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Uffici immigrazione – Direttiva per uniformare le procedure amministrative ed operative delle articolazioni territoriali
La circolare affronta in maniera organica il tema del funzionamento degli Uffici Immigrazione delle Questure, con l’obiettivo esplicito di uniformare le prassi amministrative e operative a livello nazionale. Fin dalle prime pagine si comprende che il Ministero intende intervenire su un sistema che presenta criticità diffuse, sia nella gestione ordinaria dei permessi di soggiorno sia nelle attività più delicate legate ai rimpatri, ai trattenimenti nei luoghi idonei e alla protezione internazionale. La Direzione Centrale sottolinea che negli ultimi anni il carico di lavoro è cresciuto in modo significativo, ma il problema non risiede soltanto nella quantità delle pratiche: ciò che emerge è un quadro caratterizzato da difformità territoriali, mancanza di coordinamento, ritardi consolidati e un utilizzo non efficiente delle risorse disponibili. La circolare richiama più volte l’esigenza di riportare ordine e coerenza nella gestione delle procedure. Per questo dedica ampio spazio all’organizzazione interna degli uffici, alla formazione del personale, alla programmazione degli orari di apertura e alla corretta pianificazione delle agende. In particolare, si richiama l’attenzione sul fatto che le prassi adottate in molte Questure – come la limitazione degli appuntamenti, la richiesta sistematica del passaporto per i respingimenti, l’inefficienza nelle fasi di fotosegnalamento o nella trasmissione dei dati – contribuiscono ad aggravare ritardi già rilevanti, compromettendo l’efficacia complessiva dell’azione amministrativa. Una parte importante del documento riguarda il rilascio e rinnovo dei permessi di soggiorno, settore nel quale la Direzione riconosce esplicitamente la presenza di ritardi frequenti e di una gestione irregolare delle tempistiche. Nel segmento dedicato alla protezione internazionale, la circolare insiste sulla necessità di garantire modalità di accesso effettive e organizzate, evitando prassi restrittive che riducono gli spazi di presentazione delle domande e generano immobilismo amministrativo. Nel complesso, la circolare è un richiamo forte alla responsabilità e alla riorganizzazione degli uffici territoriali. Pur riconoscendo le difficoltà oggettive, il Ministero chiede un cambio di passo, orientato alla razionalizzazione, alla trasparenza, alla continuità del servizio e alla capacità di gestire con professionalità e coerenza un settore altamente sensibile. Ne emerge il quadro di un’amministrazione consapevole delle proprie disfunzioni che richiede di introdurre azioni volte a correggerle attraverso una maggiore uniformità, un più rigoroso monitoraggio e una collaborazione più stretta tra centro e periferia.  Circolare del Ministero dell’Interno del 12 settembre 2024
Illegittima l’espulsione della cittadina albanese che ha rinunciato alla richiesta di asilo: è mancata la valutazione del caso
Il caso di una cittadina albanese che aveva chiesto la protezione internazionale ed a seguito di rinuncia veniva espulsa con divieto di rientro per la durata di 5 anni. La decisione del Tribunale risulta molto importante perché le amministrazioni, ogni volta che lo straniero rinuncia alla richiesta di protezione emettono il decreto di espulsione con accompagnamento alla frontiera senza che ci sia una valutazione del caso per caso ritenendo detto provvedimento un atto dovuto. IL CASO DI SPECIE Nel mese di febbraio del corrente anno una coppia di coniugi, cittadini albanesi, presentavano presso la Questura di Bari istanza di protezione internazionale e consegnavano il passaporto. In seguito veniva rilasciato a loro il modello C3. Pochi giorni dopo, il padre della cittadina albanese, per motivi di sangue, veniva trovato morto sparato e la notizia del crimine efferato raggiungeva la figlia in Italia solo grazie agli organi di stampa e della tv. Ella si presentava alla Questura di Bari – Ufficio Immigrazione chiedeva di essere autorizzata a recarsi in Albania alla casa del padre perché lo doveva identificare in quanto la Procura della Repubblica D’Albania – aveva aperto un procedimento penale e stava svolgendo indagini sull’omicidio commesso a danno del padre. Forniva alla amministrazione il giustificato motivo ossia tutti gli atti della procura albanese e poneva in visione ciò che era stato pubblicato dai media in merito all’omicidio. Il Prefetto di Bari e la Questura di Bari emettevano il provvedimento di espulsione con ordine di lasciare il territorio e divieto di reingresso. La cittadina albanese tornava in Albania e forniva il biglietto, l’imbarco, il timbro di uscita dal t.n. al fine di ottenere la revoca del divieto d’ingresso ma l’amministrazione non riteneva di adottare alcun provvedimento. Decideva quindi di rivolgersi al Giudice di Pace di Bari dove allegava tutti gli atti relativi al delitto commesso ai danni del padre, per giustificare il rientro in Albania, e forniva tutti gli altri elementi relativi ai legami familiari nel t.n. Il Giudice di Pace di Bari dopo una accurata istruttoria accoglieva il ricorso come segue: “Rilevare che, la sig.ra (…), con ricorso iscritto a ruolo l’08.04.2025 si opponeva al decreto di espulsione, (…), emesso dal Prefetto della Provincia di Bari il 25.02.2025 e notificato in pari data nonché all’ordine di lasciare il t.n. nel termine di 7 giorni, (…), emesso in data 25.02.2025 e notificato in pari data dal Questore della Provincia di Bari, oltre ad ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale chiedendone l’annullamento previa sospensiva esponendo: a) In data 19.02.2025 la ricorrente, unitamente al coniuge (…), presentava istanza di protezione internazionale e consegnava il passaporto e le veniva rilasciato il modello c3; b) In data 24.02.2025 il padre della ricorrente, per motivi di sangue, viene trovato morto sparato con arma da fuoco e della notizia del crimine efferato raggiunge la figlia qui in Italia solo grazie agli organi di stampa e della tv si allegano alcuni giornali on line che riportano la notizia; c) In data 25.02.2025 la ricorrente si presentava alla Questura di Bari – Ufficio Immigrazione in preda al panico e chiedeva di essere autorizzata a recarsi in Albania alla casa del padre perché lo doveva identificare in quanto la Procura della Repubblica D’Albania – sede di (…) aveva aperto un procedimento penale (…) del 24.02.2024 e sta svolgendo indagini sull’omicidio del padre a seguito dell’omicidio; d) In data 25.02.2025 il Prefetto di Bari e la Questura di Bari adottava il provvedimento di espulsione con ordine di lasciare il territorio; e) In data 25.02.2025 la ricorrente tornava in Albania con un volo Bari – Milano – Tirana come da copia del biglietto, del timbro di uscita dal t.n., del certificato personale di nascita da dove si evince il legame di parentela; Considerati i motivi a fondamento del ricorso: a) Violazione e falsa applicazione dell’art. 13 comma 2-ter D.Lgs. 287/98.Violazione della Direttiva Direttiva 2008/115/CE atteso che,art. 13 comma 2-ter, introdotto dalla L. 129/2011, il quale prevede che: “L’espulsione non è disposta, né eseguita coattivamente qualora il provvedimento sia stato già adottato, nei confronti dello straniero identificato in uscita dal territorio nazionale durante i controlli di polizia alle frontiere esterne”. Nel caso de quo la procedura che è stata adottata è esattamente difforme a quella prevista e disciplinata dall’art. 13, comma 2-ter TUIMM, trattandosi di un particolare favor riconosciuto allo straniero che, sebbene irregolare, abbia deciso spontaneamente di lasciare il territorio, ciò evita, dapprima, che nei suoi confronti sia adottato un provvedimento di espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica con divieto di reingresso, e per lo Stato che viene lasciato, la possibilità di un risparmio delle risorse pubbliche per il suo rimpatrio; b) rilevanza dei legami familiari: Violazione art. 13, comma 2 bis TUIMM; Violazione dell’art. 8 Cedu atteso che, vive con il coniuge e dimora con lui in Santeramo in Colle (come da copia della comunicazione di ospitalità per entrambi). Il coniuge è richiedente protezione internazionale come la ricorrente ed in data 19.02.2025 ad egli veniva rilasciato il modello C3. Il Prefetto di Bari ha adottato il decreto di espulsione in violazione dell’art. 13 comma 2 bis, così come interpretato dalla recente giurisprudenza di legittimità. Tenuto conto della produzione documentale quale prova di ogni circostanza a fondamento del ricorso ed in particolar modo alle ragioni che hanno indotto la ricorrente che, seppur nello stato di richiedente protezione internazionale la inducevano a lasciare il territorio nazionale dovendosi recare in Albania per procedere all’identificazione del padre assassinato, elemento da cui consegue profilo di illegittimità del provvedimento impugnato; Accoglie il ricorso e, per l’effetto, annulla il provvedimento di espulsione adottato dal Prefetto della Provincia di Bari…”. Giudice di Pace di Bari, sentenza n. 1307 del 9 ottobre 2025 Si ringrazia l’Avv. Uljana Gazidede per la segnalazione e il commento.
Il trattenimento in frontiera in una continua mutazione giuridica
Il 15 dicembre 2025 dalle 9.30 alle 16.30, presso Cre.Zi. Plus a Palermo, le associazioni ASGI, CLEDU e Spazi Circolari organizzano una giornata di formazione e confronto dedicata all’evoluzione del trattenimento in frontiera. La giornata offrirà una panoramica aggiornata sulle trasformazioni in corso nel sistema delle procedure di frontiera e delle misure di trattenimento, in un contesto segnato da sperimentazioni, frequenti interventi legislativi e dai prossimi cambiamenti legati alla riforma europea del diritto d’asilo. Il confronto attraverserà il caso dei centri in Albania, le prassi attualmente adottate negli hotspot siciliani, il ruolo del/della difensore/difensora e gli sviluppi giurisprudenziali, fino ai nodi costituzionali e ai limiti posti dal diritto UE a tutela della libertà personale. Nel corso della giornata si alterneranno interventi di esperti ed esperte del settore e momenti di discussione collettiva, con l’obiettivo di riflettere insieme sul ruolo del trattenimento e condividere strumenti di analisi, criticità emergenti e possibili scenari futuri utili a chi opera nella tutela dei diritti in frontiera. PROGRAMMA Moderano: Martina Ciardullo e Ginevra Maccarrone 09:30 – Il trattenimento in frontiera nei centri in Albania: resoconto storico-giuridico di una vicenda emblematica. Daniele Valeri e Riccardo Campochiaro 10:00 – La procedura di frontiera nelle ultime modifiche normative: i requisiti, le conseguenze e il ruolo del trattenimento. Giulia Crescini 10:25 – L’attuale applicazione delle procedure di frontiera e del trattenimento in frontiera in Sicilia. Laura Lo Verde e Elena Luda 10:50 – L’esercizio del diritto di difesa in frontiera e l’evoluzione giurisprudenziale in tema di procedure accelerate. Relatore: Salvatore Fachile 11:10 – Primo dibattito 11:50 – La finzione di non ingresso introdotta dal Dl 20/23 nella procedura di non ingresso: la funzione e i possibili scenari futuri. Iolanda Apostolico 12:15 – La riforma europea del diritto di asilo: il trattenimento sistemico nei nuovi Regolamenti Screening e Procedure e nella nuova Direttiva Accoglienza. Federica Remiddi 12:40 Secondo dibattito 13:00 – 14:00: Pausa pranzo Inizio lavori seconda sezione, moderano: Luce Bonzano e Martina Stefanile 14:15 – I limiti invalicabili alla libertà personale nei principi fondanti la Costituzione italiana e il diritto primario europeo. Loredana Leo e Mario Serio 15:00 – Terzo dibattito 16:00 – Conclusione dei lavori ISCRIZIONI La partecipazione è gratuita, con iscrizione tramite modulo online entro la data del 10 dicembre. L’evento si terrà presso il Cre.Zi. Plus in Via Paolo Gili, 4, 90138, Cantieri Culturali alla Zisa. La formazione è in fase di accreditamento presso il COA di Palermo. Per ulteriori informazioni: inlimine@asgi.it Clicca qui per l’iscrizione L’evento sarà trasmesso anche su YouTube.
Status di rifugiata alla richiedente nigeriana per la sussistenza degli indici tipici della tratta
La donna aveva già raccontato in sede di audizione avanti la competente Commissione territoriale di essere vittima tratta poiché rinchiusa, durante i mesi trascorsi in Libia, in una connection house e qui costretta alla prostituzione. Tuttavia, la Commissione non l’ha ritenuta credibile. Di diverso avviso invece il Tribunale secondo il quale: “(…) ritiene il Collegio di non condividere il giudizio della Commissione Territoriale, dal momento che le dichiarazioni della ricorrente, valutate alla luce dei principi di interpretazione elaborati dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria, in realtà confermano la sussistenza e il fondato rischio di atti persecutori, compresa la possibile ed anzi verosimile ricaduta nelle maglie dei trafficanti per le ragioni che si diranno. Non si condividono le contestazioni di genericità e scarsa verosimiglianza delle dichiarazioni della ricorrente, che invece appaiono precise e coerenti con le fonti istituzionali e con i criteri indicativi della tratta. Si sottolinea inoltre che le plurime dichiarazioni rese negli anni in diversi contesti e innanzi a diverse autorità non hanno mai fatto emergere contraddizioni o circostanze inverosimili, ma anzi sono state sempre coerenti e dettagliate. Va soltanto chiarito, a questo ultimo proposito, che nessuna perplessità può derivare dal fatto che la narrazione si sia arricchita progressivamente e non sia apparsa fin dall’inizio completa, determinando la necessità di due ulteriori audizioni. In presenza di vicende profondamente traumatiche, come quelle narrate dalla richiedente, è necessario adottare un approccio che tenga conto della condizione di vulnerabilità derivante dalle esperienze subite, senza pretendere una esposizione immediata, perfetta e lineare dei fatti.” Il Tribunale ha poi valutato la sussistenza degli indici tipici della tratta, e cioè: * la storia familiare; * la strategia di reclutamento; * la presenza di un rito magico cui la vittima si sente avvinta; * le fasi di pianificazione del viaggio; * lo sfruttamento nel Paese di transito o di destinazione; * la presenza di un debito da ripagare a mezzo di un lavoro illecito. Il conseguente accertamento della condizione di vulnerabilità della richiedente (il rientro in Nigeria la esporrebbe ad un elevato rischio di re-trafficking) ha quindi portato il Tribunale a ritenere la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiata ai sensi dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra e degli arti. 7 e 8 del D.Lgs 251/07. Tribunale di Milano, decreto del 29 settembre 2025 Si ringrazia l’Avv. Michele Pizzi per la segnalazione e il commento. -------------------------------------------------------------------------------- * Consulta altri provvedimenti relativi all’accoglimento di richieste di protezione da parte di cittadini/e della Nigeria * Contribuisci alla rubrica “Osservatorio Commissioni Territoriali” VEDI LE SENTENZE: * Status di rifugiato * Protezione sussidiaria * Permesso di soggiorno per protezione speciale
Cosenza e Crotone: prassi illegittime e diritti negati ai richiedenti asilo
Tempi d’attesa «biblici», dinieghi «copia e incolla», richieste arbitrarie di documenti, uffici inaccessibili persino agli avvocati. È il quadro che emerge dalle segnalazioni inviate il 14 novembre da una coalizione di oltre venti organizzazioni 1 – coordinate da ASGI Calabria – al Ministero dell’Interno, alla Prefettura e alla Questura di Cosenza, alla Commissione Nazionale Asilo e alla Commissione territoriale di Crotone. Lettere dettagliate che descrivono un sistema «cronico e in costante peggioramento», capace di negare diritti fondamentali ai richiedenti asilo e di gravare sul funzionamento della giustizia. L’iniziativa ha raccolto inoltre un’ampia adesione tra decine tra avvocati, operatori sociali, centri SAI. Nella lettera indirizzata alla Questura di Cosenza 2, le associazioni parlano di una situazione che «le persone sono costrette a subire da più di tre anni». L’Ufficio immigrazione «riceve quotidianamente un numero di persone molto inferiore al totale di quante vorrebbero accedervi», con la formazione di code interminabili e «persone costrette ad arrivare estremamente presto negli orari mattutini» per sperare di entrare. Le violazioni più gravi riguardano la fase iniziale della procedura di protezione internazionale. Le associazioni firmatarie denunciano l’«attuale sostanziale impossibilità di presentare domanda di protezione internazionale»: appuntamenti fissati per «marzo 2026», rinvii orali, settimane di tentativi a vuoto per accedere agli uffici. Tutto ciò lascia i richiedenti asilo «privi di un valido titolo di soggiorno», impossibilitati ad accedere a cure mediche, lavoro, alloggi e accoglienza, e potenzialmente esposti al rischio di espulsione. Non solo: l’amministrazione subordina la formalizzazione della domanda alla presentazione di documenti sull’ospitalità, richiesta non prevista dalla legge e in contraddizione con quanto la stessa Questura aveva dichiarato in un precedente accesso civico. Una prassi che il Tribunale di Catanzaro ha già più volte censurato, condannando l’Ufficio a provvedere entro 3–10 giorni. Le associazioni denunciano anche una totale incertezza sul rilascio e rinnovo dei permessi di soggiorno, con informazioni «contraddittorie» fornite oralmente e richieste di documentazione «non prevista da alcun disposto normativo». Le tempistiche superano «i previsti 60 giorni» e spesso perfino i 180 giorni massimi, arrivando «a svariati mesi, se non addirittura anni». Di particolare gravità, scrivono le organizzazioni, è il fatto che sia «sistematicamente impedito l’ingresso» agli avvocati e agli operatori legali che accompagnano i propri assistiti: una violazione palese del diritto di difesa all’interno di un ufficio «che è diretta espressione dell’amministrazione dello Stato sul territorio». Si segnalano inoltre «mancanza di mediatori» adeguati, rilascio ritardato dell’attestazione della domanda d’asilo, violazioni della legge 241/90 sul procedimento amministrativo e una serie di «comportamenti inurbani e aggressivi» da parte del personale di sportello. LA COMMISSIONE TERRITORIALE DI CROTONE: DINIEGHI STEREOTIPATI E TEMPI INTERMINABILI La seconda lettera, indirizzata alla Commissione territoriale di Crotone 3, descrive altrettante criticità. Viene riferito un «altissimo numero di provvedimenti di diniego» spesso formulati attraverso «mere formule di rito, dal contenuto stereotipato» e privi di qualunque ricerca COI (country of origin information). Questi rifiuti, si legge, vengono «nella grandissima maggioranza dei casi» ribaltati in Tribunale già in primo grado, con un aggravio inutile per la Sezione specializzata del Tribunale di Catanzaro. Allarmante anche quanto riferito su alcuni commissari di nuova nomina, che durante le audizioni avrebbero commentato: «tanto poi c’è il ricorso», mostrando «assoluta non consapevolezza del delicato ruolo ricoperto». I tempi di convocazione per le audizioni «arrivano anche a due anni dalla presentazione della domanda», mentre le decisioni possono richiedere 8-9 mesi. Ancora più critica la situazione dei pareri relativi alla protezione speciale: ritardi ingiustificati, pareri «nella stragrande maggioranza dei casi di senso negativo» e totale assenza della valutazione degli elementi previsti dalla legge. Nella lettera sono denunciate anche «ostilità verso la produzione documentale» da parte di legali e operatori durante le audizioni, trasferimenti immotivati di fascicoli ad altre Commissioni, e l’abbandono delle prassi virtuose di confronto con il territorio che in passato caratterizzavano l’ufficio. Le conseguenze, scrivono le associazioni, sono la «lesione dei diritti dei richiedenti asilo», l’aumento del contenzioso e un generale «svilimento» della procedura amministrativa. LE RICHIESTE DELLE ASSOCIAZIONI: VERIFICHE E MISURE CORRETTIVE Dinanzi a un quadro giudicato «cronico e strutturale», le organizzazioni firmatarie chiedono che le autorità competenti avviino «una verifica approfondita delle prassi contestate» e adottino misure urgenti per ristabilire legalità, trasparenza e il rispetto delle garanzie previste dalla legge italiana ed europea. Le associazioni si dichiarano inoltre disponibili a un incontro «con tutte le realtà operanti nel settore» per individuare soluzioni e ripristinare un dialogo con le istituzioni. 1. Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione – ASGI Associazione Don Vincenzo Matrangolo E.T.S. di Acquaformosa Agorà Kroton soc. coop. sociale onlus Ambulatorio medico “A. Grandinetti” e Auser Cosenza ArciRed Associazione Comunità Progetto Sud ETS Associazione Culturale “La Kasbah ETS” Carovane Migranti Centro Sai Cerchiara coop. soc. Medihospes Cidis Impresa sociale ETs CNCA Calabria Collettivo L’Altra Marea Equipe sociosanitaria-sopravvissuti a tortura Germinal APS La Base La Terra di Piero Lotta Senza Quartiere ODV Prendocasa Sabir Srl Sociale ETS Sportello legale “Stand-Up” Usb Cosenza Avvocati di strada di Cosenza. ↩︎ 2. Lettera indirizzata alla Questura di Cosenza ↩︎ 3. Segnalazione in merito all’attività della Commissione Territoriale di Crotone ↩︎
L’integrazione come pratica di esclusione
ELETTRA MARIA NICOLETTI 1 Il presente articolo è estratto da una ricerca svolta ai fini del conseguimento della laurea magistrale in Antropologia culturale ed etnologia e nasce da un periodo di volontariato svolto ad Atene, con un’associazione che si occupa di fornire supporto alle soggettività in movimento che approdano nella capitale greca. In particolare, si sviluppa una riflessione sul tema dell’integrazione utilizzando come punto di partenza le teorie proposte dal sociologo Willem Schinkel nell’articolo Against “immigrant integration”: for an end to neocolonial knowledge production (2018) e nel testo Imagined societies. A Critique of Immigrant Integration in Western Europe (2017). Sebbene le teorie dell’autore possano risultare fortemente radicali, offrono un punto di vista di critico sul tema dell’integrazione e possono essere adattate al contesto greco ed europeo in generale. L’articolo nasce da un progetto di più ampio che ha lo scopo di analizzare il tema della salute delle soggettività in movimento che approdano in Grecia, dimostrando come questa possa essere garantita non solo da interventi di carattere strettamente legati all’ambito medico. Durante il periodo di permanenza sul campo si sono sviluppate, insieme ai partecipanti alla ricerca, numerose riflessioni sul tema dell’integrazione in quanto argomento spesso utilizzato, tanto nel discorso pubblico politico, quanto nel senso comune, quando si parla di soggettività in movimento. Avviare un processo di decostruzione del concetto di integrazione costituisce un importante punto di partenza per sottolineare la necessità di politiche di accoglienza inclusive e rispettose della salute e del benessere delle soggettività in movimento. Parole chiave: integrazione, migrazione, inclusione, esclusione, società, individui, contesto sociale, accoglienza, diversità, relazione. Quando si parla di migrazione e accoglienza emerge frequentemente il tema dell’integrazione. Nelle scienze sociali l’integrazione rappresenta «il processo attraverso il quale gli individui diventano parte integrante di qualsiasi sistema sociale, aderendo in tutto in parte ai valori che ne definiscono l’ordine normativo» 2. Si sente spesso dire che le soggettività in movimento non vogliono integrarsi, sono cioè persone che si rifiuterebbero di essere parte di un qualche sistema sociale. Tuttavia, questa affermazione genera due quesiti: è possibile rifiutare di integrarsi? Infatti, se si è in possesso di un determinato status giuridico e si vive in un certo contesto si è comunque sottoposti a delle leggi, che non decadono nel momento in cui una persona rifiuta di seguirle. Il secondo quesito è: che tipo di costo ha l’integrazione che immaginiamo nel nostro senso comune per una persona migrante? Così concettualizzata, l’integrazione appare qualcosa che pone le soggettività migranti davanti a un ultimatum: rinunciare alla loro identità, alla loro storia per immergersi in una cultura nuova, che sembra essere concepita come gerarchicamente migliore. Questo perché, sempre seguendo il senso comune, chi migra ha deciso di lasciare il proprio paese d’origine ma se vi fosse rimasta non avrebbe dovuto sconvolgere la propria esistenza. Questo tipo di sguardo sui fenomeni migratori risulta molto diffuso, nonostante rimandi a una concezione miope dei motivi che possono portare un individuo a migrare, spesso legati a profonde cause storiche che influenzano le vicende personali. Inoltre, quando “noi” bianchi, europei emigriamo non siamo chiamati a rinunciare alla nostra identità, ci sentiamo in qualche modo liberi di non doverci integrare. Andando oltre lo sguardo che concepisce le culture altre unicamente come una versione meno evoluta della propria, la vera domanda da porsi, osservando i migranti che approdano in Grecia è: un migrante, indipendentemente dalla sua intenzione di voler rimanere o meno nel paese di approdo, in che tipo di sistema sociale è chiamato a integrarsi? Il richiedente asilo che arriva in Grecia affronta un lungo e tortuoso iter fatto di identificazioni, pratiche burocratiche e racconto dettagliato della propria storia di fuga, al termine del quale, se ha successo, ottiene lo status di rifugiato. Questo percorso ha delle tempistiche variabili e durante l’intero periodo il richiedente asilo vive all’interno di un campo di accoglienza sovraffollato, posto in un luogo isolato, condividendo con altre persone container insalubri e danneggiati, con pochissime possibilità di accedere all’assistenza medica se ne ha bisogno 3, con un solo pasto al giorno, quasi del tutto sprovvisto di trasporti per raggiungere le città vicine e senza un supporto linguistico per poter comunicare nel campo e al di fuori. Da numerose analisi risulta come continuano a scarseggiare l’accesso alla casa, al supporto medico e ai beni di prima necessità come cibo e vestiti, anche una volta ottenuti i documenti. Possiamo davvero chiedere alle soggettività in movimento di integrarsi a un sistema così profondamente disfunzionale? Viene imposta l’illusione che la rinuncia della propria identità sia l’inizio della costruzione di una nuova identità politica e sociale restituendo in cambio isolamento e abbandono. Per riflettere sul tema dell’integrazione risultano particolarmente interessanti le teorie proposte dal sociologo Willem Schinkel, secondo il quale la ricerca su migrazione e integrazione delle soggettività migranti in Europa occidentale avviene all’interno di un discorso pubblico “altamente tossico”. Sebbene lo studioso prenda come modello di riferimento i Paesi Bassi, le sue teorie sono in buona parte applicabili ad altre realtà europee e ai paesi di frontiera come la Grecia. Secondo il sociologo l’integrazione risulta problematica sia quando viene descritta come una modalità politica di inserimento dei migranti in una nuova società, sia quando viene utilizzata dalle scienze sociali come concetto per analizzare tali processi. Nelle scienze sociali, infatti, la società è concepita come un insieme coerente mentre l’integrazione costituisce l’adattamento di alcune parti (gli individui) a un tutto (la società). Questa concezione organicista concepisce in maniera dualistica la società e i suoi membri, ciò, secondo Schinkel ha l’effetto di individualizzare l’integrazione: non è più la proprietà di un generico tutto sociale ma la caratteristica di un singolo individuo. In questa problematica prospettiva, sono gli individui ad avere la possibilità di essere – o non essere – integrati in vari gradi. Questa rappresentazione deriva da una concezione neoliberale della società per cui la mancanza di integrazione viene attribuita ai migranti stessi. Secondo Schinkel risulta bizzarro considerare l’integrazione come la proprietà del singolo proprio perché il termine opposto, disintegrazione, non è applicabile ai membri di una società. Si può dire di un insieme che questo sia integrato o disintegrato, ma non si può considerare un individuo disintegrato, a meno che non lo si concepisca come un corpo che si disintegra dal punto di vista biologico. Per questo l’integrazione non può descrivere lo stato di un individuo, una sua scelta. Eppure non solo gli individui vengono considerati come non integrati, ma anche integrati in diversi gradi. L’idea di questa suddivisione serve per fornire una chiarezza concettuale al termine integrazione, che rimane privo di antitesi. L’argomentazione diviene maggiormente problematica quando le misurazioni individuali vengono estese a un intero gruppo. Quante volte siamo incappati in luoghi comuni secondo cui, ad esempio, i nigeriani, ovvero tutti i provenienti dalla Nigeria, sono meno in grado di integrarsi rispetto ad altri migranti? Per non parlare di come l’Islam o in generale una credenza religiosa differente rispetto a quella del paese di ospitante, viene concepita come motivo di impossibilità di integrazione. È forte la tendenza a suddividere i migranti in gruppi etnici o religiosi, per cui i congolesi, gli afghani, i somali, gli iraniani o i musulmani potrebbero avere diversi livelli di integrazione, in virtù della loro appartenenza etnica o del loro credo religioso. Così, secondo Schinkel l’integrazione appare come una forza individualizzante se la si considera come caratteristica del singolo e de-individualizzante quando si estende a interi gruppi sociali. Adottando questa prospettiva organicista si arriva a sostenere una linea di pensiero identitaria in cui l’etnia diviene un surrogato della razza e si trascurano le differenze. L’effetto di tutto ciò è che la diversità non è più una ricchezza costitutiva dell’universo sociale, ma una minaccia per esso. La differenza attribuita alle soggettività in movimento non è mai discussa in una dinamica relazionale, ma diviene un problema e una responsabilità di coloro che, si pensa, introducano queste differenze nella società, che sarebbe altrimenti un insieme immacolato, coerente e immutato. Nel caso della Grecia e anche di molti altri paesi europei la marcatura della differenza tra la popolazione ospitante e le soggettività in movimenti è resa evidente da una serie di politiche sicuritarie attuate dai governi. La narrazione costruita sul tema della migrazione contribuisce a costruire l’immagine del migrante come potenzialmente pericoloso, una minaccia. Quante volte abbiamo sentito parlare di migranti irregolari che approdano sulle “nostre” coste? Questo tipo di narrazione dall’effetto fortemente deumanizzante è un artificio retorico, anche facilmente smontabile, ma che tende a parlare alla pancia di cittadini spesso poco informati sul tema e già preoccupati per le condizioni economiche dei propri paesi. A smontare la narrazione sarebbe sufficiente parlare del fatto che è quasi del tutto impossibile raggiungere l’Europa in maniera regolare, vista la mancata possibilità di ottenere visti da moltissimi paesi da cui le persone migranti provengono e la mancanza di corridoi umanitari sicuri e legali. Inoltre, una volta raggiunti i paesi ospitanti sono evidenti le politiche di confinamento spaziale dei corpi delle soggettività migranti nei campi di accoglienza. Questi luoghi sono stati, negli anni, progressivamente allontanati dai centri abitati e spostati in zone sempre più remote e lontane dai centri cittadini e dalla maggior parte dei servizi, anche di base. Si tratta di strutture dotate di ultratecnologici (e ultracostosi) impianti per il controllo degli ingressi e degli spazi interni. Tuttavia, la presenza di queste attrezzature non contribuisce ad alleviare il clima di sofferenza e insicurezza che le persone sperimentano all’interno dei campi. La loro utilità sembra essere unicamente quella di creare una linea di demarcazione, una differenza tra coloro che vivono fuori, da quelli da quelli che vivono dentro. In poche parole, la pratica del confinamento è necessaria per la tutela dei cittadini dei paesi ospitanti, non tanto per chi abita quelle strutture. Proseguendo con il ragionamento di Schinkel, molto spesso anche le stesse critiche mosse al tema dell’integrazione sono fallimentari: esse non mettono mai in discussione la divisione netta e dualistica tra la società e i suoi membri, reiterando il dualismo inclusione/esclusione. Per Schinkel questa coppia di opposti è illusoria, perché feticizza la possibilità che una parte sia integrata nel tutto, assumendo automaticamente che sia possibile la sua esclusione. Inclusione ed esclusione rappresentano, in realtà, una differenziazione nell’accesso a varie forme di capitale, cioè il raggiungimento di differenti posizioni sociali. Esclusione e inclusione sono due modalità di relazione. Così, l’intera società diventa una cofiction: una forma di immaginazione sociale, la finzione di un insieme stabile in cui si convive. Questa cofiction esiste grazie a un lavoro di differenziazione, che serve a separare un presunto interno da un esterno, che permette di definire chi e che cosa fa parte – o meno – della società. Il fatto che la società sia vista come un corpo che deve funzionare in modo armonioso presuppone che la differenza, costituita dalle soggettività migranti, sia qualcosa che minaccia la stabilità dell’insieme sociale, invece di considerarla parte costitutiva di essa. Secondo Schinkel la società non è qualcosa di integro e stabile, ma un’entità relazionale in continuo cambiamento, formata da differenze e incontri tra persone. A dimostrazione una strategia retorica presente in Grecia e in altre realtà europee è quella di parlare di “crisi migratoria”. Questa modalità di costruzione del discorso pubblico-politico mobilità una modalità di gestione del fenomeno esclusivamente emergenziale e non strutturale, garantendo scarse tutele e risorse. Analizzare la problematicità del concetto di integrazione permette di sottolineare la necessità di superare l’idea di crisi, normalizzando i movimenti migratori e promuovendo politiche che favoriscano l’interazione tra tra migranti e popolazione locale. L’idea stessa di società concepita come un insieme idealizzato, a cui tutti devono aspirare, agisce rafforzando gerarchie sociali e divisioni di potere. La prospettiva di Schinkel offre una critica radicale al modo in cui le società occidentali immaginano se stesse, mostrando come i discorsi prodotti in questo ambito non siano mai neutrali. Si tratta di strumenti di potere che legittimano il controllo e la subordinazione di determinati gruppi sociali, come le soggettività migranti. In questo senso, parlando di integrazione ci si può stabilire un collegamento diretto con le politiche statali vigenti in materia di migrazione. Cosa accade, infatti, nel momento in cui gli individui vengono etichettati come non integrati? Si azzerano le responsabilità politiche presenti nella gestione del fenomeno e si rappresentano i migranti come soggetti intrinsecamente carenti. Nel processo di integrazione le soggettività in movimento sono continuamente spinte a dimostrare di meritare l’appartenenza sociale, attraverso gli iter burocratici. Le storie che i migranti raccontano devono essere accettabili e coerenti, espresse con un linguaggio appropriato, dettagliate, confermate da documenti e segni sui corpi. Ciò svela come il tema dell’integrazione, tanto nella ricerca, quanto nel discorso pubblico, non contribuisce solo a descrivere, ma anche a plasmare condizioni di esclusione. Le soggettività migranti vengono poste in una continua condizione di prova sociale, mentre le società ospitanti appaiono neutre e immutabili. Questo approccio, oltre ad aumentare il razzismo sistemico, rischia di impedire la produzione di narrazioni che vedono la migrazione non come una minaccia da gestire, ma come un’opportunità di trasformazione sociale. Le politiche greche mancano di una strategia di integrazione organica e a lungo termine, che agisca su problematiche strutturali. I programmi di accoglienza sono frammentati, quasi del tutto assenti e dipendenti dai finanziamenti dell’Unione Europea. In questo quadro, le difficoltà burocratiche, le barriere linguistiche e le scarse opportunità lavorative limitano le capacità dei migranti di potersi inserire pienamente nel nuovo contesto sociale. Questo, a sua volta, conduce a reiterare una narrativa di inadeguatezza delle soggettività in movimento e alimenta politiche discriminatorie nei loro confronti. L’adattamento al contesto di accoglienza non dovrebbe significare perdere la propria identità, rinunciando al proprio passato e non si può ridurre l’integrazione all’apprendimento di nuove abilità. L’accoglienza dovrebbe essere basata sulla costruzione di relazioni sociali qualificate e qualificanti, che possano favorire un processo di trasformazione, in cui la differenza e l’altro vengono concepiti in termini di ricchezza. Spesso si guarda alla migrazione come evento traumatico, per via del fatto che le soggettività in movimento fuggono spesso da contesti violenti. Tuttavia, per pianificare un adeguato avvicinamento alla società di accoglienza, è necessario considerare l’impatto che questi contesti sociali hanno sulle soggettività migranti. Il tema della migrazione, infatti, non ci racconta solo del perché le persone si allontanano dai loro paesi di origine, ma ci interroga sullo stato di benessere delle democrazie dei paesi ospitanti, che spesso non si dimostrano all’altezza dei valori su cui esse stesse si fondano. Per questo, l’integrazione non è da considerarsi come una qualità individuale, bensì come una responsabilità politica e sociale. Questa prospettiva deve essere volta a inaugurare approcci partecipativi con l’obiettivo di creare un contesto in cui, grazie a politiche maggiormente inclusive, le persone saranno in grado di negoziare i termini della propria esistenza, per poterne definire da sé il senso e il valore. BIBLIOGRAFIA Costantini, Osvaldo. 2016. “La politica e la sua materia. Didier Fassin, Ripoliticizzare il mondo”. AM Rivista della società italiana di antropologia medica 41:289-302. European Union Agency for Asylum (EUAA). 2024. “Asylum report 2024. Annual Report on the Situation of Asylum in the European Union”. Fassin, Didier. 2019. Le vite ineguali. Quanto vale un essere umano. Milano:Feltrinelli. Fassin, Didier, Rechtman, Richard. 2020. L’impero del trauma. Nascita della condizione di vittima. Milano:Meltemi. Mencacci, Elisa. 2014. “Riparare storie. Istituzionalizzazione della richiesta d’asilo e questioni cliniche”. AM Rivista della Società italiana di antropologia medica 38:397-414. MIT-Mobile Info Team. 2024. “Voices from the Camps: Living Conditions and Access to Services in Refugee Camps on the Greek Mainland”. Sayad, Abdelmalek. 2002. La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato. Milano:Raffaello Cortina Editore. Schinkel, Willem. 2017. Imagined societies. A Critique of Immigrant Integration in Western Europe, Cambridge:Cambridge University Press. Schinkel, Willem. 2018. “Against immigrant integration: for an end to neocolonial knowledge production”. Comparative Migrant Studies 6:31. 1. Mi sono laureata in antropologia culturale presso l’università di Bologna a Marzo del 2025. La mia tesi di laurea magistrale nasce da un lavoro di tirocinio svolto ad Atene, in Grecia, in cui partecipato per tre mesi alle attività di un centro di orientamento per rifugiati, richiedenti asilo e persone in movimento che arrivano in città ↩︎ 2. Treccani online, Ultimo accesso 10/11/25 ↩︎ 3. Nel campo di Ritsona, uno dei più grandi della mainland di Atene si conta 1 medico su 97 residenti del campo (MIT, 2024) ↩︎
Sicurezza presunta e vulnerabilità reali: il sistema dei Paesi di origine sicuri
Papers, una rubrica di Melting Pot per la condivisione di tesi di laurea, ricerche e studi. Per pubblicare il tuo lavoro consulta la pagina della rubrica e scrivi a collaborazioni@meltingpot.org. -------------------------------------------------------------------------------- Università degli Studi di Catania Dipartimento di Giurisprudenza Corso di laurea magistrale a ciclo unico SICUREZZA PRESUNTA E VULNERABILITÀ REALI: IL SISTEMA DEI PAESI DI ORIGINE SICURI, NEL PRISMA DEL PROCESSO, ALLA PROVA DELLE ECCEZIONI Tesi di Paola Lovato (2023/2024) Scarica l’elaborato INTRODUZIONE Sancito dall’articolo 10 della Costituzione, il diritto di asilo rappresenta uno dei pilastri fondamentali del sistema di tutela internazionale dei diritti umani. Questo istituto garantisce a chi subisce impedimenti nell’esercizio delle libertà democratiche nel proprio Paese, o è costretto a lasciarlo a causa di persecuzioni o di gravi violazioni dei diritti fondamentali, la possibilità di trovare protezione in un altro Stato. Tuttavia, questo diritto è oggi messo a dura prova, trovandosi al centro di un acceso dibattito che vede contrapporsi, da un lato, l’esigenza di proteggere individui in fuga da persecuzioni e violenze e, dall’altro, la necessità degli Stati di regolare i flussi migratori attraverso procedure rapide, efficienti ed efficaci. In questo contesto si inserisce l’istituto dei “Paesi di origine sicuri”, strumento giuridico che negli ultimi anni ha assunto un ruolo centrale nelle politiche migratorie dell’Unione Europea e degli Stati membri. Questo istituto, codificato nella direttiva 2013/32/UE e recepito dall’ordinamento italiano attraverso l’art. 2-bis del d.lgs. 25/2008, si fonda su una presunzione di sicurezza, secondo cui determinati Paesi non generano esigenze di protezione nei propri cittadini, non essendo questi esposti, nei confini nazionali, a rischi di persecuzione o di danno grave. Le domande presentate da richiedenti provenienti da questi Paesi vengono così presunte infondate, e le garanzie generalmente previste nelle procedure di esame ridimensionate, rendendo così il regime procedimentale più gravoso ed in generale più sfavorevole. Con l’obiettivo dichiarato di evitare un’applicazione generalizzata e discriminatoria dell’istituto, non è raro che gli Stati membri introducano delle eccezioni alla presunzione di sicurezza, privilegiando aspetti territoriali e/o soggettivi meritevoli di tutela che di volta in volta emergono dai rapporti elaborati ora da organismi ufficiali, ora da organizzazioni non governative sugli indici di tutela dei diritti umani nei Paesi terzi. Questo strumento, però, lungi dal rappresentare un mero dettaglio tecnico, solleva profonde perplessità sulla sua compatibilità con i principi fondanti del sistema di protezione internazionale. In particolare, l’etichetta di “Paese sicuro” assegnata a Paesi in cui il numero di categorie a rischio è molto alta suggerisce non pochi interrogativi: sicuro per chi? Come può uno Stato essere contemporaneamente rifugio per alcuni e luogo di persecuzione per altri? È possibile definire “generalmente sicuro” un Paese che non tutela categorie specifiche di persone, soprattutto se vulnerabili? Che perseguita o tollera persecuzioni sistematiche di anche solo parte dei suoi cittadini? In che misura, quindi, le eccezioni soggettive rappresentano un necessario correttivo e non rivelano piuttosto un ossimoro giuridico , una contraddizione intrinseca dell’istituto stesso? Le questioni si presentano particolarmente attuali nel contesto italiano, dove la disciplina dei Paesi di origine sicuri è oggetto di un intenso dibattito giuridico alimentato da pronunce giurisprudenziali che a più riprese hanno contestato la legittimità di designazioni che non rispettano i criteri normativi, e riforme legislative che non poche volte hanno mostrato difficoltà nel conformarsi ai principi fondamentali della materia. Particolarmente significativa appare l’analisi dei recenti sviluppi giurisprudenziali, tanto a livello europeo quanto nazionale: la sentenza della Corte di Giustizia del 4 ottobre 2024 sulla causa C-406/22 e i numerosi rinvii pregiudiziali sollevati dai tribunali italiani testimoniano la centralità che l’istituto ha assunto nel dibattito giuridico contemporaneo, nonché le difficoltà interpretative che lo circondano. La presente tesi intende analizzare con un approccio multilivello gli aspetti e le problematiche principali di questo istituto, nell’obiettivo di trovare risposta ai quesiti avanzati. Il primo capitolo ripercorre l’evoluzione storica e normativa dell’istituto dei Paesi di origine sicuri nel diritto europeo e italiano, analizzandone le origini, lo sviluppo e l’attuale configurazione. Il secondo capitolo esamina il regime procedurale italiano in merito all’applicazione dell’istituto e i suoi effetti nei confronti di richiedenti provenienti da uno di questi Paesi, con un focus particolare sul regime delle procedure accelerate, l’inversione dell’onere della prova, il regime sospensivo dell’impugnazioni e le limitazioni alla motivazione dei provvedimenti di rigetto. Infine, il terzo capitolo si concentra specificamente sulle eccezioni soggettive alla presunzione di sicurezza, analizzandone la base giuridica, le criticità sistematiche e le applicazioni pratiche, anche attraverso un confronto con altri ordinamenti europei. A chiusura di questa analisi globale, si delinea il futuro dell’istituto alla luce dell’imminente entrata in vigore delle nuove riforme, quali i nuovi Regolamenti (UE) 2024/1347 e 2024/1348, e il nuovo Patto europeo migrazione e asilo. Metodologicamente, la ricerca adotta un approccio qualitativo basato sull’analisi comparata delle normative europee e nazionale, esaminando la giurisprudenza e la dottrina specialistica rilevante al fine di esplorare le diverse interpretazioni del concetto di sicurezza e le relative eccezioni, con particolare attenzione alle conseguenze concrete, sostanziali e procedurali, per i richiedenti asilo. Particolare attenzione è dedicata all’analisi delle più recenti pronunce giurisprudenziali, che hanno contribuito a delineare i contorni dell’istituto e a evidenziarne le criticità.
Il passaporto falso non incide sulla credibilità del richiedente: riconosciuta la protezione sussidiaria a minore del Sudafrica
Il Tribunale di Roma in questa bella pronuncia riconosce la protezione sussidiaria a un minore proveniente dal Sudafrica. La sentenza è interessante perché pur in presenza di un passaporto – ritenuto peraltro falso, richiesto solo per poter viaggiare in autonomia – non è intaccata la credibilità del ricorrente, che invece si evince da altri fattori e va valutata in relazione alla sua giovanissima età.  Il Tribunale di Roma infatti afferma che “si ritiene plausibile che l’età reale del ricorrente sia quella dichiarata e che quindi lo stesso sia tuttora minorenne;[…] è altresì plausibile che il passaporto non recasse soltanto un nome (XXX in luogo di XXX) ma anche una data di nascita falsa che, facendolo risultare maggiorenne, gli consentisse di viaggiare da solo in modo più agevole“. Sulla valutazione di credibilità, appunto, il Tribunale ritiene “il racconto così come le omissioni del ricorrente debbano essere valutati alla luce della giovane età dello stesso e della documentata persistente difficoltà a condividere il suo vissuto con gli altri, circostanza che può ritenersi del tutto comprensibile alla luce degli eventi traumatici subiti“. Infine, sul riconoscimento della protezione sussidiaria, il Tribunale conclude che “nel caso di specie ci si trovi dinanzi ad una minaccia alla sicurezza personale ed alla incolumità di un cittadino, proveniente da agenti di danno privati, e della incapacità dello Stato di offrire protezione. Vi sono dunque gli estremi del rischio di danno grave come declinato dalla lett. b) dell’art. 14 d.lgs. 251/2007“. Tribunale di Roma, decreto del 9 giugno 2025 Si ringrazia l’Avv. Anna Pellegrino per la segnalazione e il commento; il caso è stato seguito con l’Avv. Federica Remiddi e l’Avv. Salvatore Fachile. 
Livorno, i ragazzi tunisini morti al porto sono vittime delle politiche di respingimento
Due giovani ancora senza nome sono morti nel porto industriale di Livorno. Era il 30 ottobre, intorno alle 13:30, quando i loro corpi sono stati risucchiati dalle eliche delle navi in manovra, nelle acque del canale tra la Darsena Toscana e il varco Zara.   I due ragazzi erano stati trovati poco prima dalla Polizia Marittima sulla nave Stena Shipper, battente bandiera danese, ma noleggiata dalla compagnia statale tunisina CoTuNav, proveniente dal porto di Radès. Erano arrivati a Livorno nascosti in uno dei container della nave.  Una volta scoperti, sarebbero stati reimbarcati sulla stessa nave e affidati alla custodia del comandante, in attesa di essere rimpatriati. Una riconsegna quindi “informale”, al di fuori di qualsiasi procedura operativa e prevista dalle normative, senza alcuna identificazione. Chiusi in una cabina a bordo, sarebbero riusciti a liberarsi e, nel tentativo disperato di evitare il ritorno in Tunisia, si sarebbero gettati in mare. Quel che è certo è che erano vivi, in Italia, quando la polizia di frontiera li ha fatti scendere dal cargo e poi risalire, per essere riconsegnati al comandante della nave. Nessun colloquio con un avvocato, nessun mediatore, nessuna informativa sui loro diritti. Nessuna possibilità di chiedere asilo, o anche solo di manifestare la volontà di farlo.  Le autorità parlano di una “procedura standard”, ma si tratta in realtà di un respingimento informale, una pratica che da anni si consuma silenziosamente nei porti italiani, probabilmente i più noti alle cronache sono quelli dell’Adriatico. Un’inchiesta di Lighthouse Reports, pubblicata nel gennaio 2023 1, grazie al lavoro del Network Porti Adriatici aveva infatti documentato decine di casi di rimpatri forzati – compresi minori non accompagnati – dai porti di Venezia, Ancona, Bari e Brindisi verso la Grecia, in violazione del diritto internazionale.  Anche a Livorno, il comportamento delle autorità sembra ricalcare lo stesso schema: quando i due giovani hanno capito che sarebbero stati rispediti indietro, hanno tentato di fuggire e si sono buttati in mare.  Appresa la notizia, i primi a chiedere di fare chiarezza sulla vicenda sono stati i sindacati e le associazioni. «Troppe cose ancora non tornano – hanno scritto Usb Livorno e la sezione locale di Asgi -: due ragazzi sono morti nel tentativo di conquistare una vita migliore. Non sappiamo niente di loro perché qualcuno ha deciso che non avevano diritto di parlare con un avvocato, un mediatore o un’associazione. Dopo averli fatti sbarcare e tenuti ore al varco portuale, li hanno rinchiusi in una cabina e, una volta tuffatisi in mare, sono morti affogati». Durante il partecipato presidio del 7 novembre al varco Zara, al quale ha preso parte anche il Sindaco della città, il rappresentante di Usb Livorno ha chiesto giustizia: «Vogliamo sapere chi ha deciso per il rimpatrio immediato, se c’è un decreto di espulsione, se davvero hanno chiesto, come alcuni testimoni affermano, di parlare con un avvocato. E perché, quando i loro corpi non erano ancora stati trovati, è stato autorizzato il passaggio di un’altra nave nel canale. Evidentemente, la vita di due persone vale meno dei traffici marittimi». Anche la Cgil Toscana e la Cgil Livorno hanno definito l’episodio l’ennesimo capitolo nero del fallimento delle politiche securitarie. «La criminalizzazione e l’etichetta di clandestino hanno sostituito l’umanità e le buone pratiche di accoglienza – si legge in una nota -. Occorre individuare le responsabilità di chi ha portato due ragazzi a gettarsi in mare piuttosto che affidarsi alle istituzioni». Il deputato Marco Grimaldi di AVS è intervenuto in Parlamento: «Lo Stato ha altri due morti sulla coscienza. Non gli è stato permesso di chiedere protezione internazionale, di vedere un medico, un avvocato. La polizia li ha caricati su una nave perché li riportasse in Tunisia. Si sono buttati in acqua e sono morti. Perché non hanno ricevuto cure e accoglienza? Perché non hanno avuto la possibilità di chiedere asilo?». Nel frattempo, la procura di Livorno ha aperto un fascicolo per omicidio colposo contro ignoti. Nessuno è al momento indagato. Il comandante della nave avrebbe dichiarato di aver “controllato i due migranti ogni venti minuti”. Asgi ha predisposto un esposto perché ci sia un’indagine accurata sulle procedure utilizzate e si chiariscano le responsabilità.  Secondo i dati pubblicati da Il Tirreno, nel porto di Livorno si registrano in media una ventina di respingimenti l’anno. Ma altre fonti parlano di più del doppio. Negli ultimi due anni – riferisce ancora il quotidiano – sono state rafforzate le barriere fisiche a chiusura della banchina destinata alle navi provenienti dal Nordafrica, per rendere più difficile l’accesso alle aree di sbarco. Dall’inizio del 2024, circa sessanta navi arrivate da Tunisi e Radès, molte delle quali appartenenti alla compagnia CoTuNav, hanno attraccato nello stesso punto. Il fenomeno strutturale dei respingimenti interessa sicuramente altri porti tirrenici, ma al momento non si hanno dati ufficiali.  Di sicuro il caso di Livorno non è isolato, ma un ulteriore tassello della pratica dei respingimenti informali che da anni si consuma nei porti italiani, tanto sull’Adriatico quanto sul Tirreno. Una pratica illegittima, che viola la Convenzione di Ginevra, l’articolo 10 della Costituzione e l’articolo 33 della Convenzione europea dei diritti umani, perché impedisce a chi arriva di esercitare il diritto di chiedere protezione internazionale.  Qualsiasi persona rintracciata in area portuale o prima dell’ingresso formale nel territorio nazionale deve essere informata dalle autorità della possibilità di presentare domanda d’asilo, ricevere assistenza legale e linguistica e non può essere rimandata in un Paese dove potrebbe rischiare persecuzioni o trattamenti inumani e degradanti.  La violazione è resa ancor più grave con due giovani che potevano essere ancora minorenni. Nulla di tutto ciò è accaduto e due ragazzi sono morti perché un sistema politico, culturale e amministrativo è strutturalmente razzista e seleziona chi può restare e chi deve essere respinto in base alla provenienza geografica, al colore e alla classe.  Chi parla di “incidente” o “fatalità” non vuole mettere in discussione questa nuda verità: le morti sono l’effetto diretto di un clima politico che favorisce delle scelte che riducono le persone a “irregolari” da espellere, senza alcuna valutazione ulteriore, senza il rispetto dei loro diritti. Scelte che ancora una volta hanno ucciso. 1. Respingimenti illegali dall’Italia alla Grecia: richiedenti asilo detenuti in prigioni segrete, Meltingpot.org ↩︎
Protezione sussidiaria alla richiedente tunisina: lo Stato di origine non è in grado o non vuole garantire una protezione effettiva
Il Tribunale di Messina ha riconosciuto a una cittadina tunisina la protezione sussidiaria ai sensi dell’art. 14, lett. b), D.Lgs. 251/2007, ritenendo sussistente un “danno grave” derivante da trattamenti inumani o degradanti. Il Tribunale ha precisato che tale forma di tutela si applica anche nei casi di violenza privata sistemica, quando lo Stato di origine non è in grado o non vuole garantire una protezione effettiva, determinando un rischio concreto di ulteriori abusi. Dopo la scomparsa del marito indebitato, la donna era stata aggredita e abusata dai cognati che volevano costringerla a un matrimonio riparatore. Rifiutandosi, aveva subito violenze sessuali, espulsione da casa e continue minacce nonostante i tentativi di fuggire. Il Tribunale ha ritenuto il racconto coerente e credibile, osservando che le lievi incongruenze del racconto innanzi la Commissione territoriale, derivavano dal trauma e non da inattendibilità, e ha riconosciuto la difficoltà di riferire le violenze sessuali per vergogna e rimozione. Il giudice ha riconosciuto la fragilità psicologica e culturale della donna, vittima di un contesto patriarcale che stigmatizza la denuncia delle violenze. Tale vulnerabilità, unita all’isolamento e all’assenza di sostegni, è stata considerata indice di rischio personale di trattamento degradante, in linea con la giurisprudenza di Cass. n. 10986/2021 e n. 13449/2023 sulle vittime di violenza di genere come soggetti in “vulnerabilità strutturale”. Tribunale di Messina, decreto del 28 ottobre 2025 Si ringrazia l’Avv. Giulia Vicari per la segnalazione e il commento. -------------------------------------------------------------------------------- * Consulta altri provvedimenti relativi all’accoglimento di richieste di protezione da parte di cittadini/e della Tunisia * Contribuisci alla rubrica “Osservatorio Commissioni Territoriali” VEDI LE SENTENZE * Status di rifugiato * Protezione sussidiaria * Permesso di soggiorno per protezione speciale