della vita, alcune cellule smettono di dividersi ma non muoiono. Invece di contribuire al tessuto, secernono sostanze infiammatorie che danneggiano le cellule vicine e creano un ambiente favorevole alla malattia. La proposta è un’immunoterapia senolitica. Il suo obiettivo è quello di addestrare il sistema immunitario a riconoscere ed eliminare in modo preciso ed efficiente queste cellule senescenti. In questo modo, si attacca una delle cause profonde del deterioramento fisico associato all’età e di patologie come il cancro, dove queste cellule proteggono i tumori. Questo approccio rappresenta un cambiamento di paradigma: non si tratta solo di allungare la vita, ma di prolungare gli anni di vita sana, comprimendo i periodi di malattia e dipendenza. Come funziona questo vaccino contro l’invecchiamento? A differenza di un vaccino preventivo tradizionale, si tratta di un trattamento personalizzato. Sebbene i dettagli tecnici siano complessi, il concetto può essere semplificato: 1. Vengono isolate le cellule senescenti specifiche del paziente. 2. Queste cellule vengono utilizzate per insegnare al sistema immunitario del paziente a riconoscere la loro firma unica. 3. Il sistema immunitario, così addestrato, mobilita le sue risorse per cercare e distruggere le cellule senescenti in tutto il corpo. Negli studi preclinici sugli animali, questo approccio ha mostrato risultati straordinari, non solo migliorando i marcatori di salute, ma aumentando l’aspettativa di vita di oltre il 100%. Immorta Bio, con sede a Miami, ha già presentato la documentazione normativa necessaria alla FDA statunitense per avviare la prima sperimentazione clinica sull’uomo, inizialmente incentrata su pazienti con cancro ai polmoni in stadio avanzato. Cosa significa rompere il ciclo? Lo sviluppo del trattamento ci pone di fronte a un profondo bivio filosofico ed etico. La finitezza è stata, storicamente, un motore essenziale della cultura, dell’arte, della trascendenza e del senso di urgenza vitale. Cosa succede quando questo confine si confonde? La prospettiva di vivere più a lungo in piena salute è potente. Significherebbe ridurre la sofferenza delle malattie degenerative, prolungare il tempo di contribuzione e creatività e ridefinire le fasi della vita. È la materializzazione di un desiderio antico quanto l’umanità. Sorgono inevitabili domande. Chi avrà accesso a queste terapie? Come influenzerà le dinamiche demografiche, le pensioni o le relazioni intergenerazionali? Cambierà la nostra percezione del valore del tempo? Già nel XVII secolo il filosofo francese Blaise Pascal rifletteva su come l’inquietudine umana derivi dalla nostra incapacità di stare seduti in silenzio in una stanza, un’inquietudine che la finitezza acuisce. La scienza sta avanzando verso la possibilità tecnica di allungare il ciclo. Tuttavia, come società, dobbiamo riflettere se siamo pronti per questo. La storia di Gilgamesh si conclude con l’eroe che perde la pianta dell’immortalità, un promemoria del fatto che la ricerca, più che il destino, può essere ciò che ci definisce. Oggi, la pianta potrebbe germogliare in un laboratorio, e il suo raccolto dipenderà non solo dalla biologia, ma anche dalla saggezza con cui decideremo di usarla. Le informazioni su SenoVax si basano sui comunicati della società Immorta Bio e sulla sua domanda di brevetto internazionale PCT/WO2025184665. Il trattamento è in fase preclinica avanzata e i risultati sugli esseri umani devono ancora essere determinati in futuri studi clinici. Ci troviamo di fronte a una nuova sfida per l’umanità, la vita e il significato di tutto ciò che esiste. Quim De Riba
Cosa resta della Misericordia? Alessandro Sipolo e Don Fabio Corazzina in un dialogo fra canzoni e parole
Sabato 29 novembre, ore 21:00 𝗖𝗼𝘀𝗮 𝗿𝗲𝘀𝘁𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗠𝗶𝘀𝗲𝗿𝗶𝗰𝗼𝗿𝗱𝗶𝗮? 𝗔𝗹𝗲𝘀𝘀𝗮𝗻𝗱𝗿𝗼 𝗦𝗶𝗽𝗼𝗹𝗼 e 𝗗𝗼𝗻 𝗙𝗮𝗯𝗶𝗼 𝗖𝗼𝗿𝗮𝘇𝘇𝗶𝗻𝗮 in un dialogo fra canzoni e parole Sala Sala Pesenti Marzanni (via Ss. Redentore) Ingresso gratuito (con possibilità di contributo libero) * 𝗔𝗟𝗘𝗦𝗦𝗔𝗡𝗗𝗥𝗢 𝗦𝗜𝗣𝗢𝗟𝗢 è cantautore, cooperante, ricercatore indipendente. Parallelamente all’attività musicale lavora, dal 2014, per il Sistema di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati e coordina, dal 2019, lo Sportello Rifugiati del Comune di Brescia. È inoltre fondatore e coordinatore della rassegna culturale Umanità Migrante e della Scuola Popolare Antimafia di Brescia, Bergamo e Monza. * 𝗗𝗢𝗡 𝗙𝗔𝗕𝗜𝗢 𝗖𝗢𝗥𝗔𝗭𝗭𝗜𝗡𝗔 è sacerdote da sempre impegnato nella difesa dei diritti degli ultimi, noto anche al pubblico televisivo per le sue posizioni pacifiste e progressiste. È stato coordinatore Nazionale di Pax Christi.   𝙊𝘽𝘽𝙇𝙄𝙂𝙊 𝘿𝙄 𝙋𝙍𝙀𝙉𝙊𝙏𝘼𝙕𝙄𝙊𝙉𝙀 𝘼: eventiparrocchiabagnatica@gmail.com 3496106668 Redazione Sebino Franciacorta
Caso Palmoli, lo Stato interviene con la violenza istituzionale laddove non serve
Il Tribunale per i Minorenni de L’Aquila, riunito nella Camera di Consiglio alla presenza della Presidente Cecilia Angrisano, del Giudice relatore Roberto Ferrari e dei Giudici onorari Simone Giovarrusscio e Alida Gabriela Alvaro, visti gli atti del procedimento relativo ai minori “figli di TREVALLION NATHAN e BIRMINGHAM CATHERINE”, ha emanato un’ordinanza dichiarando: “[….] In considerazione delle gravi e pregiudizievoli violazioni dei diritti dei figli all’integrità fisica e psichica, all’assistenza materiale e morale, alla vita di relazione e alla riservatezza, i genitori vanno sospesi dalla responsabilità genitoriale. E’ inoltre necessario ordinare l’allontanamento dei minori dall’abitazione familiare, in considerazione del pericolo per l’integrità fisica derivante dalla condizione abitativa, nonché dal rifiuto da parte dei genitori di consentire le verifiche e i trattamenti sanitari obbligatori per legge. E’ infatti dimostrato dalle vicende occorse che il mero conferimento al Servizio Sociale affidatario di poteri diretti al compimento degli atti sanitari non è sufficiente ad assicurare l’esecuzione degli stessi, essendo necessario conferire all’affidatario la effettiva custodia dei minori. Va per il resto confermato il provvedimento di affidamento esclusivo al Servizio Sociale adottato in fase cautelare. Il Servizio Sociale è inoltre incaricato di disciplinare la frequentazione tra genitori e figli, con modalità idonee a prevenire il rischio di sottrazione. In sede di esecuzione dell’allontanamento il Servizio Sociale è autorizzato a richiedere l’assistenza della forza pubblica…” Nel primo quadrimestre 2025 in Italia sono “scomparsi” 4600 minori, però il Tribunale dei minori de L’Aquila, e purtroppo non è il solo, si accaniscono contro una delle poche famiglie felici e sane. Gli ispettori facciano una profonda, molto profonda ispezione, che di marcio ne troveranno fino allo schifo in tutta la penisola. Il 21 novembre, l’Associazione Nazionali Magistrati (ANM) ha dichiarato: “Riteniamo inopportuno ogni tentativo di strumentalizzazione di casi che, per la loro particolarità, suscitano l’attenzione dei cittadini e dei media, ricordando che la delicatissima materia nell’ambito della quale operano i colleghi in servizio presso le Procure e i Tribunali per i Minori merita rispetto e attenzione”. Così la Giunta Anm dell’Aquila sul provvedimento emesso a tutela dei tre minori della famiglia che vive nei boschi in provincia di Chieti. “In particolare, sorprendono – si legge in una nota – le parole del ministro Salvini, che ha ritenuto ‘vergognoso’ l’intervento dello Stato ‘nel merito dell’educazione privata’”. https://www.ilcentro.it/chieti/famiglia-nel-bosco-lassociazione-magistrati-tutelati-i-minori-sono-stati-valutati-elementi-oggettivi-qi8lt4lg E hai voglia te adesso, l’ANM che si straccia le vesti, a gridare al lupo al lupo, e a chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati. Perché ha davvero ben poco senso dichiarare solidarietà alla giudice che ha emesso un’ordinanza per allontanare dalla propria famiglia, tre bambini, felici, istruiti, e ben accuditi, se prima non si entra nel merito delle motivazioni di questa sentenza, che a quanto pare risulta piena di inesattezze, di affermazioni del tutto sbagliate, già rigettate documenti alla mano dall’avvocato di questa famiglia. E nemmeno ci si può appellare alla nota frase “bisogna aver fiducia nella magistratura” oppure che comunque le cose verranno poi chiarire in appello. Perché per intanto si è fatto un danno enorme, alle vite di 5 persone, e un trauma a 3 bambini letteralmente strappati via da coloro che li avevano indubbiamente cresciuti con amore, con impegno, in un contesto sereno, in cui i bambini appaiono sempre visibilmente felici, sani, curati. Un’azione, quella del tribunale dei minori,  che quanto meno appare di una leggerezza tale che sa di vera e propria ingiustizia, e che a seguito della quale, c’è stato un vero e proprio moto popolare di sdegno. Sono volati insulti, come ad esempio “Tribunale di vermi”, fra le migliaia uno dei più lievi. Prevedibile, e in un certo senso dovuta almeno a livello istituzionale, la nota espressa dalla giunta esecutiva dell’ANM de L’Aquila: dove si esprime, «apprensione» per «la campagna d’odio mediatico scatenata nei confronti della presidente del Tribunale per i minorenni, Cecilia Angrisano, bersaglio di ingiurie e di intimidazioni». E fin qui tutto dovuto in un certo senso. Ma all’interno della stessa nota, l’ANM fa a mio parere uno sbaglio di valutazione enorme e grossolano, l’associazione dei magistrati esprime «stupore» e «rammarico» nel constatare che, «in un clima così esasperato, i rappresentanti del governo insistano nell’attività di delegittimazione dell’Autorità Giurisdizionale». Non comprendendo però, che è vero che i rappresentanti di governo fanno il loro show cavalcando la notizia, così da ottenere consensi, ma che è ancora più vero che la disaffezione popolare verso le istituzioni è ormai enorme, che un solco profondo è stato scavato, che, nella stragrande maggioranza delle persone, la percezione generale nutrita verso lo Stato, le istituzioni e chiunque le rappresenti, in questo momento è al minimo storico, con un sentimento di forte rabbia e insofferenza, che attraversa sempre più ampie frange del Paese , con una sensazione di scollatura sempre più incolmabile. Uno Stato e delle istituzioni che non sanno più minimamente dare risposte ai bisogni generali della gente, uno Stato che non interviene dove c’è bisogno di intervenire, e interviene invece in modo pesante, violento e oppressivo verso quella parte della popolazione che lavora, che contribuisce quotidianamente con il proprio operato e con fatica, a mantenere in piedi quel poco di buono che c’è rimasto in questo Paese, ormai devastato nelle fondamenta, oppure uno Stato che tramite le sue istituzioni si accanisce  verso chi tenta di portare avanti la propria vita, con amore e con rispetto, facendo scelte differenti, che forse possono apparire lontane dalle scelte della maggioranza delle persone, ma che non per questo sono meno degne di rispetto, anzi, e che sicuramente non nuocciono a nessuno, né producono danni, tanto meno ai loro figli, accuditi comunque con cura e amore. A differenza invece di intere schiere di bambini, ragazzi, e adolescenti, sempre più abbandonati a loro stessi, pur essendo inseriti in ambienti “civilizzati” e vivendo nelle città, pur frequentando le scuole e stando in appartamenti con bagno in casa, ma che sono sempre più attanagliati dal vuoto, istruiti alla violenza, alla mancanza di ogni forma di empatia, oppure mossi da modelli vuoti, con tendenze narcisistiche ed estremamente egoiste, modelli nefasti che promuovono solo il successo personale basato su un’immagine costruita, totalmente insostenibile, molto sofferente. Stiamo parlando di migliaia di ragazzi che vivono in mezzo alla folla, ma sono attanagliati dalla solitudine interiore, dalla mancanza di riferimenti positivi, molti di questi immersi in situazioni di vero e proprio degrado e miseria umana, in contesti di violenza. A tutto questo le istituzioni non riescono più a dare nessuna risposta costruttiva, il distacco fra Stato e popolazione in dei casi è diventato siderale, ma a livello statale si interviene però pesantemente, con una durezza e una violenza inaudite, non solo dove non serve, ma addirittura si interviene con crudeltà dove persone di buona volontà si siano organizzate per dare risposte costruttive, e alternative, per l’appunto proprio quelle dove lo Stato e le sue istituzioni hanno totalmente fallito. Ovvio poi che si alimenti il clima già esasperato, se le istituzioni sono occupate e amministrate da persone che hanno smarrito non solo il senso delle cose, e della loro funzione, ma anche il buon senso, e dove sempre più spesso, persino un barlume di umanità, di compassione, di empatia, sono rarità introvabili. Un rappresentante della magistratura ha detto: “certo non si attendeva una reazione pubblica così vasta e, spesso, in totale disaccordo con la decisone mossa dal Tribunale per i minorenni dell’Aquila”, tribunale che ha disposto l’allontanamento urgente di tre bambini appartenenti alla famiglia Trevallion-Birmingham, residente in un’abitazione situata nei boschi di Palmoli, in provincia di Chieti. Cosa ci si aspettava? Che la popolazione vi dicesse: “Bravi!!! Fate pure! Continuate così!” In un contesto devastato del Paese, e in cui nello specifico parlando di bambini e di decisioni dei tribunali dei minori, attraverso cui, in soli 10 anni dal 2014 al 2025, siamo passati dai 20.000 ai 44.000 bambini, per cui si è disposto l’allontanamento dalle famiglie, con affidamento a strutture e contesti che ad oggi muovono circa 1 miliardo di euro. E visto il contesto in particolare di quanto successo con questa famiglia a Palmoli, come si fa a non sposare quanto dichiarato dall’avvocato Giovanni Angelucci, legale della famiglia, che ha annunciato ricorso alla Corte d’Appello dell’Aquila entro i termini di legge, sostenendo non solo che l’ordinanza contenga “numerose inesattezze” per non dire scempiaggini, ma affermando a ragione rivolgendosi al Tribunale de L’Aquila che: “Sono andati in cortocircuito”. Questo come minimo se vogliamo pensare bene, poi ci sono aspetti ben peggiori a pensar male, che andrebbero quanto meno indagati, proprio nell’ambito delle decisioni dei tribunali dei minori che gettano pesanti ombre sulla liceità di migliaia di allontanamenti dei minori dalle proprie famiglie, che sembrano quantomeno eccessivi, ingiusti, lesivi, e in cambio invece, il non intervento assoluto in situazioni di vero e proprio degrado, di miseria umana, in contesti di reale violenza e disumanizzazione, e persino di sfruttamento minorile per finalità criminali, che sono presenti sul nostro territorio, e che non interessano solo le famiglie in povertà materiale, ma che si trovano anche in contesti di famiglie benestanti, che vedono ragazzi annoiati, sempre più alienati, con modelli di comportamento violenti, tossici, dannosi per loro stessi e per gli altri. In questo contento generale, specie coloro che occupano posizioni di rilievo istituzionale, ancora prima di esprimere rammarico, dovrebbero fare un bagno di umiltà, ritrovare se mai lo hanno avuto, senso critico e autocritico, e forse per comprendere meglio il clima generale, potrebbe essere di aiuto ricordare un vecchio detto popolare che recita: “Il pesce puzza sempre dalla testa”. Luca Cellini
Libertà educativa, cura ed autodeterminazione possono salvarci dal vuoto pedagogico della società consumista
“Mi sento totalmente vuoto. È una cosa ingiusta, perché togliere i bambini da un luogo dove c’è felicità, dove la famiglia vive felice, nella natura. Non capisco perché, si sta distruggendo la vita di cinque persone. I bambini hanno sofferto, tolti così velocemente da casa per andare a dormire in un posto che non conoscono”. Sono le prime parole con cui Nathan – il padre dei tre bambini strappati a lui e a sua moglie – commenta il provvedimento in un’intervista di Daniele Cristofani pubblicata oggi sul quotidiano Il Centro (L’intervista integrale è stata trasmessa ieri sera, in due puntate speciali di “Zoom, storie del nostro tempo”, alle 18.50 e alle 23.15, sull’emittente televisiva Rete8). L’ordinanza cautelare del Tribunale dei Minori de L’Aquila non si è fondata sul pericolo di lesione del diritto dei minori all’istruzione – in quanto giustamente i bambini seguivano il metodo unschooling – ma sul pericolo di “lesione del diritto alla vita di relazione” – previsto dall’articolo 2 della Costituzione – “produttiva di gravi conseguenze psichiche ed educative a carico del minore”. Secondo il tribunale “la deprivazione del confronto fra pari in età da scuola elementare può avere effetti significativi sullo sviluppo del bambino, che si manifestano sia in ambito scolastico che non scolastico”. Fra le folli motivazioni “sentenziate” dal tribunale dei minori de L’Aquila, si legge anche che sarebbe necessario allontanare i minori dall’abitazione familiare, “in considerazione del pericolo per l’integrità fisica derivante dalla condizione abitativa, nonché dal rifiuto da parte dei genitori di consentire le verifiche e i trattamenti sanitari obbligatori per legge”. Inoltre, “l’assenza di agibilità e pertanto di sicurezza statica, anche sotto il profilo del rischio sismico e della prevenzione di incendi, degli impianti elettrico, idrico e termico e delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità dell’abitazione, comporta la presunzione ex lege dell’esistenza del periodo di pregiudizio per l’integrità e l’incolumità fisica dei minori”. Quindi il tribunale ha disposto la sospensione della potestà genitoriale a padre e madre che con tre figli minori, fra i 6 e gli 8 anni, oltre che l’allontanamento dei bambini dalla dimora familiare e il loro collocamento in una casa famiglia e nominato un tutore provvisorio dei minori, l’avvocata Maria Luisa Palladino. Il tribunale parla di “lesione del diritto alla vita di relazione”, senza nemmeno accorgersi che il diritto alla vita di relazione nelle nostre società industrializzate e opulente viene violato ogni giorno perchè abbiamo dimenticato come vivere. Il diritto alla relazione viene violato in nome della crescita economica, della competizione, dell’efficientismo e dell’utilitarismo, dell’incomprensione e l’incapacità di dialogare sul posto di lavoro: tutti pronti a correre pregando di arrivare prima degli altri per qualche salto di carriera, per qualche soldo in più che sia esso per profitto o per sopravvivenza, ma non sicuramente per vivere in pace. Il diritto alla relazione è violato dalla virtualizzazione delle relazioni, dall’espropriazione delle relazioni umani, dagli smartphone dati in mano ai bambini di 3 anni, dal diffondersi dell’apatia, dal non distinguere il valore delle proprie azioni e dal non capire il senso del limite. Per non parlare dell’individualismo epidemico, dell’atomizzazione indotta dal consumismo, della diffusione capillare di un linguaggio sempre più violento e che induce alla violenza, dai crescenti fenomeni di bullismo e autolesionismo nei giovanissimi, dalla crescita esorbitante dell’abuso di psicofarmaci nei bambini e negli adolescenti; dal dilagare di uomini che uccidono le donne per possesso o senso di proprietà e dal dilagare di giovani ragazzi adolescenti che molestano o stuprano le loro coetanee. Questo è quello che vivono costantemente i nostri giovani in un brutale circolo vizioso, perchè non si dà il giusto valore alle cose e si finisce nella disumanizzazione: le persone cessano di essere considerate un fine e diventano un mezzo. Il tribunale si dimentica che tutte queste situazioni provengono da persone che vivono la nostra società e da essa continuano a imparare l’incapacità di relazionarsi. Quindi, nella nostra società, il problema è pedagogico e culturale. Ma al posto di vederlo e di mettere a fuoco il lassismo pedagogico e il vuoto educativo che si sta generando in questa “modernità liquida”, come direbbe Zigmunt Bauman, si punta il dito contro chi sta fornendo a tutti noi un esempio drastico, estremo ma alternativo di educazione e di vita. Siamo davvero sicuri che i figli di Nathan e Catherine abbiano problemi di relazione? Siamo davvero sicuri che il loro diritto a relazionarsi sia stato leso? Bisogna vedere che tipo di relazione si intende. Sicuramente il tribunale ha interiorizzato, da tradizione e cultura giuridico-istituzionale liberale, una prospettiva antropocentrica di relazione per la quale relazionarsi vuol dire che gli umani si relazionano con gli umani. Si potrebbe adottare un prospettiva eco-centrica più amplia, affermando che relazionarsi significa relazionarsi al mondo, non inteso – come direbbe Ulrich Beck – “al sistema-mondo”, inteso come “alle cose della Natura”. Una domanda sorge spontanea: i nostri figli si sanno relazionare come i figli di Nathan e Catherine si relazionano alla Natura, alle piante, agli animali, ai sassi, all’acqua, ai torrenti, al suolo e ai lombrichi? La risposta è drammaticamente negativa, nonostante il Tribunale de L’Aquila si preoccupi dei “rischi igienici” a cui andrebbero incontro i figli di Nathan e Catherine in un stile di vita rurale. Il tutto mentre i figli della nostra società sono schizzinosi nei confronti di tutto ciò che è naturale, inseguiti da genitori ancora più schizzinosi di loro che vorrebbero una Natura sterile –  priva di microbi, batteri e virus – per non farli ammalare. Eppure sono gli stessi genitori schizzinosi pronti ad accompagnare i loro figli a mangiare da BurgerKing, McDonald, RoadHouse e altre catene di junk food. Questo è il risultato di una società che ha perso la cultura dell’igiene naturale per lasciar spazio all’igienismo. Conclusione: generazioni di giovani illusoriamente felici, malnutriti e medicalizzati che non sopravvivrebbero nemmeno venti minuti ad un blackout mondiale. Mi risulta che queste situazioni non siano nemmeno concepibili dai figli di Nathan e Catherine, i quali invece saprebbero benissimo cosa fare nel bel mezzo di un blackout totale e non avrebbero problemi ad intrattenersi con i propri animali o fare un bagno nel torrente. La risposta è ancora più cruda: i nostri figli non solo non sanno relazionarsi alle cose della Natura, ma non sanno nemmeno relazionarsi al “sistema mondo” che invece vivono. Spesso, i nostri figli, vivono vite per procura di fronte ai dispositivi tecnologici e digitali (ma anche tv) a guardare serie tv, videogiochi, film stupidi, fiction americane e reality. Il fenomeno sempre più diffuso degli hikikomori non è fantascienza, ma un trend in aumento nella nostra società. Anche per quanto riguarda la sessualità, la mancanza di relazioni nella nostra società è un problema non indifferente. Come afferma il grande psicanalista Luigi Zoja, la presunta “sessualità disinibita” nei giovani di oggi è pura apparenza, segnata invece da una crisi del desiderio che teme corpo, emozioni e sentimenti. La psicanalista Laura Pigozzi, riflettendo sulla deriva dell’erotismo tra i giovani, ha parlato di iposessualità nei giovani: c’è grande disponibilità di erotismo e di corpi offerta dalla Rete (OnlyFan), ma ciò non fa crescere il desiderio nella realtà. I ragazzi diffidano sempre più delle relazioni sentimentali e fisiche perché sono stati educati ad avere paura del mondo esterno, del diverso, sono iperprotetti; questo ha reso la sessualità meno reale. Il sesso viene percepito sempre più come una performance, da maschi e femmine, che genera ansia. I giovani che si chiudono nelle loro stanze rifiutando ogni contatto sociale. È un approccio rarefatto al desiderio in cui ci si espone sempre meno all’altro: al suo corpo e al rischio delle emozioni. Oggi stiamo crescendo una società di bambini etichettati fin dalla nascita, dove la diversità o è vista come un problema, o come un disagio, o come vittimismo o come autocompiacimento e mai come valore intramontabile. Un società malata che imbottisce i propri figli di psicofarmaci, che dà a loro smartphone senza i giusti strumenti, che investe nelle “competenze” e sempre meno sulla conoscenza, sull’esercitare il pensiero e il senso critico. Mi risulta che tutti questi problemi di relazione siano presenti – nella nostra società odierna – tra soggetti che in questa società sono nati e cresciuti senza conoscere alcuna “estraniazione rurale”. In questo contesto, bisognerebbe capire se la relazione deve essere intesa come “obbligo” (come sembra intenderlo il Tribunale) o come “diritto” (come dovrebbe essere) e, nel caso fosse considerato un “diritto”, dovremmo essere in grado – come società – di garantirlo, e di una certa qualità. Cosa che non mi pare siamo in grado di fare. Qual è dunque la logica che ci spinge a voler insegnare agli altri come fare relazione e a relazionarsi, se siamo noi i primi a non riuscire a concepire un futuro nelle nostre relazioni? Alla nostra società manca una cultura che sia in grado di educare alle relazioni, mentre invece è molto brava a spiattellare sui media mainstream nazionali il caso di una famiglia che non vuole saperne nulla di questa modernità futile, effimera e anti-educativa. Questa famiglia è stata presa mediaticamente come capro espiatorio affinchè l’opinione pubblica la brutalizzasse, si indignasse di loro e puntasse il dito. Anche se questo era l’intento, fortunatamente non è avvenuto. Per evitare di analizzare come il potere disciplinare (citando Foucault), l’istruzione – quella riduzionista occidentale – e le sue istituzioni – ovvero la società e la cultura di mercato – stiano oggi massacrando le relazioni, si addita chi nella propria semplicità si dedica alla creazione autentica di relazioni. Perchè questo è il fulcro del discorso. Qual è la colpa di questa coppia di genitori anglo-australiani che hanno deciso di vivere in semplicità nei boschi abruzzesi? Educare liberamente i loro figli in mezzo alla Natura e al contatto con essa, con un maestro privato; vivere secondo un stile di vita ecologico e naturalistico in una bellissima casetta in mezzo al bosco a Palmoli, in provincia di Chieti; vivere secondo il ritmo lento della Natura, trascorrendo una vita serena e tranquilla lontano dal caos, dal rumore e dalla frenesia della società industrializzata; autosostenersi totalmente con pannelli solari, pozzo di acqua privato, legna a volontà, tanti animali e tanto amore. I media hanno parlato della famiglia di Nathan e Catherine come di una “famiglia neorurale”, come se il ruralismo fosse qualcosa di vecchio e antico da ripudiare. In realtà il ruralismo è vivere l’essenza della vita lontano dalle mode, dai consumi, dall’effimero, dai veleni dell’esistenza come l’avidità, la stupidità e la collera… che immancabilmente generano sofferenza a lungo tempo. Questa famiglia – secondo il Tribunale e una fetta dell’opinione pubblica – dovrebbe forse fare come tutte le altre famiglie medie italiane: insegnare ai propri figli a guardare Uomini e Donne, Temptation Island, L’Isola dei Famosi, il Grande Fratello; a guardare cartoni animati stupidi e diseducativi o addirittura a piazzarli davanti a videogame volto allo sviluppo estremo di adrenalina e serotonina. Si chiama schizofrenia ontologica: mentre il vuoto educativo e la rarefazioni delle relazioni imperversano nella società di oggi, inaugurando un’epidemia di apatia, le istituzioni di questa stessa società reprimono modelli alternativi proprio di educazione, di pedagogia, di società ecologica e di crescita umana. La schizofrenia ontologica è arrivata a livelli tali che una famiglia che vive in una casa in un bosco è percepita come un pericolo, forse perché può essere un modello da seguire… E questo fa ancora più paura al potere. Nell’epoca in cui si esaltano sviluppo e progresso, chi prova ad allontanarsene deve essere punito. Come osi non sottometterti alle bollette? Come osi privarti della tv, dell’auto a rate, dello smog incensante? Come puoi impedire ai tuoi figli di far scoprire il tossico mondo dei social media? Come puoi non ambire nel vedere i tuoi figli che girano video su TikTok? Come osi non sottometterti alla dittatura dell’algoritmo? Come osi cercare uno stile di vita che abbandona il materialismo della società capitalista e consumista per dedicarti ad un risveglio politico, etico e spirituale? Come osi non allacciarti alla corrente, usufruendo di un panello solare costruito artigianalmente? Come osi non allacciarti all’acquedotto, preferendo usare l’acqua di fonte gratuita dal pozzo sul proprio terreno? Come osi non allacciarti al gas in questo periodo storico dove, con la guerra in Ucraina, abbiamo fatto di tutto per boicottare il North Stream russo per rimpinguare le casse USA con il gas liquido? Come osa questa gente usare la loro legna come negli ultimi 170.000 anni di storia? Questi sono gli interrogativi che si pone il necropotere della società del controllo. Chi sceglie l’autodeterminazione, la libertà educativa, le relazioni di cura autentiche ed evita di crescere i propri figli come lo fa la massa, ovvero a suon di cellulari, antidepressivi, influencer, centri commerciali, omologazione e conformismo, rappresenta da un lato una vera minaccia per il quieto vivere del gregge al macello, ma dall’altro rappresenta un esempio concreto di come si possa portare bellezza nella propria vita fuori dagli schemi effimeri della società consumista ed industriale di massa. A tal proposito credo che sia interessante il pensiero esposto in un post Facebook dalla sociologa Elisa Lello, dicente di Sociologia politica all’Università di Urbino e ricercatrice presso LaPolis, Laboratorio di Sudi Politici e Sociali dello stesso ateneo: Quelle che arrivano a portare via dei bambini ai loro genitori per insegnare con le brutte, a tutti noi, che non si può scappare alla vita impossibile e insopportabile che ci è stata apparecchiata; e che pure dobbiamo ritenere superiore a ogni altra possibilità immaginabile, per via dell’insindacabile primato di un impianto elettrico. Le stesse mani che stanno ricostruendo grandi eserciti, che vogliono reintrodurre la leva obbligatoria, che vogliono fare di noi carne da cannone, ancora una volta. E… sì, proprio le stesse mani che apparecchiano sontuose operazioni mediatiche per presentare il suicidio assistito dallo Stato come nientemeno che diritto e conquista, e addirittura: “autodeterminazione”. Come se davvero avessimo qualche margine di autodeterminazione nello scegliere come e dove vivere, come coltivare il nostro cibo, come curare ed educare i nostri figli e noi stessi; come se avessimo davvero il diritto e le possibilità reali di accompagnare nella vita e nella malattia, e sì anche nella morte, i nostri cari. Quello che accade invece è che ogni possibilità reale di autodeterminazione ci viene ogni giorno sottratta, un metro alla volta, in un cerchio che si chiude: i tagli al Welfare; la rinuncia ad affrontare diseguaglianze e povertà; la soppressione di reparti ed ospedali e di servizi pubblici in quelli che vengono definiti territori “senza futuro”; la vera e propria persecuzione infierita contro le piccole produzioni contadine ed ecologiche che si ostinano a mostrare al mondo che eppur si potrebbe ancora coltivare e produrre cibo senza essere dipendenti dai giganti delle biotecnologie e del digitale… Mentre ogni anfratto più intimo della nostra esistenza viene spiato e trasformato in dati che serviranno a spingerci ancora più dentro l’incubo di un’esistenza ridotta a bisogni indotti da soddisfare per il trionfo del mercato, mentre ci dicono esplicitamente che vogliono prelevare i nostri corpi per mandarli a nuovi fronti di guerra, davvero possiamo esultare credendo che il diritto di darsi la morte – e solo quello – sia “autodeterminazione”? Mi rendo conto della delicatezza della questione, e mai mi azzarderei a commentare scelte private di fronte a cui l’unica opzione per me è il silenzio – sia chiaro, ciò di cui parlo è semmai di come queste scelte vengono utilizzate per costruirci sopra operazioni propagandistiche. E posso capire, anche, la diffidenza di molte/i verso la sacralità della vita di matrice religiosa. Il rischio però è che, per criticare quella, si finisca per precipitare, senza nemmeno accorgercene, in un dogmatismo non certo migliore, che è quello della mercificazione capitalista. Dove la vita non ha più nulla di assoluto, e diventa quasi un bene di consumo, da valutare di volta in volta (in base ai criteri del mercato), così che finché sulla bilancia tra costi e benefici sono i secondi a pesare di più vale la pena di mandarla avanti, ma quando i loro pesi si invertono, allora perché non affidarsi alle cliniche della “dolce morte”? Dove, quando non sei più produttivo, diventi anche inutile, e allora perché lo Stato dovrebbe farsi carico dei costi per la tua assistenza, quando potrebbe più utilmente convogliare quelle risorse sempre scarsissime per prendersi cura piuttosto di giovani belli e pieni di energie da immettere nel circuito di produzione del valore? E occhio, perché – guarda caso – la particolarità di questa fase del capitalismo è proprio quella di creare, e di poter convivere più agevolmente rispetto al passato, con quote sempre più ampie di “superflui” (quindi esclusi) rispetto ai processi di produzione.   Lorenzo Poli
“Non è isolamento, è libertà”, la vita della famiglia che vive nel bosco in Abruzzo raccontata da dentro
In seguito al caso della famiglia che vive nel bosco in Abruzzo, pubblichiamo questo post con conseguente video intervista della famiglia anglo-australiana, vittima di un abuso di potere disciplinare, oltre che una repressione amministrativa derivante da un forte ignoranza educativa che rispecchia perfettamente la nostra società odierna follemente superficiale e consumista. Oggi vi portiamo a conoscere Nathan, Catherine e i loro stupendi figli. Una famiglia molto unità, insieme hanno fatto una scelta, vivere liberi nel bosco. Una storia di amore, di cura, di scelte consapevoli, di tempo che rallenta passato insieme, di fatiche anche, ma di tanta  bellezza. Ciò fino che non è intervenuta la “mano” dello Stato. Catherine Birmingham è un’ex cavallerizza con passaporto maltese. Nathan Trevallion faceva lo chef prima di diventare imprenditore di mobili pregiati. Nathan e Catherine si sono conosciuti a Bali in Indonesia «nel 2016, dove Nathan viveva già da sei anni e lavorava prima come chef e poi come commerciante di mobili di pregio. Invece io sono arrivata lì dopo aver lavorato per diversi anni in Germania e in Giappone come istruttrice di equitazione di massimo livello. Abbiamo fatto amicizia passeggiando sulla spiaggia insieme ai nostri sette cani, dove giorno dopo giorno ci siamo innamorati». Nel cuore dell’Abruzzo, tra alberi e silenzi, questa famiglia anglo-australiana ha costruito con le proprie mani una casa da 20.000 euro, vivono off-grid, con la corrente in casa prodotta da pannelli fotovoltaici ma senza essere attaccati alla rete elettrica nazionale, perciò senza bollette né sprechi, hanno l’acqua in casa per lavarsi, per cucinare ma non attraverso la rete idrica bensì stoccata dentro fusti di acciaio inox. Mangiano i loro prodotti quelli della coltivazione del loro orto, passano moltissimo tempo insieme crescendo i loro figli con il metodo unschooling, che non significa che i figli non apprendono ciò che gli serve, bensì che sono i genitori stessi a insegnare ai figli, non una ma più lingue da parlare, le basi della matematica, delle scienze, della biologia, del disegno, della storia, ecc. Una scelta di vita voluta, cercata, affrontata con amore, che ha fatto il giro del web e spaccato l’opinione pubblica: utopia o pericolo? libertà o abbandono? Guardate il video e ognuno si faccia una propria idea. Il Tribunale per i Minorenni dell’Aquila ha deciso: che i tre bambini dovevano essere allontanati dai loro genitori, la famiglia venire spaccata, genitori da una parte e bambini da inserire in una “comunità educativa”. Intorno, un’ondata di proteste. La domanda da porsi è dov’è il confine tra tutela e ingiustizia, abuso, violenza di Stato? Chi decide cosa significa “vivere bene”? In questo video si può vedere chi sono davvero Nathan e Catherine. Come vivono, cosa pensano, perché hanno scelto questa strada. Poche ore fa i loro figli sono stati portati via. Uno schieramento di carabinieri in borghese e assistenti sociali si sono presentati nella loro abitazione e hanno prelevato i tre bambini di Nathan e Catherine. Questa non è più solo la storia di Nathan e Catherine, è diventata una battaglia per la libertà, la giustizia e il diritto di vivere in modo diverso. Redazione Italia
Rinnovata Intesa tra Stato italiano e Unione Buddhista Italiana
Si è svolta oggi, a Palazzo Chigi, la cerimonia di firma dell’Intesa modificativa tra lo Stato italiano e l’Unione Buddhista Italiana, che aggiorna l’Intesa vigente. L’accordo è stato sottoscritto, per il Governo, dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, e, per l’Unione Buddhista Italiana, dal Presidente Filippo Scianna. Alla cerimonia erano presenti, tra gli altri: Carlo Deodato, Segretario generale della Presidenza del Consiglio, Rita Nichele, Consigliere dell’Unione Buddhista Italiana. La firma dell’Intesa modificativa rappresenta un passaggio significativo per la comunità buddhista italiana e per il sistema istituzionale che regola il rapporto tra Stato e confessioni religiose. Le modifiche accolte consentono di: 1. Celebrare matrimoni con effetti civili. Il riconoscimento della facoltà, per i ministri di culto dell’UBI, di celebrare matrimoni con effetti civili armonizza il quadro con quello già vigente per altre confessioni religiose. Si tratta di un passo atteso, che dà piena dignità e riconoscimento alle comunità buddhiste come luoghi di riferimento spirituale e relazionale per molti cittadini. 2. Riconoscere gli Istituti di studi buddhisti e contemplativi. L’introduzione del nuovo comma sui titoli accademici crea le condizioni per una formazione strutturata e pienamente riconosciuta, in dialogo con il sistema universitario. Questo intervento sostiene la crescita culturale del Paese e valorizza un patrimonio di studio e ricerca che ha assunto un rilievo crescente negli ultimi decenni. Il riconoscimento formale dei percorsi accademici dedicati agli studi buddhisti attesta la rilevanza dell’insegnamento del Buddha non solo sul piano spirituale e soteriologico, ma anche nel più ampio contesto delle discipline umanistiche, filosofiche e contemplative. 3. Ampliare gli ambiti della quota “inespressa” dell’8×1000.  La revisione della norma che disciplina l’utilizzo delle risorse derivanti dalle scelte non espresse dei contribuenti introduce un quadro più aderente alle esigenze della società contemporanea. L’ampliamento delle finalità – sociali, culturali, assistenziali e umanitarie – consente di affrontare con maggiore efficacia le molteplici situazioni di vulnerabilità e le nuove forme di bisogno che caratterizzano il nostro tempo, dalle emergenze ambientali e sanitarie alle trasformazioni sociali e demografiche. Questa nuova formulazione permette di orientare gli interventi in modo più tempestivo e mirato, favorendo progetti che promuovono coesione, tutela delle persone, sviluppo sostenibile e valorizzazione culturale, anche in contesti internazionali dove il contributo italiano può rappresentare un elemento di sostegno concreto e qualificato. Un’intesa aggiornata per un Paese che evolve L’aggiornamento dell’Intesa testimonia il riconoscimento, da parte dello Stato, di una presenza buddhista matura, consapevole e attivamente impegnata nel contribuire al bene comune. La collaborazione istituzionale si rafforza, trovando nuovi strumenti per sostenere persone, comunità e iniziative di valore sociale e culturale. L’Unione Buddhista Italiana esprime il proprio apprezzamento alla Commissione  per gli affari di culto e agli uffici ministeriali coinvolti, per il lavoro svolto e per il dialogo costante che ha accompagnato questo processo. Con questo nuovo quadro normativo, l’UBI rinnova il proprio impegno a operare con responsabilità, trasparenza e spirito di servizio, promuovendo una società aperta, rispettosa e solidale. Filippo Scianna, Presidente Unione Buddhista Italiana Redazione Italia
Associazione Ecofilosofica di Treviso organizza 5 incontri su ecosofia, decrescita, antispecismo e fitoalimurgia
> L’Associazione Ecofilosofica di Treviso organizza 5 incontri su ecosofia, > decrescita, antispecismo e fitoalimurgia. Ecco di seguito i 5 appuntamenti tra > novembre e dicembre 2025. > > Domenica 23 novembre ore 18, presso Libreria Lovat: LA GRANDE TRANSIZIONE. IL > DECLINO DELLA CIVILTA’ INDUSTRIALE E LA RISPOSTA DELLA DECRESCITA (Bollati > Boringhieri) con l’autore Mauro Bonaiuti (Univ. di > Torino) https://www.filosofiatv.org/eventi_files/572_Mauro% > 20bonaiuti%20locandina.pdf > > Sabato 29 novembre ore 15, presso Centro Kennedy (Villorba): PIANTE CURATIVE E > CULINARIE, con Silvana Busatto https://www.filosofiatv.org/ > eventi_files/573_piante%20curative%202%20.pdf > > A seguire, 3 incontri (su piattaforma on line) della serie PLURIVERSO: UNA > COSMOVISIONE PER LA DECRESCITA > > Mercoledì 3 dicembre ore 21: PANIKKAR – LATOUCHE: PER USCIRE DAL PENSIERO > UNICO con Gloria Germani e Lorenzo Poli > > Mercoledì 10 dicembre ore 21: DECRESCITA E ECOLOGIA PROFONDA con Fabio Balocco > e Guido Dalla Casa > > Mercoledì 17 dicembre ore 21: CICLO DELLA CARNE, ANTISPECISMO E DECRESCITA con > Adriano Fragano (Veganzetta) e Paolo Scroccaro > > Ecco la locandina dei 3 incontri, con indicazioni per > accedere: https://www.filosofiatv.org/eventi_files/574_locandina% > 20pluriverso-1.pdf   in collaborazione con Pressenza International Agency, > Assoc. Tutto è Uno, Decrescita Felice Social Network (vai al nuovo > sito www.decrescita.com ) > > QUADERNO DI ECOFILOSOFIA n. 81 – autunno 2025: qui trovate la copertina con > l’indice completo. Uno strumento indispensabile per orientarsi nel contesto > odierno  https://www.filosofiatv.org/eventi_files/571_QUADERNO% > 2081%20copertina.pdf > > PRO-MEMORIA per gli interessati/e: chi non si è mai associato/a e desidera > iscriversi alla Associazione (o solo ricevere per 12 mesi i Quaderni di > Ecofilosofia), è invitato a compilare il modulo di riferimento e ad inviarlo > a info@filosofiatv.org , lo trovate qui http://www.filosofiatv.org/ > eventi_files/499_491_DOMANDA%20DI%20ISCRIZIONE%20AEF.pdf > > > ECOFILOSOFIA PER UN PENSIERO CRITICO ADATTO AL NOSTRO TEMPO: NEWS E > > DOCUMENTI – novembre 2025   www.filosofiatv.org    info@filosofiatv.org > > Vuoi collaborare e proporre dei materiali in  sintonia  con i nostri > orientamenti culturali? Scrivi a info@filosofiatv.org > > ASSOCIAZIONE ECO-FILOSOFICA Redazione Italia