«Non esistono Paesi sicuri per chi fugge dalla tortura»

Progetto Melting Pot Europa - Thursday, August 7, 2025

In occasione della Giornata Mondiale contro la tortura, celebrata ogni anno il 26 giugno, la Rete di Supporto per le Persone Sopravvissute a Tortura (ReSST) ha presentato il suo primo report annuale. Si tratta di un documento frutto del lavoro congiunto di enti pubblici, associazioni, ONG e specialisti attivi in prima linea nell’accoglienza e nella cura di chi ha subito torture e trattamenti inumani, spesso nel contesto di un percorso migratorio forzato.

La ReSST è nata nel dicembre 2024 dalla collaborazione tra Caritas, Ciac – Centro immigrazione asilo e cooperazione internazionale, Kasbah, Medici Contro la Tortura (MCT), Medici Senza Frontiere (MSF), Medici per i Diritti Umani (MEDU), NAGA e il SaMiFo dell’ASL Roma 1, un servizio di salute specializzato per migranti forzati. A queste realtà si affiancano, in qualità di osservatori, A Buon Diritto, Amnesty International Italia, Antigone, la SIMM – Società Italiana di Medicina delle Migrazioni – e un comitato scientifico composto da esperti riconosciuti a livello nazionale e internazionale.

L’obiettivo dichiarato della rete è duplice: da un lato «informare e sensibilizzare sull’esperienza della tortura e sulle sue conseguenze durature», dall’altro «rafforzare la qualità dei servizi di cura, riabilitazione e tutela per le persone sopravvissute». Un lavoro che – si legge nel report – deve tenere conto della complessità dei percorsi individuali, del trauma multiplo vissuto da chi fugge, e soprattutto della violenza sistemica che spesso accompagna la migrazione.

I dati raccolti nel 2024 parlano chiaro. Su 2.618 persone accolte e prese in carico dai centri della rete, la maggioranza è di sesso maschile (62,7%), ma ciò che colpisce è l’ubicazione geografica della tortura: il 64,6% delle violenze non è avvenuto nel Paese di origine, bensì lungo le rotte migratorie di transito. Solo il 35,4% dei casi, dunque, si riferisce a eventi subiti nel luogo da cui la persona è fuggita.

Questa evidenza, secondo ReSST, mette in discussione una delle principali giustificazioni utilizzate dalle autorità italiane ed europee per negare l’accoglienza o il diritto d’asilo: l’esistenza di cosiddetti “Paesi sicuri”. «Le nostre evidenze dimostrano – scrive la rete – che il concetto di sicurezza non può essere ricondotto a una valutazione statica e geopolitica. Una persona può essere torturata o gravemente maltrattata anche in Paesi formalmente “sicuri”, soprattutto se si trova in condizioni di vulnerabilità, senza protezione o diritti riconosciuti».

Il legame tra tortura e migrazione appare tanto forte quanto rimosso dal dibattito pubblico. La tortura è una pratica vietata dal diritto internazionale in ogni circostanza, ma è ancora largamente diffusa: oltre 140 Paesi nel mondo la praticano, direttamente o attraverso la tolleranza di forme gravi di maltrattamento, in particolare verso migranti, oppositori politici, minoranze etniche, donne e persone LGBTQIA+.

I motivi che spingono le persone alla fuga – e spesso a subire torture – sono principalmente economici (51%), seguiti da motivazioni politiche (24%) e religiose (7%). Questo dato conferma che la povertà estrema, la marginalizzazione e la disuguaglianza possono essere, di fatto, condizioni di persecuzione e violenza sistemica. Le forme di tortura documentate sono quasi equamente distribuite tra fisiche (43%) e psichiche (44%), con una responsabilità attribuita ai trafficanti (33%) ma anche a pubblici ufficiali (28%) e, in misura minore, a datori di lavoro (3%).

Il report mette in luce anche l’enorme lavoro clinico, psicologico e sociale svolto dai centri della rete. Nel 2024 sono stati erogati oltre 14.000 servizi sanitari. Le prestazioni più richieste sono le consulenze psicologiche individuali (43%) e le visite di medicina generale (34,2%). Evidente il dato relativo al supporto sociale, richiesto nel 77% dei casi: segno che il percorso di cura non può prescindere da un accompagnamento generale, che tenga conto della condizione legale, abitativa e lavorativa della persona.

Come sottolineano gli esperti, non si tratta soltanto di guarire le ferite, ma di «ricostruire fiducia, dignità e possibilità di vita», partendo da un ascolto attento e non giudicante. In questo senso, la ReSST chiede anche un impegno più forte delle istituzioni italiane per garantire il diritto alla salute e alla protezione internazionale, evitando prassi amministrative e narrative politiche che tendono a semplificare o negare le sofferenze vissute lungo le rotte migratorie.

«Dietro ogni storia di tortura – si legge nel comunicato – c’è un corpo, una mente, una storia che ci interroga. Ma c’è anche un sistema che sceglie spesso di non vedere». Per questo, conclude la rete, «non si può continuare a stabilire chi ha diritto alla protezione sulla base di liste arbitrarie di Paesi sicuri. La protezione deve partire dall’ascolto, dalla valutazione individuale e dalla consapevolezza che la tortura, oggi, è ancora una realtà concreta e vicina».

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