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Per una critica radicale alla perfezione del corpo e alla chirurgia estetica
Il corpo è sempre stato un terreno di scontro, segnato dall’antica visione della paura e del sospetto nei suoi confronti in quanto origine di seduzione, desiderio, sregolatezza, terreno di perdizione, mozione delle pulsioni, sessualità, sensualità carnale, sessualizzazione, qualcosa di incontrollabile, origine di peccato e quindi oggetto di penitenza. “Controllerai i ventri e controllerai le genti” è il motto all’origine di quello che hanno attuato i regimi autoritari e che viviamo anche noi oggi in Occidente tanto con le retoriche allucinanti del natalismo, del familismo, del parto di Stato, degli imbarazzanti Fertility Day quanto sui temi etici riguardanti l’aborto legale, il suicidio assistito e l’eutanasia. La cristianità, ovvero la cultura sorta intorno al cristianesimo, ha tramandato un’idea rigida del corpo, come una “prigione della nostra anima”, un “sacco di sterco” come lo ha definito Teresa D’Avila, un mero “involucro” da abbandonare quando diventerà inservibile. Questo è stato il pensiero dualistico e gerarchico occidentale, tramandato anche dalla teologia tradizionale cristiana, che differisce totalmente dal cuore del cristianesimo (e dalla mistica cristiana) che si presenta – nonostante tutto – come l’unica, tra le religioni abramitiche, a dare una grande importanza alla corporeità: “Il Verbo si fece carne” si legge nel Vangelo secondo Giovanni (1:14). Il cristianesimo onora il corpo come principio dell’individualità senza cui l’anima non raggiungerebbe mai la sua pienezza. Come ci ricorda la teologa femminista Teresa Forcades: “Tommaso d’Aquino ha affermato che non possiamo essere “persone” senza il corpo. La sola anima non costituisce una persona. L’amore tra esseri umani non può esistere senza il corpo, perché l’essere umano non può esistere senza di esso. C’è un corpo terreno e un corpo celeste, un corpo fisico e un corpo spirituale. Ma rimane sempre il bisogno di avere un corpo come principio che personalizza la nostra identità.” – ed aggiungo io, la nostra unicità, la nostra diversità. Il cristianesimo parla dell’incarnazione di Gesù Cristo e di “resurrezione della carne” nello stesso modo in cui ha posto fine a qualunque iconoclastia, facendo fiorire l’incommensurabile arte nei suoi luoghi di culto fatta di statue carnali, corpi formosi, affreschi di angeli nudi, quadri di corpi nudi eleganti vestiti solo di veli, per non parlare dei corpi straziati e martoriati come San Sebastiano Martire sanguinante attraversato da frecce e Santa Giulia legata ad un palo mentre una forca le raspa il seno. L’arte cristiana, pur essendo in balia contrastante tra la teologia rigorista e il messaggio cristiano, ha esaltato il corpo sia nella sua bellezza sia nella sua crudezza. Nonostante ciò, la visione patriarcale è quella che ha continuato a vigere nella cristianità come nel capitalismo dei consumi di oggi dove utilitarismo, efficientismo ed apparenza vanno di pari passo con una cultura della competizione, della prestazione, della mercificazione e dello scarto. Come direbbe Papa Francesco, la “cultura dello scarto” è una “cultura della morte”. Ciò che non serve viene scartato, a meno che lo “scartato” si adegui/rispetti/rispecchi precisi canoni e può quindi tornare utile. Nella visione contemporanea, il corpo è ridotto a merce, oggetto di desiderio, desiderabile e commercializzabile, utilizzabile e usufruibile, discriminato e controllato. Il corpo deve essere prestante secondo precisi canoni/convenzioni di bellezza: esaltato quando “giovane”, scartato quando “vecchio” e recuperabile quando può ancora essere funzionale all’industria dell’immagine, a costo di essere medicalizzato e ritoccato. Nel 2023 è uscito il film Barbie, con protagonista Margot Robbie. Un “film in rosa” che ha incassato cifre astronomiche cercando di “combattere i pregiudizi sulle donne”, venendo addirittura definito assurdamente “femminista” e rivolto all’empowerment femminile. Nulla di più falso e intriso di purplewashing. Come ha dichiarato giustamente la comica Valentina Persia: “Barbie è un fake, un’illusione ottica, una menzogna. La prima che ha fatto bodyshaming a tutte noi, facendoci sentire inadeguate, grasse, povere e poco bionde…. Tutta apparenza e ostentazione, ma guadagnati come?  Chiedetelo a Ken che nel frattempo è sparito perché la signorina in questione gli ha fottuto tutto per fare la bella vita…” – afferma Persia sollevando una polemica – “Fate una bambola più vicina alle donne vere, quelle che si fanno il mazzo tutto il giorno, quelle donne che sorridono nonostante le chiappe e le tette cadenti, quelle donne che sanno essere donne nonostante siano nate in un corpo maschile, quelle donne che scappano spesso proprio da quel Ken che a differenza tua, invece di donare ville, roulotte o macchine rosa, picchia e picchia forte… Spostati biondina che siamo un esercito!” – concludeva la Persia. Interessante che a dire queste parole di estrema verità sia stata proprio la Persia che, non accettandosi fisicamente per come era, ha fatto ricorso alla chirurgia estetica. Il rincorrere le aspettative di questi canoni, nella nostra società attuale, ha preso di mira tutti, uomini e donne. Se Barbie ha fatto danni, ora è Ken a infliggere l’ennesima ansia da prestazione: sempre più ragazzi sono ossessionati dal mito del corpo palestrato, dalla pesistica, dal cross-fit, dal mito del virilismo, dal corpo apparentemente forte e muscoloso, ma in realtà reso tale solo dal gonfiore dato dalla ritenzione di liquidi e dall’assunzione spropositata di creatina in barba a qualunque attenzione per la propria salute. Anche se questo è un fenomeno in drastico aumento tra gli uomini, ad essere presi di mira sono la vecchiaia e il corpo delle donne attraverso la tossicità di tre strumenti: il photoshop, che ritocca o altera un’immagine di una persona espropriandola delle sue caratteristiche reali; l’intelligenza artificiale, vittima di bias cognitivi legati agli stessi stereotipi ageisti e di genere, oltre che alle norme/convenzioni e canoni di bellezza di cui noi stessi siamo vittima; e la chirurgia estetica, che alimenta un’industria dell’apparenza sulla pelle di migliaia di ragazze, adulte ed anziane, medicalizzandone e colonizzandone il corpo con sostanze chimiche e protesi artificiali per rincorrere canoni desiderabili e irraggiungibili su modello pubblicitario, ma funzionali alla norma vigente. Il grande psicanalista e filosofo argentino Miguel Benasayag, in Funzionare o esistere?, parla del concetto di plasticità: il vivente deve trasformarsi in un senza-forma iperplastico che si lascia plasmare, contro ogni forma di pensiero complesso. Nella “cultura dello scarto” gli anziani sono considerati “vecchi”, fuori dal ciclo produttivo, di sviluppo e di consumo e – per questo motivo – “inutili”, “senza funzione”, ovvero che non possono più funzionare. Lo stesso subiscono le donne a causa delle gravi ed ataviche connotazioni di genere dei canoni di bellezza, stratificati nella nostra cultura e funzionali al desiderio maschile: fino a quando sono giovani, belle, formose, fertili vengono considerate prestanti e utili; ma quando l’età avanza, arrivano la menopausa e le rughe, il corpo subisce degli sbalzi ormonali, ecco che la donna viene considerata non funzionale ad un sistema che – nutrendosi di maschilismo interiorizzato – rincorre il desiderio maschile. In una società consumistica, come la nostra, che ti obbliga ad inseguire questo flusso senza fine, le persone si sentono spinte ad inseguire il mito dell’eterna giovinezza, per essere utili, e dell’eterna bellezza, per essere prestanti e desiderabili. È la desacralizzazione dei corpi, come la chiamava Gandhi: il proprio corpo non è più un’entità che unisce spirito e fisico, un mezzo per esprimere i propri principi e per influenzare gli altri, o uno strumento di lotta politica e di resistenza, ma bensì un’immagine tra le altre che spesso viene trasformata plasticamente per compiacere qualcosa di esterno, in funzione degli altri, per trovare una falsa accettazione di Sé nella tendenza perversa di questa società post-moderna o ipermoderna. Nel marzo 2025, parlando del suo libro Il corpo gioia di Dio (Gabrielli editori) , in una interessantissima intervista di Ritanna Armeni per L’Osservatore Romano contenuta nell’ inserto Donne Chiesa Mondo, Teresa Forcades affermava: “Nella nostra cultura tardo capitalistica esiste lo sfruttamento e la mercificazione del corpo. Ragazze sempre più giovani (e anche ragazzi) vengono sessualizzati e sottoposti a standard di bellezza irrealistici e in costante mutamento.  L’età di chi si ammala di anoressia si è abbassata e la percentuale dei casi è aumentata. La chirurgia estetica è diventata comune e viene applicata alle parti più intime del corpo. C’è tanto da criticare nella nostra cultura per quanto riguarda il modo in cui tratta il corpo. (…) È l’ineludibile e irrisolvibile contraddizione del patriarcato: le donne sono viste come oggetto di desiderio (sono pure, ispirano, curano, guariscono) e al tempo stesso come inferiori (son malvage, bisognose di guida e di controllo, inaffidabili). È impossibile essere entrambe le cose. Il corpo delle donne deve essere “perfetto” secondo standard di bellezza sempre più irrealistici e deve essere controllato attraverso la violenza psicologica e fisica.” Spesso, attraverso i canoni di bellezza imposti dal mercato, dalla pubblicità e dalle illusorie manie di perfezione, assistiamo a una prepotente medicalizzazione dei corpi attraverso i più vari rami della chirurgia estetica che, in quanto frutto dei canoni propri delle società patriarcali, si trovano ad avere una forte connotazione di genere che vede nelle donne il bersaglio principale, il consumatore da conquistare fino ad arrivare a interventi chirurgici come la labioplastica, l’intervento di chirurgia estetica che consiste nel taglio delle piccole labbra della vulva per renderle uguali. È così che la medicalizzazione del corpo femminile diventa il braccio armato del nuovo capitalismo cognitivo fondato su omologazione, perfezione, competizione per l’immagine e il conformismo. Questa mentalità maniacale per la perfezione sta mettendo in serio pericolo anni e anni di conquiste femministe, oltre che la cultura della cura e dell’allattamento nelle giovani ragazze e madri. Purtroppo oggi, l’esterofilia americana dei “corpi perfetti” ha fatto dell’allattamento non più una conquista in nome dei diritti delle donne, dei bambini e della salute di entrambi, ma bensì un qualcosa di “obsoleto”, sostituibile con le nuove tecnologie e con i latti artificiali. Negli USA il seno è oggetto primariamente sessuale, a causa dell’uso distorto e sessualizzato che ne fanno l’industria cinematografica, l’industria pornografica e la pubblicità televisiva, intrise di eterosessismo. Spesso ciò porta le donne a non ricorrere all’allattamento naturale proprio per rincorrere i canoni di bellezza introiettati dalla società patriarcale secondo cui i loro corpi devono essere belli, perfetti, proporzionati ma soprattutto sessualizzati come nelle sfilate di moda e nella pubblicità. L’arrivo di un bambino e delle sue necessità vengono visti come un fenomeno di degradazione del seno: visione influenzata anche dall’atteggiamento dei partner che disincentivano le donne all’allattamento per motivi puramente estetici. La donna che allatta deve negoziare continuamente fra un ruolo sessuale e un ruolo materno, generando tensione, stress, difficoltà e ostacolo all’allattamento. Questo, a lungo andare porta culturalmente all’abbandono dell’allattamento, alla perdita della cultura della cura e a trovare la soluzione più semplice: il ricorso ai latti artificiali che fanno gola all’industria. Sicuramente la televisione, la pubblicità, l’industria cinematografica, il capitalismo cognitivo[1] hanno influito molto – dagli anni del riflusso in poi – a consolidare questi canoni tossici e un ricorso sempre più massivo alla chirurgia estetica. Attrici di successo, donne dello spettacolo, cantanti, showgirl, modelle, pornostar, ballerine, veline sono state rispettivamente – su modello di Hollywood – le prime a ricorrere alla chirurgia estetica con modificazioni sostanziali del viso, degli zigomi, delle labbra, delle gambe, dei glutei, del seno anche con mastoplastica additiva, dando inizio ad un effetto domino che oggi sembra inarrestabile soprattutto tra le giovani generazioni di ragazze. Ed ecco la dilagante moda della liposuzione per non parlare del filler in bellissime ragazze giovanissime, delle “labbra a canotto”, del botox, dei precocissimi “nasi da fata” in adolescenti e della ormai decennale guerra alle rughe inaugurata con botulino, acido ialuronico e lifting. Un’epidemia di non-accettazione e alienazione tra le donne, che non riescono ad essere loro stesse a causa delle forti pressioni delle convenzioni sociali, di mercato, e dei canoni tossici di bellezza. «Lasciami tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una. Le ho pagate tutte care. C’ho messo una vita a farmele!» –  è la celebre frase che la grande attrice Anna Magnani disse al suo truccatore parecchi anni fa, quasi ad ironizzare sulla moda dilagante di fermare il tempo, partendo dal trucco fino ad arrivare a ritocchini o interventi chirurgici. Il concetto di bellezza è associato, nell’immaginario comune, alla giovane età e a una pelle liscia, elastica e luminosa, ma anche il viso di una persona matura esprime bellezza disarmante: la pelle e le rughe sanno raccontare la nostra storia e la nostra evoluzione, che passa attraverso esperienze diverse, disagi, gioie, dolori, lotte quotidiane e successi. Credo che nessuno possa smentire il fascino della cicatrice sul viso di Paola Turci. Come non definire tutto questo, bellezza? Anna Magnani più di mezzo secolo fa parlava di bodypositive quando ancora nessuno ne conosceva il significato. Un’estetica, la sua, basata sulla trasformazione dell’unicità in punto di forza, meravigliosamente descritta dalle sue stesse parole: «Ce metti una vita intera per piacerti, e poi, arrivi alla fine e te rendi conto che te piaci. Che te piaci perché sei tu, e perché per piacerti c’hai messo na vita intera: la tua. Ce metti una vita intera per accorgerti che a chi dovevi piacè, sei piaciuta… E a chi no, mejo così. Ce metti na vita per contà i difetti e riderce sopra, perché so belli, perché so i tuoi. Perché senza tutti quei difetti, e chi saresti? Nessuno. Quante volte me sò guardata allo specchio e me so vista brutta, terrificante. Co sto nasone, co sti zigomi e tutto il resto. E quando la gente me diceva pe strada “bella Annì! Anvedi quanto sei bona!” io nun capivo e tra me e me pensavo “bella de che?”. Eppure, dopo tanti anni li ho capiti. C’ho messo na vita intera per piacermi. E adesso, quando me sento dì “bella Annì, quanto sei bona!”, ce rido sopra come na matta e lo dico forte, senza vergognarmi, ad alta voce “Anvedi a sto cecato!”». Sulla stessa lunghezza d’onda la grandissima attrice statunitense Jamie Lee Curtis, 67 anni, vincitrice del premio alla miglior attrice non protagonista per Everything Everywhere All at Once, che in una recente intervista a The Guardian ha dichiarato: «mi sto auto-pensionando da 30 anni. Mi sto preparando a uscire di scena, in modo da non dover soffrire come ha fatto la mia famiglia. Voglio lasciare la festa prima di non essere più invitata». L’attrice ha avuto infatti la sua serie di ostacoli da affrontare sulla strada verso la fama fin dal suo esordio nel 1978 in Halloween, ma il colpo più duro è arrivato dall’ageismo di Hollywood quando ha assistito al declino della carriera dei suoi celebri genitori, gli attori Tony Curtis e Janet Leigh, in tarda età, a causa del fatto che Hollywood dà valore alla giovinezza sopra ogni altra cosa. «Ho visto i miei genitori perdere proprio ciò che ha dato loro fama, vita e sostentamento, quando a una certa età il settore li ha rifiutati» – dice Curtis a The Guardian – «Li ho visti raggiungere un successo incredibile per poi vederlo lentamente svanire fino a scomparire. E questo è molto doloroso». Proprio per questo Curtis non è disposta a rimanere in gioco ricorrendo alla chirurgia estetica. La star ha applaudito pubblicamente la famosa decisione di Pamela Anderson di ridurre il trucco nel 2023, proclamando via Instagram che «La rivoluzione della bellezza naturale è ufficialmente iniziata!». Curtis afferma di «credere che abbiamo cancellato una o due generazioni di aspetto umano naturale. L’idea che si possa alterare il proprio aspetto attraverso sostanze chimiche, interventi chirurgici, filler, sta sfigurando generazioni di persone, soprattutto donne». Com’è noto, la star ha accettato orgogliosamente i suoi capelli grigi e si è fatta fotografare senza indumenti intimi modellanti o ritocchi, due mosse che hanno aiutato le donne a capire che gli ideali da red carpet sono irraggiungibili come obiettivi quotidiani. La consapevolezza e la sicurezza di sé espressa, purtroppo non rispecchia quella delle nuove generazioni che –  dopo aver cavalcato per un breve periodo l’onda del bodypositive – sembrano oggi non riuscire a sfondare il muro delle convenzioni, scendendo a compromessi ed aderendo passivamente a canoni vecchi per paura di non essere accettati e di precludersi a varie possibilità anche lavorative e di carriera. Ciò che mi domando è se veramente c’è consapevolezza di quello che significa sfigurarsi il volto per opportunismo, o perché il mercato lo richiede, o perché il settore lavorativo lo richiede, o perché la convenzione sociale lo richiede, o perché il partner lo richiede, o perché la paura di invecchiare lo richiede, o perché le manie di perfezione lo richiedono. La domanda che sorge è: se non ci fossero tutte queste richieste esterne, voi come vi vorreste? Vi vorreste come siete o vorreste mostrare ciò che non siete? Mi domando cosa direbbe il grande filosofo Emmanuel Levinas difronte all’attuale modificazione sistematica del “volto”: lui che sul “volto”, inteso come “nudità dell’anima”, ha fondato tutta la sua teoria dell’etica della società. L’essere umano, come lo chiamavano i greci, è sia θάνατον (mortale), ma anche πρόσωπον, il “volto che ho di fronte”: l’essere umano che in relazione con gli esseri umani si riconosce tale. Per Levinas è nel volto che abbiamo di fronte che è racchiuso il segreto supremo della vita e che mai riusciremo ad afferrare per intero. Mi domando dunque oggi quale impatto possa avere la modificazione del viso. Quanto è difficile “il faccia a faccia con l’altro”, in un mondo che presenta non più “volti”, ma “maschere” (altro significato negativo di πρόσωπον) ricostruite omologate, sformate e trapiantate in un corpo. La domanda è chi abbiamo di fronte? Cosa nascondono queste maschere? Quale immensa fragilità e vulnerabilità abbiamo di fronte? Quale enorme smarrimento, confusione e perdita del Sé abbiamo di fronte in un mondo nichilistico che punta a somigliare al viso piallato di un avatar digitale piuttosto che ambire, come direbbero gli indù, alla condizione di avatara[2] reale? La paura della vecchiaia e il voler essere ciò che non si è, aspirando a modelli esterni, è una caratteristica assolutamente occidentale che l’occidentalizzazione ha diffuso nel mondo. Come direbbe Benasayag, “la nostra è la prima società che non sa cosa farsene del negativo. Le società ‘non moderne’, non occidentali, incorporano il negativo (inteso in senso generale, cioè la morte, la malattia, la tristezza, in una parola: la perdita) in modo organico, come qualcosa che fa parte del tutto.” In Occidente reprimiamo il “negativo” perchè lo definiamo tale e non lo concepiamo come parte integrante dei meccanismi di autoregolazione del mondo e della vita. Ecco dunque che ci fa paura la vecchiaia e il fatto di non essere considerati in base a fattori esterni esattamente come abbiamo paura della morte perché non accettiamo la caducità della vita. Concepiamo cristianamente e scientificamente il tempo come una linea retta infinita, un presente eterno, vivendo come se alcune cose non debbano mai cambiare, non debbano mai finire, per scombussolare la nostra comfort-zone mentale. “L’uomo, nella sua ricerca di gioia e di felicità, fugge dal proprio Essere, dal proprio Sè, che è la vera fonte di ogni gioia. Si considera molto brutto e noioso perché non è in grado di stabilire un rapporto intimo col proprio Essere. L’uomo cerca la gioia nel denaro, nelle proprietà materiali, nel potere, nell’amore egoista ed infine nella religione, che ugualmente lo attira al di fuori di se. Il problema è: che cosa si deve fare per interiorizzare la propria attenzione? Questo Essere interiore che è la nostra consapevolezza è energia.” – disse Shri Mataji Nirmala Devi in un suo celebre discorso sul Sahaja Yoga. La medicalizzazione del corpo, il nostro cambiamento fenomenologico, la chirurgia estetica, il rincorrere i modelli di perfezioni irreali e irraggiungibili, la repressione della vecchiaia e la cancellazione del volto nascono dall’alienazione e dalla non-accettazione di Sè perchè non siamo consapevoli della cosa più naturale di tutte: la caducità della vita. Siamo “volti”; siamo chi siamo; siamo autentici e non copie; siamo coloro che si guardano in faccia e si vedono per quello che sono; siamo il dettaglio che ci contraddistingue. Spesso ci comportiamo da “maschere” per nasconderci, ma non lasciamo che un parte del “negativo” ci totalizzi. Non siamo “maschere” perchè per ogni cosa che facciamo “ci mettiamo la faccia”.   Altre info: Lorenzo Poli, Guerra al latte materno: tra esterofilia, industria alimentare e medicalizzazione (pag 60) https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/04/lavoroesalute4aprile2023_lastlast.pdf Francesca Rigotti, De senectute, Giulio Einaudi Editore, 2018 Maria Rita Parsi, Noi siamo bellissimi. Elogio della vecchiaia adolescente, Mondadori novembre 2023 Paolo Mantegazza, Elogio della vecchiaia, Angelo Pontecorboli Editore, luglio 2017   [1] Il capitalismo cognitivo è un concetto che descrive un’evoluzione del capitalismo in cui la produzione di conoscenza e le capacità cognitive diventano elementi centrali per la creazione di valore e l’accumulazione di capitale. In questo contesto, il lavoro non è più limitato alle attività manuali o industriali, ma si estende alla sfera cognitiva, includendo la produzione di idee, informazioni, e competenze. [2] Nell’induismo, un avatara (in sanscrito) è la discesa di una divinità, in particolare Vishnu o Shiva, sulla Terra in forma fisica, per ristabilire l’ordine cosmico (dharma) e aiutare l’umanità. Gli avatara sono considerati manifestazioni divine che appaiono quando il male minaccia di prevalere sul bene. Lorenzo Poli
Noi migranti non siamo vittime, ma uomini dalla schiena dritta
SFIDE. Diario di un viaggio dal Ciad alla Sicilia di Abdelkadir Hissen Abdallah Alhilbawi, appena uscito per i tipi di Multimage, è il racconto del travagliato cammino intrapreso da un quattordicenne dal Ciad attraverso la Libia fino in Italia, percorso durato sette anni, a causa dei tentativi ripetutamente falliti di varcare il Mediterraneo e della necessità di racimolare ogni volta di nuovo i soldi per pagare i trafficanti, subendo prigionia e torture, lavorando anche in Tunisia e Marocco, ma incontrando pure persone generose e stringendo amicizie durature. Abdelkadir AlHilbawi ha oggi 23 anni e vive a Palermo, dove studia e lavora. La sua narrazione rivela una profonda capacità di introspezione ed un’autentica spiritualità. Non è suo intento svolgere un’accurata analisi politica dei problemi dell’Africa quanto piuttosto esprimere la sua sincera fede religiosa che lo ha indotto all’empatia e alla condivisione in tutti i suoi incontri, lo ha illuminato e sostenuto nei momenti di sconforto e che traspare nella sua visione del mondo e dei rapporti fra i generi. Lasciamo che sia lui a confidarci le motivazioni della sua scelta di scrivere. > Non ho scritto questo libro per amore della scrittura o per cercare la fama, > né il mio scopo era vantarmi o ostentare. Ci sono invece motivazioni più > profonde e gravi, ragioni che mi hanno imposto di intraprendere questa > difficile esperienza, con tutto il dolore che la rievocazione dei ricordi > porta con sé. > > La prima di queste ragioni nasce dalle domande ricorrenti degli europei: chi > sei? Da dove vieni? Come sei arrivato qui? Queste domande possono sembrare > semplici, ma in realtà sollecitano un dolore difficile da esprimere, come > fossero chiavi che aprono le porte di un passato pieno di sofferenza e lotte. > È difficile per chi ha vissuto esperienze dolorose essere costretto a > rievocarle, come se il sanguinamento delle ferite non fosse stato già > abbastanza. > > Non si può immaginare il peso che un migrante porta sulle spalle, né la sua > angoscia nel rispondere a interrogativi che per lui banali non sono. Non tutte > le anime sono in grado di raccontare il dolore passato senza riviverlo. Io > sono stato uno di quelli che hanno sofferto molto e l’ho capito chiaramente il > giorno in cui mi sono presentato in tribunale per richiedere i documenti di > protezione internazionale. Quel colloquio mi è sembrato un processo alla mia > anima, come se fossi accusato di un crimine che non avevo commesso e il mio > destino fosse nelle mani di persone che non sapevano nulla degli incubi delle > mie lunghe notti. La notte prima dell’udienza è stata la più lunga della mia > vita, come se aspettassi una condanna a morte o all’ergastolo. > > La seconda ragione è l’enorme flusso di dicerie e menzogne che ho sentito > sulla Libia da quando sono arrivato in Europa. Tutti parlano della Libia come > se fosse un inferno assoluto, dimenticando che la verità non è mai > completamente nera. Sì, ci sono sofferenza, oppressione e sfide > indescrivibili, e io stesso sono stato vittima di tortura, umiliazione e > ingiustizia, ma ho anche incontrato persone che mi hanno aiutato nei momenti > più difficili. È ingiusto negare il bene e sarebbe un’ingiustizia dimenticarlo > anche nel mezzo del dolore. Ho imparato che il vero successo è affrontare le > sfide e rialzarsi dopo le cadute, non dare la colpa agli altri e attribuire > loro il peso delle nostre tragedie. > > La verità che molti non comprendono è che noi migranti non possiamo > permetterci il lusso di rimanere nel ruolo di vittime, ma dobbiamo trovare il > coraggio di imparare dalle esperienze, per quanto dure possano essere, a > camminare a testa alta e con la schiena dritta. Uno dei più grandi errori che > commettiamo è ridurre i nostri vissuti al solo lato negativo, mentre la vita è > piena di lezioni che aspettano di essere valorizzate e apprezzate. > > La terza ragione, la più dolorosa, sono quegli incubi che non mi abbandonano: > le voci dei carcerati nei centri di detenzione mi perseguitano come un’ombra > costante. Ho cercato più volte di fuggire da esse, ma mi ritrovavo sempre > prigioniero di quei ricordi, ogni notte. Scrivere è stato il mio unico > rifugio, l’unico modo per sfogare i dolori che non osavo confessare nemmeno a > me stesso. Ho provato la terapia psicologica, ma non riuscivo ad esprimermi, > le lacrime erano sempre più veloci delle parole. > > Scrivere non è stato affatto facile, ho dovuto fermarmi per lunghi periodi > quando mi trovavo davanti a passaggi carichi di dolore, a volte per una > settimana o più. Ma ho capito che esprimersi, per quanto doloroso, è meglio > del silenzio che uccide l’anima lentamente. Forse non sono riuscito a rendere > pienamente giustizia alla storia in tutti i suoi dettagli, ma ho fatto del mio > meglio. Tappa dopo tappa il ragazzo Abdel aveva tenuto sui quaderni racchiusi nel suo zaino il resoconto quotidiano delle sue avventure; giunto finalmente in Italia, l’uomo Abdel ha rimesso mano agli appunti, stesi in arabo, e aiutato dal traduttore automatico (e un poco da me) ha dato forma a questo libro, che è innanzi tutto un documento e una testimonianza impareggiabile, ma che risulta anche una lettura gradevole e variegata. Troverete descrizioni di antiche città africane e di paesaggi sconfinati nel deserto, pagine buffe dedicate a scaramucce sul lavoro o all’apprendimento dei più diversi mestieri, momenti di tenera convivialità (persino con qualche ricetta) e pause di meditazione e di preghiera, episodi avventurosi come gli attraversamenti notturni delle frontiere o gli scontri con le milizie, spazi di riflessione filosofica e rievocazioni commoventi come quella della morte della madre. Si avverte talvolta, a fianco di un’ironia sorridente, una eco musicale del salmodiare dei versetti coranici. Questa è l’opera prima di Abdel, ma altre sorprese sono nel cassetto. Il libro sarà presentato in anteprima a Palermo nel pomeriggio di mercoledì 6 agosto a Moltivolti, centro sociale e culturale multietnico (e ottimo ristorante!) di Ballarò. Daniela Musumeci
“Siate sovversivi: abbiate speranza”. Il messaggio di Nicolò Govoni ai 40mila di Piazza San Pietro
Ospite di due eventi a Roma per il Giubileo dei Giovani, il CEO di Still I Rise ha lanciato ai giovani un appello al cambiamento. “Sapete qual è la cosa più sovversiva, la più folle, la più strana che si possa fare al giorno d’oggi? Avere speranza”. Così Nicolò Govoni si è rivolto agli oltre 40mila ragazzi e ragazze accorsi da tutto il mondo in piazza San Pietro a Roma, per l’evento “Tu sei Pietro” all’interno della cornice del Giubileo dei Giovani. “La società che ci circonda è congegnata per generare insoddisfazione, così da farci bramare ciò che pensiamo ci manchi. Ci convincono del fatto che nulla possa mai cambiare davvero, e quindi perché provarci?”, ha sottolineato dal sagrato di piazza San Pietro, prima di raccontare la propria esperienza personale che da potenziale fallito lo ha portato invece a fondare l’organizzazione non profit Still I Rise. “In India, circondato da venti orfani, ormai dodici anni fa, ho scoperto la mia chiamata. Esserci. Essere in prima linea. Essere quello che ci prova, anche quando chiunque altro mollerebbe. Essere fiducioso che il mondo si possa cambiare davvero”, ha aggiunto, per poi arrivare al suo appello finale, accolto con grande entusiasmo dalla piazza. “Trovate qualcosa che vi riempia il cuore e dedicategli la vita. È così che capirete la cosa più importante: il supereroe che vi hanno insegnato ad aspettare, quello forte e bravo e capace abbastanza da risolvere i problemi del mondo, non arriverà mai. È già qui. Siate sovversivi: abbiate speranza.” Nicolò Govoni ha condiviso il palco con l’attore Giorgio Pasotti, don Antonio Loffredo, parroco del Rione Sanità, Laura Lucchin, madre di Sammy Basso, e con i cantanti Amara, Mr Rain, Pierdavide Carone e Mimì, accompagnati dall’Orchestra sinfonica del Conservatorio A. Casella de L’Aquila, diretta dal maestro Leonardo De Amicis. La giornata si è conclusa con un intenso momento di raccoglimento presieduto dal cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della CEI. L’incontro in piazza San Pietro è stato il secondo a cui il CEO di Still I Rise ha partecipato durante la giornata: in mattinata è stato tra i relatori dell’evento “Verso l’altro: Coscienza, Senso, Scoperta” organizzato dal Servizio nazionale per la pastorale delle persone con disabilità presso la Basilica San Giovanni Battista dei Fiorentini. Still I Rise
Il suono della vergogna: le campane per Gaza contro l’indifferenza
Ieri sera ho cenato in collina con un gruppo di amici. Eravamo lontani dalla città, lontani da Gaza, lontani da tutto. Eppure, all’ora stabilita, le campane hanno cominciato a suonare sotto di noi, dal fondo del paese. Un suono spettrale, risalito dalla valle come un’eco cupa. Non annunciava festa, ma sembrava evocare spari, bombardamenti, il suono sordo della guerra. “Suoniamo anche noi”, ho detto. E ci siamo adoperati con quello che avevamo: mani, bicchieri, cucchiai, voce, disperazione compresa. Un gesto goffo, ingenuo forse, ma necessario. Pochi minuti di rumore che non hanno aiutato nessuno, ma che ci hanno fatto sentire meno complici. Poi è tornato il silenzio. Le campane si sono spente. Un grido che si era fatto forte è morto lentamente, lasciando spazio alla notte. E ai bombardamenti veri. A morte nuova, su un dolore antico. Abbiamo continuato la nostra cena, tra i sensi di colpa e una certa allegria. Perché la vita va avanti, anche mentre altrove finisce. Questo contrasto è forse la cosa più difficile da accettare: sapere, e non poter fare abbastanza. E allora ci chiediamo, mi chiedo: qual è il senso di questo rumore?  A Gaza, in queste ore, si continua a morire. L’UNICEF parla di migliaia di bambini uccisi, le Nazioni Unite denunciano una catastrofe umanitaria senza precedenti. Gli ospedali sono al collasso, interi quartieri rasi al suolo. Dopo l’attacco del 7 ottobre, la risposta militare israeliana ha scatenato una violenza devastante sulla popolazione civile. La Striscia è ormai una prigione a cielo aperto. Le comunicazioni sono intermittenti, gli aiuti umanitari ostacolati, le condizioni igienico-sanitarie allo stremo. E mentre i riflettori si spengono, la tragedia continua. E qui, in Italia, ci affidiamo a un gesto simbolico: il suono delle campane. Non è abbastanza. Ma può essere un inizio. Un richiamo. Un modo per dire che non tutto il mondo è indifferente. In tutta Italia, ieri, su iniziativa di Pax Christi, le campane hanno suonato per Gaza. Non per retorica, ma per coscienza. A Roma, Firenze, Napoli, Bologna, piccoli campanili e grandi cattedrali hanno fatto risuonare insieme il dolore e la speranza. L’iniziativa ha unito diocesi, parrocchie, centri di spiritualità, associazioni laiche e singoli cittadini in un gesto tanto silenzioso quanto potente. “Ogni vita è sacra, ogni guerra è una sconfitta”, diceva spesso Papa Francesco. Parole che oggi risuonano più che mai attuali. Ma questa frase non dovrebbe restare confinata a un’omelia. Dovrebbe diventare bussola per chi governa. Allora forse quel rumore serve, se ci costringe a non voltare lo sguardo. Se riesce a spingerci a fare qualcosa in più: a informarci, a donare, a scendere in piazza, a scrivere, a testimoniare, a curare, ad accogliere. Serve se riesce a tenerci svegli, vigili, presenti. Servire a restare umani davanti all’orrore. Quel rumore, ieri sera, ha sussurrato anche un’esigenza profonda: quella di un governo capace di fare di più. Un governo che ascolti la volontà dei cittadini, che prenda posizione con chiarezza, che non si rifugia nella diplomazia dell’ambiguità. Vorremmo sapere con forza da che parte si sta. Non accettiamo più una politica nebulosa mentre sotto le bombe muoiono civili, bambini, giornalisti, medici. Anche una campana può prendere le distanze dall’indifferenza del potere. Perché la solidarietà, da sola, non ferma le bombe. Ma il silenzio, quello sì, le lascia cadere senza resistenza. Lucia Montanaro
Il vescovo Derio: suoniamo le campane per dire basta alla tragedia di Gaza
Il vescovo di Pinerolo Derio Olivero ha deciso di aderire all’iniziativa promossa da Pax Christi per chiedere di interrompere il conflitto a Gaza, chiedendo alle chiese della Diocesi di suonare le campane alle 22 di domenica 27 luglio 2025. A comunicare la decisione del vescovo, il Vicario Generale, Massimo Lovera, che ha emesso questo comunicato: “A nome di mons. Derio Olivero, vescovo di Pinerolo, vi invito a far suonare le campane domenica 27 luglio alle ore 22 come segno di solidarietà e per non rimanere muti di fronte alla tragedia della guerra a Gaza, dove continuano a morire per fame e sotto le bombe numerose vittime innocenti. Come Chiesa locale di Pinerolo non possiamo rimanere inerti di fronte a questo dramma disumano, che è “una follia e una sconfitta” per tutta l’umanità. Continuiamo, inoltre, in ogni celebrazione eucaristica a pregare per il dono della pace e perché cessi la guerra a Gaza, in Ucraina e in tutto il mondo”. don Massimo Lovera, Vicario generale Redazione Italia
Viaggio attraverso quattro cerimonie commemorative nelle Pagode della Pace di Comiso, Londra, Milton Keynes e Vienna
PREGHIERE EREDITATE PER LA PACE: LE COMUNITÀ NIPPONZAN MYÔHÔJI RADICATE NELLA CRISTIANITÀ. Il 21 giugno è stata solennemente condotta la grande cerimonia commemorativa del 40° anniversario della Pagoda della Pace di Londra, seguita dalla cerimonia del 45° anniversario della Pagoda della Pace di Milton Keynes il 22. Dopo un intervallo di una settimana, la cerimonia del 42° anniversario della Pagoda della Pace di Vienna si è tenuta il 29, e infine, la cerimonia del 27° anniversario della Pagoda della Pace di Comiso ha avuto luogo la prima domenica di luglio, il 6. Qui alcune foto delle cerimonie: The poster of the 27th anniversary ceremony of Comiso Peace Pagoda The Cultural Program at Milton Keynes Peace Pagoda . The scattered flower petals dancing down from Vienna Peace Pagoda. Turi Vaccaro performing the flute at the 27th anniversay ceremony of Comiso Peace Pagoda. Florishing at the Vienna ceremony Chanting at the sunrise at the Comiso Peace Pagoda La grande cerimonia commemorativa del 40° anniversario della Pagoda della Pace di Londra ha attirato monaci e monache distinti da tutto il mondo. È stata condotta in condizioni meteorologiche ideali, con nuvole sottili che fornivano ombra naturale dal sole ardente. Londra quest’anno è stata benedetta da un clima insolitamente mite, tanto che non abbiamo avuto bisogno delle giacche che avevamo portato. Il prato intorno alla Pagoda della Pace nel Battersea Park era pieno di persone che si godevano il sole, creando una scena pacifica. Il giorno della cerimonia, il cielo sembrava rispondere alle nostre preghiere coprendoci con nuvole sottili che servivano come protezione solare naturale. Quella mattina, la marcia interreligiosa per la pace guidata da Bhikkhu Kamoshita, che era partita da Trafalgar Square verso la Pagoda della Pace, arrivò come previsto senza essere esposta alla luce solare intensa. SINCRONIA SACRA ATTRAVERSO TRE SETTIMANE Il ritmo delle cerimonie attraverso varie località europee in tre settimane procedeva vivacemente come il battito dei tamburi Nipponzan. Quando la cerimonia di Comiso si concluse, sembrava che le tre settimane fossero passate in un istante. Il giorno della cerimonia della Pagoda della Pace di Comiso, mentre decoravamo l’altare, offrivamo fiori al sancta sanctorum e alzavamo lo stendardo del daimoku sulle ringhiere della Pagoda, accadde qualcosa di misterioso: la scena di Londra di due settimane prima si sovrappose vividamente davanti ai nostri occhi. La solennità del momento quando la marcia interreligiosa per la pace arrivò e lo stendardo viola del daimoku fu installato sulle ringhiere sembrava essere risorta a Comiso, trascendendo tempo e spazio. Sperimentammo un senso inspiegabile di unità, come se la stessa cerimonia fosse stata ripetutamente condotta in luoghi diversi. COOPERAZIONE INTERRELIGIOSA A MILTON KEYNES La Pagoda della Pace di Milton Keynes è a circa 200 metri di distanza se cammini dritto dal tempio, ma poiché devi attraversare una piccola collina, l’altare viene assemblato davanti al tempio, caricato su un carrello, e trasportato con un camion lungo una strada asfaltata che gira intorno. La mattina della cerimonia, i devoti Sai Baba locali che portarono il camion caricarono abilmente l’altare e lo scaricarono davanti alla Pagoda della Pace, allineandolo attentamente per farlo guardare in avanti. Poi passarono al trasporto delle 200 sedie pieghevoli dal deposito dietro il tempio. Mentre i bhikkhu e le bhikkhuni stavano decorando l’altare e la piattaforma della cerimonia, finirono di disporre le 200 sedie attraverso il trasporto navetta e partirono prontamente. DALLA CERIMONIA ALLA SERENITÀ A VIENNA La Pagoda della Pace di Vienna si erge direttamente davanti al tempio, ma le sedie sono conservate in soffitta, rendendo la loro rimozione e conservazione laboriosa. La pulizia comporta lo smantellamento e l’organizzazione dei pali delle bandiere rosse e bianche e della piattaforma della cerimonia, rendendo questo un compito pomeridiano che richiede tempo. Quest’anno, giovani uomini locali che occasionalmente partecipavano ai servizi mattutini e serali gareggiarono per salire in soffitta e organizzare le sedie che venivano passate su. Inoltre, i sostenitori locali che rimasero fino alla fine del programma culturale aiutarono a portare i materiali di legno smantellati sul retro del tempio. Quelli non adatti per il lavoro pesante raccolsero i petali di fiori sparsi che avevano danzato giù dalla Pagoda della Pace, e in quello che sembrava un istante, la Pagoda della Pace bianca tornò al suo aspetto abituale di stare tranquillamente vicino al Danubio, come se la grande cerimonia non avesse mai avuto luogo. COMISO: DOVE VIVE LA STORIA Attraverso queste cerimonie in varie località europee, sentiamo come passato e presente siano profondamente connessi. Particolarmente alla cerimonia di Comiso di quest’anno, potevamo sentire che le preghiere per la pace che iniziarono oltre 40 anni fa continuano a essere tramandate attraverso le generazioni. La Pagoda della Pace di Comiso, che può essere magnificamente vista dai finestrini degli aerei in cima a una collina quando si atterra all’aeroporto di Comiso, ha una storia profonda scolpita in questa terra. L’aeroporto di Comiso fu costruito durante la Seconda Guerra Mondiale dal regime fascista d’Italia e usato come base per bombardieri delle forze dell’Asse contro gli Alleati. Dopo la guerra, fu usato come aeroporto commerciale dall’Alitalia, ma durante la Guerra Fredda nel 1981, fu designato dalla NATO come la più grande base europea di missili balistici a raggio intermedio nucleari. Nel 1982, furono installati 112 moderni missili da crociera lanciati da terra BGM-109G (derivati terrestri del Tomahawk SLCM), e l’Aeronautica degli Stati Uniti fu dispiegata nel 1983. Ogni missile aveva molte volte il potere distruttivo delle bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki, con una gittata che includeva Mosca—queste erano le armi più avanzate dell’epoca. Si diceva che i 112 missili della base di Comiso potevano trasformare tutta l’Europa in una terra bruciata. SEMI DI PACE NELL’OMBRA NUCLEARE In mezzo a questa tensione militare, iniziarono gli sforzi per la pace di Bhikkhu Morishita. Dopo il Raduno per la Pace di Un Milione di New York nel giugno 1982, Bhikkhu Morishita, insieme a Bhikkhuni Maruta e alla signora Nara (una donna inglese che era bhikkhuni all’epoca), condusse un pellegrinaggio a piedi attraverso l’Italia e la Sicilia, formando amicizie con attivisti per la pace locali. Nel 1983, rispondendo a una richiesta di Alberto L’Abate, professore di resistenza nonviolenta all’Università di Firenze e figura centrale nel movimento anti-base missilistica di Comiso, entrarono a Comiso. Bhikkhu Morishita iniziò ad accamparsi su terreno pianeggiante accanto all’ingresso della base, conducendo meditazione di preghiera seduta e pratica di strada, mentre continuava a viaggiare dalla Sicilia a conferenze internazionali inclusi vertici di nazioni avanzate in tutta Italia per le preghiere per l’abolizione della base di Comiso. Riferiscono che viaggiava sempre in autostop. Alla marcia antinucleare di Roma di 500.000 persone quello stesso anno, guidò la processione battendo tamburi proprio in prima fila, diventando una figura simbolica del movimento anti-base di Comiso. Poi nel 1985, quando il proprietario terriero della fattoria davanti alla base donò terra per il movimento di opposizione, fu stabilito il campo per la pace: Verde Vigna. Bhikkhu Morishita costruì uno stupa di pietra all’interno dei terreni e iniziò a vivere insieme ad altri attivisti. Da qui, fu stabilita la fondazione per attività di pace radicate nella comunità che continua fino ad oggi. PONTI VIVENTI: PASSATO E PRESENTE UNITI A questa cerimonia 40 anni dopo, abbiamo assistito in prima persona all’eredità di questa storia. Le preghiere per la pace stanno per essere ereditate da nuove generazioni. Il comitato della Pagoda della Pace di Comiso stava conducendo un congresso di quattro giorni chiamato “Forme di Nonviolenza Creativa” in congiunzione con la cerimonia di Comiso. Turi Vaccaro stava disponendo sedie per il luogo del congresso insieme ad Alfonso Navarra, un compagno dell’era fondatrice di Verde Vigna. Insieme ad attivisti per la pace recentemente uniti, stavano trasmettendo queste presentazioni sui diritti dell’obiezione di coscienza nel caso in cui il servizio militare fosse reintrodotto in Italia e l’importanza dei movimenti di disarmo guidati dai cittadini attraverso radio locale e internet. Gli sforzi per la pace che iniziarono con la resistenza ai missili nucleari stanno essendo ereditati in nuove forme che affrontano questioni contemporanee. BODHISATTVA EMERGENTI DALLA TERRA IN AZIONE Tali scene furono ripetutamente osservate. Che si trattasse di riordinare i legnami della piattaforma a Vienna o smantellare le strutture parasole a Comiso, numerosi compiti che in alcuni anni si estendevano al giorno dopo le cerimonie furono completati in un istante attraverso la cooperazione di molte persone, indipendentemente dall’età o dal sesso, come se guidati da mani invisibili. Era come se bodhisattva emergenti dalla terra apparissero al momento giusto, prestando generosamente il loro potere compassionevole. Guardando indietro a tutti questi eventi, tutto sembra avere un significato oltre la mera coincidenza. Questo potrebbe essere prova che il potere misterioso della natura del Dharma ha unito le cerimonie commemorative delle Pagode della Pace in tutta Europa, facendo risuonare le preghiere per la pace nei cuori delle persone attraverso tempo e spazio. Queste preghiere ereditate per la pace continueranno nel futuro. Nel 2028, la Pagoda della Pace di Vienna raggiungerà il suo 45° anniversario e la Pagoda della Pace di Comiso il suo 30° anniversario, segnando nuove pietre miliari con aspettative per un’ulteriore espansione delle connessioni del dharma. SAGGEZZA PER IL FLUSSO CORRENTE Bhikkhu Masunaga diede il seguente prezioso insegnamento durante il servizio serale il giorno prima della cerimonia di Comiso: “Nipponzan non dovrebbe parlare di ‘il mio tempio’ o ‘il tempio di qualcun altro.’ Essere Nipponzan significa dare tutto noi stessi per aiutare con le cerimonie a cui ci è permesso partecipare. Facendo così, ogni singolo bhikkhu e bhikkhuni di Nipponzan appare non come rocce separate ma come acqua in un flusso corrente, muovendosi verso un unico scopo. Il canto del daimoku di ognuno di noi, che gradualmente divenne potentemente unificato in risposta durante i servizi mattutini e serali condotti attraverso le località europee in tre settimane iniziando con i preparativi per la cerimonia commemorativa del 40° anniversario della Pagoda della Pace di Londra, sono fiducioso sia un segno auspicioso per futuri servizi buddisti di Nipponzan.” di Mitsutake Ikeda -------------------------------------------------------------------------------- L’autore:  Mitsutake Ikeda ha conseguito una laurea triennale in Studi internazionali e regionali presso l’Università della California, Berkeley nel 2007, e un Master of Arts in Studi di traduzione presso l’Università di Coimbra nel 2017. È membro collaboratore dell’Unidade de Investigação & Desenvolvimento “Instituto de Estudos Filosóficos” (IEF) e dottorando in Filosofia presso l’Università di Coimbra. Pressenza IPA
L’Europa si adagia in un sonno profondo
L’Europa si adagia in un sonno profondo e gli appelli di un Leone serafico e vacanziero escono da un castello romano e si librano in volo con la forza celeste di un cessate il fuoco-amico che consola la Palestina coventrizzata come terra cristiana e dannata. L’Europa si adagia in un sonno profondo e le richieste di tregua si sprecano nell’Ucraina occupata e difesa dalle armi patriot-tiche attese da un popolo che in buona fede crede nella ricostruzione pre-matura avviata tra le bombe. L’Europa si adagia in un sonno profondo e le spese pubbliche vengono s-caricate nella sicurezza delle armi contro nemici costruiti nei laboratori di pace e nella democrazia che si lascia catturare da una maggioranza risicata e va alla deriva… senza approdi. L’Europa si adagia in un sonno profondo e le preghiere laiche vengono recitate e internate nei rapporti di produzione e di lavoro che trattano le ferite con oratorie danzanti prodotte e rivolte al dio-capitale veterano di tante guerre di pace e di tante case penali ri-abilitate alla malvivenza. Pino Dicevi
L’importanza della comunità nel dedicarsi alle categorie più fragili: Monsignor Baturi alla “Spiaggia Inclusiva” dell’associazione Domu Mia
Ieri mattina, 21 luglio 2025, l’associazione Domu Mia – Amici di Sant’Egidio di Muravera, che si occupa di solidarietà sociale a vari livelli (disabili, anziani, persone fragili) nei diversi comuni del Sarrabus Gerrei, ha ricevuto la visita dell’Arcivescovo di Cagliari Monsignor Giuseppe Baturi presso la piattaforma della “Spiaggia Inclusiva” sita in località San Giovanni. La comunità ha accolto calorosamente l’Arcivescovo, che si è fatto vicino a questa realtà dedicando alcune ore della mattinata. «L’incontro in spiaggia, avvenuto ad un mese dalla riapertura della piattaforma – ha affermato Carla Sirigu di Domu Mia – è stato un dialogo animato con le persone della comunità del Sarrabus Gerrei sui temi dell’inclusione, della solidarietà, della rete e del volontariato. Monsignor Giuseppe Baturi incontra la comunità (Foto Domu Mia) Mons. Baturi ha ricordato l’importanza della comunità nel dedicarsi alle categorie più fragili, con uno sguardo all’accessibilità di ognuno alla bellezza della Natura, come il mare, luogo di benessere psicofisico, ma anche spirituale. È seguita la benedizione dello spazio di comunità e dei presenti, con una preghiera collettiva di speranza e pace. L’appuntamento di ieri non è stato un momento sporadico, ma è parte di una conversazione costante con la Diocesi di Cagliari sul tema dell’inclusione, di cui Domu Mia ne tratta aspetti e sfumature differenti in tutte le sue attività annuali». Presenti all’incontro le istituzioni locali del Sarrabus Gerrei, che l’Associazione ringrazia per la partecipazione e la vicinanza: la vicesindaca di Muravera, Cristiana Sogliano; il sindaco e la vicesindaca di San Vito, Marco Siddi e Graziella Congiu; per Villasalto, Gianpiero Lecis, assessore ai lavori pubblici; il Maggiore Massimo Meloni, comandante Compagnia Carabinieri di San Vito. L’inclusione passa attraverso il dialogo: la comunità rivolge un grazie speciale a Monsignor Giuseppe Baturi per la disponibilità e la gentilezza. Un ringraziamento dovuto anche ai volontari che hanno curato ogni aspetto dell’evento, dalla cucina all’allestimento, alla pulizia degli spazi, al trasporto delle persone con disabilità. Domu Mia “Spiaggia Inclusiva” vi aspetta tutti i giorni per passare ore piacevoli all’insegna della solidarietà. Pierpaolo Loi
Si è svolta la 3a Assemblea del Forum Umanista Mondiale: Immaginare e costruire la Nazione Umana Universale
Con la partecipazione online di attivisti e membri di organizzazioni provenienti da 55 Paesi, si è svolta sabato 19 luglio la terza assemblea del Forum Umanista Mondiale. Dopo l’introduzione di Rose Neema dal Kenya e Remigio Chilaule dal Mozambico, Julius Valdimarsson ha officiato la cerimonia di apertura, invitando i partecipanti a immaginare un futuro umanizzato per le società e le azioni necessarie per avanzare verso questo cambiamento radicale nel mondo. Tra i passaggi più significativi, l’umanista islandese proponeva di visualizzare mentalmente “persone di tutto il mondo che si riuniscono per scambiarsi i loro sentimenti, i loro dolori, le loro delusioni, le loro speranze, i loro desideri, per una vita felice senza angosce, incomprensioni e sofferenze, per se stessi e per coloro a cui tengono”. Ha anche suggerito ai partecipanti di immaginarsi “come, con questa organizzazione umana, con questa rete umana di intenzioni reciproche, le persone saranno facilmente in grado di prendere in mano il loro destino, la loro situazione”. “Immagino come la gente prenderà facilmente il potere, senza violenza o catastrofi… Immagino come le persone apriranno un nuovo cammino, una nuova storia, molto diversa da quella dell’umanità finora… Immagino la nascita di un vero essere umano…”, ha aggiunto. Prima dell’invito a partecipare a un minuto di silenzio, ha concluso la commovente cerimonia dicendo: “Immagino un numero crescente di società, città, paesi, villaggi, quartieri e strade in cui le persone riescono a cambiare la struttura del potere e ad aprire il futuro… Immagino una Nazione Umana Universale… Immagino un nuovo futuro… Immagino le persone… Immagino un mondo luminoso, trasformato e umano… Porto questo messaggio a tutte le persone a cui tengo, a tutte le persone che conosco e a tutte le persone che non conosco, ma che conoscerò, e a tutti gli altri…”. Si sono poi aperte le sessioni di 16 tavoli di lavoro tematici, due dei quali hanno iniziato i loro lavori in questa Assemblea. Nella presentazione del Tavolo dello Sviluppo Personale, il suo coordinatore Antonio Carvallo ha sottolineato che, mentre “gli esseri umani sono bravi a comprendere gradualmente i segreti e le complessità del mondo esterno e ad adattarsi ad esso, il paradosso è che il mondo dell’anima, dello spirito, della sofferenza e della gioia, il mondo psicologico è in molti modi nascosto alla percezione umana. Di conseguenza, siamo ignoranti e limitati nella nostra risposta a quel regno dell’esistenza, dove ha origine la maggior parte della nostra sofferenza e, quindi, della nostra violenza, prima che si riversa nel mondo esterno”. L’attivista di origine cilena, che ha accompagnato la crescita del Movimento Umanista al fianco del suo fondatore Silo fin dagli inizi, negli anni ’60, ha spiegato che “gli studi proposti ci permettono di acquisire una nuova prospettiva su noi stessi, una nuova comprensione e, quindi, la possibilità di ”scoprire” e superare importanti difficoltà nella vita quotidiana. Lavorare sul nostro autosviluppo e aiutare gli altri a fare lo stesso dà nuovo significato, energia e potere alla nostra vita”. Da parte sua, l’avvocato indiano Meyyappan Easwaramoorthi ha affrontato un tema di importanza cruciale nell’introdurre il tavolo di lavoro sul Genocidio. La definizione del termine Genocidio dovrebbe essere ampliata“, ha detto, ”per riconoscere anche l’uccisione di una singola persona solo perché appartiene a una certa razza etnica, parla una certa lingua o segue un certo percorso, poiché il Genocidio mira a cancellare un certo gruppo di persone dalla faccia della terra e dovrebbe essere trattato come la madre di tutti i crimini per facilitare l’identificazione, la dichiarazione e la punizione di qualsiasi atto di genocidio commesso da qualsiasi entità nel più ampio interesse dell’umanità”. Come imperativo per evitare gli attuali genocidi come quello di Gaza e prevenire future tragedie simili, l’attivista del Partito Umanista dell’India ha esortato a “discutere e decidere con convinzione di fare tutto ciò che è in nostro potere per definire, identificare e, soprattutto, FERMARE il genocidio!”, suscitando un sentito assenso collettivo dell’Assemblea. Al termine dei lavori dei tavoli di lavoro, i loro rispettivi coordinatori hanno riferito alla plenaria sulle ricerche, le produzioni e le azioni da intraprendere su ciascun tema nell’immediato futuro. Tra le tante iniziative in corso, sono state citate lo scambio di esperienze educative tra diversi Paesi e la creazione di meccanismi di allerta per la violenza di genere, oltre al lavoro di prevenzione con le comunità di tutto il mondo. Nel campo della Pace e del Disarmo, la priorità è consolidare una cultura di pace, a partire da ogni ambiente personale e collettivo, affermando la Coerenza personale e la Regola d’oro universale, che consiste nel dare agli altri il trattamento che vogliamo ricevere. Il tavolo Ecologia sociale, Economia e Cambiamento Climatico si concentrerà sull’ampliamento della propria rete, collegandosi con diversi gruppi e organizzando dibattiti per chiarire e approfondire il proprio ambito. L’identificazione dei diversi problemi di salute in ogni regione geografica e la formulazione di proposte complete per il loro superamento saranno il compito principale del Tavolo della Salute. La pubblicazione di materiale con un approccio umanista all’economia, così come il sostegno e il monitoraggio dei possibili effetti dimostrativi nell’attuazione del Reddito di Base Universale, sono al centro dell’azione congiunta dei rispettivi tavoli tematici. Parallelamente, il Tavolo sui Diritti Umani continuerà a lavorare sull’ampliamento umanista della propria concezione dei diritti umani, nel tentativo non solo di ottenere definizioni rinnovate, ma anche di denunciare le loro flagranti violazioni e di sostenere tutti gli sforzi in loro difesa. Il Tavolo Nazione Umana Universale / Assemblea Mondiale dei Cittadini ha avviato una consultazione su possibili nuovi sistemi collettivi di decisione e riorganizzazione politica, proponendo la progressiva formazione di un’Assemblea Mondiale dei Cittadini, proposta da portare alle Nazioni Unite. In relazione ai vari fenomeni che si stanno sviluppando nel campo delle rivoluzioni psicosociali in diverse parti del mondo, l’omonimo tavolo tematico continuerà a studiare e diffondere queste esperienze, cercando di rivelarne le concomitanze spirituali. In modo analogo, il tavolo di lavoro sulla decolonizzazione accompagnerà il potente impulso che oggi porta interi popoli a chiedere giustamente la fine di ogni forma di saccheggio, ad esigere risarcimenti, una vera autodeterminazione e una crescente equità nello sviluppo, lasciandosi alle spalle mentalità che favoriscono la continuazione del colonialismo all’interno delle società. L’Assemblea ha assistito alla presentazione dell’importante lavoro svolto in Kenya con bambini, giovani e anziani dai promotori del Tavolo dello sport e delle arti per la pace e lo sviluppo. Allo stesso modo, dalla Colombia e dal Messico, i portavoce del Tavolo “La pace nella storia e la storia della pace”, insieme alla partecipazione a diversi eventi, hanno annunciato l’apertura di una radio online permanente sul tema. Proseguirà l’attività di ricerca, seminari e divulgazione pubblica del tavolo di lavoro  “Atteggiamenti e momenti umanisti nelle diverse culture”, che ha già sviluppato un programma di divulgazione molto intenso. Tra le altre proposte emerse dall’Assemblea, spicca quella di promuovere un minuto di silenzio quotidiano in tutto il mondo per collegarsi al compito imperativo di umanizzare la Terra. Il gruppo sul Genocidio ha proposto il progetto di generare molteplici attività in solidarietà con la popolazione palestinese sotto attacco e l’articolazione con movimenti simili per premere per la fine dell’omicidio di massa e della pulizia etnica in corso. In questo contesto citiamo la seguente riflessione di Mahadia Dalal Elfranji, artista palestinese attualmente rifugiata nelle Filippine, che ha partecipato all’Assemblea: > “Come educatrice palestinese-filippina, artista e sostenitrice della pace, > questo dibattito non è stato astratto per me. Ha toccato il cuore della mia > identità e del mio lavoro. Porto con me il peso della perdita, ma anche > l’impegno per la speranza e la giustizia. Nell’insegnamento, nella pittura e > nell’organizzazione, ho sempre creduto che la guarigione e la resistenza siano > intrecciate. Questo tavolo ha riaffermato la mia convinzione. Mi ha ricordato > che la riflessione collettiva non è un lusso, ma un atto di resistenza in sé. > > Ho visto nei miei compagni di gruppo una comprensione comune: la solidarietà > deve essere di principio, non performativa. Non possiamo permetterci di > aspettare. Il forum ha il potere di plasmare le narrazioni globali e di > influenzare l’azione. Dobbiamo essere coraggiosi nei nostri impegni e chiari > nelle nostre richieste. > > Vorrei anche esprimere il mio profondo ringraziamento agli organizzatori > indiani, che hanno dimostrato una solidarietà incrollabile, compassione e > chiarezza morale. La loro presenza e il loro costante sostegno ci hanno > ricordato che la Palestina non è sola, che le persone di coscienza di tutto il > Sud globale sono unite in questa lotta. L’empatia e il coraggio che hanno > portato in questo spazio riflettono l’essenza stessa di ciò che significa > essere costruttori di pace radicati nella giustizia. > > La richiesta più semplice e urgente rimane: fermare il genocidio. Tutto il > resto è un’impalcatura verso questo obiettivo. Il nostro dibattito non si è > concluso con le parole; ha lasciato a ciascuno di noi un mandato. Possiamo > portarlo avanti con integrità, coraggio e amore incrollabile per coloro che > resistono con le loro vite e per coloro che amplificano il loro grido di > giustizia”. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dallo spagnolo di Thomas Schmid Javier Tolcachier
Sui muri della vergogna
Sui muri della vergogna globalizzata s’infrangono i diritti e i doveri e nella Gaza rasa al suolo le bombe intelligenti non fanno sconti e cadono sulle file lunghe per l’acqua e sulle chiese per le ragioni in-comprese di uno Stato-padrone. Sui muri della vergogna globalizzata c’è la cieca ostinazione della miseria umana che accetta le suppliche scon-giurate e mormorate dai mal-viventi contro il grande predicatore capo della pace americana e della guerra giusta… im-parziale. Sui muri della vergogna globalizzata serpeggia il regime del sovranismo assoluto che sorveglia e punisce il dissenso degli studenti con le neo-riforme gentiliane de-cadute nell’istruzione e nel merito e la gente comune rimane stordita e attende speranzosa l’alba della vita. Sui muri della vergogna globalizzata regna il silenzio di origine borghese e le lotte di classe non riescono a squarciare il terrore iperbolico di una pace mortale dove gli oppressi sperano di essere salvati con i cuori tra-piantati nelle macerie.   Pino Dicevi