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[2025-11-21] Nascita, crescita e futuro di Palantir, l'azienda che vende potere @ Centro Riforma Stato - Fondazione Basso
NASCITA, CRESCITA E FUTURO DI PALANTIR, L'AZIENDA CHE VENDE POTERE Centro Riforma Stato - Fondazione Basso - Via della Dogana Vecchia, 5 Roma (venerdì, 21 novembre 17:30) Venerdì 21 novembre a Roma, in Via della Dogana Vecchia 5, alle ore 17:30, un incontro organizzato da Scuola critica del digitale del CRS e Forum Disuguaglianze e Diversità. ne parlerà Franco Padella ne discutono Stefano Bocconetti, Davide Lamanna, NINA, Michele Mezza, Giacomo Tesio coordina Giulio De Petra I conflitti contemporanei, dall’Ucraina al Medio Oriente, sono sempre più guerre digitali, dove le capacità di elaborazione dei dati e l’uso della AI diventano elementi decisivi sul campo di battaglia. Non si combatte più solo con armi fisiche: reti, dati e algoritmi sono ormai il sistema operativo della guerra moderna. In questo scenario, le Big Tech hanno rafforzato il loro ruolo di fornitori primari dell’apparato industriale-militare degli USA. Ma mentre i riflettori restano accesi sul ristretto gruppo FAMAG (Meta, Apple, Microsoft, Amazon, Google), è un’altra azienda, mediaticamente “minore”, a rappresentare l’esempio più completo e preoccupante della integrazione tra tecnologie digitali e regimi di guerra. Una azienda tanto silenziosa quanto potente: Palantir Technologies. Poco visibile rispetto alle altre, si è già profondamente integrata con gli apparati di sicurezza e di guerra americani, e si muove nella stessa direzione in tutti i paesi dell’Occidente. A differenza delle altre aziende, Palantir preferisce rimanere in penombra: non vende se stessa al pubblico, non fa pubblicità. Vende potere agli apparati dello Stato. Potere di prevedere, di controllare, di dominare. E facendo questo, in qualche modo, diventa essa stessa Stato. Prosegui la lettura
La complicità di Google e Amazon con Israele
Un’inchiesta di +972 Magazine, Local Call e del Guardian rivela le caratteristiche specifiche del contratto siglato da Google e Amazon per la forniture dei loro servizi cloud a Israele. Le due aziende pur di avere Tel Aviv come cliente hanno accettato di firmare un contratto con due clausole specifiche e senza precedenti noti: la prima proibisce alle due aziende di impedire alle autorità israeliane l’uso dei loro prodotti — anche se venisse dimostrato che ne fanno un uso contrario ai termini di servizio che valgono per tutti gli altri clienti; la seconda clausola prevede che le due aziende si impegnino a notificare in segreto se vengono richieste informazioni sui dati conservati sui loro server da parte di tribunali esteri, “eludendo di fatto i loro obblighi legali,” sottolinea Yuval Abraham. Il Guardian ha ottenuto documenti del ministero delle Finanze israeliane che comprendono la versione definitiva di questo contratto, confermato da fonti dei tre giornali. Il contratto è espressamente scritto preparandosi a possibili indagini internazionali per l’uso delle tecnologie di Amazon e Google in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza: sia gli Stati Uniti che l’Unione europea hanno leggi che per le quali le aziende che hanno server in quei territori potrebbero dover consegnare i propri dati alle autorità — l’UE ha leggi specifiche che richiedono che le aziende identifichino le violazioni dei diritti umani all’interno delle proprie linee di business, e le autorità hanno diritto di intervenire se i privati non rispettano queste misure. Solitamente, quando le aziende ricevono questo tipo di richieste dati, è previsto che non possano comunicare ai clienti la cosa. Il contratto stipula un “meccanismo strizzata d’occhio”: le due aziende si sarebbero impegnate a pagare a Israele una quota di shekel pari al prefisso internazionale dello stato che aveva chiesto di poter accedere ai loro dati: inviando un pagamento di 1.000 shekel nel caso degli Stati Uniti, ad esempio, con prefisso +1, o di 3.900 shekel nel caso dell’Italia, che ha prefisso internazionale +39. Se per qualche motivo le due aziende dovevano interrompere le possibili comunicazioni, avrebbero dovuto inviare un pagamento di 100 mila shekel per informare le autorità israeliane. Le due aziende e le autorità israeliane negano di avere accordi per eludere la legge. (+972 Magazine / Local Call / the Guardian)
Il bluff dell’ intelligenza artificiale
Perché la bolla speculativa è solo la punta dell’iceberg di un piano per consolidare il potere. In queste ultime settimane abbiamo sentito parlare sempre piu spesso dell’IA come una “bolla”. Con questo termine si descrive la crescita vertiginosa e insostenibile delle valutazioni di mercato delle aziende legate all’IA. In modo simile a quanto accaduto con la bolla dot-com alla fine degli anni ’90, un’enorme ondata di investimenti speculativi sta inondando il settore, alimentata più da aspettative euforiche e narrazioni mediatiche che da solidi fondamentali economici. La promessa di una rivoluzione produttiva senza precedenti spinge i capitali verso un numero ristretto di attori, le cui quotazioni azionarie sembrano ormai scollegate dalla loro reale capacità di generare profitti. Queste recenti analisi che paventano il rischio di una “bolla speculativa” però, colgono solo la superficie del fenomeno. La loro diagnosi, pur corretta in termini finanziari, rischia di oscurare la logica politica ed economica sottostante che muove questi imponenti flussi di capitale. La dinamica in atto è infatti più profonda di una semplice euforia di mercato. L’ingente allocazione di risorse nell’IA risponde a un imperativo strategico del capitale globale: rafforzare ed estendere il potere esercitato dai grandi conglomerati tecnologici. Invece di generare un valore economico diffuso e sostenibile, questa ondata di investimenti serve a erigere barriere, a privatizzare la conoscenza attraverso modelli proprietari e a garantire il controllo sulle infrastrutture tecnologiche del futuro. Nel sistema capitalista in cui viviamo, infatti, l’intelligenza artificiale diventa l’ennesima manifestazione della tendenza intrinseca del capitalismo a trasformare ogni innovazione in un’opportunità di accumulo, uno strumento per perpetuare ed esacerbare le asimmetrie di potere esistenti. Le aziende hanno speso trilioni per data‑center, GPU e infrastrutture di calcolo, non perché la società ne abbia realmente bisogno, ma perché il mercato richiede continui ritorni sui capitali investiti. Quando l’entusiasmo si esaurirà e tutti capiranno che gli investimenti nell’IA – come i piani da 500 miliardi di dollari di OpenAI o le centinaia di miliardi di Meta – non sono in grado di produrre flussi di reddito sufficienti a coprire i costi di costruzione e gestione, il valore di queste imprese crollerà, trascinando con sé una fetta significativa della crescita economica statunitense. IL PARADOSSO DELLA PRODUTTIVITÀ E I COSTI INSOSTENIBILI Il primo segnale che le cose non stanno andando come viene raccontato è l’assenza di un boom di produttività nei dati macroeconomici. Nonostante gli investimenti colossali, non stiamo assistendo a un’accelerazione dell’efficienza su larga scala. Al di là del costo iniziale delle infrastrutture (data center, GPU), i costi operativi per l’addestramento e l’esecuzione dei grandi modelli linguistici sono enormi. Il consumo di energia e acqua ha raggiunto livelli critici, rappresentando una diseconomia esterna scaricata sull’ambiente e sulla collettività. Inoltre i modelli di IA generativa eccellono in compiti isolati e standardizzati, ma si rivelano fragili e inaffidabili quando devono essere integrati in processi lavorativi complessi e ricchi di contesto. L’integrazione richiede costose personalizzazioni e, soprattutto, una costante supervisione umana per correggere errori, “allucinazioni” (informazioni false presentate come vere) e output privi di senso. Questo costo umano vanifica gran parte del guadagno di efficienza promesso. Infine gran parte delle applicazioni attuali non risolve problemi reali e complessi, ma si concentra su aree a basso impatto o addirittura futili, come la generazione di contenuti di marketing a basso costo, chatbot per il servizio clienti spesso inefficienti o la creazione di immagini sintetiche. Il valore generato è spesso marginale rispetto all’investimento richiesto. L’aspetto più significativo è che l’attuale traiettoria dell’IA non sta solo mancando di produrre valore positivo, ma sta attivamente generando danni tangibili in diversi ambiti. Per citarne un paio, Internet sta venendo inondata da contenuti di bassa qualità generati artificialmente (“slop”), che inquinano i risultati dei motori di ricerca, degradano piattaforme come Wikipedia e rendono sempre più difficile distinguere le informazioni affidabili dal rumore. Un vero e proprio attacco all’infrastruttura della conoscenza collettiva. Inoltre i sistemi di IA, addestrati su dati storici che riflettono i pregiudizi della società, vengono impiegati in settori critici come la selezione del personale, la concessione di prestiti o la valutazione del rischio di recidiva. Il risultato è una discriminazione su scala industriale, che automatizza e rafforza le disuguaglianze razziali e di genere con una patina di oggettività tecnologica. In conclusione, etichettare la frenesia per l’IA come una semplice “bolla” finanziaria è riduttivo. Sebbene i segnali di una speculazione insostenibile siano evidenti, il vero nocciolo della questione è altrove. Non siamo di fronte a un’innovazione tecnologica il cui valore è stato temporaneamente sovrastimato, ma a un progetto strategico di riconfigurazione del potere. Lo scoppio di questa bolla, quando avverrà, non sarà un semplice riassestamento di mercato. Lascerà dietro di sé un’infrastruttura tecnologica ancora più centralizzata nelle mani di pochi colossi, un ecosistema informativo inquinato da contenuti sintetici e cicatrici sociali profonde causate dalla discriminazione algoritmica e dalla svalutazione del lavoro. Il vero costo di questa operazione non sarà misurato in punti percentuali persi negli indici di borsa, ma nel consolidamento di un potere tecno-capitalista che, in nome di una promessa di efficienza mai mantenuta, ha reso le nostre società più fragili, diseguali e meno libere.
L’ottavo fronte: la Cupola di Ferro Digitale di Israele e la battaglia narrativa
Mentre i suoi militari bombardano Gaza, nonostante l’accordo per un cessate il fuoco, Tel Aviv lancia un’offensiva parallela su internet volta a mettere a tacere le narrazioni della Resistenza, manipolare le percezioni globali e riprogettare la memoria digitale dei suoi Crimini di Guerra. Fonte. English version Di Mohamad Hasan Sweidan – 10 ottobre 2025 Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha descritto l’”Ottavo Fronte” della sua guerra come la battaglia per la verità. “Sette fronti contro l’Iran e i suoi alleati. L’ottavo: la battaglia per la verità”, ha dichiarato durante una cerimonia ospitata dall’emittente statunitense Newsmax presso l’Hotel Waldorf Astoria di Gerusalemme. Il suo obiettivo è confutare le accuse di Genocidio e Carestia deliberata legate alla guerra biennale di Israele nella Striscia, con i social media e i programmi di Intelligenza Artificiale che fungono da campi di battaglia più importanti su questo fronte. CUPOLA DI FERRO DIGITALE In seguito all’Operazione Onda di Al-Aqsa del 7 Ottobre 2023, la cosiddetta “Cupola di Ferro Digitale” di Israele è stata attivata per intercettare contenuti digitali, proprio come la sua Cupola di Ferro militare intercetta i missili. Ma invece dei missili, gli obiettivi sono idee, post, immagini, video, che denunciano le atrocità commesse da Israele nell’enclave assediata. Questa Cupola Digitale opera su due livelli principali. Il primo è il sistema di segnalazione gestito da volontari: una campagna nazionale in cui gli utenti inondano le piattaforme dei social media con denunce di massa contro contenuti ritenuti sfavorevoli a Israele. Un ibrido di Intelligenza Artificiale e revisori umani classifica rapidamente i post segnalati, quindi inoltra le richieste di rimozione a piattaforme come Meta, TikTok e X. L’obiettivo è la velocità: eliminare la narrazione prima che si diffonda. Solo TikTok ha cancellato 3,1 milioni di video e interrotto 140.000 dirette nei primi sei mesi del Genocidio israeliano a Gaza. L’Unità Informatica del Procuratore Generale israeliano ha presentato quasi 9.500 richieste di rimozione nello stesso periodo, con Meta che avrebbe soddisfatto il 94% delle richieste. Il secondo livello è la guerra algoritmica: i sistemi di Intelligenza Artificiale analizzano oltre 200.000 siti Web per identificare narrazioni dissidenti, quindi bombardano gli utenti esposti con contenuti pro-Israele a pagamento in tempo reale. Utilizzando campagne pubblicitarie che imitano l’aspetto e la tempistica dei post organici, Israele inonda la cronologia con una contro-narrativa artificiale. Questa duplice strategia mira a sopraffare e cancellare. La prima sopprime la diffusione delle voci di Resistenza. La seconda le sostituisce con invenzioni approvate dallo Stato. USARE I SOCIAL MEDIA COME ARMA “Siamo tutti i bersagli di queste guerre. Siamo noi i cui clic decidono quale parte vincerà”. – Peter Singer, coautore di LikeWar: La Militarizzazione dei Social Media Il 26 settembre 2025, Netanyahu ha incontrato 18 influencer dei social media residenti negli Stati Uniti. L’ordine era di inondare TikTok, X, YouTube e programmi radio Web con messaggi pro-Israele. Una settimana dopo, Tel Aviv ha stanziato 145 milioni di dollari (125 milioni di euro) per la sua più grande campagna di propaganda digitale di sempre, denominata “Progetto 545”. La campagna si rivolge all’opinione pubblica statunitense, in particolare alla Generazione Z (i nati tra il 1997 e il 2012), con contenuti assistiti dall’Intelligenza Artificiale su misura per TikTok e Instagram. I documenti della Legge sulla Registrazione degli Agenti Stranieri statunitense rivelano che il Ministero degli Esteri israeliano ha stipulato un contratto con Clock Tower, un’azienda guidata dall’ex responsabile della campagna elettorale del Presidente statunitense Donald Trump, Brad Parscale. L’obiettivo è influenzare sia il dibattito pubblico sia le risposte generate da piattaforme di Intelligenza Artificiale come ChatGPT, Grok e Gemini. Parallelamente, è stato lanciato il “Progetto Esther” per finanziare gli influencer statunitensi con contratti che, secondo quanto riferito, raggiungerebbero i 900.000 dollari (775.000 euro) a persona. Si prevede che questi influencer pubblicheranno 25-30 post al mese, creando un flusso costante di contenuti pro-Israele. Tra giugno e novembre 2024, almeno 900.000 dollari in pagamenti per la campagna sono stati distribuiti a 14-18 influencer, con una media di 6.100-7.300 dollari (5.250-6.300 euro) per post. Bridge Partners, una società con contratto con il Ministero degli Affari Esteri israeliano, ha inviato una serie di fatture per i costi della campagna degli “influencer” pro-Israele al gruppo mediatico internazionale “Havas Media Group” in Germania, che lavora per Israele. Show Faith by Works (Mostra la Fede Attraverso le Opere), una nuova società fondata nel luglio 2025, ha ricevuto 325.000 dollari (280.000 euro) in soli due mesi per promuovere la propaganda israeliana tra le comunità cristiane negli Stati Uniti e in Occidente. Con un bilancio previsto di 4,1 milioni di dollari (3,5 milioni di euro) per la campagna, è stata definita la “più grande campagna di geocircoscrizione di una chiesa cristiana nella storia degli Stati Uniti”. Nel frattempo, il Ministero degli Esteri israeliano ha investito altri 137 milioni di dollari (118 milioni di euro) in campagne globali per plasmare la percezione del Paese, oltre ai consueti programmi di promozione dell’immagine. Queste iniziative fanno parte di una strategia più ampia, spesso definita “Hasbara”, termine ebraico che indica la diplomazia pubblica e gli sforzi di propaganda di Israele. Nell’era digitale, l’Hasbara si è evoluta da narrazioni mediatiche convenzionali a sofisticate operazioni di influenza assistite dall’Intelligenza Artificiale, progettate per dominare e distorcere il dibattito sui social media. Un rapporto dell’emittente pubblica spagnola RTVE, citando un’indagine di Eurovision News Spotlight, ha rivelato che il governo israeliano ha stanziato circa 50 milioni di dollari (43 milioni di euro) in pubblicità su Google, X e sulle reti pubblicitarie franco-israeliane Outbrain e Teads. L’obiettivo, secondo l’indagine, era quello di contrastare l’informazione globale sulla Carestia a Gaza, presentando una facciata di normalità. Da gennaio a inizio settembre 2025, Tel Aviv ha pubblicato oltre 4.000 annunci digitali, metà dei quali rivolti a un pubblico internazionale. Questi annunci presentavano una Gaza ripulita, libera da macerie e fame. RICICLAGGIO DIGITALE DI CRIMINI DI GUERRA La guerra in internet non si ferma alle piattaforme pubbliche. Nel maggio 2024, OpenAI ha rivelato di aver smantellato cinque “operazioni di influenza” segrete che sfruttavano i suoi strumenti, una delle quali era gestita dalla società israeliana STOIC. L’azienda ha utilizzato modelli linguistici di grandi dimensioni per generare contenuti pro-Israele e messaggi anti-Hamas pensati appositamente per il pubblico statunitense, per poi distribuirli tramite profili falsi su Facebook, Twitter e Instagram. Il New York Times ha riportato un’operazione parallela del governo israeliano che ha utilizzato quasi 600 profili falsi per inondare i flussi di notizie di 128 parlamentari statunitensi con oltre 2.000 commenti selezionati a settimana. Questi messaggi difendevano le azioni israeliane e diffamavano le istituzioni palestinesi e il principale fornitore di aiuti umanitari a Gaza, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Impiego dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA). L’anno scorso, la portavoce dell’UNRWA, Juliette Touma, ha dichiarato: “Queste pubblicità sono distruttive per le persone. Dovrebbero cessare e i responsabili di questo sabotaggio dovrebbero essere ritenuti responsabili. Bisognerebbe fare molti controlli con aziende come Google una volta finita la guerra. C’è molto a cui rispondere”. Attraverso questi metodi, Tel Aviv cerca di anticipare e sovrascrivere le narrazioni dell’opposizione nel momento stesso in cui compaiono. Il risultato è uno spazio digitale saturo di Propaganda di Stato, una cronologia progettata per dimenticare. ESPORTARE LA REPRESSIONE Il pericolo globale risiede nel modello stabilito da questo precedente. Quando una Potenza Militare Coloniale, di fronte a credibili accuse di Genocidio, può utilizzare strumenti digitali per riscrivere la cronaca in tempo reale, invia un chiaro segnale che chiunque abbia i soldi e la tecnologia può fare lo stesso. Il sistema israeliano è semplice ma devastantemente efficace: informazione di massa per mettere a tacere il dissenso, pubblicità mirate per manipolare la percezione, contratti con influencer per fabbricare il consenso e strumenti di Intelligenza Artificiale per distorcere la verità. Se questo modello si diffonde, le voci della Resistenza in tutto il mondo, dagli studenti ai giornalisti ai movimenti indigeni, troveranno le loro verità sepolte sotto una valanga di Propaganda di Stato a pagamento. Tel Aviv potrebbe essere stata pioniera di questa Occupazione Digitale della verità. Ma non sarà l’ultima a usarla contro coloro che lottano per la Giustizia. Mohamad Sweidan è un ricercatore di studi strategici, scrittore per diverse piattaforme mediatiche e autore di diversi studi nel campo delle relazioni internazionali. I suoi interessi principali sono gli affari russi, la politica turca e il rapporto tra sicurezza energetica e geopolitica. Traduzione a cura di Beniamino Rocchetto, da Invictapalestina.org
Boicotta Meta!
Meta collabora al genocidio * Fornisce dati al sistema di sterminio automatizzato "Lavender" * La sua dirigenza ha forti legami con l'esercito israeliano * Censura le voci contro il genocidio * Finanzia e supporta la propaganda e la disinformazione sioniste * Ha già collaborato al genocidio del popolo rohingya in Myanmar nel 2017 Se i nostri dati vengono trasformati in armi BOICOTTIAMO META Se usi Instagram o Facebook, probabilmente è perché tante altre persone sono lì. Rompiamo il circolo vizioso della massa critica! Disertiamo le piattaforme di Meta Campagna BDS No tech for oppression apartheid or genocide Flyer per la stampa
La bolla dell’intelligenza artificiale sta per scoppiare
Immagine in evidenza generata con OpenAI “Siamo entrati in una fase in cui gli investitori, nel complesso, sono eccessivamente entusiasti nei confronti dell’intelligenza artificiale? Secondo me, assolutamente sì”, ha affermato il fondatore di OpenAI Sam Altman. Parole non dissimili sono arrivate da Mark Zuckerberg, secondo il quale “è certamente una possibilità” che si stia formando una grande bolla speculativa. Da ultimo, anche Jeff Bezos ha rilasciato dichiarazioni simili. Quando le stesse persone che, tramite le loro risorse, stanno favorendo lo sviluppo e la diffusione di una tecnologia si preoccupano della situazione finanziaria, significa che il rischio, come minimo, è concreto – anche perché le loro aziende risentirebbero più di ogni altra dei rovesci causati dallo scoppio di una bolla. D’altra parte, basta osservare i numeri: per il momento le immense quantità di denaro che sono state investite per l’addestramento e la gestione dei modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM – Large Language Model) non stanno producendo risultati economici degni di nota. Peggio ancora: non è per niente chiaro quale possa essere un modello di business sostenibile per ChatGPT e i suoi compagni, e ci sono anche parecchi segnali che indicano come tutto l’hype (non solo finanziario) nei confronti dell’intelligenza artificiale potrebbe rivelarsi una colossale delusione (come indicano le ricerche secondo cui le aziende che hanno integrato l’intelligenza artificiale non hanno visto praticamente alcun effetto positivo).  Se le cose andassero così, all’orizzonte non ci sarebbe solo lo scoppio di una gigantesca bolla speculativa, ma la fine – o almeno il drastico ridimensionamento – di una grande promessa tecnologica, che fino a questo momento non sembra essere sul punto di lanciare una “nuova rivoluzione industriale”. I CONTI DI OPENAI Per iniziare gradualmente ad affrontare i problemi economici dell’intelligenza artificiale, gli immensi investimenti nel suo sviluppo (che rischiano di non essere ripagati) e la possibilità che le enormi aspettative riposte nei suoi confronti vengano disattese, la cosa più semplice è probabilmente guardare ai risultati e ai conti della più nota startup del settore: OpenAI. Partiamo dalle buone notizie: OpenAI ha da poco annunciato che nel 2025 dovrebbe raggiungere i dieci miliardi di dollari di ricavi e ha superato i 500 milioni di utenti di ChatGPT. Numeri che farebbero pensare a un futuro roseo se non fosse che, contestualmente, la società di Sam Altman continua a bruciare i soldi degli investitori a grandissima velocità: secondo le ultime stime, nel corso del 2025 OpenAI dovrebbe ammassare perdite pari a 27 miliardi di dollari (significa che incassa 10 miliardi ma ne spende 37).  Brutte notizie arrivano anche dal fronte “utenti paganti”, che sono solo 15,5 milioni: un numero molto basso, che suggerisce come pochi vedano in ChatGPT uno strumento così utile da giustificarne il costo. Le società che invece pagano OpenAI per fornire servizi terzi (“AI as a service”, come può essere il caso di Cursor, che si appoggia a OpenAI e Anthropic per offrire il suo assistente alla programmazione) stanno ottenendo risultati inferiori alle attese e molte di esse – come evidenziato in una recente newsletter dell’analista Ed Zitron – vivono una situazione economica traballante. OpenAI inevitabilmente sfoggia sicurezza, promettendo di raggiungere un fatturato pari a 125 miliardi di dollari entro il 2029. L’obiettivo, quindi, è decuplicare il fatturato nel giro di quattro anni: qualcosa che potrebbe succedere, ma che al momento non è chiaro come potrebbe avvenire, soprattutto se si considera che – dopo tre anni di incessante martellamento – ChatGPT ha pochissimi utenti paganti (che costano all’azienda più di quanto le permettano di guadagnare) e che le startup che pagano OpenAI per usare GPT-5 hanno a loro volta ricavi trascurabili. INVESTIMENTI TRILIARDARI Per il momento, far quadrare i conti è l’ultima delle preoccupazioni di Sam Altman, che prevede di accumulare perdite pari a 115 miliardi da qui al 2029 e ha recentemente dichiarato di voler spendere nel corso del tempo “migliaia di miliardi” per costruire l’immenso network di data center necessario ad alimentare i large language model e gli altri sistemi di intelligenza artificiale generativa. Ma c’è un problema: OpenAI questi soldi non li ha e deve anzi continuamente rivolgersi ai suoi finanziatori soltanto per mantenere in funzione le attuali operazioni. Alla fine di giugno, OpenAI aveva in cassaforte circa 17 miliardi, che al suo ritmo di spesa sono sufficienti solo per qualche mese. E infatti ad agosto c’è stato un altro – l’ultimo, fino a questo momento – round di finanziamenti, che ha permesso a Sam Altman di intascare altri 40 miliardi, per una valutazione di 300 miliardi di dollari. Valutazione che, in seguito ad altre operazioni finanziarie, è arrivata fino a 500 miliardi, la più alta mai registrata da una società non quotata in borsa. Se OpenAI ha continuamente bisogno di raccogliere denaro soltanto per far funzionare (in perdita) ChatGPT, come può spendere centinaia di miliardi di dollari in infrastrutture? La risposta è: non può. Per questa ragione, lo scorso settembre ha firmato un contratto da 300 miliardi di dollari, da versare in cinque anni, a Oracle: la società fondata e guidata da Larry Ellison, le cui azioni sono schizzate alle stelle in seguito a questo annuncio. In sintesi: OpenAI ha promesso a Oracle di pagare, con soldi che al momento non ha, la costruzione degli immensi data center necessari a soddisfare la sua infinita fame di GPU ed elettricità. E Oracle, invece, ce li ha i soldi? Anche in questo caso la risposta è (in parte) negativa: come spiega il Wall Street Journal, “Oracle è già fortemente indebitata: alla fine di agosto la società aveva un debito a lungo termine di circa 82 miliardi di dollari e un rapporto debito/capitale proprio di circa il 450%. Per fare un confronto, il rapporto del gruppo Google-Alphabet era dell’11,5% nell’ultimo trimestre, mentre quello di Microsoft era intorno al 33%”. Le azioni di Oracle saranno anche salite tantissimo in seguito alla notizia della partnership con OpenAI, ma le società di rating iniziano a sentire puzza di bruciato (o almeno di rischi fortissimi), tant’è che Moody’s ha dato una valutazione negativa del rating di Oracle pochi giorni dopo la firma del contratto. Riassumendo: Oracle, già fortemente indebitata, dovrà indebitarsi molto di più per poter costruire un’infrastruttura di data center, che le dovrebbe essere un domani pagata da OpenAI, sempre che quest’ultima riesca, entro la fine del decennio, ad aumentare il fatturato fino ai livelli promessi, che sono dieci volte superiori a quelli odierni. Tutto potrebbe andare come auspicato, ma al momento i conti non tornano. E se non tornano per OpenAI, la startup simbolo dell’intelligenza artificiale, figuriamoci le altre: sempre secondo le stime di Ed Zitron, Anthropic nel 2025 spenderà 7 miliardi di dollari e ricaverà al massimo 4 miliardi (bilancio in rosso di tre miliardi), mentre Perplexity punta a generare ricavi per 150 milioni di dollari nel 2025, ma spende anche lei molto più di quello che intasca (nel 2024 ha speso il 67% in più di quello che ha guadagnato). I numeri non migliorano se si osservano i conti relativi all’intelligenza artificiale dei principali colossi della Silicon Valley: Microsoft quest’anno investirà 80 miliardi in infrastrutture e ricaverà 13 miliardi. Amazon spenderà 105 miliardi e ne ricaverà 5. Google spenderà 75 miliardi e ne ricaverà al massimo 8. Meta spenderà 72 miliardi e ne ricaverà al massimo 3. Nel complesso, queste quattro società investiranno in un solo anno 332 miliardi di dollari e ne ricaveranno 29 (al massimo). Stime confermate dall’Economist, che scrive:  “Secondo le nostre analisi, i ricavi complessivi delle principali aziende occidentali derivanti dall’intelligenza artificiale ammontano oggi a 50 miliardi di dollari l’anno. Anche se tali ricavi stanno crescendo rapidamente, rappresentano ancora una frazione minima dei 2.900 miliardi di dollari di investimenti complessivi in nuovi data center previsti a livello globale da Morgan Stanley tra il 2025 e il 2028”. LA BOLLA DI NVIDIA In questo fosco scenario, c’è una sola azienda per la quale l’intelligenza artificiale si sta rivelando un affare d’oro: Nvidia. La società che progetta le più avanzate GPU – i processori indispensabili per l’addestramento e l’utilizzo dei sistemi di AI – ha dichiarato guadagni (non ricavi: guadagni) per 26 miliardi di dollari solo nell’ultimo trimestre. Nel complesso, si stima che Nvidia nel 2027 avrà “free cash flow” (flusso di cassa libero, ovvero i soldi rimasti in pancia all’azienda dopo aver coperto tutte le spese operative e gli investimenti) pari a 148 miliardi di dollari. Mentre tutti spendono (e perdono) nell’intelligenza artificiale, Nvidia fa un sacco di soldi. Non sorprende, visto che una gran parte delle spese di OpenAI, Microsoft e compagnia sono necessarie proprio ad acquistare le GPU di Nvidia. Ma c’è un problema: a differenza di Meta o Google (che continuano a guadagnare centinaia di miliardi da social network e motori di ricerca), gli enormi guadagni di Nvidia sono inestricabilmente legati al boom dell’intelligenza artificiale. Se le aziende che acquistano in massa le GPU di Nvidia decidessero che non è più il caso di spendere le cifre folli che stanno al momento spendendo, quanto precipiterebbe il valore di un’azienda che ha ottenuto il 40% dei suoi ricavi da due soli misteriosi clienti, che secondo TechCrunch potrebbero essere Microsoft e Google? Se l’intelligenza artificiale non mantenesse le promesse, in che scenario si troverebbe un’azienda che detiene il 90% della quota di mercato delle GPU, la cui vendita è sostenuta dal boom dell’intelligenza artificiale? È proprio per queste ragioni che Nvidia vuole evitare a tutti costi che qualcosa del genere si verifichi. Negli stessi giorni in cui Sam Altman e Larry Ellison stringevano il ricchissimo accordo di cui abbiamo parlato, Nvidia si impegnava a investire “fino a 100 miliardi di dollari” in OpenAI “nei prossimi anni”. In poche parole, Nvidia vuole prestare a OpenAI un terzo dei soldi che OpenAI deve dare a Oracle affinché compri le GPU di Nvidia che alimenteranno i suoi data center. OpenAI non è però l’unica azienda a beneficiare di questo schema: Perplexity, CoreWeave, Cohere, Together AI, Applied Digitals e molte altre startup che si occupano di vari aspetti dell’intelligenza artificiale (dall’infrastruttura allo sviluppo di chatbot) hanno potuto godere della generosità del CEO di Nvidia Jensen Huang, che continua a investire denaro in società che utilizzeranno questi soldi anche o soprattutto per acquistare GPU. Da una parte, ha senso che Nvidia utilizzi i faraonici guadagni per sostenere i suoi principali clienti. È un meccanismo che è stato paragonato da The Information ai programmi di stimolo delle banche centrali: si immette denaro nell’economia nella speranza che questo generi crescita economica e, indirettamente, produca i ritorni necessari a compensare l’investimento iniziale. Dall’altra, i soldi che Nvidia immette nel settore potrebbero artificialmente sostenere la domanda delle sue GPU, facendo apparire i suoi risultati più robusti di quanto altrimenti sarebbero, gonfiando quindi il valore delle azioni. Inoltre, il fatto che Nvidia sia al centro di un modello finanziario circolare (perché presta i soldi a chi deve comprare ciò che produce) non può che alimentare i sospetti che quella che si sta venendo a creare sia una colossale bolla finanziaria, che rischia di scoppiare alla prima trimestrale di Nvidia inferiore alle aspettative, trascinando con sé tutte le realtà più esposte e causando un crollo che – secondo alcune stime – potrebbe essere quattro volte superiore alla bolla immobiliare che nel 2008 ha mandato il mondo intero in recessione. Negli ultimi tre anni, il valore delle aziende tecnologiche quotate al Nasdaq è raddoppiato proprio sulla scia dell’entusiasmo generato da ChatGPT. Nel complesso, le prime sette aziende per valore di mercato (Nvidia, Apple, Amazon, Meta, Tesla, Microsoft e Alphabet/Google) oggi rappresentano il 34% del valore complessivo dell’indice S&P 500 e sono tutte, con la parziale eccezione di Apple, enormemente esposte sul fronte dell’intelligenza artificiale. Le azioni in borsa stanno salendo alle stelle, mentre i risultati economici reali sono trascurabili. Migliaia di miliardi di dollari stanno venendo investiti in una tecnologia che, per il momento, non sta mantenendo le colossali aspettative in essa riposte e che genera ricavi poco significativi, costringendo i principali colossi del settore a indebitarsi o a bruciare risorse nella speranza che questa “rivoluzione artificiale” infine si materializzi. Che la bolla dell’intelligenza artificiale esista è un dato di fatto: la vera incognita riguarda la violenza con cui esploderà. Molto dipenderà da quanto, nel frattempo, la tecnologia sarà riuscita a mantenere almeno in parte le sue promesse. Se i guadagni annunciati inizieranno davvero a concretizzarsi, la correzione potrebbe essere contenuta. Se invece la Silicon Valley continuerà a investire enormi quantità di denaro senza ottenere nulla in ritorno, l’esplosione potrebbe essere devastante. L'articolo La bolla dell’intelligenza artificiale sta per scoppiare proviene da Guerre di Rete.
La Cina contro Nvidia
Il 17 settembre il governo cinese ha ordinato alle principali aziende tecnologiche del paese di interrompere l’acquisto e l’uso di chip Nvidia, inclusi l’RTX Pro 6000D e l’H20, due chip progettati appositamente per aggirare le restrizioni imposte dal governo americano all’export di hardware USA avanzato in Cina. Nei giorni immediatamente precedenti, la Cina aveva avviato un’indagine antitrust in merito all’acquisizione di Mellanox: un’azienda israelo-americana, specializzata nell’interconnessione di rete ad alte prestazioni, comprata da Nvidia nel 2020 per oltre 7 miliardi di dollari. L’indagine antitrust segna l’ingresso in una nuova fase della “guerra dei chip”, che ora si estende non solo ai singoli processori ma a tutti i componenti delle infrastrutture di calcolo critiche. La posizione cinese ha ovviamente fatto molto rumore, con il titolo di Nvidia che ha immediatamente subito una flessione e il CEO dell’azienda – Jensen Huang – che si è detto estremamente deluso (“disappointed”) dalla decisione di Pechino. Dal canto suo, come spesso accade, subito dopo aver acceso il fuoco il governo cinese ha indossato i panni del pompiere. Il giorno successivo all’annuncio del veto, il ministero degli Esteri ha assicurato che, in ogni caso, la Cina “intende mantenere il dialogo con tutte le parti”, e non intende “danneggiare le catene globali del valore della micro-elettronica”. Frasi che paiono messaggi in codice inviati ai centri di potere di Washington, in passato accusati proprio di provocare danni sistemici. UN ASSET GEOPOLITICO Da quando le sue GPU sono finite al centro dell’ecosistema hardware legato all’addestramento dell’AI, i ricavi e la capitalizzazione di Nvidia sono aumentati esponenzialmente. I dati dell’ultimo trimestre, comunicati a fine agosto, parlano di 46,7 miliardi di ricavi, per un utile ad azione pari a 1,05 dollari e un valore della singola azione che è decuplicato negli ultimi 5 anni.  In parallelo a questa crescita se ne è però verificata un’altra, di cui i vertici dell’azienda di Santa Clara avrebbero fatto volentieri a meno: un boom di esposizione (geo)politica. Data la centralità di Nvidia nell’ecosistema AI – e data la centralità di questo ecosistema nelle politiche di potenza degli Stati contemporanei – negli ultimi anni Nvidia è diventata uno dei più contesi asset tecnologici del pianeta.  È dal 2022 che l’azienda si trova sotto l’attenzione costante dei doganieri di Washington e che deve fare i conti con la necessità di trovare escamotage (tecnici o politici) ai loro divieti. In particolare durante gli anni di Biden, la Casa Bianca ha inasprito le restrizioni all’export di semiconduttori avanzati verso la Cina, vietando la vendita dei chip più potenti e imponendo licenze anche per le versioni “ridotte” progettate apposta per il mercato cinese. Per Nvidia questo ha significato rivedere continuamente il proprio catalogo: dal chip A100 si è passati a modelli “castrati” come l’A800 e l’H800, fino ad arrivare all’H20, le cui prestazioni rientrano nei limiti imposti dagli Stati Uniti ed è stato pensato appositamente per aggirare le restrizioni. La parabola dell’H20 è particolarmente emblematica. Nato come compromesso per mantenere aperto il mercato cinese pur rispettando i vincoli imposti da Washington, il chip è stato accusato dai media di Pechino di contenere un “kill-switch”, ovvero un meccanismo occulto di disattivazione remota che avrebbe reso vulnerabili le infrastrutture cinesi in caso di conflitto.  Nvidia ha smentito con forza queste insinuazioni, chiarendo che nessuna delle sue GPU include funzioni di spegnimento a distanza o backdoor segrete. Ma il sospetto ha contribuito a erodere ulteriormente la fiducia, offrendo alle autorità cinesi un nuovo appiglio per giustificare le sue misure restrittive. Il caso dell’H20 mostra come, in un’industria estremamente complessa dal punto di vista tecnico (e dunque, per natura, opaco), la percezione conti quanto la realtà: persino in assenza di prove concrete, il timore di vulnerabilità latenti è sufficiente per spostare interi equilibri di mercato. Il dubbio diventa un’arma politica. Nel frattempo, la politica americana ha oscillato tra rigore e pragmatismo. Dopo la stagione Biden, fortemente orientata al contenimento tecnologico di Pechino, l’amministrazione Trump ha riaperto degli spiragli negoziali, concedendo le licenze che hanno effettivamente consentito la vendita proprio di chip come l’H20. Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, il cambio di orientamento sarebbe stato il risultato di un efficace e paziente lavoro di “diplomazia” di Jensen Huang, che ha saputo costruire una relazione personale privilegiata con il presidente degli Stati Uniti.  La realtà – come vi avevamo raccontato anche qui – è che, nonostante gli embarghi e i compromessi, i chip Nvidia hanno continuato a circolare in Cina persino all’apice dei veti bideniani, in alcuni casi attraverso intermediari o triangolazioni con Paesi terzi, aggirando così i divieti formali e confermando quanto sia difficile bloccare del tutto il flusso tecnologico in un mondo di catene di fornitura globalizzate. PERCHÉ IL VETO CINESE E PERCHÉ PROPRIO ORA? Lungi dall’essere puramente ritorsiva, la decisione cinese di colpire Nvidia va letta come parte di un disegno più ampio. Apparentemente drastica, essa risponde a una logica “strutturalista” che mira a riequilibrare il rapporto di dipendenza con i fornitori stranieri. Pechino non intende più accontentarsi di avere accesso a versioni “attenuate” dei chip americani: l’obiettivo adesso è la conquista di un’autonomia tecnologica che abbracci l’intera filiera del calcolo, dai semiconduttori all’infrastruttura, riducendo al minimo i punti di vulnerabilità. È del resto lì che si gioca la sfida della “sovranità tecnologica”, che la leadership cinese ha ormai posto tra le proprie priorità politiche. Ma perché tutto questo avviene proprio ora?  Un indizio si trova nello “strano” tempismo con cui – due giorni dopo l’annuncio del blocco a Nvidia – Huawei ha svelato una roadmap di sviluppo di chip che copre i prossimi tre anni e che, se realizzata nei tempi e nelle modalità annunciate, potrebbe ridisegnare l’intero equilibrio competitivo del settore. La punta di diamante della strategia dell’azienda di Shenzhen è lo sviluppo della linea di chip Ascend, una serie lanciata nel primo trimestre del 2025 con l’Ascend 910 C e che, attraverso una progressione esponenziale dei nodi e delle interconnessioni, punta a quadruplicare la capacità di calcolo da qui al 2027. Sebbene, a oggi, le GPU Nvidia siano ancora considerate superiori per prestazioni e affidabilità, l’uscita allo scoperto di Huawei riflette la consapevolezza, da parte cinese, che la capacità manifatturiera domestica di chip costituisce sempre meno un collo di bottiglia sensibile alla volubilità di Washington. La roadmap di Huawei non è solo un piano industriale, ma un atto politico: un manifesto che intende rassicurare gli alleati interni e spaventare i concorrenti esterni. In questo senso, il veto contro Nvidia diventa una leva utile a concentrare investimenti pubblici e privati sul fronte della produzione nazionale, rafforzando l’idea che la “dipendenza dall’Occidente” non sia più insuperabile.  In altre parole: il veto cinese a Nvidia e l’annuncio di Huawei non vanno letti come episodi isolati, ma come due mosse coordinate di una identica strategia. Un messaggio al mondo – e in particolare, ovviamente, all’inquilino della Casa Bianca – che la Cina non intende più limitarsi a comprare e inseguire, ma vuole innovare e guidare. L'articolo La Cina contro Nvidia proviene da Guerre di Rete.
Gruppo per i Diritti Umani: Israele mira a distruggere le infrastrutture di comunicazione di Gaza
Gaza – PIC. Un’organizzazione per i diritti umani avverte che Israele sta deliberatamente prendendo di mira le infrastrutture di comunicazione di Gaza per approfondire la sua politica di cancellazione urbana, isolare i civili e costringerli a fuggire. L’Euro-Mediterranean Human Rights Monitor ha lanciato sabato un avvertimento riguardo a un imminente blackout delle reti di comunicazione e di internet a Gaza a causa del continuo bombardamento israeliano delle torri residenziali. Secondo il gruppo, colpire gli edifici alti a Gaza rappresenta una minaccia diretta per il settore delle telecomunicazioni, poiché le compagnie locali hanno installato attrezzature tecniche cruciali sui tetti di questi edifici. L’organizzazione ha dichiarato che Israele sta cercando di distruggere ciò che resta delle infrastrutture di comunicazione e internet per imporre un isolamento totale ai civili, costringendoli così allo sfollamento forzato. Il gruppo per i diritti umani ha aggiunto che il taglio delle comunicazioni ostacola gravemente anche il lavoro delle équipe mediche e di soccorso. Traduzione per InfoPal di F.F.
Israele paga 38 milioni a Google per negare il genocidio
Un’inchiesta di Lee Fang e Jack Pulson, di Drop Site, documenta come le autorità israeliane hanno lanciato una costosissima campagna di propaganda online per cercare di soffocare la realtà dei fatti sul genocidio a Gaza. Se in questi giorni avete usato YouTube è probabile abbiate visto almeno un video di questa campagna, che sostiene che a Gaza ci sia abbondanza di cibo: grazie alle sponsorizzazioni il video ha raggiunto 6 milioni di visualizzazioni in 13 giorni. Il video è pubblicato sul canale del ministero degli Affari esteri israeliano. La campagna è gestita da una “Agenzia pubblicitaria del governo israeliano,” e fa parte di un investimento di 150 milioni di nuovi shekel, 38 milioni di euro, che Tel Aviv sta facendo in pubblicità di Google. Il governo israeliano parla espressamente di hasbara, una parola intraducibile che si colloca tra le pubbliche relazioni e la propaganda. Oltre ai 38 milioni su Google, il governo israeliano ha speso 10 milioni di nuovi shekel, 2,5 milioni di euro, in campagne pubblicitarie su X, e 7 milioni di nuovi shekel, 1,8 milioni di euro, sulla piattaforma Outbrain/Teads, che serve pubblicità per siti internet di terze parti. Non è la prima volta che il governo israeliano lancia una campagna del genere: quest’estate WIRED aveva denunciato la presenza di ads su Google che volevano screditare l’UNRWA, e lo stesso Google nel proprio ultimo bollettino sulle operazioni di influenza estera aveva riportato di aver interrotto 4 campagne d’influenza israeliane che promuovevano contenuto in inglese, francese, tedesco, italiano e greco. (Lee Fang / Drop Site / YouTube / Google Ads Transparency Center / Governo israeliano / WIRED / Google Thread Analysis Group)