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“Nessuno ti sente quando urli”: il sistema di violenza contro le persone migranti in Tunisia
GIORGIO MARCACCIO 1 Il dossier “Nobody hears you when you scream” (Amnesty International, 2025) 2 presenta un quadro sconvolgente: la Tunisia non solo non protegge le persone migranti, ma costruisce attivamente un sistema di violenza contro di loro. Le testimonianze raccolte mostrano un modello coerente: intercettazioni brutali in mare, espulsioni nel deserto al confine con Libia e Algeria, detenzione arbitraria, abusi sessuali e tortura. Parallelamente lo Stato attacca organizzazioni e attiviste/i, escludendo ogni accesso all’asilo. Nonostante ciò, l’Unione Europea continua a finanziare la Tunisia con un Memorandum privo di garanzie sui diritti umani. L’indagine di Amnesty International, condotta tra febbraio 2023 e giugno 2025, ha esaminato le esperienze di rifugiati e migranti in Tunisia, concentrandosi su Tunisi, Sfax e Zarzis. Sono state intervistate 120 persone provenienti da diversi paesi africani e asiatici (92 erano uomini e 28 erano donne), tra cui Afghanistan, Algeria, Nigeria, Sudan, Yemen, Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad, Congo, Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Gambia, Ghana, Guinea, Libia, Mali, Nigeria, Senegal, Sierra Leone, Sud Sudan 3. Nel novembre del 2025 Amnesty International ha pubblicato il rapporto “Nobody hears you when you scream”, che denuncia le condizioni disumane subite dalle persone migranti in Tunisia e mette in luce un sistema di discriminazione razziale e xenofoba rivolto soprattutto a uomini e donne dall’Africa subsahariana. Il rapporto ricostruisce in modo dettagliato un apparato repressivo che coinvolge istituzioni, forze dell’ordine e ampi settori della società civile, grazie a testimonianze dirette, missioni di indagine e dichiarazioni pubbliche di figure politiche, tra cui il presidente Kaïs Saïed. Uno dei temi centrali è la violazione sistematica e continua dei diritti umani: tortura, trattamenti inumani, detenzione arbitraria, uso eccessivo della forza durante intercettazioni in mare e sbarchi, espulsioni collettive e sommarie lungo il confine meridionale. Molte di queste violazioni sono attribuite alla National Guard, corpo dipendente dal Ministero dell’Interno, formalmente incaricato della protezione dei confini ma spesso coinvolto direttamente in violenze e abusi. > «Quando sono arrivato alla stazione di polizia, un poliziotto mi ha urlato > contro dicendo: “Voi neri create problemi” e un altro mi ha dato una > ginocchiata allo stomaco». > Milena, studentessa del Burkina Faso Parallelamente, si registra un clima politico apertamente razzista: dal febbraio 2023 il Presidente Saïed ha più volte evocato un presunto “complotto” dei migranti volto a cambiare la composizione demografica del Paese, alimentando ostilità e giustificando misure discriminatorie. Approfondimenti TUNISIA: IL CONFINE INVISIBILE D’EUROPA Il punto sulla situazione delle persone migranti tra detenzione e respingimenti Maria Giuliana Lo Piccolo 25 Novembre 2025 LA TUNISIA COME SNODO DELLA ROTTA MEDITERRANEA La Tunisia occupa una posizione strategica per le rotte migratorie provenienti dall’Africa subsahariana verso l’Europa. Le crisi politiche e umanitarie del continente spingono migliaia di persone a dirigersi verso il Nord Africa, spesso senza possibilità di proseguire immediatamente il viaggio, con il rischio di diventare irregolari sul territorio tunisino. Dal 2017, con gli accordi UE-Libia sul contenimento delle partenze, molte persone hanno iniziato a spostarsi irregolarmente dalla Libia alla Tunisia nella speranza di trovare una via più sicura verso l’Europa. Il fenomeno si è consolidato soprattutto dal 2020. Sul piano normativo, la Tunisia non ha sviluppato un sistema efficace di gestione dell’asilo: la Costituzione del 2022 garantisce il diritto d’asilo “secondo la legge”, ma la legge non esiste, creando così un vuoto che impedisce la protezione internazionale. Nonostante l’adozione nel 2018 di una legge avanzata contro discriminazione e razzismo, Amnesty documenta come essa rimanga largamente inapplicata. Le testimonianze raccolte mostrano come le persone africane siano sottoposte a violenze, estorsioni e arresti arbitrari motivati da profiling razziale. > «Hanno semplicemente detto: ‘Non vogliamo neri qui, tornate a casa vostra». > Adama, un giovane ivoriano DISCORSI PRESIDENZIALI E COSTRUZIONE DEL NEMICO INTERNO Uno degli elementi più forti del rapporto è la documentazione dell’impatto del discorso politico. Nel febbraio 2023 il presidente Kaïs Saïed parla pubblicamente di una “minaccia demografica” rappresentata dai migranti subsahariani, accusati di voler “modificare la composizione della popolazione tunisina”. Le parole alimentano un’ondata di xenofobia e violenza. Molti persone migranti raccontano che, subito dopo il discorso, i vicini hanno smesso di salutarli, proprietari di casa hanno annullato contratti d’affitto, tassisti hanno rifiutato di farli salire. > Una donna ivoriana testimonia: > «Dopo quel discorso, era come se tutti avessero ricevuto il permesso di farci > del male». Nessuna istituzione tunisina ha preso pubblicamente le distanze da questa retorica: al contrario, la sicurezza interna ha intensificato controlli, arresti ed espulsioni. 4 INTERCETTAZIONI IN MARE: MANOVRE PERICOLOSE, OPACITÀ ISTITUZIONALE Uno dei capitoli più gravi riguarda le intercettazioni dei migranti in mare, condotte con tattiche pericolose e violente. Da giugno 2024 la Tunisia ha smesso di diffondere i propri dati ufficiali e il 19 giugno 2024 ha notificato all’IMO (International Maritime Organization) l’istituzione di una vasta area SAR (SRR), che consente intercettazioni in una zona molto ampia. Le ONG documentano manovre aggressive come urti volontari, uso di cavi, spray urticanti, violenze fisiche e sequestri di motori. Tali pratiche violano la Convenzione internazionale sul salvataggio marittimo e il Protocollo ONU contro il traffico di migranti. > «Continuavano a colpire la nostra barca con lunghi bastoni con estremità > appuntite, l’hanno bucata… C’erano almeno due donne e tre bambini senza > giubbotti di salvataggio. Li abbiamo visti annegare…» > Céline, una donna camerunese Un ulteriore aspetto critico riguarda la mancata valutazione individuale delle persone in movimento: documenti e beni personali vengono spesso confiscati o distrutti, rendendo impossibile richiedere protezione internazionale. ESPULSIONI COLLETTIVE VERSO LIBIA E ALGERIA Sul fronte terrestre Amnesty documenta migliaia di espulsioni collettive verso Algeria e Libia dall’estate 2023 in avanti. Si tratta di pratiche che violano apertamente il principio di non-refoulement, cardine della Convenzione del 1951 sui rifugiati. Le espulsioni avvengono spesso tramite cooperazione – anche informale – con gruppi armati libici e algerini. Molte persone vengono portate in centri di detenzione illegali e sottoposte a violenze, perquisizioni degradanti e confisca dei documenti. In Algeria si verifica frequentemente il chain refoulement, con respingimenti ulteriori verso Niger o Mali. Il contesto libico è ancora più drammatico, segnato da violenze sistematiche riconosciute dalle Nazioni Unite. > «Avevo un visto valido, ma non ci hanno spiegato nulla né chiesto documenti di > identità… Ci hanno ammanettato con una corda nera e ci hanno messo su un > autobus che ci ha portato in Algeria. Ci hanno solo detto: “Non vogliamo neri > qui, tornate a casa vostra”». ABUSI SESSUALI E TORTURA COME STRUMENTI DI CONTROLLO Numerose donne raccontano di aver subito violenze sessuali da parte di membri della National Guard durante intercettazioni, detenzioni ed espulsioni. Si tratta di abusi che Amnesty classifica esplicitamente come tortura, vietata dalla Convenzione ONU del 1984 5. Anche uomini e minori riportano pestaggi, bruciature, scariche elettriche e violenze degradanti. La discriminazione razziale emerge come fattore strutturale in questi abusi 6. > «Mi hanno presa in tre. Uno mi teneva ferma, gli altri mi toccavano ovunque. > Ho urlato, ma ridevano». ATTACCO ALLE ONG E CHIUSURA DELLO SPAZIO CIVICO Di fronte alle accuse, il governo tunisino nega ogni responsabilità, ma parallelamente porta avanti una strategia di repressione verso ONG e difensori dei diritti umani. Dal maggio 2024 diverse organizzazioni locali e internazionali sono state ostacolate, alcune costrette a chiudere; membri di ONG partner dell’UNHCR sono stati arrestati. Il Presidente Saïed ha alimentato questa campagna definendo le organizzazioni “agenti stranieri” e “traditori”. La situazione è peggiorata quando il governo ha imposto la sospensione delle attività di registrazione dei richiedenti asilo svolte dall’UNHCR dal 2011. Migliaia di persone si sono ritrovate senza possibilità di accedere alla protezione internazionale. > Una volontaria tunisina riferisce: > «Ci trattano come criminali solo perché aiutiamo persone che stanno morendo». IL MEMORANDUM UE–TUNISIA: COOPERAZIONE SENZA TUTELE Il 16 luglio 2023 l’Unione Europea e la Tunisia hanno firmato un Memorandum d’intesa che prevede grandi investimenti europei per contrasto ai trafficanti, controllo dei confini e rimpatri. Secondo Amnesty, il Memorandum è privo di garanzie vincolanti sul rispetto dei diritti umani: non prevede soglie da rispettare né condizioni che limitino l’accesso ai fondi in caso di violazioni. La Tunisia non può essere considerata un “paese terzo sicuro”: non esiste un sistema d’asilo funzionante, il non-refoulement viene violato, e le istituzioni stesse sono responsabili di violenze strutturali contro le persone migranti 7. Il dossier di Amnesty descrive una realtà in cui la Tunisia costruisce un sistema istituzionale e operativo che mira non a gestire le migrazioni, ma a renderle impossibili, attraverso violenza, paura e abbandono. Il titolo del rapporto – Nessuno ti sente quando urli – non è una metafora: è la descrizione puntuale della condizione vissuta da migliaia di persone che, in Tunisia, non hanno alcuna protezione né possibilità di far valere i propri diritti. 1. Studente presso UniPD del corso di Scienze politiche, Relazioni internazionali e Diritti umani al terzo anno, sto svolgendo un tirocinio curricolare presso Melting Pot. Sono appassionato di attualità internazionale e storia delle relazioni internazionali, materia in cui sto scrivendo una tesi di laurea triennale. Ho un diploma di liceo classico ottenuto a Bergamo, e dal liceo in poi ho fatto attività di volontariato locale e in città ↩︎ 2. Tunisia: “Nobody hears you when you scream”: Dangerous shift in Tunisia’s migration policy ↩︎ 3. Metodologia del dossier a pag. 15 ↩︎ 4. Discorsi presidenziali e razzismo istituzionale a pag.25 del rapporto ↩︎ 5. Da pag. 62 del rapporto ↩︎ 6. Sexual violence and torture, da pag. 61 del dossier ↩︎ 7. Le conclusioni di Amnesty da pag. 82 ↩︎
Le politiche migratorie in Messico: tutela dei diritti o strumento di controllo?
Un recente rapporto analizza le politiche migratorie del Messico e il loro impatto sui diritti umani. Il Paese si trova a bilanciare la promozione di strategie dichiaratamente umanitarie con la pressione costante degli Stati Uniti a limitare il transito delle persone. La realtà mostra un quadro complesso, in cui misure repressive e restrizioni convivono con iniziative apparentemente umanitarie, sollevando dubbi sull’effettiva protezione delle persone in movimento. INTRODUZIONE Questo documento è stato redatto dal Global Detention Project 1, a cura di Matthew B. Flinn, professore di Studi internazionali e Sociologia presso la Georgia Southern University, e di Chris-Ortiz Gonzalez, laureato alla Maxwell School of Citizenship and Public Affairs della Syracuse University. Global Detention Project (GDP) è un centro di documentazione internazionale il cui scopo è porre fine alle pratiche arbitrarie e dannose di detenzione legate alla migrazione in tutto il mondo e a garantire il rispetto dei diritti umani fondamentali di tutti i migranti, i rifugiati e i richiedenti asilo. Il rapporto mira a indagare in che misura il Messico agisca come estensione delle politiche repressive anti-migratorie degli Stati Uniti, nonostante il discorso umanitario che il governo ha cercato di promuovere, soprattutto durante la presidenza di Andrés Manuel López Obrador (AMLO) tra il 2018 e il 2024. Oggi alla guida del Paese c’è Claudia Sheinbaum, espressione della stessa area politica. Nel maggio 2024 il governo ha presentato una nuova strategia sulla migrazione, definita come un approccio umanitario e basato sui diritti nella gestione della migrazione irregolare. Il fulcro di questa strategia è la creazione dei “Centri multiservizi per l’inclusione e lo sviluppo dei migranti e dei rifugiati” (Estrategia Mexicana de Movilidad Humana: un modelo único 2), concepiti per offrire un’ampia gamma di servizi di sostegno. Sebbene le autorità insistano sul fatto che tali centri non saranno utilizzati per la detenzione, la storia del controllo migratorio in Messico – in particolare il suo ruolo di esecutore delegato delle politiche statunitensi – alimenta legittimi dubbi e giustifica lo scetticismo. Quando Andrés Manuel López Obrador (AMLO) è stato eletto presidente nel 2018, ha dichiarato di voler adottare una politica migratoria incentrata sui diritti umani. In questa prospettiva, nel maggio 2024 la sua amministrazione ha presentato una nuova strategia sulla gestione della migrazione irregolare, descritta come un approccio umanitario e basato sui diritti. Il fulcro del piano è la creazione dei “Centri multiservizi per l’inclusione e lo sviluppo dei migranti e dei rifugiati”, strutture che dovrebbero offrire un’ampia gamma di servizi di sostegno. Tuttavia, sebbene le autorità assicurino che questi centri non avranno finalità detentive, la storia del controllo migratorio in Messico – e in particolare il suo ruolo di esecutore delegato delle politiche statunitensi – invita a un giusto scetticismo. Come mette in evidenza questo documento di lavoro, fin dagli anni ’80, sotto la pressione degli Stati Uniti a implementare politiche migratorie più rigide, il Messico ha spesso adottato un linguaggio eufemistico per presentare pratiche coercitive come umanitarie, finendo di fatto per occultare violazioni degli obblighi in materia di diritti umani. IL QUADRO STORICO Per comprendere al meglio le politiche migratorie della presidenza AMLO, è necessario disegnare un quadro storico-contestuale del rapporto tra Messico e Stati Uniti. Sin dagli anni 80’ il rapporto tra i due Paesi è diventato molto forte. Fu in questo periodo che il Messico iniziò ad attuare una serie di politiche neoliberiste sotto la presidenza di Carlos Salinas de Gortari (1988-1994). La sua amministrazione smantellò le politiche economiche stataliste fondate sull’industrializzazione per sostituzione delle importazioni, promuovendo invece riforme orientate al mercato e una maggiore integrazione nell’economia globale. Tra i cambiamenti più significativi vi fu l’incentivazione degli investimenti diretti esteri, in particolare attraverso l’espansione delle maquiladoras: stabilimenti di assemblaggio situati lungo il confine tra Messico e Stati Uniti, dove componenti importati venivano assemblati e riesportati. Successivamente, lo storico accordo NAFTA (1994) 3, firmato da Messico, Stati Uniti e Canada, si inserì nello stesso quadro teorico neoliberista. Tra i suoi principali obiettivi vi erano l’eliminazione delle barriere alle importazioni, la facilitazione della circolazione di beni e servizi tra i tre Paesi e la promozione di condizioni di leale concorrenza all’interno dell’area di libero scambio. Gli eventi dell’11 settembre sconvolsero poi molti equilibri, inaugurando la cosiddetta “guerra al terrore”, terreno propagandistico che accelerò il processo di securitizzazione negli Stati Uniti e spinse il dibattito sull’immigrazione e le politiche migratorie verso logiche di militarizzazione ed espulsione. Quando Felipe Calderón assunse la presidenza nel 2006, ribadì l’impegno del Messico a controllare la cosiddetta “immigrazione clandestina” lungo il confine meridionale del Paese. L’anno successivo, Stati Uniti e Messico lanciarono l’Iniziativa Mérida, un programma di cooperazione in materia di sicurezza volto a combattere la criminalità organizzata e rafforzare lo Stato di diritto. Tra il 2008 e il 2021, gli Stati Uniti stanziarono circa 3 miliardi di dollari nell’ambito di questa iniziativa, destinati alla riduzione della criminalità, allo sviluppo delle comunità e alla creazione di quello che veniva definito “un confine del XXI secolo” 4. TRA IDEOLOGIA E REALTÀ: LE POLITICHE DEL GOVERNO AMLO Le elezioni presidenziali messicane del 2018 hanno rappresentato la prima occasione in cui la questione migratoria è diventata un tema centrale nel dibattito elettorale. AMLO, che alla fine avrebbe vinto le elezioni, ha sottolineato la necessità di proteggere i cittadini centroamericani in transito nel Paese e di difendere i diritti umani delle persone migranti. Pur affrontando anche le esigenze dei migranti messicani negli Stati Uniti e la necessità di maggiori opportunità economiche in Messico, ha ribadito l’importanza di collaborare con il vicino settentrionale, piuttosto che limitarsi a svolgere il cosiddetto “lavoro sporco” 5. Oltre alla promozione di percorsi sicuri e legali basati sui diritti umani e sulle vie di ingresso legali, l’approccio “umanitario” del Messico ha anche posto l’accento sugli investimenti economici per combattere i fattori che spingono alla migrazione dall’America centrale. In questo contesto, l’amministrazione Obrador ha firmato il Piano di sviluppo globale per El Salvador, Guatemala, Honduras e Messico, volto a intervenire sulle cause profonde della migrazione e a ridurre i flussi verso il Messico meridionale. A titolo di esempio, il Messico si è impegnato a fornire a El Salvador 30 milioni di dollari per la creazione di posti di lavoro nel settore agricolo. Questo cambiamento di politica ha segnato il passaggio da un approccio centrato sull’applicazione della legge – spesso intrecciato con razzismo e xenofobia – a un modello di maggiore integrazione con l’America centrale, finalizzato a contrastare disuguaglianze, povertà e carenze di sviluppo. La nuova amministrazione ha inoltre iniziato a rilasciare un maggior numero di visti umanitari (Tarjeta de Visitante por Razones Humanitarias – TVRH 6). Secondo la legislazione messicana in materia di migrazione e rifugiati, le autorità competenti possono concedere questi visti a loro discrezione alle persone più vulnerabili, permettendo loro di circolare liberamente nel Paese e di lavorare legalmente per un periodo limitato. Il documento protegge i migranti dalla detenzione e dall’espulsione, offrendo al contempo la possibilità di percorrere rotte più sicure sul territorio nazionale. Il numero di visti umanitari rilasciati è aumentato costantemente, passando da 623 nel 2014 a 17.722 nel 2018, grazie sia all’incoraggiamento delle organizzazioni della società civile a richiedere tali visti, sia alle nuove iniziative promosse dall’amministrazione. Tuttavia, a fare da contraltare alla politica migratoria promossa dalla presidenza AMLO rimane l’indubbia dipendenza economica e politica del Messico dagli Stati Uniti. Dall’adesione al NAFTA, il principale partner commerciale del Messico è stato proprio il vicino settentrionale, con esportazioni e importazioni che oggi ammontano a circa 728,2 miliardi di dollari. Oggi, il 79,6% delle esportazioni messicane è destinato agli Stati Uniti 7. Tuttavia, il cedimento alle pressioni statunitensi contrasta con la posizione di AMLO sulla migrazione e con la retorica decoloniale che aveva caratterizzato la sua campagna presidenziale del 2018. Un’altra iniziativa significativa dei primi anni della presidenza AMLO, evidenziata nell’accordo congiunto con gli Stati Uniti, è stata il programma MPP, meglio noto come politica “Rimani in Messico”. Questa politica obbligava i richiedenti asilo a rimanere in Messico in attesa della decisione sulle loro domande. Di conseguenza, il Paese ha registrato l’afflusso di circa 71.000 richiedenti asilo rimandati al confine settentrionale, generando una crisi umanitaria in cui molti si sono trovati bloccati in condizioni pericolose, vulnerabili a estorsioni, rapimenti e stupri, e privi di accesso a servizi essenziali come assistenza sanitaria e istruzione 8. Questa politica ha anche comportato un accesso limitato all’assistenza legale e alla consulenza per i richiedenti asilo. Gli organismi internazionali hanno sollevato numerose preoccupazioni sulle condizioni all’interno dei centri di detenzione, rilevando che funzionari e agenti dell’immigrazione hanno avuto un ruolo significativo nelle violazioni dei diritti umani, con segnalazioni di torture e maltrattamenti ai danni dei detenuti. Nel 2024, il Comitato sui lavoratori migranti ha osservato che le autorità non hanno rispettato il limite di 36 ore di detenzione, che bambini e adolescenti continuano a essere trattenuti nei centri di detenzione e che queste strutture risultano prive dei servizi di base e regolarmente sovraffollate. Il comitato ha inoltre evidenziato l’assenza di azioni efficaci contro la corruzione e l’impunità, la discriminazione e la xenofobia, nonché la crescente militarizzazione del sistema migratorio 9. Il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria ha inoltre osservato che i funzionari messicani, comprese le forze di sicurezza, continuano a estorcere tangenti ai migranti, che vengono poi detenuti se non le pagano. L’aumento dei controlli e della militarizzazione ha contribuito ad aumentare la violenza e le violazioni dei diritti umani nei confronti delle persone migranti. Alcuni esempi dei problemi segnalati dai gruppi della società civile e riportati nella tabella della Migrant Law Clinic dell’Università Iberoamericana includono: 10: * Al confine settentrionale, la Guardia Nazionale ha inseguito e arrestato con la forza i migranti che tentavano di attraversare il confine, agendo di fatto come una pattuglia di frontiera statunitense. * Al confine meridionale, la Guardia Nazionale ha usato manganelli, scudi, gas lacrimogeni, pietre e bastoni per picchiare i migranti nel tentativo di arrestarli. * Le operazioni di contenimento sono state condotte di notte con equipaggiamento antisommossa, compreso l’irruzione in chiese e abitazioni private senza un’adeguata autorizzazione per inseguire e arrestare persone migranti. * Sono stati documentati casi di separazione delle famiglie durante gli arresti. * Sono stati segnalati atti di tortura contro uomini migranti detenuti nella stazione di immigrazione Siglo XXI e contro migranti di origine africana nella stazione di immigrazione Cupapé a Tuxtla * La Guardia Nazionale ha sparato contro un furgone a Pijijiapan, in Chiapas, causando la morte sul posto di un uomo cubano, mentre un altro è morto in ospedale e altri tre sono rimasti feriti. CONCLUSIONI Il report è ricco di dati, talvolta contrastanti tra loro, a testimonianza della complessità della gestione dei flussi migratori da parte del Messico. Un dato, però, appare chiaro: gli Stati Uniti esercitano da tempo pressioni sul Messico affinché limiti il transito di migranti, rifugiati e richiedenti asilo attraverso il proprio territorio. Invece di promuovere azioni diplomatiche volte a incoraggiare il rispetto degli impegni internazionali del Paese, gli Stati Uniti hanno spinto il vicino a impiegare ogni mezzo necessario per bloccare migranti e richiedenti asilo. Il Messico ha risposto adottando politiche più incentrate sul controllo dei flussi, sulla realizzazione di obiettivi quantificabili e sulla detenzione, piuttosto che sulla protezione delle persone in movimento. Come estensione delle leggi sull’immigrazione statunitensi, il Messico ha sviluppato uno dei più grandi complessi di detenzione al mondo, incarcerando centinaia di migliaia di persone ogni anno. Nonostante le evidenze mostrino che tali misure non scoraggiano la migrazione, continuano a provocare gravi danni alle persone in movimento. I governi messicani recenti, pur dichiarandosi a favore dei diritti dei migranti, hanno spesso utilizzato un linguaggio ambiguo per mascherare politiche restrittive. Anche i leader populisti di sinistra più recenti hanno sostenuto i diritti dei migranti, cercando partnership regionali per affrontare le sfide migratorie e intervenendo sulle cause profonde della migrazione. Sebbene siano stati introdotti alcuni cambiamenti, come l’aumento temporaneo dei visti umanitari e dei tassi di approvazione delle richieste di asilo, permangono ampi margini di miglioramento. Gli esperti sottolineano che la COMAR (Comisión Mexicana de Ayuda a Refugiados 11) dovrebbe disporre di un budget più consistente e che il governo messicano dovrebbe adottare un riconoscimento di massa dei rifugiati, simile a quello concesso dalla Colombia ai venezuelani, offrendo loro lo status di protezione temporanea. Tuttavia, anziché adottare un vero approccio umanitario alla migrazione, il Messico ha fatto ricorso a vari eufemismi che gli consentono di presentare tali politiche come tali, mentre continua ad attuare misure repressive volte a placare le preoccupazioni degli Stati Uniti. Questo ha permesso a Washington di esternalizzare la gestione delle frontiere e di sottrarsi a responsabilità internazionali per le violazioni dei diritti umani. Con il ritorno di Trump al potere e l’introduzione di nuovi dazi, la storia sembra ripetersi, con nuove ondate di repressione e abusi. 1. Qui il documento pubblicato il 31 luglio 2025 ↩︎ 2. Secretaría de Relaciones Exteriores, “La Comisión Intersecretarial de Atención Integral en Materia Migratoria adopta el Modelo Mexicano de Movilidad Humana,” 2024 ↩︎ 3. 11 W. Cornelius, “Mexico: From Country of Mass Emigration to Transit State,” Inter-American Development Bank, 2018 ↩︎ 4. S. Brewer, “The Bicentennial Framework: Opportunities and challenges as U.S.-Mexico security cooperation begins a new chapter,” WOLA, 2021; C. R. Seelke, and K. Finklea, “U.S.-Mexican Security Cooperation: The Mérida Initiative and Beyond,” Congressional Research Service, 2017 ↩︎ 5. 33 S. Leutert, “Andrés Manuel López Obrador’s Migratory Policy in Mexico,” LBJ School of Public Affairs, 2020 ↩︎ 6. E. T. Cantalapiedra, “Las tarjetas de visitante por razones humanitarias: Una política migratoria de protección ¿e integración?” EntreDiversidades, 8(2(17)), Article 2(17), 2021 ↩︎ 7. Export Import Data, “Top Mexico Trade Partners in 2025: Key Trends and Opportunities,” 2025; D. Workman, “Mexico’s Top Exports 2023,” World Stop Exports, 2023 ↩︎ 8. Human Rights Watch, “Submission to the Universal Periodic Review of Mexico | Human Rights Watch,” 18 July 2023 ↩︎ 9. UN Committee on Migrant Workers, “Observaciones finales sobre el cuarto informe periódico de México,” April 2025 ↩︎ 10. PRAMI, “La Guardia Nacional en el control migratorio: Consecuencias de su integración a la Sedena,” Programa de Assuntos Migratorios Universidad Iberoamerican, 2022 ↩︎ 11. Qui il sito web ↩︎
I decreti flussi favoriscono lo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici migranti
Nel Dossier Statistico Immigrazione 2025 del Centro Studi e Ricerche IDOS emerge un altro quadro allarmante: cresce lo sfruttamento lavorativo delle persone migranti e proliferano le truffe legate alle procedure di ingresso. Domani 4 novembre la presentazione nazionale a Roma. Gli anacronistici decreti flussi, nati per “regolare” l’ingresso dei lavoratori stranieri in Italia, si sono ormai da tempo consolidati come un canale di sfruttamento e tratta. È quanto denuncia la nuova edizione del Dossier Statistico Immigrazione 2025 curato da Idos, che dedica uno dei suoi capitoli alla Relazione 2024 del Numero verde nazionale Antitratta (800 290 290). Secondo l’analisi, il fenomeno della tratta sta cambiando volto: «Oggi interessa meno che in passato lo sfruttamento di donne e minori a fini sessuali, ma coinvolge soprattutto uomini migranti risucchiati in forme di occupazione irregolare e spesso para-schiavistica». Attivo dal 2000, il Numero verde Antitratta rappresenta uno degli strumenti contro il grave sfruttamento degli esseri umani, introdotto nel 1998 con l’articolo 18 del Testo unico sull’immigrazione. Le segnalazioni raccolte tra il 2014 e il 2024 (oltre 800 in media ogni anno), pur nella consapevolezza che intercettano solo la punta dell’iceberg di un fenomeno complesso e ramificato, raccontano un cambiamento profondo: le prese in carico di donne e minori sono diminuite rispettivamente del 9,8% e del 63,6%, mentre quelle riguardanti uomini adulti sono raddoppiate. In undici anni lo sfruttamento sessuale è sceso dal 50% al 24%, mentre quello lavorativo è salito fino al 38,2%. Un segnale inequivocabile è arrivato nel 2024, definito nella stessa Relazione come «l’anno degli inganni». Nel secondo semestre è emersa una rete di truffe legate ai decreti flussi, orchestrate da intermediari che dietro compenso seguivano i lavoratori stranieri lungo tutta la procedura per il rilascio del visto, dalla chiamata nominativa fino al nulla osta, per poi sparire una volta ottenuti i documenti. Solo tra luglio e dicembre, 139 potenziali lavoratori migranti – provenienti soprattutto da Tunisia, Marocco, India ed Egitto – si sono trovati senza un impiego e in condizioni di estrema vulnerabilità. Secondo Idos, si tratta soltanto «della parte emersa di un fenomeno molto più ampio». Nello stesso periodo, l’80% delle prese in carico attivate dal Numero verde riguardava lo sfruttamento lavorativo, contro il 16% per quello sessuale. Il Dossier denuncia anche «le storture del sistema attivato dai decreti flussi», segnalando «l’eccessivo carico di burocrazia, i tempi dilatati in modo insostenibile e la scarsa efficacia nel rispondere alle esigenze delle imprese». Proprio la questione dello sfruttamento e della tratta sarà uno dei tre approfondimenti della presentazione nazionale del Dossier Statistico Immigrazione 2025, in programma martedì 4 novembre al Nuovo Teatro Orione di Roma, a partire dalle 10.30. All’incontro interverranno l’avvocata Francesca Nicodemi, esperta di tutela delle vittime di tratta; Valeria Taurino, direttrice generale di Sos Mediterranee Italia; e il blogger e attivista italo-palestinese Karem Rohana. La giornata sarà aperta dal sociologo Paolo De Nardis, presidente dell’Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, e moderata dal direttore di Confronti, Claudio Paravati. La presentazione sarà a cura del presidente del Centro Studi e Ricerche Idos, Luca Di Sciullo, mentre le conclusioni spetteranno alla moderatrice della Tavola Valdese, Alessandra Trotta. Il Dossier è realizzato grazie ai fondi dell’8xmille della Chiesa Valdese e sarà presentato in contemporanea in tutte le regioni e province autonome italiane (qui i luoghi e i programmi). L’evento centrale sarà trasmesso in streaming sul canale YouTube di Idos.
Il confine come laboratorio di impunità: il Policy Memo del BVMN sui Balcani
Il 22 settembre, il Border Violence Monitoring Network (BVMN) ha pubblicato Policy Memo: Strengthening Migration Governance Monitoring in the Balkans 1, un documento politico che ha preso forma nel corso della consultazione con l’Alto Commissariato ONU per i diritti umani. Rispondendo alla Risoluzione 57/14 del Consiglio dei diritti umani, l’Ufficio dell’Alto Commissariato ONU per i diritti umani (OHCHR) ha realizzato un’indagine sulla possibilità di monitorare gli effetti pratici delle politiche migratorie europee. In questo contesto, le Nazioni Unite hanno consultato organizzazioni della società civile per rispondere a una domanda complessa: è possibile trovare strumenti per rilevare e controllare le pratiche usate nella gestione dei flussi migratori? La relazione finale dell’OHCHR 2 nominava in modo esplicito il Border Violence Migration Network (BVMN) come soggetto in grado di svolgere questa funzione, specialmente nei contesti caratterizzati da scarsa accessibilità e ostacolo al monitoraggio (delle aree più remote, ma non solo), criminalizzazione e difficoltà nel contatto coi i decisori politici. Il Network è stato quindi una delle organizzazioni più ascoltate dell’OHCHR stessa nel corso dei suoi lavori. Nel contesto di questi, il BVNM ha consegnato alle Nazioni Unite una nota politica e risposte scritte alle domande più critiche sollevate sulle tecnologie usate per il controllo delle persone migranti. Nel Policy Memo, i Balcani in particolare sono individuati come zona di grave mancanza di accountability degli attori statali e di confini segnati da violenza e violazioni dei diritti umani 3. Gli unici soggetti che qui agiscono per cercare un cambiamento positivo sono organizzazioni della società civile, spesso criminalizzate e in difficoltà per la mancanza cronica di fondi e di spazi (reali e virtuali) dove diffondere il proprio lavoro e portare avanti azioni di sensibilizzazione del contesto sociale. In generale, gli Stati europei usano sparizioni forzate e pushback istantanei per nascondere i propri abusi sui migranti. Il Network e i suoi membri hanno rilevato 25.000 pushback da parte di 14 Paesi. Spesso le persone migranti vengono detenute in segreto in luoghi inadatti al fermo di qualsiasi soggetto: garage, caravan, stalle, edifici abbandonati e pericolanti, container di metallo e addirittura canili. Nel 2021 il 20% delle detenzioni dimostrate di persone migranti non erano comunicate formalmente, non seguivano le normali procedure per la detenzione di individui. Nel 2024, il BVMN ha raccolto prove di 19 detenzioni irregolari. In totale continuità con questa pratica è evitare di registrare le persone migranti detenute: diventano fantasmi che passano attraverso carceri (veri o improvvisati) senza lasciare traccia. Tra 2022 e 2024, il 96% delle persone migranti soggette a pushback in Grecia non era stata registrata dalle autorità. Questo meccanismo alimenta l’impossibilità di obbligare gli attori statali a rispondere del destino delle persone migranti sul loro territorio. Per creare poi maggior danno alle persone migranti e insieme nascondere meglio gli abusi da loro subiti, le autorità distruggono i loro beni personali (e sopratutto dei telefoni cellulari). Significa distruggere la loro possibilità di geolocalizzarsi, comunicare con la famiglia, dimostrare la loro identità, provare l’eventuale passaggio attraverso diversi Stati e raccogliere prove di violazioni dei loro diritti. In Croazia, il Network ha documentato vere e proprie pire di oggetti “migranti”. Questa pratica si inserisce all’interno di un contesto legislativo, amministrativo e spesso sociale che criminalizza la migrazione nel tentativo (mai riuscito) di scoraggiarla. Nel 2022, ad esempio, la Turchia ha deportato una ragazza siriana verso il Nord della Siria dopo che, per proteggerla, il fratello ha denunciato gli abusi fisici e verbali che lei subiva a scuola. Rispetto alla società civile, il BVMN ha rilevato che gli Stati costruiscono ostacoli (legislativi e di fatto) per impedire alle organizzazioni non-governative di monitorare la gestione dei flussi migratori e di effettuare operazioni di search and rescue a terra. In più, si impegnano nella criminalizzazione dei difensori dei diritti umani attraverso strumenti più o meno formali: ostacoli burocratici e amministrativi alla loro vita quotidiana, legislazioni sempre più restrittive, sorveglianza (non dichiarata), inchieste e procedimenti giudiziari non giustificati, campagne diffamatorie, aggressioni, atti di vandalismo, furti. Il tutto nella quasi completa impunità, perché anche in questo contesto le autorità continuano a sfuggire a qualsiasi meccanismo di controllo e di ottemperanza a politiche rispettose dei diritti umani. Nel Policy Memo, il Border Violence Migration Network suggerisce buone pratiche. Sottolinea particolarmente la necessità di integrare il lavoro di investigazione della società civile, delle ONG e dei difensori dei diritti umani nelle riflessioni e procedure delle grandi istituzioni (come l’ONU) per portare alla luce in modo più completo e capillare le violazioni dei diritti umani che gli Stati perpetrano (quasi) indisturbati ai danni delle persone migranti e per responsabilizzare in modo inderogabile i decisori politici. Suggerisce anche l’uso delle nuove tecnologie per verificare il destino e/o la posizione delle persone migranti scomparse. Ma proprio la tecnologia, sottolinea ancora il BVMN, ha una doppia valenza. Chiamato dal Consiglio ONU sui diritti umani a rispondere ad alcune domande riguardanti l’uso di nuove tecnologie nelle politiche migratorie da parte degli Stati, il Network ha infatti messo in luce alcune pratiche molto pericolose. Innanzitutto, la mancanza di trasparenza nell’implementazione di tecnologie per la consapevolezza situazionale nei sistemi di sorveglianza dei confini: i Governi non rendono noto in maniera completa quali strumenti tecnologici usano, in che quantità e modalità, dove lungo i confini li posizionano. La scusa è la “sicurezza nazionale”, spesso usata nei discorsi giustificanti la violenza contro le persone migranti e chi le aiuta e difende. Complesso è pure l’accesso a dati, fotografie, filmati raccolti da droni, radar e camere: spesso sono fatti scomparire, cancellati o nascosti, per evitare che servano in processi di denuncia e rivendicazione di diritti umani. A ciò si aggiunge l’evoluzione materiale di queste tecnologie, che ne rende molto difficile l’identificazione: a fronte di una sempre crescente precisione e velocità di rilevamento dati, hanno dimensioni sempre più piccole e aspetto sempre più anonimo. Infine, c’è l’uso allarmante di spyware per colpire organizzazioni e individui che difendono i diritti delle persone migranti. A febbraio 2025, diversi quotidiani italiani hanno riportato che i cellulari di circa 90 attiviste italiane e non sono stati infettati da Graphite, un software di spionaggio creato a scopi militari dall’azienda israeliana Paragon. In merito alla questione, il presidente esecutivo di Parago John Fleming ha dichiarato: la società «concede in licenza la sua tecnologia a un gruppo selezionato di democrazie globali, principalmente agli Stati Uniti e ai suoi alleati». Non ha fatto alcuna ulteriore specifica. Il Policy Memo: Strengthening Migration Governance Monitoring in the Balkans contiene un’ulteriore prova che il sistema di impunità costruito, alimentato e difeso da “democrazie” violatrici di diritti umani, discriminatorie e razziste è consistente e si sta evolvendo utilizzando strumenti di ultima generazione, pratiche che tendono alla “violazione invisibile” dei diritti umani e politiche che de-umanizzano le persone migranti mentre squalificano socialmente chi le aiuta. Il lavoro del Border Violence Migration Network dimostra anche che l’unico ostacolo a questa corruzione è la reazione della società civile. 1. Qui il documento ↩︎ 2. Leggi il documento ↩︎ 3. BVMN Monthly Report – August 2025 ↩︎
Giustizia per le vittime della fortezza Europa
122 funzionari dell’Unione Europea e dei suoi Stati Membri potrebbero essere indagati dalla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità a causa del trattamento dei richiedenti asilo nel Mediterraneo Centrale, in base al report presentato da Front-LEX. Dopo sei anni di indagini, gli avvocati Juan Branco – uno dei difensori di Julian Assange – e Omer Shatz – direttore della ONG front-LEX 1,- insieme al team dell’organizzazione e la clinica legale “International Law in Action” dell’università parigina Sciences Po, hanno presentato 2 alla Corte Penale Internazionale un report di 700 pagine che denuncia come i membri dell’apparato di potere europeo siano direttamente ed individualmente responsabili per crimini contro l’umanità, avendo ideato ed implementato politiche restrittive contro i flussi migratori nel Mediterraneo Centrale 3. Questo rapporto rappresenta il punto d’arrivo di un percorso quasi decennale. front‑LEX è un’organizzazione legale indipendente, focalizzata sulla difesa dei diritti umani attraverso la litigazione strategica contro le politiche migratorie dell’UE, in particolare quelle gestite da Frontex 4. Utilizzando il diritto come strumento di cambiamento sociale, agisce in contesti legali complessi per sfidare pratiche come i respingimenti illegali e la cooperazione con regimi autoritari. Dopo i grandi naufragi del 2013, l’Unione Europea e gli Stati Membri potenziano i loro accordi con i Paesi di transito, primo tra tutti la Libia, e viene dato inizio ad una campagna di diffamazione contro le ONG che lavorano nel Mediterraneo sopperendo alle mancanze dei governi europei. L’8 maggio 2017 la Procuratrice della Corte Penale Internazionale (CPI) riporta al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che «seri e diffusi» crimini contro l’umanità – tra cui omicidi, stupri, e torture – vengono commessi contro «migliaia di persone migranti vulnerabili, inclusi donne e bambini». È un momento storico, la prima volta in cui viene formalmente riconosciuta la possibilità di crimini internazionali 5 lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Tuttavia, dopo 8 anni, più di 25mila morti e 150mila deportati in Libia, le parole della Procuratrice sono rimaste parole: la CPI non ha ancora aperto né l’istruttoria né formulato un’accusa. La Corte Penale Internazionale (CPI), con sede all’Aia, è un tribunale permanente che giudica individui accusati di genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e di aggressione. Istituita dallo Statuto di Roma del 1998, interviene solo quando gli Stati non possono o non vogliono perseguire tali crimini. È indipendente dalle Nazioni Unite, ma collabora con esse. La società civile ha però continuato a lavorare. Nel 2019, l’avv. Shatz e l’avv. Branco hanno inviato una comunicazione4, in base all’Articolo 15 dello Statuto di Roma 6, il cui contenuto dimostra che i crimini “seri e diffusi” di cui aveva parlato la Procuratrice sono sistematici, e commessi in base alle politiche migratorie dell’Unione Europea, elaborate con lo scopo preciso di impedire a qualunque costo ai richiedenti asilo di raggiungere il suolo europeo. In particolare, sono state individuate due politiche di deterrenza: la prima, uccisioni di massa per annegamento, iniziata con la chiusura dell’Operazione Mare Nostrum 7, inquadrata nel crimine contro l’umanità di omicidio; la seconda, adottata proprio contro le ONG che hanno tentato di riempire questo vuoto letale creato nel Mediterraneo, respingimenti di massa per procura grazie alla conclusione di accordi con la Libia 8 inquadrata nei crimini contro l’umanità di deportazione, sparizione forzata di persone, omicidio, tortura, stupro, riduzione in schiavitù, reclusione, e altri atti inumani diretti contro civili 9. Confermando questo inquadramento, nel 2020 il caso è stato ammesso dalla Procuratrice della CPI. Questa ha così affermato la propria giurisdizione: la CPI, in base all’articolo 13 dello Statuto di Roma, ha infatti giurisdizione non solo su deferimento dei procuratori nazionali o del Consiglio di Sicurezza, ma anche in caso di indagine aperta proprio motu, per cui è necessaria l’autorizzazione della Camera preliminare della Corte (Pre-trial Chamber). Afferma anche il fatto che ci sia una base ragionevole per credere che tali crimini fossero effettivamente stati commessi. Ulteriore conferma è giunta nel 2023, quando una Missione di accertamento dei fatti delle Nazioni Unite, istituita dal Consiglio dei diritti umani ha concluso che l’UE e gli Stati Membri stanno partecipando in crimini contro l’umanità commessi lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Tuttavia, in un’audizione davanti al Parlamento Europeo del maggio 2020, la Procuratrice della CPI ha sottolineato che la prima comunicazione di Front-lex riguardava la responsabilità degli Stati, elemento alieno alla giurisdizione della CPI, che si occupa invece di responsabilità individuale. A luglio 2020, la comunicazione è stata aggiunta al dossier riguardante la situazione in Libia; secondo gli autori della comunicazione, erroneamente, considerando che le vicende analizzate sono diverse e concettualmente slegate dal conflitto civile libico. Vista l’inerzia della CPI, il team di Front-lex ha presentato una seconda comunicazione, il 6 ottobre 2025 10. Questa è concentrata sull’apparato di potere che ha progettato e implementato i crimini descritti nella prima comunicazione e sull’identificazione degli individui che li hanno ideati, ordinati, ed eseguiti. Sono stati analizzati i sistemi di 28 Stati (i 27 Stati UE e il Regno Unito) e le istituzioni europee, mappando ogni organo ed agenzia coinvolta, estraendo i nomi dei funzionari, e valutando la responsabilità penale individuale di ognuno. A tal fine, sono stati intervistati 77 testimoni e potenziali sospetti, sono stati analizzati documenti interni e verbali di riunioni confidenziali, nonché documenti pubblici. Il risultato è una lista di 122 responsabili, nei cui confronti sussistono fondati motivi per ritenere che i sospettati abbiano partecipato alla commissione dei reati contestati. Quello che si richiede alla CPI è di chiedere l’autorizzazione per aprire un’indagine ed esaminare la responsabilità penale dei sospetti individuati, coordinarsi con i rappresentanti legali delle vittime per ottenere ulteriori prove, e di ri-nominare la popolazione civile colpita come «richiedenti asilo di diverse nazionalità transitanti lungo la rotta del Mediterraneo centrale» (e non più come “migranti libici”). I 122 responsabili sono stati suddivisi in quattro categorie, in base al grado di responsabilità (highest, high, medium e low). Nella prima, alti funzionari delle istituzioni e delle agenzie europee (il Consiglio dell’Unione Europea, la Commissione, Frontex, l’EEAS, e l’Agenzia Europea per la Sicurezza Marittima), e Ministri e Capi di Stato europei. Spiccano Angela Merkel, Joseph Muscat (primo ministro maltese dal 2013 al 2020), e Viktor Orban. I nomi italiani sono 32, un quarto del totale, cifra vertiginosa se si considera che la lista include cittadini di altri 27 Paesi e funzionari UE. Tra questi, tre Presidenti del Consiglio dei Ministri (Paolo Gentiloni, Matteo Renzi e Giuseppe Conte), tre ministri degli interni (Angelino Alfano, Marco Minniti e Matteo Salvini), Andrea Orlando (ministro della Giustizia dal 2014 al 2018), Danilo Toninelli (ministro dei trasporti nel 2018), Elisabetta Trenta (ministra per la difesa nel 2018), Enzo Milanese (ministro per gli affari esterni nel 2018), membri di gabinetto, PM di Trapani e Catania, ufficiali della Guardia Costiera. I rappresentanti legali delle vittime hanno presentato alla CPI anche un’altra lista, “the officials database”, contenente i nomi di individui che hanno ricoperto cariche ufficiali durante il periodo esaminato, il cui coinvolgimento merita ulteriori analisi. La lista contiene 384 nomi, tra cui l’ex Primo Ministro greco Tsipras e l’ex PM inglese David Cameron. Anche qui, l’Italia è sovra rappresentata: 108 italiani, tra cui Luciana Lamorgese, Luigi di Maio e Matteo Piantedosi. In quanto paese primario d’arrivo delle persone migranti, l’Italia ha avuto un ruolo centrale nell’implementazione delle politiche UE nel Mediterraneo Centrale, richiedendo e introducendo regole sempre più restrittive contro i richiedenti asilo e contro le ONG. Il report analizza in particolare il coinvolgimento delle istituzioni italiane nella conclusione del Memorandum Italia – Libia, stabilito nel 2017 e rinnovato per la terza volta il 17 ottobre 2025 11, e nell’istituzione del Fondo Africa, nella collaborazione con Frontex e la “guardia costiera” libica per respingimenti in acque italiane e internazionali. Approfondimenti MEMORANDUM ITALIA-LIBIA, UN PATTO DI VIOLAZIONI E ABUSI Il 2 novembre l’accordo sarà rinnovato. Refugees in Libya: manifestiamo a Roma il 18 ottobre Carlotta Zaccarelli 29 Settembre 2025 L’azione di Front-lex e degli avvocati Branco e Shatz è innovativa. Giuridicamente, è una strada mai provata prima: non esistono al momento cause intentate contro gli Stati europei o l’Unione Europea davanti alla CPI o alla Corte di Giustizia Internazionale per crimini commessi contro le persone migranti. È invece consolidata la giurisprudenza della CEDU sul punto – tanto che è stato richiesto alla Corte di riconsiderare il proprio orientamento, considerato da diversi leader europei, Italia e Danimarca in primis, troppo garantista 12. Anche a livello nazionale ci sono state delle evoluzioni: le corti penali italiani hanno emesso condanne concernenti naufragi o deportazioni forzate in Libia, e il Servizio Scientifico tedesco ha nel 2023 indicato come respingere i richiedenti asilo verso la Libia potesse dare adito a responsabilità penale individuale in base al Codice Penale tedesco. Nel 2024 la Corte costituzionale italiana ha riconosciuto che la Libia non è un Paese sicuro per i richiedenti asilo, e che i respingimenti costituiscono un crimine in base alla legge internazionale 13. Approfondimenti/Guida legislativa CORTE DI CASSAZIONE: LA LIBIA NON È UN PORTO SICURO Chiunque consegni alle autorità libiche le persone soccorse è perseguibile Avv. Arturo Raffaele Covella 28 Febbraio 2024 L’incisività della CPI è stata fino ad ora piuttosto limitata, e questo anche sul fronte delle indagini sulle azioni di Gheddafi e il conflitto libico. Ad ottobre 2024 la Camera preliminare ha desecretato sei mandati d’arresto contro membri della milizia al Kaniyat per crimini di guerra, ma i responsabili sono tuttora in libertà; nonostante ciò, la Corte ha annunciato la propria intenzione di chiudere il dossier nel 2026. Il 18 gennaio 2025 la CPI emette un mandato d’arresto contro Osama Almasri Njeem. Poco dopo il suo arresto in Italia, viene rimpatriato in Libia a bordo di un aereo di Stato italiano. Gli avvocati Shatz e Branco presentano una mozione alla CPI richiedendo di indagare sull’accaduto, prospettando una responsabilità di Giorgia Meloni, Carlo Nordio e Matteo Piantedosi per ostruzione della giustizia in base all’articolo 70 dello Statuto di Roma. Notizie CASO ALMASRI: LAM MAGOK CHIEDE ALLA CORTE COSTITUZIONALE DI FARE LUCE SULL’OPERATO DEI MINISTRI «L’Italia è sotto ricatto e il Governo lo rivendica come scelta politica» Redazione 21 Ottobre 2025 Il 17 ottobre 2025 la Camera preliminare della CPI 14 ha individuato nel comportamento italiano una violazione dello Statuto di Roma. Secondo la CPI infatti rimpatriare Almasri senza informare la Corte dell’esito del procedimento davanti alla Corte d’appello né tanto meno del rimpatrio stesso costituisce una violazione dell’obbligo di cooperazione, in base all’articolo 97 dello Statuto di Roma. La CPI parla di comunicazioni interrotte dall’Italia dopo l’arresto, e di spiegazioni “contraddittorie e giuridicamente infondate” fornite riguardo alla vicenda. La CPI ha differito il rinvio al Consiglio di Sicurezza e all’Assemblea ONU, ma ha esplicitato come l’Italia abbia impedito alla Corte stessa di esercitare le sue funzioni e i suoi poteri 15. CI si chiede se l’impressionante lavoro di Front-lex e degli avvocati Branco e Shatz porterà un risultato concreto. Negli ultimi mesi, davanti al genocidio in corso a Gaza, i dubbi riguardo l’efficacia e la stessa ragion d’essere del diritto internazionale sono cresciuti. Diversi Stati firmatari dello Statuto di Roma hanno dimostrato grande noncuranza per le decisioni della CPI: nel 2025 l’Ungheria ha annunciato il proprio recesso dallo Statuto di Roma, e sia Putin – oggetto di un mandato d’arresto da parte della CPI – che Netanyahu – per cui il mandato è stato richiesto, si sono recati in Stati membri. L’Italia, membro fondatore della Corte, ha dimostrato un particolare disinteresse per i contenuti dello Statuto, permettendo a Netanyahu l’accesso al proprio spazio aereo e direttamente ostacolando la Corte nell’arresto di Almasri. Nel frattempo, la “guardia costiera” libica usa la violenza sempre più frequentemente, anche contro le navi di soccorso delle ONG; le persone morte cercando di raggiungere l’Italia sono almeno 738 solo nel 2025, e dalla presentazione della comunicazione di Front-lex i naufragi documentati almeno due. Il Mediterraneo centrale resta la frontiera più letale al mondo. 1. ONG che si occupa di strategic litigation davanti alla Corte di Giustizia dell’UE, alla CEDU e alla CPI ↩︎ 2. Press Release ↩︎ 3. Per un riassunto completo del caso, l’elenco dei presunti responsabili, delle vittime e delle prove presentate alla CPI, si rimanda qui ↩︎ 4. Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, un’agenzia dell’Unione Europea che si occupa del controllo e della gestione delle frontiere esterne degli stati membri dell’UE e dell’area Schengen ↩︎ 5. Ossia quelli su cui esercita giurisdizione la CPI: genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e crimine di aggressione. ↩︎ 6. Trattato istitutivo della Corte penale internazionale, che definisce i crimini internazionali più gravi (genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra, aggressione), adottato a Roma nel 1998 ↩︎ 7. Operazione militare e umanitaria italiana (2013–2014) nel Mediterraneo centrale, volta al soccorso in mare e al contrasto del traffico di esseri umani. Sostituita dall’operazione Triton di Frontex nel 2014 ↩︎ 8. Il Memorandum Italia-Libia, firmato il 2 febbraio 2017 e ufficialmente rivolto a fermare i flussi irregolari, e la Dichiarazione di Malta, del 3 febbraio 2017, con cui l’UE impegna 200 milioni € per formare e finanziare la Guardia Costiera Libica e migliorare le strutture di accoglienza in Libia ↩︎ 9. In base all’articolo 7 dello Statuto di Roma, i crimini contro l’umanità sono atti commessi “nell’ambito di un attacco esteso o sistematico contro una popolazione civile con la consapevolezza dell’attacco” ↩︎ 10. Leggi la comunicazione ↩︎ 11. Il governo Meloni ha deciso di mantenere in vigore il Memorandum con la Libia, che prevede collaborazione nel controllo delle frontiere e sostegno alla guardia costiera libica, nonostante le richieste di opposizioni e ONG di interromperlo. L’accordo dura tre anni e si rinnova automaticamente se una delle due parti non ne chiede la cessazione entro tre mesi dalla scadenza ↩︎ 12. Leggi la comunicazione ↩︎ 13. Per i riferimenti delle sentenze e delle comunicazioni clicca qui ↩︎ 14. Caso Almasri la Corte Penale Internazionale ricostruisce la sequela di omissioni. Entro venerdì 31 ottobre l’Italia deve fornire ulteriori informazioni, Giustizia Insieme (24 ottobre 2025) ↩︎ 15. La decisione completa è disponibile qui ↩︎
Mutui impossibili e affitti negati: la casa resta un miraggio per le persone straniere
Nel nuovo Dossier statistico immigrazione 2025 che uscirà a inizio novembre si racconta il paradosso di chi lavora, paga le tasse e contribuisce alla crescita del Paese, ma resta escluso dal mercato immobiliare. Tra mutui inaccessibili, affitti negati e politiche discriminatorie, il diritto alla casa viene ostacolato da troppe porte chiuse. Un milione di persone straniere residenti in Italia (1 su 5) avrebbe la possibilità economica di acquistare una casa. Ma per la maggior parte di loro quel passo resta impossibile. È una delle fotografie più nitide del Dossier statistico immigrazione 2025 del Centro studi e ricerche Idos, che sarà presentato il 4 novembre a Roma e in tutte le regioni italiane e province autonome (qui evento). «Pur avendo un reddito sufficiente per sostenere un mutuo», scrivono i ricercatori, «molti stranieri non riescono a comprare casa a causa delle garanzie proibitive richieste dalle banche, delle spese iniziali troppo alte e di un diffuso pregiudizio sociale». Il risultato è che solo il 20% delle persone con cittadinanza straniera vive oggi in un’abitazione di proprietà, contro l’80% degli italiani. Il Dossier, nella sua anticipazione, ricostruisce vent’anni di mercato immobiliare “migrante”: un milione di case acquistate dagli anni Duemila a oggi, per un volume d’affari complessivo di oltre 110 miliardi di euro. Ma dopo il boom del periodo 2006-2009 (440 mila abitazioni comprate, tra un quinto e un ottavo del totale delle compravendite), la crescita si è fermata. Negli ultimi anni, gli acquisti si aggirano sulle 30mila unità annue, meno del 5% del totale. Nel 2025, secondo le stime, potrebbero salire a 39mila, un dato appena superiore al 5,1%. «Numeri che raccontano una ripresa solo apparente», spiega Idos. «Le percentuali sono ancora ben lontane da quelle di vent’anni fa, e soprattutto non indicano un miglioramento delle condizioni di accesso». Anche la geografia degli acquisti è cambiata: le case comprate nei centri cittadini sono crollate dal 10,1% del 2006 al 3,6% del 2025. «Chi compra, oggi, lo fa sempre più nelle periferie o nei piccoli comuni», si legge nel rapporto. «Non per scelta, ma per necessità». Sette abitazioni su dieci acquistate da cittadini non italiani appartengono oggi a cittadini dell’Est Europa, soprattutto romeni. Nel 2006 erano meno del 34%. Stabili le presenze di persone provenienti da Cina, India, Sri Lanka, Bangladesh e Pakistan, attorno al 10% del totale. Crollano invece gli acquisti da parte di persone dei Paesi africani, scesi dal 14% del 2006 al 4,8%. «Un dato che riflette non solo il peggioramento delle condizioni economiche, ma anche la stratificazione del razzismo abitativo», commenta Idos. Dietro le percentuali ci sono storie comuni: famiglie che lavorano da anni in Italia, che hanno un reddito regolare e stabile, ma non riescono a ottenere un mutuo. «Le banche chiedono garanzie impossibili, a volte anche per chi ha un contratto a tempo indeterminato», spiega il rapporto. «A questo si aggiungono spese iniziali che molti non possono permettersi: anticipo, notaio, commissioni». Così, chi vorrebbe comprare finisce per restare in affitto. Ma anche qui, la strada si fa subito in salita. “NON SI AFFITTA A STRANIERI” «È ormai comune imbattersi in annunci che lo dichiarano apertamente: “non si affitta a stranieri”», denuncia Idos. Una discriminazione che, unita ai canoni più alti, ai contratti irregolari e alla scarsa qualità degli alloggi, spinge molti immigrati a vivere in condizioni precarie. «La casa diventa uno strumento di esclusione sociale», spiegano i curatori del Dossier. «Chi non può affittare regolarmente non può ottenere la residenza, e senza residenza perde l’accesso ai servizi, al welfare, al diritto di voto locale. È un circolo vizioso che alimenta l’invisibilità». Negli ultimi anni, la situazione si è aggravata anche per effetto della speculazione immobiliare e del turismo breve, che hanno ridotto drasticamente la disponibilità di case in locazione nelle grandi città. Per i rifugiati e i titolari di protezione internazionale, l’esclusione è ancora più profonda. «Molti di loro, al termine del percorso nei centri di accoglienza, non trovano soluzioni abitative e restano nei Cas o nei Sai per mesi, talvolta anni», osserva Idos. La mancanza di politiche abitative e l’adozione, da parte di diverse Regioni, di requisiti discriminatori per accedere alle case popolari – come anni minimi di residenza o cittadinanza – impediscono qualsiasi prospettiva di autonomia. «È così che i centri di accoglienza diventano residenze permanenti, o peggio ancora, si finisce nei ghetti, nelle baraccopoli, in roulotte o case occupate», sottolineano i ricercatori. «Una forma estrema di esclusione che nega il diritto più elementare: quello a un’abitazione dignitosa». La comunità immigrata rappresenta un segmento vitale dell’economia, e anche del mercato immobiliare. Ma il sistema continua a respingerli. «Parliamo di un potenziale enorme – un milione di persone pronte a investire nel Paese in cui vivono e lavorano – che l’Italia non riesce a valorizzare», conclude Idos. «Dietro le cifre c’è una questione culturale prima ancora che economica: la difficoltà, ancora oggi, di considerare i cittadini stranieri come parte integrante della nostra comunità».
«Mi hanno accusato di voler andare in Europa»
Profilazione razziale ed etnica, estorsione, arresti di massa, detenzione per giorni senza accesso a cibo e cure mediche, espulsioni collettive, percosse e torture: queste sono solo alcune delle violazioni che migranti e richiedenti asilo hanno subito negli ultimi anni, per mano delle forze di sicurezza, nel contesto del controllo delle frontiere e dell’immigrazione in Mauritania. Nel frattempo, quelle stesse forze hanno continuato a ricevere sostegno finanziario e materiale dall’Unione Europea e dalla Spagna 1. Il report di agosto 2025, redatto dall’organizzazione internazionale Human Rights Watch 2, cerca di fare chiarezza su questa situazione attraverso indagini e testimonianze raccolte dal 2020 al 2025 3.  Situata a sud del Marocco, la Repubblica Islamica di Mauritania confina con l’Oceano Atlantico, il Senegal, il Mali, l’Algeria e il Sahara occidentale occupato dal Marocco. Il Paese ha ottenuto l’indipendenza dalla Francia nel 1960, ma le sue istituzioni democratiche sono state soggette a forme di controllo militare per quasi cinquant’anni, trasformandolo in una sorta di eterna “democrazia pretoriana” 4. Questa continuità di leadership è dimostrata dall’elezione di Mohamed Ould Ghazouani, ex direttore generale della Sicurezza Nazionale e Capo di Stato Maggiore dell’esercito, nelle elezioni del 2019.  La Mauritania è comunque considerata dalla comunità internazionale uno Stato più affidabile rispetto ad alcuni dei suoi vicini del Sahel, anche perché le ultime elezioni hanno avviato un nuovo programma politico che mira a realizzare riforme in diversi settori, migliorare i servizi pubblici fondamentali e porre maggiore enfasi sulla giustizia sociale. Destinazione e paese di transito principalmente per i migranti dell’Africa occidentale e centrale, la Mauritania ospita anche richiedenti asilo e rifugiati, la maggior parte dei quali provenienti dal Mali, dove negli ultimi anni il conflitto armato e la violenza sono peggiorati.  Nonostante ciò, la Mauritania è ancora minacciata da fragilità profondamente radicate, come la diffusa disoccupazione e la persistente rivalità tra la maggioranza della popolazione mauritana nera – haratin e afromauritani – e l’élite minoritaria dei Bidhan, discendenti di arabi e berberi, che predominano nelle forze di sicurezza e ai livelli più alti del governo. Inoltre, il Paese è particolarmente soggetto ai cambiamenti climatici e al terrorismo islamico proveniente dai confini porosi. A causa delle crescenti pressioni migratorie e dell’insicurezza nel Sahel, tuttavia, la Mauritania ha acquisito importanza geostrategica per l’UE e in particolare per la Spagna, le cui Isole Canarie distano circa 700 chilometri dalla città più settentrionale del Paese, Nouadhibou. La rotta migratoria marittima dal nord-ovest dell’Africa alle Canarie, nota come “rotta atlantica” o “rotta nord-occidentale africana”, è diventata sempre più attiva dal 2020, diventando una delle rotte irregolari più trafficate e mortali verso l’Europa. Nel 2024, un numero record di quasi 47.000 migranti e richiedenti asilo – provenienti principalmente dall’Africa occidentale, centrale o settentrionale, con i maliani in testa – è arrivato alle Canarie su piccole imbarcazioni 5. Il 7 marzo 2024, l’Unione Europea e la Mauritania hanno siglato un accordo sulla migrazione del valore di 210 milioni di euro. L’accordo è stato promosso dall’UE e sostenuto dal governo spagnolo, preoccupato per l’aumento dell’immigrazione clandestina: a gennaio, sono stati registrati oltre 7.000 arrivi sulle isole 6. L’obiettivo è ridurre questi arrivi sostenendo le forze di frontiera e di sicurezza mauritane nella lotta al traffico di esseri umani e rafforzando le capacità di gestione e sorveglianza dei confini, col supporto di Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera 7 . L’accordo promette anche fondi per la creazione di posti di lavoro nel paese, il rafforzamento del sistema di asilo e dei programmi di migrazione legale. In realtà, come emerge chiaramente dal report, l’accordo e, più in generale, la politica di esternalizzazione dei confini europei, hanno permesso ed esacerbato le violazioni dei diritti umani. Infatti, i progetti dell’UE tra il 2015 e il 2023, per un valore di almeno 61 milioni di euro, hanno adottato un approccio di securitizzazione che ha dato priorità al sostegno alle forze di controllo delle frontiere e dell’immigrazione della Mauritania, in particolare alla polizia, alla guardia costiera e alla gendarmeria, senza adeguate garanzie per affrontare i rischi di violazioni dei diritti umani.  PH: Lauren Seibert/Human Rights Watch Questo dato non include i 100 milioni di euro di finanziamenti concessi alla Mauritania nel 2024, per i quali l’UE non ha pubblicato alcun bilancio disaggregato, né include i milioni di euro di sostegno dell’UE alle forze armate mauritane per motivi di sicurezza e di “integrità territoriale”, che possono sovrapporsi al controllo delle frontiere. A livello bilaterale, anche la Spagna ha continuato e aumentato il sostegno al controllo delle frontiere da parte delle forze mauritane, in particolare della guardia costiera. Come denuncia il rapporto, le forze di sicurezza mauritane, col supporto europeo, hanno spesso sottoposto migranti e richiedenti asilo provenienti dai paesi africani a vessazioni e arresti arbitrari. Le autorità hanno preso di mira individui o gruppi sulla base di informazioni o supposizioni secondo cui fossero privi di documenti, stessero pianificando partenze irregolari verso i paesi nordafricani o la Spagna, o fossero coinvolti nel traffico di persone migranti; alcuni hanno utilizzato il controllo dell’immigrazione anche come pretesto per estorcere denaro. Sono riportati anche casi di tortura e di stupro compiuti dalla polizia.   Human Rights Watch ha intervistato 78 vittime di abusi, di cui molti hanno affermato che le forze di sicurezza li hanno sottoposti a profilazione razziale o hanno dimostrato un trattamento razzista perché neri: «Se hai la pelle nera, non ti rispettano, ti insultano e ti prendono i documenti», ha detto una persona migrante rientrato in Senegal 8. «Quando vedono me, una straniera, è come se vedessero qualcosa di strano o di losco», ha aggiunto una donna togolese a Nouakchott 9.  Altro fattore critico sono i centri di detenzione. Definiti dalle autorità “centri di transito”, in realtà sono vere e proprie prigioni in cui i migranti vengono rinchiusi per giorni o settimane, prima di venire espulsi, in condizioni disumane: si lasciano dormire per terra, in stanze sovraffollate, con accesso limitato ai bagni, alle cure mediche e al cibo.  Oltre a ciò, il rapporto mostra come il governo mauritano abbia regolarmente espulso gruppi di persone ai confini con Mali e Senegal, usando dei bus che partono dai centri di detenzione di Nouakchott e abbandonano i migranti in aree remote in cui è difficile chiedere aiuto: «li scaricano al confine senza cibo, senza soldi per il trasporto», ha dichiarato una rappresentante della comunità gambiana 10. È chiaro, quindi, che gli incentivi dell’UE e le pressioni per controllare i flussi migratori hanno incoraggiato i duri approcci descritti in questo rapporto, replicando la strategia europea documentata anche in Tunisia, Libia e Marocco. Il governo della Mauritania ha respinto le conclusioni del rapporto 11, affermando di aver recentemente adottato misure volte a proteggere i diritti delle persone migranti, e la Commissione Europea ha dichiarato che il suo accordo è fondato sul rispetto dei diritti umani 12. Nonostante ciò, l’impatto dei controlli migratori lungo la rotta atlantica negli ultimi cinque anni e gli abusi commessi dalle forze di sicurezza mauritane rivelano che l’esternalizzazione delle frontiere dell’UE ha spesso ignorato, o aggravato, le violazioni dei diritti. Come dichiara un operatore umanitario intervistato da Human Rights Watch, ancora una volta «gli africani stanno facendo il lavoro per l’UE, e loro lo sanno» 13. 1. EU Projects on Border Control and Migration Management in Mauritania ↩︎ 2. “They Accused Me of Trying to Go to Europe”. Migration Control Abuses and EU Externalization in Mauritania, HRW (27 agosto 2025) ↩︎ 3. Human Rights Watch ringrazia tutte le persone che hanno fornito testimonianze e prove per questo rapporto, nonché i partner che hanno offerto un prezioso supporto alla ricerca, tra cui l’Association Mauritanienne des Droits Humains (AMDH); l’Association Mauritanienne pour la Citoyenneté et le Développement (AMCD); l’Association Malienne des Expulsés; DIADEM Senegal; e altri ↩︎ 4. Per approfondire ISPI ↩︎ 5. EU deal fuelling Mauritania’s abuse of migrants – rights group, BBC (27 agosto 2025) ↩︎ 6. The EU-Mauritania migration deal is destined to fail, Al Jazeera (marzo 2024) ↩︎ 7. L’Ue firma un nuovo partenariato sulla migrazione con la Mauritania. E impegna 210 milioni di euro, EuroNews (marzo 2024) ↩︎ 8. Intervista di Human Rights Watch con Abdou Khadre Diop, leader dell’Association des Migrants de retour au Sénégal, Dakar, Senegal, 22 febbraio 2023 ↩︎ 9. Intervista di Human Rights Watch con una donna togolese, Nouakchott, Mauritania, 21 giugno 2022 ↩︎ 10. Intervista di Human Rights Watch con rappresentante della comunità del Gambia, Nouakchott, Mauritania, settembre 2023 ↩︎ 11. Qui la risposta del governo ↩︎ 12. Reply – Human Rights Watch Report on Mauritania ↩︎ 13.  “They Accused Me of Trying to Go to Europe”, p. 1 ↩︎
Lampedusa, 13 agosto 2025: la strage che non deve diventare oblio
Il 13 agosto, al largo di Lampedusa, circa cento persone provenienti da Somalia, Eritrea, Etiopia, Egitto e Pakistan hanno affrontato il mare su due imbarcazioni partite dalla Libia. Per quaranta di loro – tra dispersi e morti – la traversata si è conclusa nel silenzio delle onde. Sessanta sono sopravvissutə, ventitré corpi sono stati recuperati, mentre più di quindici restano senza nome né destino. Notizie/In mare LAMPEDUSA, 13 AGOSTO: UN’ALTRA STRAGE DI FRONTIERA Mem.Med: «Saremo al fianco di familiari e sopravvissuti che rivendicano verità, giustizia e memoria» Redazione 28 Agosto 2025 Il nuovo report di MEM.MED (Memoria Mediterranea), “Strage di Lampedusa del 13.08.2025. Memoria dal margine contro l’oblio di frontiera” 1, ricostruisce non solo le circostanze del naufragio ma anche le omissioni istituzionali e le ferite inflitte ai familiari dalle procedure di gestione dei corpi. È un lavoro che chiede verità, giustizia e memoria per quelle vite spezzate. Secondo le testimonianze raccolte, le due barche partite dalla Libia hanno navigato insieme fino a quando una ha iniziato a imbarcare acqua. Le persone si sono spostate sull’altra, più grande, che si è poi ribaltata a 14 miglia da Lampedusa. Alcuni sopravvissutə parlano di un’onda improvvisa, altri di instabilità dovuta al sovraccarico. Ma il vero enigma resta la mancata individuazione delle imbarcazioni. In un’area pattugliata da Frontex e Guardia Costiera, – sottolinea l’associazione Maldusa 2 – come è possibile che due scafi restino invisibili? Perché i soccorsi non sono arrivati in tempo? Inoltre, le ordinarie procedure di sbarco sono state stravolte. Le associazioni della società civile, solitamente avvisate in anticipo per poter accogliere le persone al loro arrivo, non hanno ricevuto alcuna comunicazione. Questa esclusione ha impedito loro di essere presenti al molo, privando i sopravvissuti di un primo sostegno umano e immediato. A Lampedusa la morte viene confinata. I ventitré corpi recuperati sono stati disposti a terra, all’aperto, in un deposito cimiteriale inadeguato, sotto il sole d’agosto. Sigillati in bare contrassegnate da lettere, hanno atteso giorni prima di essere trasferiti in Sicilia. PH: Silvia Di Meo, Porto Empedocle I familiari sopravvissuti, reclusi nell’hotspot, non hanno potuto vegliare i propri cari. Il diritto al cordoglio e al rito religioso è stato violato. La gestione dei morti di frontiera si è tradotta, ancora una volta, in un atto di disumanizzazione. Mentre le autorità tacevano, le famiglie – in Italia, in Europa e nei paesi d’origine – hanno iniziato a cercare informazioni attraverso reti di solidarietà. MEM.MED ha raccolto decine di segnalazioni e, in dialogo con la Procura di Agrigento, ha reso possibile un percorso di identificazione delle salme, spesso a distanza, tramite videochiamata. Grazie a questa mediazione, ventuno corpi hanno ritrovato un nome. Un ragazzo somalo, Mo, giunto sull’isola in cerca del fratello disperso, ha svolto un ruolo decisivo aiutando le famiglie connazionali. Ma senza l’intervento delle associazioni, la comunicazione tra istituzioni e familiari non si sarebbe mai attivata. Per molte famiglie la sepoltura è stata un ulteriore trauma. La scarsità di cimiteri islamici e l’assenza di un quadro normativo hanno portato a una dispersione dei corpi in undici comuni siciliani 3, spesso senza garanzia di inumazione a terra, come richiesto dalle famiglie musulmane. Questa frammentazione ha reso difficile conoscere gli spostamenti delle salme e impedito di vivere il lutto in maniera collettiva e politica. Alle barriere burocratiche e logistiche si è aggiunta la riduzione dei riti a mere pratiche amministrative: le bare divise, le volontà dei familiari ignorate, la possibilità di pregare e commemorare insieme negata. Così si ostacola la restituzione di un nome, il diritto di vegliare e la trasformazione del dolore in memoria condivisa. Come scrive MEM.MED, non si tratta di semplici negligenze ma di «razzismo e colonialismo strutturali che attraversano la nostra società, le nostre istituzioni e che attribuiscono valore diverso alle vite delle persone razzializzate e in movimento, anche da morte». PH: Silvia Di Meo, Castelvetrano La strage del 13 agosto non è un episodio isolato. Pochi giorni dopo, il 22 agosto, a Lampedusa sono arrivati i corpi di tre bambine di 9, 11 e 17 anni, morte in mare insieme alla madre sopravvissuta, oggi rinchiusa nell’hotspot. «Ad oggi» – denuncia Mem.Med – «le bambine si trovano nel cimitero di Cala Pisana e non sappiamo dove verranno sepolte». Ogni corpo restituito, ogni famiglia che chiede giustizia, ricorda che i confini non sono linee neutre ma dispositivi di morte. Per questo la memoria non può essere lasciata al caso: deve diventare pratica politica, resistenza collettiva all’oblio. Il Mediterraneo continua a essere attraversato da rotte che non solo uccidono, ma cancellano: nomi, volti, legami. A contrastare questa cancellazione restano le famiglie, le associazioni e chi decide di guardare in faccia la violenza del confine, senza normalizzarla. > Per le tre bambine ancora non sepolte, per la loro madre che lotta. > Per le vite disperse in mare. E per i volti di quelle ventitré persone in > cerca di libertà che noi non dimenticheremo mai. (Ultima pagina del rapporto) PH: Silvia Di Meo 1. Scarica il rapporto ↩︎ 2. Ancora una strage. Fino a quando? Maldusa (30 agosto 2025) ↩︎ 3. Le salme infatti sono state distribuite nei cimiteri di: Canicattì, Villafranca Sicula, Ribera, Grotte, Palma di Montechiaro, San Biagio Platani, Calamonaci, Santo Stefano di Quisquina, Castrofilippo, San Margherita del Belice, Campobello di Licata e Joppolo Giancaxio ↩︎
Bari come Palazzo San Gervasio: troppe ombre nei CPR italiani
Il 15 settembre abbiamo parlato del rapporto stilato dalla delegazione del Garante nazionale dei diritti della libertà personale (GNPL) 1 dopo la visita effettuata presso il CPR di Palazzo San Gervasio il 12 dicembre del 2024. Rapporti e dossier/CPR, Hotspot, CPA IL CPR DI PALAZZO SAN GERVASIO SOTTO LA LENTE D’INGRANDIMENTO DEL GARANTE NAZIONALE Pubblicato il Rapporto sulla visita ispettiva del 12 dicembre 2024 presso la struttura lucana Avv. Arturo Raffaele Covella 15 Settembre 2025 Il 13 dicembre la stessa delegazione, composta dal prof. Mario Serio e dalle dott.sse Elena Adamoli e Silvia Levorato, ha effettuato una visita ispettiva anche al Centro di Permanenza per i Rimpatri di Bari – Palese, alla presenza del Vice Prefetto di Bari – Pasqua Erminia Cicoria -, dell’Ispettore Di Lorenzo (Ufficio immigrazione), della dott.ssa Stefania Mingolla, in qualità di responsabile del Centro e dell’assistente sociale – dott.ssa Noemi Borraccini. Anche la visita del 13 dicembre presso la struttura di Bari presenta elementi di grande interesse e merita un approfondimento. La relazione predisposta dalla delegazione, infatti, contiene un quadro generale della situazione del Centro, evidenzia numerose criticità e rappresenta un punto di partenza necessario per un ulteriore approfondimento sul sistema CPR in Italia. Nello specifico, la relazione si compone di 7 paragrafi dedicati a: * Informazioni generali; * Condizioni materiali; * Tutela della salute; * Assistenza psico-sociale; * Qualità della vita detentiva e contatti con l’esterno; * Sicurezza; * Diritto all’informazione e accesso alla giustizia. INFORMAZIONI GENERALI Il Centro di Permanenza di Bari – Palese è gestito dalla Cooperativa “La mano di Francesco” in forza di convenzione scaduta il 5 novembre 2024 e rinnovata per 1 anno. Dal progetto “Trattenuti” realizzato da ActionAid Italia e dal Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari 2 apprendiamo che “La mano di Francesco”, cooperativa con sede legale a Favara, in provincia di Agrigento, gestisce il CPR di Bari dal 13 dicembre del 2023 3. Peraltro, anche se ad aprile del 2025 è stato indetto un nuovo bando per l’affidamento dei servizi di gestione, in scadenza a giugno, al momento la cooperativa continua ad operare in regime di proroga 4. Il Centro di Bari ha una capienza complessiva di 90 persone e al momento della visita erano presenti 82 trattenuti. Complessivamente, nel 2024 (fino al momento della visita), le persone trattenute risultavano essere 528, con diverse nazionalità, età variegate (dai 18 a 56 anni) e con status giuridici differenti. Proprio rispetto a quest’ultimo dato, la delegazione sottolinea che i trattenuti, al momento della visita, erano alloggiati in maniera promiscua senza alcuna distinzione in base allo status rivestito (persone trattenute per irregolarità amministrativa, richiedenti asilo, soggetti provenienti dal circuito penale). Con riferimento appunto alle condizioni generali del Centro, la delegazione evidenzia una prima criticità concernente la tenuta del registro degli eventi critici. Si tratta di un documento particolarmente importante in cui vengono annotati tutti i fatti che accadono all’interno del Centro e che possono avere rilievo per diverse ragioni. Nel registro, infatti, vengono registrati eventuali episodi di autolesionismo, tentativi di suicidio, incidenti, rivolte, risse, ma anche malori, ricoveri in ospedale. Una buona tenuta del registro consente dunque di avere un quadro della vita del CPR e di poter compiere un’analisi dettagliata anche delle principali situazioni di disagio o di malessere presenti. Nel caso di Bari, il registro degli eventi critici è costituito da un quadernetto scritto a mano (che riporta data, descrizione dell’evento rilevante e firma dell’operatore) composto da pagine non numerate e non siglate. Uno strumento che non presenta “le caratteristiche di un sistema che ne impedisca l’alterabilità, né garantisce una classificazione omogenea delle varie categorie di eventi e una numerazione progressiva degli inserimenti”. CONDIZIONI MATERIALI Circa le condizioni materiali del Centro, la delegazione parte da una descrizione sommaria della struttura evidenziando che questa è composta da 7 moduli detentivi con 18 posti cadauno. Ogni modulo contiene al suo interno le stanze di pernottamento, i bagni, una sala giochi con tavole e panche ancorate a terra. I moduli 1 e 6, visitati dalla delegazione, mostravano carenze igieniche legate alla situazione dei bagni che apparivano in cattive condizioni, maleodoranti e, in alcuni casi, privi di porte. Come nel caso del CPR di Palazzo San Gervasio, all’interno dei singoli moduli abitativi mancano campanelli di allarme utili in caso di necessità per richiamare l’attenzione del personale medico o del personale dell’ente gestore. Per quanto riguarda gli ambienti diversi dai moduli abitativi, la delegazione si sofferma in particolare sulla situazione della sala adibita ad aula di udienza. Una sala spesso utilizzata anche per lo svolgimento dei colloqui difensivi che, in alternativa, si svolgono direttamente in corridoio senza alcuna possibilità di riservatezza e sotto il controllo costante delle forze di polizia. Ma tornando a quanto riportato dalla delegazione rispetto all’aula di udienza, questa appare «priva delle caratteristiche di riservatezza e di tranquillità che devono connotare l’aula di udienza». Anche durante le udienze, infatti, il personale di polizia entra ed esce dalla sala e ciò rappresenta una violazione delle regole previste per l’udienza camerale. Una situazione che rispecchia la poca attenzione che viene riservato al controllo giurisdizionale sull’operato della Pubblica Amministrazione e alla importanza di un compiuto diritto di difesa. Un comportamento diffuso nei CPR che sfocia, in alcuni casi, in una sorta di “fastidio” per la presenza dei difensori nelle diverse strutture, soprattutto se questi compiono anche azione di segnalazione e di denuncia rispetto alle violazioni riscontrate. TUTELA DELLA SALUTE Rispetto al tema della tutela della salute, solamente nel mese di ottobre del 2024 è stato sottoscritto il protocollo d’intesa tra la Prefettura di Bari, e l’ASL, questione peraltro sollevata già in passato dal Garante Nazionale. L’adozione del protocollo è condizione necessaria ed indispensabile per l’accesso delle persone trattenute alle cure mediche e per garantire, dunque, una effettiva tutela sanitaria. Peccato che il personale medico in servizio al momento della visita mostra di non avere conoscenza dell’avvenuta sottoscrizione del protocollo e, quindi, del suo contenuto. Il medico, con cui la delegazione si è confrontato, viene descritto come «non adeguatamente informato sulle prescrizioni del Regolamento in materia di tutela della salute, soprattutto con riferimento alle questioni che attengono alle procedure di riesame sanitario, ai vincoli di valutazione dei piani terapeutici in caso di dimissioni, agli obblighi del medico in caso di possibili segni di violenza o tortura». Con riferimento a tale ultimo punto, in caso di possibili segni di tortura o di violenza, il medico riferisce «di non dare avvio ad alcuna procedura a fronte della negazione espressa dalla persona interessata». Si tratta di un atteggiamento non in linea con le Linee Guida sviluppate dall’Istituto Nazionale Salute Migrazione e Povertà (INMP) 5, dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e dalla Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM). Per questo il Garante Nazionale nella sua relazione raccomanda espressamente che i medici del CPR assicurino l’attuazione delle Linee Guida richiamate. Le informazioni raccolte dalla delegazione hanno poi consentito di verificare la presenza di importanti criticità rispetto soprattutto ai soggetti vulnerabili. In particolare emerge una scarsa collaborazione da parte del Serd e un problema legato alle tempistiche di presa in carico dei soggetti affetti da tossicodipendenza. Tra la segnalazione e la presa in carico, infatti, può trascorrere anche 1 settimana. Stesso problema si ripropone per l’accesso ai servizi che riguardano la tutela della salute mentale. Le visite specialistiche possono anche aver luogo dopo 3 settimane dall’accesso al CPR. Le criticità da ultimo richiamate, si sommano alla mancanza di protocolli specifici di trattamento delle vulnerabilità e del rischio suicidario. La prassi in uso presso il CPR di Bari è quella di destinare le persone in stato di particolare agitazione in una “stanza c.d. di accoglienza” con sorveglianza a vista da parte del personale di polizia. Una sorta di “stanza di isolamento”, almeno così viene percepita dai trattenuti. Si tratta di una procedura che non trova alcuna regolamentazione specifica e rispetto alla quale la delegazione non ha potuto effettuare alcuna verifica in quanto non esiste un registro dei transiti in tale particolare stanza. Infine, per motivi di sicurezza, le visite mediche vengono effettuate alla presenza di almeno 2 militari. Una prassi che si pone in contrasto finanche con le disposizioni della Questura di Bari del 23.11.2022 e che comunque rappresenta una grave violazione del rispetto della privacy e della tutela della dignità del trattenuto. ASSISTENZA PSICO SOCIALE L’attività del servizio di assistenza sociale è documentata ma, in pratica, i colloqui con i trattenuti vengono trasfusi in apposite relazioni solamente ove le circostanze lo richiedano, ad esempio, nel caso in cui vi sia una richiesta della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale o una specifica richiesta del difensore. In realtà, la mancata stesura di una relazione psicosociale e l’omesso invio all’Autorità di pubblica sicurezza costituisce una violazione del Regolamento CPR che prevede l’inserimento di tale documentazione nel fascicolo processuale della convalida o della proroga. QUALITÀ DELLA VITA DETENTIVA E CONTATTI CON L’ESTERNO La qualità della vita detentiva, da quanto emerge dalla relazione, non si può certo definire buona. Infatti, all’interno del CPR di Bari-Palese le attività ricreative, sociali e religiose sono del tutto assenti. Non vi è alcuna intesa con soggetti esterni della società civile per l’organizzazione di attività del tipo sopra richiamato e gli unici contatti con il mondo esterno sono limitati ai colloqui con i difensori. È stato da poco avviato un servizio di prestito bibliotecario e, anche se è presente un campo sportivo nel Centro, questo non viene mai utilizzato. Peraltro, come già visto nel caso di Palazzo San Gervasio, al momento dell’ingresso ai trattenuti vengono requisiti i cellulari di tipo smartphone, e, diversamente da Palazzo San Gervasio, non viene fornito alcun cellulare di vecchia generazione da parte dell’ente gestore. Inoltre nella struttura non vi sono telefoni fissi che possono essere utilizzati dai trattenuti. Pertanto, sono gli stessi cittadini stranieri a doversi adoperare per recuperare in qualche modo un dispositivo cellulare di vecchia generazione da utilizzare per comunicare con familiari, amici e con lo stesso difensore. Tale prassi limita fortemente la possibilità di accesso alle comunicazioni con il mondo esterno da parte dei trattenuti, genera forti disparità tra trattenuti e rappresenta anche un’evidente compromissione del diritto di difesa limitando la possibilità di interazione tra avvocato e assistito. Ecco perché il Garante Nazionale nella relazione stigmatizzata tale situazione e raccomanda di assicurare alle persone trattenute nel CPR di Bari la libertà di corrispondenza telefonica. SICUREZZA Il modello organizzativo adottato nel centro appare decisamente singolare in quanto il servizio di vigilanza è affidato ad un esiguo gruppo interforze (composto da unità della Polizia di Stato, dei Carabinieri e della Guardia di Finanza) a cui si aggiunge un’ampia squadra di personale dell’esercito. In particolare, il personale dell’esercito, come osservato dalla delegazione durante la visita, svolge anche compiti di sorveglianza dei cittadini stranieri, entra nei moduli abitativi, preleva i trattenuti e li accompagna nell’aula di udienza. Si tratta di mansioni che non dovrebbero essere svolte da tali soggetti e, infatti, il coinvolgimento delle Forze armate in tali funzioni, non è in linea con quanto stabilito dal Regolamento nazionale sui CPR e con lo stesso Regolamento del CPR di Bari adottato dalla Prefettura nel giugno del 2024. Peraltro, la sorveglianza effettuata dal personale delle Forze armate è particolarmente pervasiva, tanto che osserva la delegazione del Garante Nazionale: il personale delle Forze armate «rimaneva presente all’interno della stanza ovi si stava svolgendo l’udienza in modalità da remoto». DIRITTO ALL’INFORMAZIONE E ACCESSO ALLA GIUSTIZIA Rispetto alle informazioni fornite agli stranieri in ingresso e in materia di accesso alla giustizia, sono diverse le criticità che emergono nel rapporto pubblicato lo scorso agosto. In primo luogo, va evidenziato che la Prefettura di Bari ha adottato nel mese di giugno del 2024 un nuovo Regolamento del CPR. Si tratta di un testo che ricalca sostanzialmente quanto stabilito dal Regolamento nazionale senza offrire una definizione puntuale e precisa delle regole di convivenza nella struttura e dei servizi garantiti. In secondo luogo, il materiale adottato dall’informatore legale non è aggiornato con le modifiche normative intervenute con l’emanazione del Decreto Legge n. 124 del 2023 6, soprattutto con riguardo ai tempi massimi del trattenimento e alle scadenze delle proroghe. A Bari come a Palazzo San Gervasio, poi, la prassi utilizzata per la presentazione delle domande di asilo genera ritardi nel riconoscimento dello status di richiedente asilo, in quanto, in prima battuta, viene semplicemente riportato che lo straniero vuole un colloquio con l’Ufficio immigrazione e, quindi, in attesa che si svolga effettivamente il colloquio, lo straniero non è considerato ancora richiedente asilo. Una prassi non in linea con quanto stabilito dalla giurisprudenza nazionale ed europea, secondo la quale, lo straniero deve essere considerato richiedente asilo dal momento in cui manifesta la volontà e non dalla formalizzazione della domanda di protezione internazionale. Infine, vi sono problemi anche rispetto alle nomine dei difensori di fiducia. Non è previsto, infatti, nell’elenco del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bari dedicato ai difensori abilitati al patrocinio a spese dello Stato, una specifica categoria dedicata “al diritto dell’immigrazione”, mentre sono specificate almeno una quarantina di altre diverse specializzazioni. CONCLUSIONI La visita della delegazione presso il Centro barese e il rapporto successivamente predisposto dal Garante Nazionale, evidenzia una situazione caratterizzata da forti criticità e da palesi violazioni dei diritti delle persone trattenute. Le violazioni più evidenti e più odiose riguardano il diritto alla salute che, soprattutto per i soggetti vulnerabili, è messo a dura prova all’interno del CPR di Bari. La mancata conoscenza di protocolli e delle Linee Guida da parte dei sanitari è segno di una grave superficialità nell’approccio al lavoro all’interno del Centro, ma mostra anche di un deficit di formazione e di scelta di personale da parte dell’ente gestore. Mancanze gravi che non possono essere sottaciute e che andrebbero affrontate con maggiore attenzione e serietà dagli organi preposti a svolgere attività di controllo. Anche le omissioni dei medici in caso di segni evidenti di violenza e tortura, oltre che rappresentare palesi violazioni deontologiche, andrebbero valutate da chi di dovere per le opportune verifiche di quanto realmente accade nella struttura. Le segnalazioni raccolte da diverse associazioni che operano per il rispetto dei diritti dei trattenuti, parlano di violenze perpetrate ai danni dei trattenuti e andrebbero considerate con maggiore attenzione dalle Autorità competenti. D’altra parte, l’organizzazione di tipo militare in essere all’interno del CPR con un uso eccessivo del personale dell’esercito, anche per compiti e mansioni non di competenza, il controllo e la presenza asfissiante dei militari e degli agenti sia durante le udienze, sia durante i colloqui difensivi, sia ancora durante le visite mediche, non è certo un buon segno e non crea un clima positivo all’interno della struttura. In conclusione, per ricordare ancora una volta cosa significa fare l’esperienza del CPR, può essere opportuno riportare la “confidenza” fatta dal medico della struttura alla delegazione in visita: «Le persone, durante il trattenimento, peggiorano notevolmente la condizione psichica e, a maggior durata della permanenza presso il CPR, corrisponde un più elevato rischio di decadimento psichico». In queste parole è racchiuso tutto il senso del fallimento del sistema CPR e la necessità di un intervento politico per superare tale sistema. 1. Rapporto sulle visite effettuate ai Cpr di Palazzo San Gervasio e di Bari il 12 e il 13 dicembre 2024 ↩︎ 2. Un report e la piattaforma opendata costituiscono il progetto “Trattenuti” frutto di un lavoro collettivo di raccolta e analisi dei dati svolto da ActionAid Italia e dal Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari ↩︎ 3. Qui la pagina sul CPR di Bari Palese dal Rapporto “Trattenuti” di Action Aid e UniBa ↩︎ 4. Gara europea a procedura aperta per l’affidamento dei servizi di gestione del CPR, Prefettura di Bari ↩︎ 5. Programma nazionale “Linee guida sulla tutela della salute e l’assistenza socio-sanitaria alle popolazioni migranti” ↩︎ 6. Il Decreto Legge n. 124 del 2023 è un provvedimento urgente che contiene “Disposizioni urgenti in materia di politiche di coesione, per il rilancio dell’economia nelle aree del Mezzogiorno del Paese, nonché in materia di immigrazione”. Tra le principali misure, detta disposizioni relative ai centri di permanenza per i rimpatri ↩︎
Il CPR di Palazzo San Gervasio sotto la lente d’ingrandimento del Garante Nazionale
Sono stati pubblicati alla fine di agosto i rapporti stilati dalla delegazione del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale che il 12 e 13 dicembre ha fatto visita ai Centri di Permanenza per i Rimpatri di Palazzo San Gervasio e Bari – Palese 1. Si tratta di documenti importanti intanto per l’autorevolezza dell’Autorità che ha provveduto alla loro redazione, ma anche per i contenuti che confermano, se ancora ve ne fosse bisogno, le gravi mancanze che tali strutture presentano. In questo articolo ci soffermeremo su quanto riscontrato dalla delegazione nel Centro di Palazzo San Gervasio, rimandando ad altro intervento l’analisi della visita effettuata presso la struttura detentiva di Bari – Palese. LA VISITA PRESSO IL CPR DI PALAZZO SAN GERVASIO Il 12 dicembre 2024 una delegazione del Garante Nazionale, composta dl prof. Mario Serio e dalle dott.sse Elena Adamoli e Silvia Levorato, ha avuto accesso al CPR di Palazzo San Gervasio e nel corso dell’accesso ha avuto modo di interloquire con il Funzionario responsabile del dispositivo di vigilanza, con la responsabile dell’Ufficio immigrazione e con la responsabile dell’ente gestore – Cooperativa Officine Sociali, ma anche con diverse figure professionali presenti nella struttura. Assente invece la Prefettura di Potenza che, come riporta il rapporto, “non è stata in grado, per esigenze di ufficio, di inviare un proprio funzionario”. Un’assenza che non stupisce chi conosce le dinamiche del Centro di Permanenza di Palazzo San Gervasio ed è costretto a scontrarsi con le costanti assenze e i colpevoli silenzi della Prefettura di Potenza. La relazione pubblicata nel mese di agosto, dopo il preventivo invio alle autorità preposte ad effettuare osservazioni (Prefettura e Questura di Potenza) si compone di più parti, alcune destinate a fornire le informazioni generali sulla struttura visitata, altre ad analizzare singoli aspetti della vita dei trattenuti e dei servizi offerti (condizioni materiali, tutela della salute, assistenza psicologica e sociale, qualità della vita detentiva e contatti con il mondo esterno, sicurezza, diritto all’informazione e accesso alla giustizia). Per ognuna delle sopra indicate sezioni, oltre ad un’analisi della situazione riscontrata, la delegazione effettua una serie di raccomandazioni al fine di risolvere e migliorare le criticità riscontrate. CONDIZIONI MATERIALI DELLA STRUTTURA Con specifico riferimento alle condizioni materiali, il Garante evidenzia come la struttura appaia connotata da scarsità di arredi, sbarre alle finestre e una copertura metallica a maglia molto fitta intorno ai moduli abitativi. Si tratta di un rilievo già effettuato in passato dallo stesso ufficio del Garante Nazionale, oltre che dai rapporti pubblicati da ASGI 2 e da CILD 3 negli anni scorsi. I moduli abitativi sono 14 e sono circondati da alte cancellate perimetrali. Un’area abitativa è vuota e viene utilizzata solo nel caso in cui si renda necessario sfollare temporaneamente un settore per interventi di riparazione. I moduli visitati sono privi di spazi di socialità/mensa come invece richiede il Regolamento sui CPR all’art. 4, paragrafo 4, lett. G 4. Gli ambienti, inoltre, si presentano molto bui a causa della copertura fitta dell’area esterna. Non vi sono campanelli di chiamata utilizzabili per chiedere interventi di urgenza del personale in casi di necessità (come malori, aggressioni, disordini) e questa appare una elementare violazione degli standard di sicurezza che appare ancora più significativa nel CPR di Palazzo San Gervasio per la conformazione della struttura e la distanza che sussiste tra i moduli detentivi e l’area medica o l’area in cui sosta il personale di polizia. Rispetto a tale situazione, la delegazione evidenzia come il Garante Nazionale abbia già in passato evidenziato tale situazione e ribadisce pertanto la necessità di dotare i moduli detentivi di campanelli di allarme. Per quanto riguarda invece gli ambienti esterni ai moduli, la delegazione evidenzia le seguenti carenze: 1) assenza di locali per l’attività dell’informatore legale che è costretto a svolgere i colloqui con i trattenuti all’aperto davanti ai singoli moduli detentivi con i trattenuti oltre le sbarre; 2) la mancanza di ambienti per lo svolgimento di attività ricreative o formative. Di fatto, le attività vengono pianificate nell’unico locale disponibile nella palazzina uffici, la sala c.d. di degenza, utilizzata anche per i colloqui dello psicologo e dell’assistente sociale. Una sala che può ospitare non più di 4 persone. In alternativa le attività devono svolgersi all’aperto, quando possibile. Altra importante mancanza riguarda proprio la sala di degenza che dovrebbe essere adibita a “locale di osservazione sanitaria” per l’alloggiamento temporaneo di persone con particolari esigenze sanitarie. Tale locale appare privo dei requisiti minimi funzionali allo scopo cui è preordinata. Manca infatti un accesso diretto ai servizi igienici, presenta una scaffalatura occupata da faldoni e documentazione in uso allo psicologo, all’assistente sociale e all’informatore legale. Per completezza e in aggiunta a quanto rilevato dalla delegazione nel mese di dicembre del 2024, possiamo dire che da diversi mesi la situazione è addirittura peggiorata. Infatti, come denunciato da ASGI in una missiva inviata alla Prefettura di Potenza che non ha ottenuto alcuna risposta, da diversi mesi la c.d. sala di degenza viene utilizzata anche per i colloqui difensivi essendo stata occupata la sala che in precedenza veniva utilizzata dagli avvocati per incontrare i propri assistiti. Per quanto riguarda invece l’infermeria, la delegazione ha evidenziato la mancanza di un lavandino nella sala dove vengono effettuare le visite e somministrati i farmaci in violazione della normativa che prescrive i requisiti minimi che deve possedere un Ambulatorio medico, ed in particolare un lavandino con rubinetto a pedale. Appare singolare che nelle visite e accessi compiuti dalle autorità chiamate a vigilare sul CPR di Palazzo San Gervasio, tale mancanza non sia mai stata evidenziata. Strano che gli addetti dell’ASP e delle altre autorità di controllo non abbiano mai rilevato tale mancanza che appare particolarmente grave. TUTELA DELLA SALUTE Dalle informazioni raccolte dalla delegazione nel corso della visita anche a seguito del colloquio con il medico di turno, sono emerse difficoltà relative alle verifiche sanitarie preliminari da effettuare al momento dell’ingresso e la mancanza di documentazione sanitaria attestante i problemi di salute e le terapie in corso da parte degli stranieri che vengono condotti nella struttura. Una situazione che riguarda soprattutto i soggetti tossicodipendenti i quali fanno accesso alla struttura senza una preventiva, reale e concreta verifica della loro condizione e, quindi, della loro compatibilità con la vita ristretta. Particolarmente gravi appaiono le dichiarazioni della direttrice del Centro che riferisce alla delegazione in visita di aver avuto indicazione di accettare in ingresso nel CPR anche persone che giungono senza visita medica. Tale situazione sarebbe avvalorata da quanto sostenuto dal protocollo sottoscritto dalla Prefettura di Potenza, dalla Questura di Potenza, dall’Azienda ospedaliera San Carlo di Potenza e dall’Ente gestore, che consente di effettuare la visita anche nelle successive 48 ore, ma si pone in contrasto con la Direttiva Lamorgese contenente il Regolamento sui CPR, che prevede un termine di 24 ore. Il Garante, pertanto, raccomanda di allinearsi a quanto previsto dal Regolamento CPR garantendo la visita di idoneità al massimo nelle 24 ore successive all’ingresso nel Centro. Ma le mancanze rilevate non si limitano a questo. Il Garante evidenzia anche la prassi in uso presso il CPR di Palazzo San Gervasio di consentire che lo screening sanitario in ingresso sia effettuato dall’operatore sanitario presente al momento, considerato che la presenza del medico è garantita soltanto per 35 ore settimanali. Tale differimento della visita medica è rischiosa e può arrecare danno alle persone che fanno il loro ingresso e anche alle persone che già sono trattenute nel Centro. Inoltre, oltre alle ragioni di opportunità a che tale prassi non venga seguita, vi sono anche ragioni di legittimità. La compilazione di una scheda medica da parte di personale che non riveste tale qualifica può considerarsi legittima? Ancora, sulle problematiche che attengono al diritto alla salute, si sottolinea nel rapporto che “anche alla luce della documentazione esaminata” e riguardante alcune segnalazioni pervenute al Garante, nella pratica la rivalutazione sanitaria può giungere con molto ritardo rispetto al manifestarsi delle vulnerabilità e soprattutto che, “nel caso di valutazioni psichiatriche, il medico si limita a stabilire una terapia senza interrogarsi sulla compatibilità delle condizioni di salute della specifica persona con la misura restrittiva cui è sottoposto”. Mancano inoltre protocolli di trattamento delle vulnerabilità e del rischio suicidario e in caso di azioni di autolesionismo ci si limita ad aumentare i colloqui con psicologo e assistente sociale. Un paragrafo, poi, è dedicato anche alla fase delle dimissioni dei trattenuti e alle assurde condizioni in cui queste avvengono. Sul punto il Garante evidenzia come le prassi in uso presso il CPR di Palazzo San Gervasio violino la disciplina di settore per i rimpatri e, in casi specifici, anche le raccomandazioni mediche. QUALITÀ DELLA VITA DETENTIVA E CONTATTI CON IL MONDO ESTERNO Nonostante un programma di iniziative previste per il giorno della visita (attività all’aperto, art therapy, giochi di società, calcio, gruppo di psicoterapia e corso di lingua italiana), la delegazione fa rilevare nel rapporto che “fatto salvo l’accesso al campo sportivo, le attività programmate il giorno della visita non avevano luogo concretamente, mentre psicologo e assistente sociale si limitavano a passeggiere accanto ai settori per qualche colloquio con gli stranieri”. Tale affermazione riassume perfettamente la realtà del Centro di Palazzo San Gervasio dove è facile riscontrare una costante discrasia tra quanto formalmente dichiarato e quanto concretamente attuato. D’altra parte, la mancanza di strutture, di spazi idonei, di convenzioni con associazioni esterne, rende la realizzazione di attività ricreative, sociali e culturali una semplice utopia. Quanto alla possibilità di mantenere rapporti con il mondo esterno, questa è fortemente limitata, se non addirittura preclusa, dalla prassi in uso presso il Centro di requisire i cellulari personali al momento dell’ingresso. L’unica possibilità di comunicare con il mondo esterno è data dall’utilizzo di un cellulare (non smartphone) che deve essere condiviso dagli ospiti dei singoli moduli. Tale condizione crea tensioni tra i trattenuti per l’utilizzo del telefono e limita anche la possibilità di comunicare con familiari e con il difensore. Per questo il Garante raccomanda di assicurare alle persone trattenute la libertà di corrispondenza che al momento appare limitata fortemente e si invita a garantire anche la possibilità di effettuare videochiamate. DIRITTO ALL’INFORMAZIONE E ACCESSO ALLA GIUSTIZIA Oltre alle condizioni di estrema precarietà che contraddistinguono la somministrazione della informativa legale da parte degli operatori legali, la delegazione ha evidenziato nel rapporto anche l’esiguità del Regolamento interno del Centro che si limita a riproporre alcune norme del Regolamento ministeriale senza aggiungere altro e senza regolamentare nello specifico il trattamento riservato ai soggetti trattenuti nella struttura di Palazzo San Gervasio. Assente nel regolamento è ogni riferimento ai controlli per il rinvenimento di oggetti vietati, o la custodia degli effetti personali, ma anche le modalità di presentazione di domante da parte dei trattenuti (istanze, reclami, richieste di protezione internazionale). Allo stesso modo non vi sono regole scritte che determinano le procedure di nomina dell’avvocato di fiducia, i colloqui e le visite, le modalità di comunicazione con l’esterno, l’accesso ai servizi, la fruizione delle attività, l’acquisto di beni, le regole di comportamento e di convivenza, la consultazione del cellulare personale. > In mancanza di norme scritte e precise, prevale la discrezionalità o > addirittura l’arbitrarietà. Tra le mancanze più importanti rilevate rispetto all’accesso alle informazioni e al diritto di difesa, oltre alla mancanza di mediatori culturali in grado di parlare il portoghese o le lingue asiatiche (Hindi, urdu, farsi, pshtu), lingue utilizzate da una quota non trascurabile di stranieri trattenuti, spicca la mancanza di pratiche tempestive per consentire la registrazione della volontà di chiedere la protezione internazionale. La prassi in uso presso il CPR di Palazzo San Gervasio prevede che lo straniero debba fare richiesta di colloquio con l’Ufficio immigrazione per il tramite del personale dell’ente gestore e che solo in sede di colloquio con l’Ufficio immigrazione viene presa in considerazione e formalizzata la richiesta di protezione internazionale. Considerando che l’Ufficio immigrazione non è operativo dal sabato pomeriggio al lunedì mattina, è facile che passino diversi giorni prima che una richiesta di colloquio venga presa in carico. Quanto poi al diritto di assistenza legale, il Garante evidenzia nel rapporto la necessità di inserire nel regolamento del Centro le modalità di nomina del legale di fiducia, che sia l’ente gestore a raccogliere le nomine e, infine, che la nomina venga tempestivamente comunicata al difensore incaricato. CONCLUSIONI Ancora una volta, il Garante nazionale ha evidenziato la presenza di gravi mancanze e di criticità all’interno del Centro di Permanenza per i Rimpatri di Palazzo San Gervasio. Criticità che riguardano la struttura e la gestione della stessa, ma anche la mancanza di controlli da parte delle autorità che dovrebbero vigilare sul rispetto delle regole all’interno del Centro. La compressione di diritti fondamentali come quello ad una compiuta informazione legale o quello alla tutela della salute, anche dopo gli episodi numerosi e reiterati che sono stati segnalati in questi mesi, ma soprattutto dopo il decesso del povero Oussama Darkaoui il 5 agosto 2024 5, non sono più giustificabili, accettabili, tollerabili. Il rapporto della visita compiuta dalla delegazione del Garante nazionale lo scorso 12 dicembre, rappresenta l’ennesima dimostrazione che il CPR di Palazzo San Gervasio è un luogo strutturalmente patogeno e che troppe sono le omissioni da parte delle autorità a vari livelli. 1. Leggi il rapporto sulle visite effettuate ai Cpr di Palazzo San Gervasio e di Bari il 12 e il 13 dicembre 2024 ↩︎ 2. Diritti negati al CPR di Palazzo San Gervasio. Report e raccomandazioni di ASGI – 17 giugno 2022 ↩︎ 3. Buchi neri. La detenzione senza reato nei CPR – 15 ottobre 2021 ↩︎ 4. Si veda la direttiva ↩︎ 5. Oussama Darkaoui, un anno dopo: il ricordo, la lotta, la speranza ↩︎