«Non esistono Paesi sicuri per chi fugge dalla tortura»In occasione della Giornata Mondiale contro la tortura, celebrata ogni anno il
26 giugno, la Rete di Supporto per le Persone Sopravvissute a Tortura (ReSST) ha
presentato il suo primo report annuale. Si tratta di un documento frutto del
lavoro congiunto di enti pubblici, associazioni, ONG e specialisti attivi in
prima linea nell’accoglienza e nella cura di chi ha subito torture e trattamenti
inumani, spesso nel contesto di un percorso migratorio forzato.
La ReSST è nata nel dicembre 2024 dalla collaborazione tra Caritas, Ciac –
Centro immigrazione asilo e cooperazione internazionale, Kasbah, Medici Contro
la Tortura (MCT), Medici Senza Frontiere (MSF), Medici per i Diritti Umani
(MEDU), NAGA e il SaMiFo dell’ASL Roma 1, un servizio di salute specializzato
per migranti forzati. A queste realtà si affiancano, in qualità di osservatori,
A Buon Diritto, Amnesty International Italia, Antigone, la SIMM – Società
Italiana di Medicina delle Migrazioni – e un comitato scientifico composto da
esperti riconosciuti a livello nazionale e internazionale.
L’obiettivo dichiarato della rete è duplice: da un lato «informare e
sensibilizzare sull’esperienza della tortura e sulle sue conseguenze durature»,
dall’altro «rafforzare la qualità dei servizi di cura, riabilitazione e tutela
per le persone sopravvissute». Un lavoro che – si legge nel report – deve tenere
conto della complessità dei percorsi individuali, del trauma multiplo vissuto da
chi fugge, e soprattutto della violenza sistemica che spesso accompagna la
migrazione.
I dati raccolti nel 2024 parlano chiaro. Su 2.618 persone accolte e prese in
carico dai centri della rete, la maggioranza è di sesso maschile (62,7%), ma ciò
che colpisce è l’ubicazione geografica della tortura: il 64,6% delle violenze
non è avvenuto nel Paese di origine, bensì lungo le rotte migratorie di
transito. Solo il 35,4% dei casi, dunque, si riferisce a eventi subiti nel luogo
da cui la persona è fuggita.
Questa evidenza, secondo ReSST, mette in discussione una delle principali
giustificazioni utilizzate dalle autorità italiane ed europee per negare
l’accoglienza o il diritto d’asilo: l’esistenza di cosiddetti “Paesi sicuri”.
«Le nostre evidenze dimostrano – scrive la rete – che il concetto di sicurezza
non può essere ricondotto a una valutazione statica e geopolitica. Una persona
può essere torturata o gravemente maltrattata anche in Paesi formalmente
“sicuri”, soprattutto se si trova in condizioni di vulnerabilità, senza
protezione o diritti riconosciuti».
Il legame tra tortura e migrazione appare tanto forte quanto rimosso dal
dibattito pubblico. La tortura è una pratica vietata dal diritto internazionale
in ogni circostanza, ma è ancora largamente diffusa: oltre 140 Paesi nel mondo
la praticano, direttamente o attraverso la tolleranza di forme gravi di
maltrattamento, in particolare verso migranti, oppositori politici, minoranze
etniche, donne e persone LGBTQIA+.
I motivi che spingono le persone alla fuga – e spesso a subire torture – sono
principalmente economici (51%), seguiti da motivazioni politiche (24%) e
religiose (7%). Questo dato conferma che la povertà estrema, la
marginalizzazione e la disuguaglianza possono essere, di fatto, condizioni di
persecuzione e violenza sistemica. Le forme di tortura documentate sono quasi
equamente distribuite tra fisiche (43%) e psichiche (44%), con una
responsabilità attribuita ai trafficanti (33%) ma anche a pubblici ufficiali
(28%) e, in misura minore, a datori di lavoro (3%).
Il report mette in luce anche l’enorme lavoro clinico, psicologico e sociale
svolto dai centri della rete. Nel 2024 sono stati erogati oltre 14.000 servizi
sanitari. Le prestazioni più richieste sono le consulenze psicologiche
individuali (43%) e le visite di medicina generale (34,2%). Evidente il dato
relativo al supporto sociale, richiesto nel 77% dei casi: segno che il percorso
di cura non può prescindere da un accompagnamento generale, che tenga conto
della condizione legale, abitativa e lavorativa della persona.
Come sottolineano gli esperti, non si tratta soltanto di guarire le ferite, ma
di «ricostruire fiducia, dignità e possibilità di vita», partendo da un ascolto
attento e non giudicante. In questo senso, la ReSST chiede anche un impegno più
forte delle istituzioni italiane per garantire il diritto alla salute e alla
protezione internazionale, evitando prassi amministrative e narrative politiche
che tendono a semplificare o negare le sofferenze vissute lungo le rotte
migratorie.
«Dietro ogni storia di tortura – si legge nel comunicato – c’è un corpo, una
mente, una storia che ci interroga. Ma c’è anche un sistema che sceglie spesso
di non vedere». Per questo, conclude la rete, «non si può continuare a stabilire
chi ha diritto alla protezione sulla base di liste arbitrarie di Paesi sicuri.
La protezione deve partire dall’ascolto, dalla valutazione individuale e dalla
consapevolezza che la tortura, oggi, è ancora una realtà concreta e vicina».
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