L’integrazione come pratica di esclusioneELETTRA MARIA NICOLETTI 1
Il presente articolo è estratto da una ricerca svolta ai fini del conseguimento
della laurea magistrale in Antropologia culturale ed etnologia e nasce da un
periodo di volontariato svolto ad Atene, con un’associazione che si occupa di
fornire supporto alle soggettività in movimento che approdano nella capitale
greca.
In particolare, si sviluppa una riflessione sul tema dell’integrazione
utilizzando come punto di partenza le teorie proposte dal sociologo Willem
Schinkel nell’articolo Against “immigrant integration”: for an end to
neocolonial knowledge production (2018) e nel testo Imagined societies. A
Critique of Immigrant Integration in Western Europe (2017).
Sebbene le teorie dell’autore possano risultare fortemente radicali, offrono un
punto di vista di critico sul tema dell’integrazione e possono essere adattate
al contesto greco ed europeo in generale.
L’articolo nasce da un progetto di più ampio che ha lo scopo di analizzare il
tema della salute delle soggettività in movimento che approdano in Grecia,
dimostrando come questa possa essere garantita non solo da interventi di
carattere strettamente legati all’ambito medico.
Durante il periodo di permanenza sul campo si sono sviluppate, insieme ai
partecipanti alla ricerca, numerose riflessioni sul tema dell’integrazione in
quanto argomento spesso utilizzato, tanto nel discorso pubblico politico, quanto
nel senso comune, quando si parla di soggettività in movimento.
Avviare un processo di decostruzione del concetto di integrazione costituisce un
importante punto di partenza per sottolineare la necessità di politiche di
accoglienza inclusive e rispettose della salute e del benessere delle
soggettività in movimento.
Parole chiave: integrazione, migrazione, inclusione, esclusione, società,
individui, contesto sociale, accoglienza, diversità, relazione.
Quando si parla di migrazione e accoglienza emerge frequentemente il tema
dell’integrazione. Nelle scienze sociali l’integrazione rappresenta «il processo
attraverso il quale gli individui diventano parte integrante di qualsiasi
sistema sociale, aderendo in tutto in parte ai valori che ne definiscono
l’ordine normativo» 2.
Si sente spesso dire che le soggettività in movimento non vogliono integrarsi,
sono cioè persone che si rifiuterebbero di essere parte di un qualche sistema
sociale. Tuttavia, questa affermazione genera due quesiti: è possibile rifiutare
di integrarsi? Infatti, se si è in possesso di un determinato status giuridico e
si vive in un certo contesto si è comunque sottoposti a delle leggi, che non
decadono nel momento in cui una persona rifiuta di seguirle.
Il secondo quesito è: che tipo di costo ha l’integrazione che immaginiamo nel
nostro senso comune per una persona migrante?
Così concettualizzata, l’integrazione appare qualcosa che pone le soggettività
migranti davanti a un ultimatum: rinunciare alla loro identità, alla loro storia
per immergersi in una cultura nuova, che sembra essere concepita come
gerarchicamente migliore.
Questo perché, sempre seguendo il senso comune, chi migra ha deciso di lasciare
il proprio paese d’origine ma se vi fosse rimasta non avrebbe dovuto sconvolgere
la propria esistenza.
Questo tipo di sguardo sui fenomeni migratori risulta molto diffuso, nonostante
rimandi a una concezione miope dei motivi che possono portare un individuo a
migrare, spesso legati a profonde cause storiche che influenzano le vicende
personali.
Inoltre, quando “noi” bianchi, europei emigriamo non siamo chiamati a rinunciare
alla nostra identità, ci sentiamo in qualche modo liberi di non doverci
integrare.
Andando oltre lo sguardo che concepisce le culture altre unicamente come una
versione meno evoluta della propria, la vera domanda da porsi, osservando i
migranti che approdano in Grecia è: un migrante, indipendentemente dalla sua
intenzione di voler rimanere o meno nel paese di approdo, in che tipo di sistema
sociale è chiamato a integrarsi?
Il richiedente asilo che arriva in Grecia affronta un lungo e tortuoso iter
fatto di identificazioni, pratiche burocratiche e racconto dettagliato della
propria storia di fuga, al termine del quale, se ha successo, ottiene lo status
di rifugiato.
Questo percorso ha delle tempistiche variabili e durante l’intero periodo il
richiedente asilo vive all’interno di un campo di accoglienza sovraffollato,
posto in un luogo isolato, condividendo con altre persone container insalubri e
danneggiati, con pochissime possibilità di accedere all’assistenza medica se ne
ha bisogno 3, con un solo pasto al giorno, quasi del tutto sprovvisto di
trasporti per raggiungere le città vicine e senza un supporto linguistico per
poter comunicare nel campo e al di fuori.
Da numerose analisi risulta come continuano a scarseggiare l’accesso alla casa,
al supporto medico e ai beni di prima necessità come cibo e vestiti, anche una
volta ottenuti i documenti. Possiamo davvero chiedere alle soggettività in
movimento di integrarsi a un sistema così profondamente disfunzionale? Viene
imposta l’illusione che la rinuncia della propria identità sia l’inizio della
costruzione di una nuova identità politica e sociale restituendo in cambio
isolamento e abbandono.
Per riflettere sul tema dell’integrazione risultano particolarmente interessanti
le teorie proposte dal sociologo Willem Schinkel, secondo il quale la ricerca su
migrazione e integrazione delle soggettività migranti in Europa occidentale
avviene all’interno di un discorso pubblico “altamente tossico”.
Sebbene lo studioso prenda come modello di riferimento i Paesi Bassi, le sue
teorie sono in buona parte applicabili ad altre realtà europee e ai paesi di
frontiera come la Grecia. Secondo il sociologo l’integrazione risulta
problematica sia quando viene descritta come una modalità politica di
inserimento dei migranti in una nuova società, sia quando viene utilizzata dalle
scienze sociali come concetto per analizzare tali processi.
Nelle scienze sociali, infatti, la società è concepita come un insieme coerente
mentre l’integrazione costituisce l’adattamento di alcune parti (gli individui)
a un tutto (la società). Questa concezione organicista concepisce in maniera
dualistica la società e i suoi membri, ciò, secondo Schinkel ha l’effetto di
individualizzare l’integrazione: non è più la proprietà di un generico tutto
sociale ma la caratteristica di un singolo individuo. In questa problematica
prospettiva, sono gli individui ad avere la possibilità di essere – o non essere
– integrati in vari gradi.
Questa rappresentazione deriva da una concezione neoliberale della società per
cui la mancanza di integrazione viene attribuita ai migranti stessi. Secondo
Schinkel risulta bizzarro considerare l’integrazione come la proprietà del
singolo proprio perché il termine opposto, disintegrazione, non è applicabile ai
membri di una società.
Si può dire di un insieme che questo sia integrato o disintegrato, ma non si può
considerare un individuo disintegrato, a meno che non lo si concepisca come un
corpo che si disintegra dal punto di vista biologico.
Per questo l’integrazione non può descrivere lo stato di un individuo, una sua
scelta. Eppure non solo gli individui vengono considerati come non integrati, ma
anche integrati in diversi gradi. L’idea di questa suddivisione serve per
fornire una chiarezza concettuale al termine integrazione, che rimane privo di
antitesi.
L’argomentazione diviene maggiormente problematica quando le misurazioni
individuali vengono estese a un intero gruppo. Quante volte siamo incappati in
luoghi comuni secondo cui, ad esempio, i nigeriani, ovvero tutti i provenienti
dalla Nigeria, sono meno in grado di integrarsi rispetto ad altri migranti? Per
non parlare di come l’Islam o in generale una credenza religiosa differente
rispetto a quella del paese di ospitante, viene concepita come motivo di
impossibilità di integrazione.
È forte la tendenza a suddividere i migranti in gruppi etnici o religiosi, per
cui i congolesi, gli afghani, i somali, gli iraniani o i musulmani potrebbero
avere diversi livelli di integrazione, in virtù della loro appartenenza etnica o
del loro credo religioso.
Così, secondo Schinkel l’integrazione appare come una forza individualizzante se
la si considera come caratteristica del singolo e de-individualizzante quando si
estende a interi gruppi sociali. Adottando questa prospettiva organicista si
arriva a sostenere una linea di pensiero identitaria in cui l’etnia diviene un
surrogato della razza e si trascurano le differenze.
L’effetto di tutto ciò è che la diversità non è più una ricchezza costitutiva
dell’universo sociale, ma una minaccia per esso. La differenza attribuita alle
soggettività in movimento non è mai discussa in una dinamica relazionale, ma
diviene un problema e una responsabilità di coloro che, si pensa, introducano
queste differenze nella società, che sarebbe altrimenti un insieme immacolato,
coerente e immutato.
Nel caso della Grecia e anche di molti altri paesi europei la marcatura della
differenza tra la popolazione ospitante e le soggettività in movimenti è resa
evidente da una serie di politiche sicuritarie attuate dai governi.
La narrazione costruita sul tema della migrazione contribuisce a costruire
l’immagine del migrante come potenzialmente pericoloso, una minaccia. Quante
volte abbiamo sentito parlare di migranti irregolari che approdano sulle
“nostre” coste?
Questo tipo di narrazione dall’effetto fortemente deumanizzante è un artificio
retorico, anche facilmente smontabile, ma che tende a parlare alla pancia di
cittadini spesso poco informati sul tema e già preoccupati per le condizioni
economiche dei propri paesi.
A smontare la narrazione sarebbe sufficiente parlare del fatto che è quasi del
tutto impossibile raggiungere l’Europa in maniera regolare, vista la mancata
possibilità di ottenere visti da moltissimi paesi da cui le persone migranti
provengono e la mancanza di corridoi umanitari sicuri e legali. Inoltre, una
volta raggiunti i paesi ospitanti sono evidenti le politiche di confinamento
spaziale dei corpi delle soggettività migranti nei campi di accoglienza.
Questi luoghi sono stati, negli anni, progressivamente allontanati dai centri
abitati e spostati in zone sempre più remote e lontane dai centri cittadini e
dalla maggior parte dei servizi, anche di base. Si tratta di strutture dotate di
ultratecnologici (e ultracostosi) impianti per il controllo degli ingressi e
degli spazi interni. Tuttavia, la presenza di queste attrezzature non
contribuisce ad alleviare il clima di sofferenza e insicurezza che le persone
sperimentano all’interno dei campi.
La loro utilità sembra essere unicamente quella di creare una linea di
demarcazione, una differenza tra coloro che vivono fuori, da quelli da quelli
che vivono dentro. In poche parole, la pratica del confinamento è necessaria per
la tutela dei cittadini dei paesi ospitanti, non tanto per chi abita quelle
strutture.
Proseguendo con il ragionamento di Schinkel, molto spesso anche le stesse
critiche mosse al tema dell’integrazione sono fallimentari: esse non mettono mai
in discussione la divisione netta e dualistica tra la società e i suoi membri,
reiterando il dualismo inclusione/esclusione.
Per Schinkel questa coppia di opposti è illusoria, perché feticizza la
possibilità che una parte sia integrata nel tutto, assumendo automaticamente che
sia possibile la sua esclusione. Inclusione ed esclusione rappresentano, in
realtà, una differenziazione nell’accesso a varie forme di capitale, cioè il
raggiungimento di differenti posizioni sociali. Esclusione e inclusione sono due
modalità di relazione.
Così, l’intera società diventa una cofiction: una forma di immaginazione
sociale, la finzione di un insieme stabile in cui si convive. Questa cofiction
esiste grazie a un lavoro di differenziazione, che serve a separare un presunto
interno da un esterno, che permette di definire chi e che cosa fa parte – o meno
– della società.
Il fatto che la società sia vista come un corpo che deve funzionare in modo
armonioso presuppone che la differenza, costituita dalle soggettività migranti,
sia qualcosa che minaccia la stabilità dell’insieme sociale, invece di
considerarla parte costitutiva di essa. Secondo Schinkel la società non è
qualcosa di integro e stabile, ma un’entità relazionale in continuo cambiamento,
formata da differenze e incontri tra persone.
A dimostrazione una strategia retorica presente in Grecia e in altre realtà
europee è quella di parlare di “crisi migratoria”. Questa modalità di
costruzione del discorso pubblico-politico mobilità una modalità di gestione del
fenomeno esclusivamente emergenziale e non strutturale, garantendo scarse tutele
e risorse. Analizzare la problematicità del concetto di integrazione permette di
sottolineare la necessità di superare l’idea di crisi, normalizzando i movimenti
migratori e promuovendo politiche che favoriscano l’interazione tra tra migranti
e popolazione locale.
L’idea stessa di società concepita come un insieme idealizzato, a cui tutti
devono aspirare, agisce rafforzando gerarchie sociali e divisioni di potere. La
prospettiva di Schinkel offre una critica radicale al modo in cui le società
occidentali immaginano se stesse, mostrando come i discorsi prodotti in questo
ambito non siano mai neutrali.
Si tratta di strumenti di potere che legittimano il controllo e la
subordinazione di determinati gruppi sociali, come le soggettività migranti. In
questo senso, parlando di integrazione ci si può stabilire un collegamento
diretto con le politiche statali vigenti in materia di migrazione.
Cosa accade, infatti, nel momento in cui gli individui vengono etichettati come
non integrati? Si azzerano le responsabilità politiche presenti nella gestione
del fenomeno e si rappresentano i migranti come soggetti intrinsecamente
carenti. Nel processo di integrazione le soggettività in movimento sono
continuamente spinte a dimostrare di meritare l’appartenenza sociale, attraverso
gli iter burocratici.
Le storie che i migranti raccontano devono essere accettabili e coerenti,
espresse con un linguaggio appropriato, dettagliate, confermate da documenti e
segni sui corpi. Ciò svela come il tema dell’integrazione, tanto nella ricerca,
quanto nel discorso pubblico, non contribuisce solo a descrivere, ma anche a
plasmare condizioni di esclusione. Le soggettività migranti vengono poste in una
continua condizione di prova sociale, mentre le società ospitanti appaiono
neutre e immutabili.
Questo approccio, oltre ad aumentare il razzismo sistemico, rischia di impedire
la produzione di narrazioni che vedono la migrazione non come una minaccia da
gestire, ma come un’opportunità di trasformazione sociale.
Le politiche greche mancano di una strategia di integrazione organica e a lungo
termine, che agisca su problematiche strutturali. I programmi di accoglienza
sono frammentati, quasi del tutto assenti e dipendenti dai finanziamenti
dell’Unione Europea.
In questo quadro, le difficoltà burocratiche, le barriere linguistiche e le
scarse opportunità lavorative limitano le capacità dei migranti di potersi
inserire pienamente nel nuovo contesto sociale.
Questo, a sua volta, conduce a reiterare una narrativa di inadeguatezza delle
soggettività in movimento e alimenta politiche discriminatorie nei loro
confronti. L’adattamento al contesto di accoglienza non dovrebbe significare
perdere la propria identità, rinunciando al proprio passato e non si può ridurre
l’integrazione all’apprendimento di nuove abilità.
L’accoglienza dovrebbe essere basata sulla costruzione di relazioni sociali
qualificate e qualificanti, che possano favorire un processo di trasformazione,
in cui la differenza e l’altro vengono concepiti in termini di ricchezza. Spesso
si guarda alla migrazione come evento traumatico, per via del fatto che le
soggettività in movimento fuggono spesso da contesti violenti.
Tuttavia, per pianificare un adeguato avvicinamento alla società di accoglienza,
è necessario considerare l’impatto che questi contesti sociali hanno sulle
soggettività migranti. Il tema della migrazione, infatti, non ci racconta solo
del perché le persone si allontanano dai loro paesi di origine, ma ci interroga
sullo stato di benessere delle democrazie dei paesi ospitanti, che spesso non si
dimostrano all’altezza dei valori su cui esse stesse si fondano.
Per questo, l’integrazione non è da considerarsi come una qualità individuale,
bensì come una responsabilità politica e sociale.
Questa prospettiva deve essere volta a inaugurare approcci partecipativi con
l’obiettivo di creare un contesto in cui, grazie a politiche maggiormente
inclusive, le persone saranno in grado di negoziare i termini della propria
esistenza, per poterne definire da sé il senso e il valore.
BIBLIOGRAFIA
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Schinkel, Willem. 2017. Imagined societies. A Critique of Immigrant Integration
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Schinkel, Willem. 2018. “Against immigrant integration: for an end to
neocolonial knowledge production”. Comparative Migrant Studies 6:31.
1. Mi sono laureata in antropologia culturale presso l’università di Bologna a
Marzo del 2025. La mia tesi di laurea magistrale nasce da un lavoro di
tirocinio svolto ad Atene, in Grecia, in cui partecipato per tre mesi alle
attività di un centro di orientamento per rifugiati, richiedenti asilo e
persone in movimento che arrivano in città ↩︎
2. Treccani online, Ultimo accesso 10/11/25 ↩︎
3. Nel campo di Ritsona, uno dei più grandi della mainland di Atene si conta 1
medico su 97 residenti del campo (MIT, 2024) ↩︎