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Informazione di parte

Conversione ecologica e cura dei territori: oltre l’imbroglio della transizione energetica “green”
Riceviamo e pubblichiamo molto volentieri un documento a cura della Società dei territorialisti e delle territorialiste sull’urgenza di porre fine alla gigantesca mistificazione che si è creata attorno alla prevalente declinazione energetica della cosiddetta transizione ecologica. In questo contesto la necessità di promuovere le energie rinnovabili sta diventando la foglia di fico di strategie tese a rilanciare l’uso di risorse energetiche fossili ed ecologicamente insostenibili, come il nucleare; al tempo stesso, le modalità spesso speculative che caratterizzano la diffusione di impianti di energie rinnovabili, espongono i territori locali, i paesaggi, gli ecosistemi naturali ed antropici al rischio di alterazioni sempre più vaste e rovinose. Come progetto Confluenza troviamo che il contributo sia perfettamente in linea con i ragionamenti sviluppati a partire dai territori e dal lavoro svolto con i comitati che li difendono, accogliamo dunque l’invito a diffonderlo. Invitiamo chi concorda con i contenuti e gli intenti del documento, a diffonderlo,  pubblicarlo e farci sapere se e in quali forme vuole condividerlo o farlo proprio scrivendo a informazioni@societadeiterritorialisti.it DOCUMENTO-SDT-firmato_Energia e Territori_20250716_0001Download
Campeggio studentesco a Venaus dal 2 al 7 settembre: uniamoci contro chi ci vuole in guerra
Lanciamo un grande e allargato momento di confronto e lotta nei territori liberati di Venaus dal 2 al 7 settembre! da Ksa Torino – ripubblicato su notav.info In uno scenario di totale asservimento della scuola pubblica a logiche belliciste e di allineamento alle necessità produttive di un sistema che ci porta in una direzione di miseria generale, vogliamo poter costruire un senso di riscatto che possa trovare piede con le nostre lotte. Trovarsi nei luoghi che hanno caratterizzato la lotta NO TAV significa prendere esperienza da un movimento che in tutti i suoi anni di vita è riuscito a costruire la propria autonomia senza mai piegarsi a logiche istituzionali o dei partiti ma costruendo giorno per giorno alterità e contrapposizione di massa e popolare. Oggi un fronte ampio di opposizione alla guerra deve prendere spunto da queste esperienze che non hanno significato solo momenti di sommatorie di piccole istanze o sigle, ma una capacità di costruire movimenti e forme di organizzazione di massa stabili e duraturi che hanno messo in crisi stato, mafia e padroni vari per più di 30 anni, come ha dimostrato l’ultima marcia no tav partita dal Festival alta felicità, in cui 10.000 giovani hanno attaccato i cantieri sabotando e distruggendo il nuovo deposito di smarino a Traduerivi. Vogliamo costruire dei momenti di confronto aperti che tocchino i nodi e le contraddizioni principali che oggi nella scuola pubblica e come mondo giovanile viviamo in prima persona. Ipotizziamo proposte di organizzazione nella lotta necessarie a sprigionare quel potenziale rivoluzionario, a spalancare le fratture nel sistema che la fase fa emergere, a ripensare un’alterità alla miseria a cui siamo condannati. Non mancheranno momenti di lotta e socialità per conoscere al meglio la valle che resiste! Zaini in spalla e ci vediamo dal 2 al 7 settembre al presidio di venaus! A breve il programma completo.
Sul tentativo di discredito del Movimento No Tav in seguito alla marcia del 26 luglio: la parola al Comitato di Susa
Si é appena conclusa la 9a edizione del Festival Alta Felicità. Un’edizione ricchissima, giovane (nel corpo e nello spirito), colorata, consapevole, affamata di verità, coinvolgente, inclusiva. da notav.info Un esempio fulgido di confronto e rispetto, in questo mondo malato, superficiale, sempre più pronto al giudizio affrettato e privo di un’adeguata conoscenza. Sempre più facile alla condanna senza lo sforzo,aa ineludibile, di comprendere i fatti. E partiamo da qui. Dai commenti, dalle considerazioni, dagli interventi e dalle lettere con cui , a mezzo stampa e attraverso i social, tante persone hanno voluto esprimere le loro idee a proposito. Sorvoleremo sulle lodi e sui giudizi positivi (tantissimi) e ci soffermeremo invece su coloro che non hanno perso tempo (ancora una volta!) a gettare discredito su un evento che ormai non ha più nulla da dimostrare, nel tentativo (maldestro) di colpire la lotta al TAV. Le parole pesano. E allora iniziamo dalla parola “violenza”. Gli organi istituzionali (da quelli locali a quelli nazionali), riferendosi ai fatti del 26 luglio scorso, hanno a più riprese “condannato ogni atto violento e intimidatorio rivolto contro il TAV”. C’è stata un’incursione nel cantiere ex Guida Sicura? Sì, nessuno lo nega. Quello che viene vergognosamente negato però, è l’esatta comprensione dei fatti. Chi non vorrebbe un territorio pacifico, dove poter vivere in serenità, dove auspicare un futuro accettabile per le giovani generazioni? Tutti lo vorremmo. Ma quelli che fino a questo punto di questa storia trentennale hanno negato ogni tipo di confronto e ora parlano di “ condanna della violenza”, sono proprio coloro che la violenza l’hanno nutrita, fomentata e che ogni volta la praticano e la provocano. Per non parlare della violenza sistematica perpetrata dalle Istituzioni negli anni, fino ad oggi, attraverso una costante e pesante militarizzazione del territorio ed una incessante aggressione fisica a chi manifesta da parte delle forze dell’ordine. A tal proposito, la stessa Amnesty International ( presente alla manifestazione a San Didero il 26 luglio) ha pubblicato un report dove si condanna l’uso spropositato ed illegale dei gas CS, denunciando che perfino uno dei loro osservatori é stato ferito alla schiena da un candelotto sparato “ad altezza uomo”. Altra parola importante è “confronto”. Istituzioni piccole e grandi sbandierano quotidianamente la necessità di “ un confronto democratico”. Confronto mai pervenuto in 30 anni di legittime richieste da parte dei cittadini. Sempre che non si voglia chiamare confronto democratico un incontro blindato dove il proponente l’opera si fa beffa dei (pochi) cittadini presenti con tutta una serie di incredibili affermazioni al limite della decenza e che il Sindaco di Susa considera rassicurazioni. Si stenta a credere poi a chi afferma che il fumo prodotto dagli incendi appiccati il 26 luglio ha inquinato l’aria, se si riflette sul fatto che un futuro insediamento dei cantieri TAV esporrebbe i cittadini per lunghi anni (e non per poche ore) a sostanze altamente pericolose e nocive per la salute umana. Chiediamo a chi si indigna per l’esito della marcia No TAV del 26 luglio scorso di riflettere. Non ci rivolgiamo all’amministrazione segusina. Costoro ormai hanno svenduto il territorio. Lo hanno svenduto senza un briciolo di vergogna. E quando parlano di confronto “esclusivamente istituzionale“ dimenticano perfino che TELT è un ente privato e che di istituzionale non ha proprio nulla, nonostante che i locali del Municipio di Susa ne siano diventati di fatto il quartier generale. Non ci rivolgiamo nemmeno a TELT che, ovviamente, tenta disperatamente di convincere i cittadini che il TAV rappresenterà un rilancio economico per l’intera Valle, snocciolando spesso dati contradditori, mentendo sapendo di mentire. Ci rivolgiamo invece alle cittadine e ai cittadini che abitano in questa Valle perché riflettano sul fatto che se i cantieri TAV venissero installati e dovesse partire lo scavo del tunnel di base, questo territorio diventerà invivibile e che accanto alle poche e temporanee ricadute economiche, la presenza dei cantieri porterà ad una lenta ma inesorabile desertificazione del territorio. Il costo complessivo di quest’opera inutile è di 24 miliardi di euro, ed è in costante lievitazione Davvero vogliamo indignarci per una sacrosanta e legittima protesta e non opporci invece ad un’opera ecocida, devastante, vergognosamente costosa (la cui copertura finanziaria è a forte rischio), a fronte dei reali problemi di tutto il Paese (Sanità pubblica , Istruzione, lavoro sostenibile, salvaguardia del territorio)? Noi abbiamo scelto da che parte stare. Fatelo anche voi. Non siate complici. Per il Comitato No TAV Susa-Mompantero Doriana Tassotti Valter Di Cesare Elsa Ivol Silvana Rosani Elisabetta Lambert Pierdomenico Caminati Vanda Vottero Mario Fontana Roberta Durbiano Eleonora Bottaro Giuseppina Maria Momblano Fabrizia Fabbrini Franco Nicolas Vilma Baccon Luca Favro Ezio Bianco Dolino
Iveco: “Deve rimanere controllato nel nostro paese. Ci sono elementi che preoccupano. Non ci sono garanzie assolute per i lavoratori”
“Riteniamo inaccettabile il processo di disimpegno da parte di Exor dell’industria italiana. Iveco è un marchio storico che chiaramente ha una strategicità per il nostro paese non solo ed esclusivamente per le lavoratrici ed i lavoratori direttamente assunti da Iveco, c’è un pezzo di indotto ovviamente, c’è una componente strategica proprio di know how e competenze che non si può disperdere.” E’ l’opinione della Fiom nazionale espressa ai nostri microfoni da Maurizio Oreggia del coordinamento automotive del sindacato metalmeccanici CGIL, in merito alla vendita dell’Iveco al colosso indiano Tata Motors. Una doppia cessione che ha fruttato alla famiglia Elkann-Agnelli ben 5,5 miliardi:  3,8 miliardi per la vendita dell’Iveco all’indiana Tata Motor e 1,7 miliardi per la divisione Difesa a Leonardo. Sono tutti soldi che finiscono all’estero, perché la finanziaria di famiglia Exor, la più ricca d’Italia, ha sede legale e fiscale in Olanda dal 2016. “Iveco è un marchio che è cresciuto nel nostro paese con il lavoro delle persone ma anche con importanti risorse della collettività, pubbliche, quindi evidentemente noi pensiamo che debba rimanere un asset controllato nel nostro paese, debba essere assolutamente salvaguardato. Ci sono degli elementi che devono essere tutti da chiarire e che non hanno garanzie assolute per lavoratrici e lavoratori e questo è un elemento che preoccupa.” L’intervista a Murizio Oreggia, del Coordinamento automotive Fiom nazionale Ascolta o scarica da Radio Onda d’Urto
Vita e morte di Raffaele Fiore, quando la classe operaia scese in via Fani
L’ultima volta che ho sentito parlare dal vivo Raffaele Fiore era il 2023 all’ex Snia viscosa di Roma, dove veniva presentata la nuova edizione di Un contadino nella metropoli, l’autobiografia di Prospero Gallinari. da Insorgenze L’ex giovanissimo operaio della Breda fucine di Sesto San Giovanni, divenuto poi uno dei dirigenti della colonna torinese e che il 16 marzo 1978, a soli 24 anni, camuffato da stuart dell’Alitalia, prese parte all’assalto del convoglio che trasportava Aldo Moro, prelevando con le sue mani imponenti e i modi gentili, «venga con noi presidente», il massimo esponente della Democrazia cristiana dalla Fiat 130 di Stato, raccontava – come già altre volte aveva gli era accaduto – il momento del suo primo ingresso in fabbrica. Il silenzio improvvisamente rotto dal suono della sirena che lacerava l’aria dando il via al frastuono indemoniato di macchinari imponenti, «torni e frese enormi, macchine a controllo numerico, magli che picchiavano forte per modellare l’acciaio incandescente facendo tremare il pavimento, forni che sputavano colate d’acciaio, un’organizzazione militaresca della produzione» e tutt’intorno «operai che lavoravano da oltre trent’anni sulla stessa machina “innamorati” patologicamente del loro lavoro e della loro alienazione, operai che svuotavano damigiane di vino per resistere alle esalazioni delle colate, simili ai soldati della prima linea i quali, coscienti di essere carne da macello, si offuscavano la mente per andare al martirio, operai a corto di udito, avevano i magli nella testa come gli ultras il pallone»(1). «Quel giorno – spiegò quasi fosse ancora immerso nel fracasso della fabbrica – capii che non avrei mai passato la mia vita lì dentro». Raffaele Fiore ha incarnato l’antropologia ribelle, l’irriducibile insubordinazione di quella nuova classe operaia, migrata per buona parte dal Meridione, quella «rude razza pagana» come la definì Mario Tronti, che non aveva alcuna intenzione di lasciarsi disciplinare dal regime della fabbrica taylorista, che non aveva alcuna voglia di limitare la propria esistenza dentro l’orizzonte oppressivo della disciplina aziendale e pensava orgogliosamente di poter rivoluzionare il mondo. Un nuovo ceto operaio insofferente al comando dell’impresa, ma anche al moderatismo riformista del Pci e del sindacato che spesso si sovrapponevano. Distante dal «doverismo morale» della vecchia classe operaia professionalizzata, come racconta lui stesso quando insofferente per le critiche di un suo compagno di lavoro brianzolo che l’incalzava sui ritmi, invece di attendere il movimento della gru che alzava pezzi di acciaio pesanti una cinquantina di chili da lavorare al tornio, per dimostrare che se avesse voluto poteva essere più veloce di lui, li prese di peso con le proprie braccia. (2). Per i giovani operai come Raffaele la fabbrica, la linea, erano solo uno spazio per costruire relazioni sociali e politiche, per praticare lotta, resistenza e conflitto, emancipazione politica e sociale, non più il luogo dove bruciare la propria esistenza. Nato nel 1954 alla Guaraniella, uno dei quartieri più poveri di Bari, orfano di padre a 12 anni e primo di sei figli, riuscì a concludere la scuola media nonostante un’adolescenza che lo aveva visto fare diversi lavori e poi aiutare la madre in un piccolo negozio di ortofrutta. Salì a Milano approfittando di una scuola per tornitori, offerta ai giovani orfani, che gli permise di entrare alla Breda nel 1972. Giovanissimo si era già mescolato alle manifestazioni e i luoghi di incontro che caratterizzavano le mobilitazioni politiche dell’epoca. Alla Breda si era dapprima iscritto alla Cgil, che egemonizzava la fabbrica, per entrare subito in contatto con il combattivo Comitato autonomo operaio, un gruppetto che raccoglieva una cinquantina di lavoratori. Arialdo Lintrami, uno studente-lavoratore, suo compagno di lavoro lo inziò gradualmente alla vicinanza con le Brigate rosse, dapprima semplice «contatto», poi «irregolare» e infine, concluso in anticipo il servizio militare nell’estate del 1975, dopo la tragedia della Spiotta e i numerosi rovesci subiti dall’organizzazione, con il salto a «regolare» nella colonna torinese che andava rinforzata. Membro del fronte logistico nazionale, prese parte alle maggiori azioni che le Brigate rosse realizzarono a Torino, fu arrestato nel marzo 1979, con molta probabilità grazie all’azione di un confidente che i carabinieri di Dalla Chiesa erano riusciti ad infiltrare tra i contatti della colonna. Anche se il suo nome di battaglia era Marcello all’interno dell’organizzazione veniva affettuosamente chiamato «Cammello», un soprannome che gli era stato attribuito dopo una singolare sfida: era riuscito infatti mandare giù in una sola volta una bottiglia d’acqua. Ha scontato per intero la sua condanna senza collaborare o dissociarsi. Nel 1997 ottenne la condizionale con libertà vigilata, per lavorare in una cooperativa. Dieci anni dopo raccontò la sua storia ad Aldo Grandi, pubblicata col titolo L’ultimo brigatista. Combatteva da tempo contro un tumore, se n’è andato lunedì scorso, 28 luglio. Come scrisse Ivan Carozzi in una bella recensione del docufilm di Bosco Levi Boucoult, Ils étaient les Brigades rouges, dove Fiore testimoniò insieme a Gallinari, Moretti e Morucci, la sua è una «testimonianza di antropologia operaia, prima ancora che brigatista: per la forza con cui si è cristallizzata, mentre tutto intorno il mondo e l’Italia tramutavano, e perché appare come la dichiarazione di un modo estinto, e infatti mediaticamente incompreso, di essere e di vivere. Al contrario, la devastazione in corso da oltre venti anni nel mondo del lavoro è, per chi oggi esce da scuola, un nuovo stato di natura, immutabile, in cui ciascuno è solo di fronte al proprio destino. Ma un tempo non è stato così e almeno in questo punto la storia ci è maestra». Note 1. L’ultimo brigatista, Bur, 2007, p. 35. 2. L’ultimo brigatista, Bur, 2007, p. 36.
Protestare per la Palestina: il caso della Columbia University
L’università è il luogo per eccellenza del dibattito, del pensiero critico e scomodo, dove le idee si oppongono perché viene garantita la sicurezza di chi le espone. Se questo è il ruolo dell’università, ciò dovrebbe comportare, e normalmente comporta, due cose. di Elettra Repetto, da Volere la Luna La prima conseguenza è quasi banale, ossia il permettere che le idee vengano discusse, esposte, anche quando possono essere offensive o addirittura disturbanti, come chiede il diritto alla libertà di espressione nella sua interpretazione data dalla Corte Europea dei Diritti Umani (Handyside v. the United Kingdom judgment of 7 December 1976, § 49). Allo stesso tempo, se alcune idee si ritiene necessario siano sanzionate, è importante lo siano in modo proporzionato, aggiunge la Corte. Cosa significa, nel concreto, permettere che le idee vengano discusse? Certamente, l’assunto è che le idee che dovrebbero avere la libertà di essere espresse non promuovano odio, supremazia etnica o discriminazione su base di genere, credo, preferenza sessuale, di affiliazione partitica o altro. Ma come dare spazio a quelle idee che sono compatibili con la democrazia, ma che al contempo danno fastidio alla maggioranza, a chi è al potere? Sono accettabili le occupazioni pacifiche, come lo sono state quelle alla Columbia University di New York a favore del popolo palestinese? E se non lo sono, quali sono le sanzioni appropriate? Leggiamo che la Columbia University ha espulso, sospeso e in alcuni casi revocato i diplomi di laurea di studenti che hanno partecipato ad attività pro-Palestina a partire dal 2024. Le attività contestate sono l’occupazione della biblioteca il 7 maggio 2025 – sgomberata dalla polizia di New York meno di 24 ore dopo – e gli accampamenti non autorizzati: formalmente atti illeciti, perché implicano l’invasione di spazi privati dell’università e l’interruzione delle attività accademiche. Tuttavia, questa è la prima volta che assistiamo a sanzioni così numerose e draconiane dalla fondazione della Columbia. Secondo la Columbia University Apartheid Divest (CUAD), il gruppo studentesco formatosi per chiedere la cessazione di legami finanziari tra la Columbia e Israele, gli studenti colpiti da queste punizioni sono quasi 80. La sospensione degli studenti e la revoca dei diplomi sono le ultime azioni di una serie, prima tra tutte il ricorrere alla polizia per rimuoverli dal campus, che ha visto l’amministrazione dell’università fortemente contrapposta agli studenti. Come condannato da molti professori della Columbia, questi atti hanno limitato e continuano a limitare fortemente la libertà di espressione senza essere giustificate dal bisogno di contenere manifestazioni di odio. Infatti, sebbene le occupazioni fossero di per sé illegali – illegalità dettata dall’urgenza nel voler denunciare e dall’impossibilità di essere considerati nelle proprie richieste se non con un atto performativo e plateale – non sono state violente, né promotrici di violenza contro terzi. Di più: l’accusa di antisemitismo, che è stata lanciata per giustificare interventi così severi, non sembra reggere. Da un lato, per la presenza di studenti di origine ebraica tra i manifestanti, che anzi, come si legge nelle interviste a molti studenti, hanno contribuito a organizzare l‘occupazione. Dall’altro, perché quello che gli studenti hanno chiesto – un abbandono degli accordi finanziari con Israele –, nulla ha di discriminatorio nei confronti di un gruppo per etnia o religione. Anche i sondaggi secondo cui gli studenti ebrei sarebbero stati vittima di antisemitismo – che certamente è in crescita e deve essere combattuto – sembra mescolassero antisemitismo e critiche al Governo di Israele, come riportato da Middle East Eye. In particolare, è illuminante riportare le parole di Raz Segal, professore associato di Holocaust and Genocide Studies a Stockton, che ha detto: «Le accuse di antisemitismo ai manifestanti non sembrano considerare come ebrei i molti ebrei tra i manifestanti negli accampamenti, sostenendo in effetti che gli ebrei possono essere ebrei solo se sostengono Israele o non esprimono sentimenti filo-palestinesi». Se l’antisemitismo deve essere sicuramente combattuto, non può essere usato come arma per far tacere chi tenta di opporsi a un genocidio, accusando di antisemitismo chi si professa contro il Governo di Israele. Se il termine genocidio può suonare forte, non è espresso con leggerezza: non solo la Corte Internazionale di Giustizia, già nel 2024, ha sottolineato come alcuni atti di Israele potessero cadere nella definizione di genocidio, ma Omar Bartov, uno dei massimi studiosi in materia, ha definito quello che sta accadendo in Palestina genocidio e così il Lemkin Institute for Genocide Prevention, che ha anche messo in luce le crescenti violenze in West Bank. In ultimo, non regge neppure il tacciare il CUAD di sostenere il terrorismo, dato che al centro delle richieste del CUAD c’è che la Columbia interrompa i progetti accademici e rescinda gli accordi economici attivi con Israele, il che non implica nessuna forma di supporto per Hamas. La seconda condizione perché un’università garantisca la sicurezza di chi espone le proprie idee è il non esporsi politicamente, il non prendere parte tra due contendenti politici alla presidenza di un Paese, o, il rimanere un’istituzione neutrale da un punto di vista partitico. Questo perché il prendere parte in questioni politiche, non si concilia con l’essere il più possibilmente obiettivi – requisito essenziale per fare ricerca –, con il senso di apertura che l’università porta con sé, con l’idea che sia un luogo in cui ogni persona, indipendentemente dalle proprie opinioni, possa essere accolta. Eppure. Eppure il non esprimersi di fronte a gravissime violazioni del diritto umanitario internazionale comprovate da fonti attendibili, il tacere di fronte a uno Stato che si sta macchiando di genocidio è moralmente e legalmente problematico. E ancora più problematico è continuare a collaborare con le istituzioni di tale Stato. Come sappiamo dal libro di Maya Wind, Torri d’avorio e d’acciaio. Come le università israeliane sostengono l’apartheid del popolo palestinese (Edizioni Alegre, 2024), anche le istituzioni superiori israeliane sono parte del sistema di occupazione di Israele, e non come enti collaterali. Non solo alcune università israeliane sorgono sui territori occupati, ma la ricerca che si fa nei dipartimenti, da quelli di archeologia a quelli di ingegneria, contribuisce alla narrazione e al mantenimento di uno stato di occupazione permanente. Collaborare con questi enti significa scegliere di ignorare questa importante connessione, significa fingere che le istituzioni accademiche siano altro, e non facciano parte di un sistema in cui invece sono necessariamente inserite. Sembra quindi che la Columbia stia abdicando al suo ruolo di luogo di discussione, di contestazione, di critica. Certamente le minacce di Trump, alle quali ha fatto seguito un accordo con cui la Columbia, in cambio dello sblocco dei contributi governativi, ha accettato di versare 221 milioni di dollari «per porre fine alle indagini condotte» dall’amministrazione centrale in merito alle manifestazioni pro Palestina, giocano un ruolo importante nelle scelte dell’università. Questa dipendenza è necessario riconoscerla, proprio per sottolineare come l’amministrazione universitaria sia sottoposta a un potere che ne limita, quando non ne nega il ruolo di luogo del pensiero critico e indipendente. Invece che condannare così duramente studenti che non hanno danneggiato edifici accademici, non hanno incitato all’odio, la Columbia, come la comunità accademica tutta, dovrebbe ringraziare gli studenti che si stanno e si sono con forza opposti al massacro del popolo palestinese. Questo perché è essenziale che gli istituti universitari contribuiscano a mantenere il rispetto per lo stato di diritto e per quel diritto umanitario internazionale che è insegnato in molti dei loro dipartimenti. Le proteste di questi studenti devono essere apprezzate in quanto ci mantengono all’erta non solo delle gravi violazioni dei diritti, ma anche rispetto al nostro progressivo abdicare alla moralità. Le occupazioni, data la loro illegalità, e la disobbedienza civile in generale, sono particolarmente capaci di esprimere la forza delle proprie convinzioni e ricordano al pubblico che certi eventi sono in contrasto con la morale, indipendentemente dalla loro normalizzazione. Le proteste, e più in particolare la disobbedienza, si oppongono all’indifferenza e promuovono l’indignazione, che un tempo costituiva un motivo di azione. Il fatto che gli studenti non si tirino indietro mentre vengono trattati come comuni criminali, non è solo una testimonianza delle loro convinzioni, ma un costante promemoria che ciò che viene presentato come normale e accettabile non lo è, e non deve esserlo. I giovani studenti ricordano alle stesse università che si presentano come bastioni di diritti, e, alla società in generale, i propri doveri morali e la risposta morale appropriata di fronte a gravi violazioni. Agendo da provocatori e usando slogan drammatici, i disobbedienti agiscono contro un certo modo raffinato di discutere una tragedia e chiamano il re nudo. Così, chiedendo alle loro istituzioni di annullare le loro partnership con gli istituti di ricerca israeliani che sostengono l’occupazione, gli studenti si presentano come contrari a quell’abdicazione della legge morale di cui scrive Didier Fassin nel suo Une étrange defaite. Sur le consentement à l’écrasement de Gaza (La Découverte Ed. 2024), quando discute del silenzio assordante intorno a Gaza e della normalizzazione della violenza che vediamo in Medio Oriente. Come il reverendo King ha affermato in diverse circostanze, aspettare di agire davanti alle persone che stanno soffrendo ci costringerà a «doverci pentire in questa generazione non solo per le parole e le azioni al vetriolo delle persone cattive, ma per lo spaventoso silenzio delle persone buone» (dalla Lettera dalla Prigione di Birmingham). È un’azione che vuole resistere all’apatia e sconfiggere la paralisi di fronte a violenze gravissime il tipo di azione in cui gli studenti si sono impegnati e si impegnano, una forma di agire che potremmo considerare come l’ultimo baluardo contro il nostro collasso morale.
“Non lasceremo loro nulla”. La distruzione del settore agricolo e dei sistemi alimentari di Gaza/4
Di seguito la quarta puntata del report di Palestinian Centre for Human Rights tradotto da ECOR Network sulla distruzione del settore agricolo palestinese a Gaza. Le precedenti puntate: 1, 2, 3 IV. Confisca e isolamento di terreni e aree agricole Nel contesto del genocidio in corso, l’occupazione israeliana ha confiscato vaste aree di terreno a Gaza, in particolare terreni agricoli essenziali per il cibo e il sostentamento della popolazione palestinese. L’occupazione israeliana ha inoltre ampliato la zona cuscinetto lungo la barriera di confine, approfondendola da 1 a 1,8 chilometri e trasformando altre aree in zone militari sotto il controllo di sicurezza israeliano, impedendone l’accesso ai residenti. Il 28 ottobre 2023, le Forze di Occupazione Israeliane (IOF) hanno lanciato un’invasione terrestre su larga scala nel nord di Gaza e nella periferia di Gaza City, iniziando le operazioni per distruggere e spianare terreni agricoli e le abitazioni a Beit Hanoun, Beit Lahiya e Juhur ad-Dik. I bulldozer israeliani hanno iniziato a scavare nuovi sentieri in queste aree, aprendo la strada all’avanzata di carri armati, veicoli blindati e unità militari israeliane verso Gaza. Il 5 novembre 2023, Israele aveva annunciato l’occupazione dell’area di “Netzarim”, completando il suo controllo dalla barriera di confine orientale alla costa occidentale 51. Subito dopo ha avuto luogo il processo di separazione tra Gaza settentrionale e meridionale attraverso la costruzione di una nuova strada, in seguito nota come “Strada 749”. Il 30 maggio 2024, Israele ha rioccupato il Corridoio di Salah al-Din, la linea di separazione tra Gaza e l’Egitto (noto come “Corridoio di Filadelfia”), creando una zona cuscinetto lunga 14 chilometri e larga 1 chilometro lungo il confine palestinese-egiziano. Questa azione frammenta ulteriormente Gaza, cementando l’assedio militare sull’intero territorio 52. Una recente analisi del gruppo di ricerca britannico Forensic Architecture, pubblicata poco prima dell’annuncio del cessate il fuoco nel gennaio 2024, ha rivelato che le IOF hanno conquistato oltre 131 chilometri quadrati, pari al 36% dell’area totale di Gaza durante la loro offensiva militare. Ciò include l’espansione della zona cuscinetto lungo il confine tra Gaza e Israele. Inoltre, il corridoio di Netzarim è stato ampliato e le IOF hanno costruito basi militari lungo i suoi 8 chilometri di lunghezza e 7 chilometri di larghezza. Questa espansione ha comportato la distruzione della maggior parte degli edifici e delle abitazioni palestinesi, il livellamento di terreni agricoli e la creazione di una “zona cuscinetto militare” nel cuore di Gaza, con una superficie totale superiore a 56 chilometri quadrati 53. Resta il fatto che le IOF non sono impegnate in combattimenti effettivi in queste aree occupate; piuttosto, stanno correndo contro il tempo 54 per ottenere la maggior distruzione possibile.   Il 19 marzo 2025, Israele ha ripreso l’assalto militare alla Striscia di Gaza. Il 1° aprile 2025, le forze israeliane hanno emesso ordini di evacuazione per l’intero governatorato di Rafah, insieme a parti del governatorato di Khan Younis, e hanno avviato un’operazione terrestre su larga scala a Rafah, dopo averla completamente circondata 55. Le IOF hanno avviato la creazione del corridoio “Moraj”, che separa le città di Khan Younis e Rafah, isolando la città di Rafah, di 74 chilometri quadrati, dal resto della Striscia di Gaza 56. Le operazioni militari a Rafah hanno privato i palestinesi dell’accesso ai loro terreni agricoli, che sono una fonte primaria dell’agricoltura locale e costituiscono il “paniere alimentare” da cui dipende la regione, in particolare per la produzione di ortaggi. Rapporti recenti suggeriscono l’intenzione di Israele di trasformare Rafah, che rappresenta un quinto della Striscia di Gaza, in una zona cuscinetto dopo aver completato la distruzione sistematica al suo interno 57. Questa decisione riflette la determinazione a ridurre le dimensioni di Gaza e ad aggravare la crisi alimentare dei suoi abitanti. Questa confisca non solo porta alla distruzione dell’agricoltura palestinese, ma crea anche una realtà demografica, trasformando Gaza in “cantoni” isolati, rispecchiando il modello della Cisgiordania, dove metodi di isolamento e frammentazione hanno sconvolto le comunità palestinesi, minato le attività agricole e limitato la libera circolazione delle persone. Israele ha inquadrato queste azioni in un contesto di sicurezza, con dichiarazioni ufficiali israeliane che indicano che la confisca di queste terre rappresenta una svolta calcolata verso la riduzione del territorio di Gaza 58 e il rafforzamento della presenza occupante israeliana a lungo termine. Ciò è diventato evidente dopo l’annuncio del cessate il fuoco e persino in seguito alla ripresa degli attacchi militari, quando Israele ha dichiarato che avrebbe creato zone cuscinetto di 700-1300 metri lungo il confine di Gaza e ne avrebbe mantenuto il controllo, impedendo l’accesso ai palestinesi. Alla luce di ciò, è importante sottolineare che impedire ai palestinesi di accedere ai terreni agricoli a Gaza li priva dell’autosufficienza agricola, sollevando preoccupazioni sulle conseguenze a lungo termine per la sicurezza alimentare. La possibilità di piantare o raccogliere colture in queste aree non è più possibile a causa dell’inaccessibilità, il che solleva anche interrogativi critici riguardo al fatto che i mezzi di sussistenza palestinesi vengano presi di mira in modo conforme alle definizioni internazionali di genocidio, attraverso la sistematica privazione delle risorse di base volta a ridurre la popolazione e a distruggerne la sopravvivenza negando loro i mezzi essenziali di sostentamento. Le implicazioni di questa strategia per i diritti umani e la sovranità palestinese sono profonde e richiedono un’azione internazionale urgente per affrontare le potenziali violazioni e ripristinare l’accesso dei palestinesi alle loro terre.   “Lavoro in agricoltura con la mia famiglia da 30 anni e la mia famiglia possiede 34 dunam di terreno agricolo nei dintorni di Zeitoun, 26 dei quali sono coltivati a ulivi. I restanti dunam includono serre, un allevamento di pollame, due pozzi, un sistema di irrigazione moderno e completo, riserve idriche e un sistema avanzato di energia alternativa. La terra era la principale fonte di cibo e reddito per la mia famiglia e altre sei famiglie, poiché producevamo circa 40-50 tonnellate di olive all’anno. Dallo scoppio della guerra, la situazione è peggiorata significativamente. Siamo stati costretti a evacuare la zona e a trasferirci nel sud di Gaza. Le IOF hanno preso di mira la mia fattoria con razzi e granate, distruggendola. Durante l’invasione terrestre di Gaza City alla fine di ottobre, la mia fattoria è stata rasa al suolo e completamente spazzata via. Non era la prima volta che la mia fattoria veniva distrutta; aveva subito danni in precedenti attacchi militari, ma mai come in questa guerra. La fattoria è stata cancellata, trasformata in una terra arida e non ne rimane nulla. Gli ulivi che avevo coltivato per 27 anni sono scomparsi. Quello che ora so è che la mia fattoria e l’area circostante sono state completamente incorporate nel corridoio di Netzarim, diventando una zona militare chiusa. Non potrò più accedervi.” Mohammed Naseem Al-Dahdouh, 46 anni, quartiere di Zeitoun – Gaza City 59 V. La distruzione del settore agricolo dal punto di vista del diritto internazionale Il diritto al cibo è intrinsecamente legato al diritto di accesso alle risorse naturali come la terra e l’acqua, che sono essenziali per il raggiungimento della sicurezza alimentare e dello sviluppo sostenibile. In quanto potenza occupante, Israele ha la responsabilità di proteggere e sostenere questi diritti, garantendo la protezione dei mezzi di sussistenza dei civili in conformità con il diritto internazionale umanitario, in particolare la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, che prescrive il trattamento umano dei civili in tempo di guerra o di occupazione. La distruzione di terreni e infrastrutture agricole da parte di Israele, l’uso della fame come arma nella sua guerra contro i palestinesi, l’appropriazione di terre palestinesi all’interno di Gaza, le restrizioni all’accesso e lo sfollamento forzato della maggioranza della popolazione costituiscono molteplici violazioni del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani. Queste azioni equivalgono a crimini di guerra e crimini contro l’umanità. La gravità di queste azioni risiede nella trasformazione delle fonti alimentari in strumenti di oppressione, riflettendo una forma di “genocidio ambientale” 60, che compromette gravemente il diritto palestinese alla vita, al cibo, alla terra e alla dignità, come sancito dal Convenzione Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali 61. Il diritto internazionale umanitario impone la protezione dei beni civili e delle risorse essenziali per la sopravvivenza, soprattutto in tempo di guerra. L’articolo 54 del Protocollo Addizionale I alle Convenzioni di Ginevra proibisce esplicitamente l’attacco o la distruzione di “beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile”, inclusi terreni agricoli, depositi di generi alimentari, strutture per l’allevamento, riserve idriche e sistemi di irrigazione. La distruzione di queste risorse da parte di Israele costituisce una violazione del diritto internazionale e un crimine di guerra ai sensi dell’articolo 8 dello Statuto di Roma. I principi di distinzione, proporzionalità e necessità militare del diritto internazionale umanitario impongono che le azioni militari distinguano tra obiettivi militari e obiettivi civili. Gli attacchi alle infrastrutture civili sono severamente vietati, a meno che non vi sia una diretta necessità militare, e tali attacchi devono essere proporzionati. Tuttavia, gli attacchi israeliani contro terreni agricoli, bestiame, attività ittiche e sistemi di produzione alimentare a Gaza mostrano un deliberato disprezzo per questi principi, poiché tali obiettivi civili sono diventati obiettivi primari di distruzione all’interno della sua dottrina militare. Sia le Convenzioni di Ginevra che lo Statuto di Roma proibiscono l’uso della fame sistematica come arma contro i civili. Le azioni di Israele costituiscono una palese violazione del diritto internazionale umanitario, in particolare dell’articolo 14 del Protocollo Addizionale II alle Convenzioni di Ginevra (1977), che proibisce gli attacchi o la distruzione di “derrate alimentari, aree agricole per la produzione di cibo, raccolti, bestiame, impianti di acqua potabile e opere di irrigazione”. La fame sistematica e la privazione di risorse essenziali sono classificate dalla Corte Penale Internazionale come crimini di guerra, soggetti a indagini e procedimenti ai sensi dell’articolo 8 dello Statuto di Roma. Inoltre, l’illegale sequestro e l’isolamento militare di vaste aree agricole da parte di Israele priva i palestinesi di spazi essenziali per la produzione alimentare. Queste azioni violano palesemente il principio di distinzione e non soddisfano il criterio di necessità militare, rappresentando una chiara violazione della Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta a una potenza occupante di sequestrare e distruggere proprietà civili nei territori occupati 62. Le IOF giustificano il sequestro e la distruzione di terreni come misure di sicurezza, tuttavia, la portata di queste azioni suggerisce una strategia deliberata volta alla distruzione delle comunità palestinesi attraverso lo sfollamento forzato, la pulizia etnica e la negazione dei loro mezzi di sussistenza, il tutto con il pretesto di promuovere l’agenda di sicurezza a lungo termine di Israele. La strategia israeliana di negare ai palestinesi l’accesso alle fonti alimentari distruggendo il settore agricolo, ricorrendo alla fame sistematica e convertendo queste risorse in strumenti di sottomissione, è in linea con la definizione di “genocidio”, come delineata nell’Articolo 2 della Convenzione sul Genocidio del 1948. In particolare, quando l’obiettivo di tale strategia è quello di creare le condizioni per la distruzione fisica, totale o parziale, del popolo palestinese. Un recente rapporto di Francesca Albanese, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, intitolato “Genocidio come cancellazione coloniale”, aggiunge una dimensione cruciale al dibattito in corso sull’intenzione di Israele di commettere un genocidio a Gaza. Il rapporto sottolinea che Israele opera con l’obiettivo finale di cancellare i palestinesi e annientare la loro esistenza 63, utilizzando ogni strumento a sua disposizione per raggiungere questo obiettivo, non solo a Gaza ma in tutto il territorio palestinese. L’esplicito incitamento del governo israeliano e le azioni orribili che ha compiuto supportano questa affermazione. Il crimine di genocidio, insieme ai continui atti di sfollamento forzato e pulizia etnica 64 contro i palestinesi, riflette un profondo fallimento internazionale sia a livello legale che etico. La risposta della comunità internazionale al regime di apartheid in Sudafrica e la sua reazione alla distruzione ambientale in Ucraina evidenziano un chiaro doppio standard nei rapporti con Israele, poiché i meccanismi di responsabilità e giustizia vengono continuamente ostacolati, minando la credibilità delle istituzioni internazionali e il loro impegno a tutelare i diritti umani. VI. Interventi e misure raccomandati per sostenere gli sforzi di ripresa e ricostruzione nel settore agricolo Il settore agricolo nella striscia di Gaza ha subito una devastazione massiccia a causa dell’aggressione israeliana dal 7 ottobre. Israele ha sistematicamente preso di mira l’infrastruttura di produzione alimentare, portando al collasso quasi totale di questo settore vitale. Questo non è stato un danno casuale o ‘collaterale’, ma parte di una strategia deliberata per distruggere tutti i mezzi di vita, privare la popolazione della loro capacità di assicurarsi il cibo ed eliminare le loro fonti primarie di sostentamento. Gaza ha perso vaste quantità di colture strategiche, tra cui viti, guaiava e ulivi, e grandi fasce di terreni agricoli sono stati distrutti, cancellando una componente cruciale della produzione agricola locale. Il settore dell’allevamento ha subito un colpo altrettanto devastante, con oltre l’80% degli allevamenti distrutti. Migliaia di polli e di capi di bestiame sono morti a causa dei bombardamenti israeliani, della grave carenza di foraggio, e delle interruzioni di corrente, portando all’estinzione di razze essenziali che un tempo costituivano la colonna vertebrale della produzione animale. Anche l’industria della pesca è stata colpita in modo catastrofico, con tutti i porti pescherecci lungo la costa distrutti, insieme a barche e attrezzature. Questo ha portato il settore quasi alla paralisi, privando migliaia di pescatori dei loro mezzi di sussistenza. Il ripristino della sicurezza alimentare e della sovranità alimentare richiede sforzi urgenti e intensi per sostenere la ripresa e la ricostruzione del settore agricolo attraverso una strategia globale e interventi immediati che garantiscano che gli agricoltori, gli allevatori e i pescatori possano riprendere le loro attività produttive e migliorare la loro resilienza. Sono state formulate una serie di politiche e misure raccomandate che devono essere attuate per sostenere gli sforzi di recupero e ricostruzione nel settore. Queste raccomandazioni si basano su dati primari e secondari raccolti da ricercatori sul campo del Palestinian Centre for Human Rights (PCHR) durante la preparazione della presente relazione, in collaborazione con il Palestinian Agricultural Relief Committees (PARC). I dati rispecchiano le esigenze urgenti dei gruppi colpiti del settore agricolo, nonché le opinioni degli esperti intervistati 65, che consentirebbero al settore di riprendersi, rivendicare il suo ruolo nel sostenere l’economia locale e garantire la sicurezza alimentare per la popolazione. Queste raccomandazioni comprendono: 1. Cessate il fuoco immediato e permanente Il cessate il fuoco è il punto fondamentale per qualsiasi autentico sforzo di ripresa. La ripresa dell’attività agricola richiede un ambiente stabile e sicuro che consenta agli agricoltori e agli allevatori di tornare alle loro terre senza la costante minaccia di invasione e distruzione. Le restrizioni all’accesso degli agricoltori alle loro terre, in particolare nelle aree classificate dall’occupazione israeliana come zone cuscinetto, devono essere rimosse. Queste aree hanno privato Gaza del 25-30% dei suoi terreni agricoli e gli agricoltori devono essere nuovamente autorizzati ad accedere liberamente alle loro terre. In assenza di reali garanzie di stabilità, gli agricoltori rimarranno esitanti a reinvestire nelle loro terre per timore di ulteriori perdite, il che richiederà un intervento internazionale per proteggere i loro diritti e garantire un ambiente sicuro per il lavoro agricolo. A tale proposito, il Centro Palestinese per i Diritti Umani invita le Parti Contraenti della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ad assumersi le proprie responsabilità nella protezione della pace e della sicurezza internazionale. Devono costringere Israele a cessare immediatamente la sua aggressione nella Striscia di Gaza, a ritirarsi da tutti i territori occupati all’interno di Gaza e a proteggere le infrastrutture civili essenziali necessarie alla sopravvivenza dei civili, come delineato nell’Articolo 54 del Protocollo Addizionale I alla Quarta Convenzione di Ginevra 66.   2. Sviluppare una strategia globale per la riabilitazione del settore agricolo Il processo di ripresa richiede una strategia globale che ricostruisca il settore agricolo seguendo l’approccio “Build Back Better“, non solo ripristinando ciò che è stato distrutto, ma anche migliorando la gestione delle risorse e garantendo la sostenibilità a lungo termine. Questa strategia deve comprendere tutti i sottosettori, tra cui la produzione agricola, l’allevamento e la pesca, e dovrebbe essere sviluppata attraverso un efficace coordinamento con enti governativi, organizzazioni della società civile e agenzie internazionali. Rafforzare la collaborazione con l’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) e altri organismi regionali e internazionali competenti è essenziale per mobilitare i finanziamenti e i sostegni necessari per la riabilitazione agricola. Inoltre, il ruolo delle cooperative agricole e degli agricoltori nel processo di pianificazione deve essere rafforzato per garantire che le politiche e gli interventi siano concreti e in linea con le reali esigenze del settore. La strategia dovrebbe includere programmi per ripristinare le infrastrutture agricole e ricostruire le catene del valore interrotte dalla guerra. Dovrebbe concentrarsi sulla ricostruzione delle capacità di stoccaggio e commercializzazione, integrando al contempo nuove tecnologie per migliorare la produttività e ridurre i costi, come l’agricoltura sostenibile e climaticamente intelligente, che saranno fondamentali per rafforzare la resilienza e la redditività a lungo termine del settore.   3. Ripristino dei terreni agricoli e delle infrastrutture Ripristinare i terreni agricoli danneggiati è una priorità urgente, poiché il suolo richiede un ripristino completo per affrontare la distruzione e la contaminazione causate da esplosivi e materiali tossici utilizzati durante la guerra. La rimozione di macerie e detriti di guerra, insieme alla gestione sicura dei rifiuti organici in modo ecologicamente responsabile, sono passaggi fondamentali per ripristinare la fertilità del suolo e renderlo nuovamente idoneo alla coltivazione. Inoltre, gli sforzi devono concentrarsi sulla riparazione delle reti di irrigazione, sul riavvio dei pozzi e sulla garanzia della disponibilità di energia per pompare acqua alle aziende agricole e agli impianti di produzione. La ricostruzione delle infrastrutture essenziali, compreso il ripristino delle strade agricole che collegano le aree rurali ai mercati, è fondamentale per consentire agli agricoltori di trasportare i loro prodotti in modo efficiente e di riacquistare l’accesso ai mercati.   4. Garantire il flusso immediato e sostenibile di risorse agricole essenziali Oltre al ripristino delle infrastrutture, è necessario intervenire immediatamente per garantire il flusso ininterrotto di input agricoli attraverso i valichi. Gli agricoltori soffrono di una grave carenza di sementi, fertilizzanti, agrochimici, medicinali veterinari, mangimi e attrezzature agricole. È essenziale che la comunità internazionale eserciti pressioni su Israele affinché ponga fine al blocco della Striscia di Gaza e apra i valichi per consentire l’ingresso di tutte le forme di aiuti umanitari, comprese le forniture specifiche per il settore agricolo. Questi input devono essere garantiti regolarmente e in modo sostenibile, con la creazione di una scorta strategica per proteggere il settore agricolo da improvvise interruzioni dell’approvvigionamento. Inoltre, i vivai locali dovrebbero essere supportati per la produzione di piantine e sementi, riducendo la dipendenza dalle importazioni e migliorando l’autosufficienza agricola a lungo termine. 5. Riabilitare il settore zootecnico e migliorarne la produttività Il settore zootecnico è un pilastro fondamentale della sicurezza alimentare e il suo recupero richiede interventi immediati per ripristinare e riabilitare gli allevamenti che non sono stati completamente distrutti. È necessario adottare misure urgenti per riavviare gli allevamenti avicoli esistenti, fornendo fattori di produzione essenziali come energia, mangimi, uova fecondate e vaccini per ripristinare i cicli produttivi. Inoltre, la ricostruzione delle razze animali locali, tra cui bovini, ovini, vitelli e cammelli, è fondamentale dopo la diffusa distruzione e sterminio di questi animali. È necessario attuare programmi per migliorare la produttività importando razze resistenti in grado di resistere alle condizioni ambientali di Gaza. Anche l’avvio di progetti sostenibili per l’allevamento di bestiame e pollame e la garanzia di fonti di energia rinnovabili a supporto delle attività agricole sono essenziali per la ripresa a lungo termine. 6. Ricostruire il settore della pesca e garantirne la sostenibilità Il settore della pesca e delle risorse marine richiede notevoli sforzi per risarcire i pescatori per le perdite subite, a partire dalla garanzia del loro diritto a riprendere le attività di pesca. Ricostruire i porti di pesca distrutti e fornire nuove imbarcazioni e attrezzature essenziali, come reti, motori, carburante e attrezzi nautici, sono misure necessarie per consentire loro di tornare al lavoro. Inoltre, il rilancio delle esportazioni di prodotti ittici, un’importante fonte di sostentamento economico per questo settore prima della guerra, non sarà possibile senza la ricostruzione di infrastrutture critiche, tra cui reti elettriche, reti di trasporto, impianti di produzione del ghiaccio e magazzini refrigerati, per garantire la conservazione sicura e l’efficiente commercializzazione dei prodotti ittici.   7. Rafforzare l’advocacy internazionale e documentare la distruzione del settore agricolo Gli sforzi di recupero e ricostruzione devono andare di pari passo con un’intensa attività legale e di advocacy per documentare i crimini di guerra commessi contro il settore agricolo e presentare questi casi agli organismi internazionali affinché Israele si assuma la responsabilità della distruzione sistematica del sistema alimentare di Gaza. Anche il risarcimento per le ingenti perdite economiche inflitte al settore agricolo deve essere una priorità. È imperativo portare i casi relativi alla distruzione dell’agricoltura dinnanzi ai relatori speciali delle Nazioni Unite sul diritto al cibo e all’ambiente, nonché alle organizzazioni internazionali per i diritti umani e agli organismi giuridici, al fine di sviluppare un quadro giuridico globale che tuteli i diritti dei palestinesi a un’alimentazione adeguata e all’accesso alle risorse naturali – obblighi che Israele, in quanto potenza occupante, è legalmente tenuto a rispettare. L’istituzione di una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite per indagare su questi crimini è fondamentale, poiché costituiscono violazioni dello Statuto di Roma, della Quarta Convenzione di Ginevra e di altri trattati internazionali pertinenti. Ciò garantirà giustizia alle vittime e impedirà ai responsabili di sottrarsi alle loro responsabilità. In questo contesto, il Palestinian Centre for Human Rights esorta i movimenti per la giustizia climatica e le organizzazioni ambientaliste a intensificare i loro sforzi per fermare la distruzione ambientale del territorio palestinese da parte di Israele. La devastazione diffusa non solo priva i palestinesi del loro diritto alla terra e alle risorse naturali, ma ostacola anche il progresso globale verso gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) delle Nazioni Unite, in particolare gli obiettivi Fame Zero e Azione per il Clima. (4. Fine) * Traduzione di Ecor.Network -------------------------------------------------------------------------------- “We Will Leave Them Nothing”. The Israeli Sistematic Destruction of the Agricultural Sector and Food Production Systems in Gaza. Palestinian Centre for Human Rights Maggio 2025 – 36 pp. Download: -------------------------------------------------------------------------------- Note: 51) France24, “Gaza City ‘encircled’ by Israeli troops”, 6 novembre 2023. 52) BBC, “Israel extends control of Gaza’s entire land border”, 30 maggio 2024. 53) Anadolu Ajansi, “Israeli military cut across Gaza Strip, leavi ng territory fragmented”, 24 novembre 2024. 54) Drop Site News, “An Investigation into Israel’s 749 Combat En gineering Battalion: Our Job Is to Flatten Gaza. No One Will St op Us”, 22 ottobre 2024. 55) Wafa, “Israeli army issues new forcible eviction orders for mor e areas in Rafah”, 1 aprile 2025. 56) France24, “Israel’s Netanyahu announces new ‘Morag’ security corridor across Gaza”, April 02, 2025.  57) Haaretz, “Israel Preparing to Turn Rafah – One-fifth of Gaza – Into Part of Buffer Zone”, 9 aprile 2025. 58) The Telegraph, “Israel says it will ‘decrease’ Gaza territory”, 18 ottobre 2023. 59) Un ricercatore sul campo del PCHR ha raccolto la testimonianza il 24 dicembre 2024. 60) Laurent Lambert, “Ecocide as Genocide: A Human Security Approac h to ‘Utter Annihilation’ in Gaza”, 6 ottobre 2024, Arab Cent er for Research and Policy Studies. 61) L’articolo 1, paragrafo 2 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali afferma: “Tutti i popoli hanno il diritto di perseguire liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale, disporre liberamente delle loro ricchezze e risorse naturali, fatti salvi gli obblighi derivanti dalle esigenze della cooperazione economica internazionale fondata sul principio del reciproco vantaggio e sul diritto internazionale. In nessun caso un popolo può essere privato dei suoi mezzi di sussistenza. 62) Idem. 63) Francesca Albanese, “Genocide as colonial erasure – Report of the Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967”, 1 ottobre 2024. Page 43. 64) The Guardian, “World must act to prevent ‘ethnic cleansing’ of Gaza, António Guterres warns”, 30 ottobre 2024. 65) Un’ampia sessione di focus group è stata tenuta dal PCHR in collaborazione con il PARC, riunendo specialisti del settore agricolo e gruppi interessati, tra cui agricoltori, allevatori e pescatori. 66) L’articolo 54 vieta esplicitamente l’attacco o la distruzione di “oggetti indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile,” compresi i terreni agricoli, le aree agricole, gli impianti di stoccaggio alimentare, le colture e l’infrastruttura per il bestiame.
Taranto: il sindaco Bitetti ritira le dimissioni e partecipa all’incontro al ministero. Slittate le decisioni sull’ex-ILVA il 12 agosto
Si è tenuto a Roma giovedi 31 luglio l’incontro tra il governo e gli enti locali in relazione alla sottoscrizione dell’Accordo di Programma Interistituzionale sul futuro produttivo dell’ex Ilva di Taranto (giorno nel quale è stato approvato in via definitiva alla Camera l’ultimo decreto che assegna altri 200 milioni di euro per la prosecuzione dell’attività del siderurgico). Erano presenti rappresentanti del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, del Ministero della Salute, del Ministero dell’Interno, della Regione Puglia, della Provincia di Taranto, del Comune di Taranto, del Comune di Statte, dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ionio – Porto di Taranto, di ILVA S.p.A. in Amministrazione Straordinaria, di Acciaierie d’Italia S.p.A. in Amministrazione Straordinaria. Presente anche il Sindaco di Taranto Bitetti che ha ritirato le dimissioni. E’ stato fissato un nuovo incontro il 12 agosto al ministero delle Imprese e del Made in Italy. Nel frattempo sarà aggiornata la gara ancora in corso per la vendita dell’ex Ilva e si svolgerà il consiglio comunale monotematico a Taranto. La gara sarà riaperta la prossima settimana e si chiuderà entro settembre. La novità rispetto a quella bandita lo scorso anno, consta nel fatto che vi sarà per il futuro acquirente l’obbligatorietà della decarbonizzazione da attuare con l’installazione dei tre forni elettrici rispetto agli attuali tre altoforni a carbone entro 7/8 anni, mentre nella precedente era soltanto prevista come opzione. Il Ministero, d’intesa con le Istituzioni presenti, ha quindi deciso di fissare un incontro il 12 agosto per consentire agli enti locali, come da loro richiesta, di riunire gli organi assembleari al fine di esprimere compiutamente le loro posizioni sul Piano di decarbonizzazione. Durante la riunione è stato infatti presentato un documento dal sindaco del Comune di Taranto riguardo ad un’ulteriore opzione del Piano di decarbonizzazione (la così detta opzione C, che dovrebbe prevedere tre forni elettrici e un impianto DRI). Gli ambientalisti denunciano ciò che emerge chiaramente dalle carte: il processo di decarbonizzazione, se attuato, verrà portato a termine tra 10-12 anni. In questo lasso di tempo saranno riaperte tutte le fornaci dell’acciaieria, proprio quelle che per tutti questi anni hanno avuto un impatto significativo su Taranto e sulla salute della popolazione: l’enorme attività siderurgica ha provocato l’aumento di malattie respiratorie, cardiovascolari e tumorali, specialmente nei quartieri più vicini all’ex Ilva. Resta la questione relativa alla concessione dell’AIA all’ex Ilva per i prossimi 12 anni, rilasciata dal ministero dell’Ambiente la scorsa settimana, nonostante la contrarietà degli enti locali. Che potrebbero presentare ricorso al TAR, qualora gli uffici legali riscontrassero gli estremi per farlo. Il punto della situazione con Gianmario Leone giornalista del Corriere Taranto che da anni segue le vicende relative all’ex-Ilva Ascolta o scarica  da Radio Onda d’Urto Di seguito il comunicato di Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti di Taranto: CHE BITETTI, GIÀ TORNATO SINDACO, SI PRENDA LE SUE RESPONSABILITÀ! Miracolosamente lo spaventato e dimissionario primo cittadino, con un colpo teatrale, ieri si è presentato a Roma all’incontro organizzato al Mimit per discutere l’Accordo di Programma proposto dal Governo. Si è presentato al Ministro Urso da politico “coraggioso “, da “uomo di stato “, spinto a furor di popolo , convinto dai centinaia, cosa diciamo, da MILIONI di attestati di stima ricevuti dai cittadini BUONI di Taranto che andavano giustamente rappresentati. Per deduzione, chi ha espresso dissenso, ricordandogli che il sindaco è il primo responsabile della salute di tutti i suoi concittadini, senza distinzione tra buoni e cattivi, tra elettori e non elettori, non solo non ha diritto ad essere ascoltato, ma va anche denunciato, va anche dato in pasto alla stampa, quella che coglie un refuso per farne infiltrati incappucciati, semprevivo il metodo Archinà. Già ieri mattina, le solite emittenti regionali mostravano un rilassato Governatore, regista speculatore di questa tragicommedia, dispiaciuto per la piccola pedina comunale che, differentemente dal suo piglio da ex magistrato, abile ad affrontare contestazioni accese, si era lasciato intimorire. Questo, per onor di cronaca, è vero ma solo perché “I FATTI” realmente accaduti non avrebbero spaventato neanche un “bambino”. Nella sua personale ricostruzione dei BUONI e CATTIVI manifestanti, Emiliano menziona proprio l’associazione tarantina che, guarda caso, ha alcuni dei suoi rappresentanti all’interno del consiglio comunale, firmatari, sempre guarda caso, di un neonato piano C, uscito chissà da quale cassetto, nelle ultimissime ore. In pratica, come già successo nel 2012 e nel 2019, la campagna divisiva è denigratoria è partita. Lo scenario forse è più complesso ma adesso le dinamiche sono chiare e sono peggiori di quanto abbiamo visto in questi lunghi 12 anni: All’epoca i titoloni del 2012 riportavano “L’ASSALTO”, gli ultras attaccano la piazza dei sindacati, la democrazia è in pericolo….” In questi giorni, con più fantasia, le testate hanno messo “GLI INCAPPUCCIATI” GLI URLATORI “,GLI ECOTALEBANI”, una dissidenza così minacciosa che le forze dell’ordine manco l’ha vista. L’elemento nuovo ma non inaspettato di questa campagna denigratoria è il fronte ambientalista col breviario del buon manifestante. Se una volta eravamo utili in piazza per contestare politicanti e sindacalisti del momento, adesso, ottenute le varie poltrone nel consiglio comunale, finiamo dritti dritti nella cittadinanza da civilizzare. A margine di un copione imbastito di sana pianta, ci permettiamo di ricordare a chi sosteneva di voler cambiare il sistema dall’interno che è stato presto dimostrato che in questo sistema ci sguazza senza sforzo. Così, mentre si consumava la pantomima delle dimissioni e delle denunce a facinorosi inesistenti, mentre l’Assessore Cosa chiariva che l’inagibilità politica era più che altro riferita alle pressioni dall’alto, in contrasto con le dichiarazioni del sindaco pro-cittadinanza e pro- salute, accadeva che i fidi consiglieri partorivano il novello piano C, quello di “soli 5 anni” di ciclo integrale a carbone prima di arrivare all’idrogeno! Pare, tuttavia, che qualcuno gli abbia ricordato, forse Gozzi di Federacciai, che l’idrogeno sta all’acciaio come la loro onestà intellettuale sta alla carica pubblica che ricoprono: non si sfiorano neanche. Al povero Sindaco, ora che la sua squadra ha partorito la proposta geniale, suggeriamo di fare appello a tutto il suo coraggio perché del futuro di Taranto e dei tarantini sarà soprattutto lui a rispondere nelle sedi giuste in cui si dovrà capire a chi dovremo altri morti e altri malati, che questi progetti non potranno scongiurare.
Milano: urbanistica, speculazione e stratificazione di classe
Beppe Sala nel suo discorso di fronte al Consiglio Comunale ha affermato che tutto ciò che ha fatto nel corso delle sue due sindacature è stato nell’interesse dei cittadini e delle cittadine. Questa frase può sembrare una banalità, pura retorica, da parte di un sindaco che si trova in difficoltà dopo che le diverse inchieste della magistratura hanno puntato il faro dei media e dell’opinione pubblica sulla questione urbana milanese. Ma, forse senza farlo intenzionalmente, il sindaco Sala pronunciando questa frase ha illuminato un aspetto importante delle metropoli oggi e di come funzionano. Infatti ci si potrebbe chiedere quali sono questi cittadini e cittadine nel cui interesse hanno avuto luogo queste speculazioni edilizie che, rilevanza penale o meno, hanno cambiato radicalmente Milano negli ultimi dieci anni? Per essere più diretti: chi ha “cittadinanza” nella metropoli meneghina? Mettiamo per un attimo da parte gli aspetti corruttivi dell’intricata vicenda che vede coinvolti imprenditori, architetti, assessori e dipendenti comunali. Diciamo che la frase di Sala sia la pura verità, o meglio sia ciò che lui pensa intimamente del suo operato. Per una certa parte degli abitanti e delle abitanti di Milano sicuramente questa dinamica speculativa ha portato profitti, ha reso la città più “esclusiva” ed “attrattiva”, ha in un certo grado migliorato la qualità della loro vita. Ma chi sono questi abitanti? Da un punto di vista demografico a Milano si rintracciano due tendenze speculari che si assommano in un dato lapidario: solo il 40% degli attuali residenti di Milano abitava in città anche 15 anni fa.1 Si consideri che l’aumento complessivo della popolazione negli ultimi 10 anni nel comune di Milano è pari al 3,7%. Quindi la città non è cresciuta come numero di abitanti a tal punto da rendere i residenti “storici” una minoranza, ma piuttosto vi sono stati enormi movimenti di popolazione residente verso fuori dalla città ed altri enormi flussi di popolazione venuta da fuori che ha preso residenza a Milano. Con una triste battuta verrebbe da dire che la metropoli ha assistito ad una “sostituzione di classe”, ben più reale e materiale di ogni teoria sulla sostituzione etnica. Non che tutti coloro che hanno spostato la loro residenza a Milano siano ricchi e borghesi, ben inteso, ma è vero il contrario, cioè che la maggior parte di chi ha lasciato la città lo ha fatto perché i costi degli affitti, delle case, dei beni in generale sono diventati insostenibili, anche a fronte della crescente inflazione. I dati sul costo delle abitazioni e sugli affitti a Milano sono ben noti: oggi comprare casa a Milano costa in media circa il 50 per cento in più rispetto a 15 anni fa e nello stesso periodo gli affitti sono cresciuti mediamente di circa il 40 per cento.2 Il costo medio al metro quadro ha sorpassato i 5mila €, a Torino, dove la crisi abitativa è una questione altrettanto importante, il costo è di 2mila €. Se poniamo attenzione ad un altro fenomeno che caratterizza Milano, quello del pendolarismo, possiamo trarre altri dati importanti: ogni giorno sono circa 900mila3 le persone che si spostano per studio o per lavoro a Milano. Di queste i due terzi vengono da fuori dalla provincia di Milano. Certo, tra di essi ci saranno anche una minima parte di manager e imprenditori che si spostano, ma la grande massa del pendolarismo è formata da lavoratori e lavoratrici che tengono in piedi la megamacchina del profitto urbano milanese, ma che sono costretti a vivere a distanza di ore dal luogo di lavoro. Molte cittadine dell’hinterland metropolitano milanese sono città dormitorio e ormai il fenomeno è talmente espanso che chi lavora a Milano vive anche a Pavia, Novara, Lodi, Cremona ecc… con l’attivazione sempre più evidente di meccanismi speculativi e di ridisegno del territorio anche su questi centri periferici. Quanto è avvenuto è quasi definibile come un meccanismo di ingegneria sociale e corrisponde all’andamento delle grandi metropoli globali occidentali, dove l’accesso alla città non solo per lavoro, la “cittadinanza” non formale, ma materiale, è sempre più una questione di classe. Questo non significa che i proletari e le proletarie siano completamente esclusi dalla città, ma sono inclusi “differenzialmente”: la macchina urbana milanese ha bisogno di facchini, di cuochi, di badanti, di donne delle pulizie, di riders, di guardie di sicurezza, di operai degli spurghi. Tutte queste funzioni della produzione e della riproduzione capitalistica qualcuno deve pur svolgerle. La città non può del tutto cancellare la presenza proletaria, anche se ha allontanato da sé i luoghi della produzione industriale, anche se costringe ogni giorno centinaia di migliaia di proletari a viaggiare per kilometri per raggiungere il posto di lavoro. Se lo si guarda in questi termini il Piano Casa4 di Sala risponde a questa esigenza (si parla di appena 10mila abitazioni in 10 anni) piuttosto che ad un ripensamento reale delle politiche abitative ed urbanistiche. Per questa parte di proletariato l’abitare in città però non è un privilegio, ma molto spesso un inferno di disciplinamento ed iper-sfruttamento. Il Daspo Urbano, l’allarme sicurezza cavalcato dalle destre, l’omicidio di Ramy, fanno parte di un quadro dove il proletariato “dentro le mura” non può e non deve avere lo stesso accesso alla città dei “cittadini” del discorso di Sala. Gli altri e le altre, quelli “fuori dalle mura” metaforiche mettono a disposizione il loro lavoro vivo per la macchina del profitto senza ricevere nulla in cambio dalla città. I pendolari che ogni giorno prendono i mezzi per recarsi negli uffici della metropoli, come i facchini della logistica e gli operai assiepati nella corona di capannoni che si staglia appena fuori quelle mura sempre in espansione. Questi se va bene Milano la vivono come un parco giochi esotico in cui recarsi nel weekend e togliersi qualche piccola soddisfazione che il magro salario ancora gli permette. Dunque sì, la corruzione, le consulenze in cambio di favori, sono una parte di questo meccanismo, sono odiose perché rappresentano l’olio che unge gli ingranaggi del funzionamento della macchina dei profitti, ma la macchina stessa è lì da ben più di un decennio, ed è l’aspetto più spregevole di questa vicenda. Dunque forse la cittadinanza che intende Sala è fatta dagli operatori e dalle operatrici della finanza internazionale, da influencers, da imprenditori ed imprenditrici, artisti cosmopoliti e da tutte quelle mille figure che compongono la borghesia urbana contemporanea. Sono i loro gli interessi di cui Sala risponde, per loro sono i parchi, le mostre, gli eventi culturali, la pittura green mentre la cementificazione procede senza sosta. Sicuramente Milano e la sua area metropolitana rappresentano una situazione specifica e forse unica in Italia, ma alzando un po’ lo sguardo la vicenda, per conto nostro, ci obbliga a guardare i rapporti sociali e la loro dislocazione territoriale con più finezza. Ci costringe a domandarci “dove sono i nostri”, come possiamo costruire incontri ed organizzarci, quali strategie dobbiamo mettere in campo per inceppare la macchina, come possiamo agevolare una ricomposizione tra quei settori di classe frammentati dalla separazione geografica, razziale, di genere imposta dalle catene del valore. Non sarà un’inchiesta giudiziaria a mettere fine a tutto questo, né un improvviso risveglio della politica istituzionale. -------------------------------------------------------------------------------- Note: 1. Alcune cose successe a Milano negli ultimi 15 anni – Il Post ↩︎ 2. Ibidem ↩︎ 3. https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/25_marzo_31/a-milano-900-mila-pendolari-ogni-giorno-due-terzi-arrivano-da-fuori-provincia-pavia-lodi-ma-anche-bologna-5c6bc70f-e175-479e-9045-2efbfef0fxlk.shtml#:~:text=Il%20fenomeno%20%C3%A8%20impressionante:%20ogni,dal%20resto%20della%20Citt%C3%A0%20metropolitana. ↩︎ 4. https://www.milanofinanza.it/news/comune-di-milano-piano-casa-al-via-24-offerte-per-i-primi-due-bandi-coima-tra-i-14-operatori-in-gara-202505281740362257#:~:text=Parte%20ufficialmente%20il%20piano%20straordinario,10%20anni%20a%20prezzi%20calmierati&text=Sono%2024%20le%20manifestazioni%20di,Cavriana%20e%20via%20Balsamo%20Crivelli. ↩︎
Genova: nuova vittoria dei portuali, nessuno sbarco per la nave carica di armamenti
Ritirato lo sciopero, “non lavoriamo per la guerra”. Mobilitazione per la Palestina e contro la logistica delle armi. A Genova questa mattina i portuali del collettivo Calp, insieme al sindacato Usb, hanno annunciato che tre container contenenti materiale bellico, destinati a La Spezia e trasportati dalla nave Cosco Pisces, non verranno sbarcati nè a Genova nè a La Spezia. La compagnia Evergreen ha deciso di farli rientrare direttamente verso l’Estremo Oriente, dove erano stati inizialmente caricati. La decisione segue le ampie proteste portate avanti dai lavoratori portuali in questi mesi presso gli scali liguri: “questa decisione rappresenta un risultato concreto dell’azione sindacale e della pressione esercitata da USB, che aveva proclamato 24 ore di astensione dal lavoro per il 5 agosto al terminal PSA Genova Prà”, scrivono i Calp che ribadiscono con forza: “non lavoreremo per la guerra“. Da Genova Josè Nivoi, portuale dei Calp e di Usb. Ascolta o scarica. da Radio Onda d’Urto
Il laboratorio della guerra. Tracce per un’inchiesta sull’università dentro la «fabbrica della guerra» di Modena
Riprendiamo questo interessante lavoro d’inchiesta pubblicato originariamente da Kamo Modena sul rapporto tra università e guerra. 0. Un’ipotesi a premessa Rita Cucchiara è la nuova rettrice dell’Unimore. Prima donna ad assumere questo ruolo nella storia dell’Università di Modena e Reggio, è stata eletta a giugno 2025 al ballottaggio contro Tommaso Fabbri, con un corpo accademico votante spaccato in due. Come gruppo di inchiesta universitario, è indicativo per il nostro discorso lo spostamento dei rapporti di forza, di bilanciamento e di potere interni all’istituzione Università dal dipartimento di Economia a quello di Ingegneria. Come vedremo, questo elemento può essere già inteso come indizio della direzione e del ruolo che l’istituzione università sta assumendo, in questa fase accelerata e acuta di crisi, sul nostro territorio inteso nelle sue connotazioni produttive e sociali, nel suo rapporto con lo sviluppo capitalistico a vocazione industriale e dei soggetti da esso messi al lavoro, e in relazione alle trasformazioni del contesto politico e capitalistico non solo locale, ma regionale, nazionale ed europeo, dentro la crisi globale che si fa stato di guerra. La figura della nuova rettrice sta lì a esprimere questa fase di cruciale trasformazione. Partiamo da qui, cominciando a tracciare qualche punto d’inchiesta sull’università come «laboratorio della guerra», da ampliare, mettere a verifica e agire in senso militante, con punto di vista di parte. 1. La nuova rettrice: Rita Cucchiara Ordinaria di ingegneria informatica e direttrice di numerosi laboratori di ricerca sull’intelligenza artificiale, Rita Cucchiara viene descritta dai giornali come il volto delle donne nelle STEM italiane, con un curriculum accademico invidiabile. Tuttavia, il dato politico reale che emerge ripercorrendo le tappe della sua carriera accademica e istituzionale è il suo ruolo di raccordo, da un lato, tra ricerca pubblica universitaria e il suo impiego nel rilancio del profitto d’impresa e, dall’altro, tra politica (non solo locale) e accesso alle catene globali del valore. In una traiettoria che, seguendo la curva dell’accumulazione capitalistica nel tempo della crisi e della guerra, descrive chiaramente la porosità tra la produzione – industriale, di sapere, e quindi di soggettività – civile e la produzione militare, oggi esplicata nel paradigma del «dual use». Sarebbe infatti parziale, e quindi limitante, accontentarsi di contestare superficialmente la sua stretta vicinanza a Israele – sebbene durante il genocodio della popolazione palestinese della striscia di Gaza e il salto di livello nel conflitto in Medio Oriente non esistano posizioni neutrali – trascurando di osservare, in profondità, il significato di quanto realizzato nel contesto in cui siamo collocati, l’Italia e in particolare l’Emilia. Tenere come unica prospettiva critica un generico pacifismo rischia infatti di ridurre l’analisi e quindi la prassi politica a polemica moralista, e soprattutto di non riconoscere la portata reale della direzione di trasformazione in «fabbrica della guerra» del nostro territorio, in cui l’industria della formazione tecnico-scientifica – non limitata a sole scuola e università – svolge un ruolo di primissimo piano: quello di «laboratorio della guerra». 2. Unimore e IDF: la relazione strutturale con Israele Fatta questa opportuna premessa, è incontestabile che Cucchiara ha svolto un ruolo soggettivo d’impulso nello sviluppo della collaborazione tra Unimore e la ricerca tecnologica israeliana, stringendo partnership pluriennali e organizzando enormi congressi. Si prenda, tra i tanti esempi, la presentazione del laboratorio AIIS, diretto da Cucchiara, al Naftali Building dell’Università di Tel Aviv, con la presenza dell’Ambasciata italiana e di Isaac Ben-Israel, ex generale dell’IDF e oggi direttore della Israeli Space Agency , la ECCV European Conference on Computer Vision del 2022, organizzata da Cucchiara a Tel Aviv insieme a figure di primo piano come Amnon Shashua, CEO miliardario di Mobileye e fondatore dell’omonima Shashua Family Foundation, società “filantropica” il cui Nitzanim Program mira a «duplicare il numero di giovani provenienti da zone svantaggiate nei reparti high-tech dell’IDF» (si veda qui e qui). Ma accanto a queste numerose iniziative estemporanee, vanno sottolineati i tentativi di rendere duratura nel tempo, ovvero strutturale, la collaborazione con Israele, lanciando network pensati ad hoc come la rete ELLIS, un «laboratorio di ricerca sulle AI multicentrico composto di unità e istituti situati in Europa e in Israele»; la rete conta appunto anche un’unità modenese, diretta da Cucchiara. 3. Unimore e NATO: progettare la guerra che viene Non mancano poi i progetti NATO, quale il programma di riconoscimento facciale BESAFE – Behavioral Learning in Surveilled Areas with Feature Extraction – che la rettrice stessa ha coordinato in collaborazione con la Hebrew University. Sempre Cucchiara ha poi lanciato i suoi laboratori Unimore in grossi progetti alle dirette dipendenze della Difesa e dell’intelligence statunitense, come il progetto di videosorveglianza DIVA di IARPA (Intelligence Advanced Research Project Activity) dell’Ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale (qui una presentazione del progetto in cui Cucchiara casualmente trascura di indicare l’origine spionistica del progetto). Oltre all’AIIS, un altro laboratorio modenese diretto da Cucchiara, l’AImageLab, viene frequentemente presentato come un esempio virtuoso di collaborazione tra l’Unimore e Leonardo(si veda qui e qui), il colosso globale nel settore della Difesa controllato dallo Stato italiano, tra i maggiori attori del complesso militare-industriale e protagonista oggi, sul territorio modenese ed emiliano (ma non solo, come dimostrano le inchieste torinesi e in Piemonte), nel dare il ritmo e la direzione alla riconversione in senso bellico del tessuto d’imprese meccaniche e metalmeccaniche legato all’automotive in crisi. Va segnalato, inoltre, il progetto STORE (Shared daTabase for Optronics image Recognition and Evaluation), un enorme consorzio di accademici e colossi dell’industria militare come Rheinmetall (tedesca) e Thales (francese), finanziato con 323 milioni di euro dall’UEper la creazione di un database di immagini esplicitamente rivolta all’analisi tattica delle situazioni di combattimento, a cui Unimore partecipa attraverso il laboratorio AIRI, diretto sempre dalla rettrice neoeletta (si veda qui e qui). Sebbene non ci siano fonti pubbliche chiare in materia, sembra che parte della sperimentazione militare che vede nella Cucchiara interlocutore strategico ruoti, oltre che nella cybersicurezza, intorno al mondo dell’aviazione e dei droni – un arma, quest’ultima, avviata alla produzione di massa il cui potenziale è già stato sperimentato sui fronti ucraino e mediorientali, che sarà protagonista nei futuri scenari bellici come il carrarmato nella Seconda guerra mondiale – che incontra i vari tentativi di Confindustria e della Regione emiliano-romagnola a governo PD di sviluppare un distretto locale dell’aerospazio. 4. Unimore, imprese e politica a sistema per il profitto A questo punto però è necessaria una precisazione, senza la quale si rischia di fraintendere il senso del quadro descritto. La prossimità della nuova rettrice di Unimore ad articolazioni di Israele e ad apparati della NATO non può prescindere dall’ambito della politica istituzionale, con cui sussistono solidi collegamenti e internità. Dal “curriculum” leggiamo infatti una fitta lista di importanti incarichi istituzionali sia con il governo Conte I (“giallo-verde” a trazione M5S e Lega), sia con il governo Conte II (il cosiddetto governo “giallo-rosso” con M5S e PD), sia infine con l’attuale governo Meloni. È possibile notare, quindi, che il raccordo con il mondo della decisione politica (e quindi con le risorse e i finanziamenti statali e comunitari) non vada ridotto solo a una precisa visione ideologica o a un’adesione a un determinato partito politico. Tuttavia, nel contesto modenese ed emiliano, è con il sistema radicato del partito che governa il territorio e lo sviluppo, il PD, che sussistono le maggiori relazioni e affinità. Per quanto riguarda la politica di Modena, i giornali avevano fatto circolare nell’ottobre 2023 l’ipotesi di una candidatura della Cucchiara a sindaco per il Partito Democratico favorita nientemeno che dall’allora presidente (modenese) della regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini; sebbene a questa eventualità non seguirono prese di posizione esplicite, il ruolo raggiunto difficilmente la può vedere estranea a collegamenti, appoggi, internità all’area politica del PD che governa il territorio e il suo sviluppo, in sintonia con l’università. Vale la pena menzionare, a tal riguardo, almeno due eventi particolarmente rilevanti se declinati nell’ottica di rilevare i legami politici della nuova rettrice, e come questi ultimi vengono contestualizzati nel panorama universitario e industriale emiliano e modenese, nell’ottica di interpretarne le presenti e future trasformazioni. Cucchiara ha preso parte all’iniziativa organizzata dal PD “Impresa & ripresa: il ruolo delle PMI nel Next Gen EU”, tenutasi il 15 Luglio 2021, finalizzata a rafforzare il tessuto produttivo europeo, con tema centrale il ruolo delle PMI – baricentro dell’economia italiana, con particolare rilevanza nel triangolo industriale lombardo-veneto-emiliano – nel rilancio economico postpandemico. L’intervento portato da Cucchiara ha visto come principale punto di attenzione il profondo scollamento, nel nostro Paese, tra innovazione, con focus su quella universitaria relativa all’AI, e apparato industriale, spesso incapace di assorbire conoscenza e pratiche/tecnologie innovative. La rettrice ha dunque auspicato a una sempre più stretta collaborazione tra centri di ricerca universitari con aziende, figure manageriali, amministrazioni locali, anche in ottica di uno sviluppo tecnologico che non si pieghi a una mera acquisizione da soggetti internazionali distaccati dal territorio, e che permetta quindi di rientrare competitivamente nelle catene del valore globali. Tra gli altri, all’evento hanno presenziato Enrico Letta (allora segretario del PD), Andrea Orlando (allora ministro del Lavoro e delle Politiche sociali nel governo guidato da Mario Draghi), Cesare Fumagalli (ex segretario generale di Confartigianato imprese) e Anna Ascani (allora sottosegretaria di Stato al Ministero dello Sviluppo economico). Un secondo evento sicuramente di rilievo nell’andare a tracciare i legami tra la rettrice e pezzi di Partito Democratico è la convention del 22 luglio 2023 di Energia Popolare, corrente/area di Stefano Bonaccini – ex presidente della regione Emilia-Romagna, ora mandato a curare gli interessi della borghesia locale a Bruxelles come eurodeputato – interna al partito. In tale circostanza Cucchiara ha tenuto il proprio intervento su un piano di analisi di più alto livello, andando a rispondere alla domanda “Perché la politica si deve occupare di AI?” Ha sottolineato quindi come l’AI rappresenti di per sé un “fatto politico”, facendo riferimento al documento “AI for Europe”, votato e firmato il 25 aprile 2018 dagli Stati membri della Comunità europea, che sancisce l’importanza che l’intelligenza artificiale riveste in relazione alle scelte politiche dei nostri paesi. La rettrice riprendeva il documento in questione specificando in particolare come la rivoluzione tecnologica dell’AI dovesse coniugarsi con i “nostri” valori “etici”, di “democrazia”, di “diritti umani”, di “privacy” e ci capacità di gestire i dati personali. Queste affermazioni in particolare, tolta l’ipocrita retorica progressista ormi ristagnante, generano sicuramente non pochi contrasti con la realtà concreta e pubblica di una stretta collaborazione tra UNIMORE da una parte e articolazioni di Israele e della Nato dall’altra, impegnati in prima linea nel genocidio della popolazione palestinese e nella guerra per procura contro la Russia cercata, scatenata e sostenuta dall’imperialismo delle consorterie euroatlantiche. Collaborazione attuata proprio tramite progetti e laboratori spesso diretti dalla Cucchiara, messi al lavoro, insieme allo sviluppo dell’AI, per la «fabbrica della guerra», per un sistema che produce e riproduce sfruttamento e guerra come ultima spiaggia della valorizzazione capitalistica e del dominio imperialista, schiacciando qualsiasi sedicente valore etico, democrazia, diritto e privacy a seconda dell’interesse e del profitto del momento. Crediamo sia importante considerare questi eventi e collaborazioni non come un posizionamento strettamente ideologico da parte di Cucchiara, ma come segnali di un legame continuativo e strategico tra la rettrice e le forze politiche che sul territorio modenese ed emiliano rivestono un ruolo decisionale di primo piano nell’ottica di una sempre crescente integrazione tra università, sistema d’impresa dipendente da una ricerca pubblica “messa a profitto” e accodata al trend del dual use civile-militare, e ristrutturazione industriale del territorio in funzione dello sviluppo bellico. 5. Capitalismo in Stato di guerra Ciò che va osservato nell’apparentemente contraddittorio, passaggio continuo della rettrice dalla destra alla sinistra è la necessità del suo ruolo di stabilire un legame con le forze politiche che si candidano a gestire il potere ai diversi livelli della società e che vedono nell’intelligenza artificiale un elemento strategico. Come la Cucchiara stessa scrive su «Gnosis» (rivista ufficiale dell’AISI, Agenzia informazioni e sicurezza interna, ossia l’erede del SISDE), parlando del laboratorio AIIS da lei diretto, «nato sotto l’egida del Dipartimento delle informazione per la sicurezza», l’obiettivo dichiarato è di «rafforzare la crescente cooperazione tra ricerca e industria e tra ricerca e istituzioni». Politico ed Economico trovano punto di mediazione, raccordo e sintesi nello Stato, che attraverso le sue articolazioni li organizza a sistema. In Emilia possiamo vedere, attraverso il punto di osservazione del laboratorio università e dell’indirizzo rappresentato dalla rettrice Cucchiara, la messa a sistema delle esigenze capitalistiche di rilancio di un’accumulazione locale in affaticamento o che rischia di perdere l’aggancio agli anelli alti delle catene globali del valore con il quadro politico dell’avvicinamento e quindi della preparazione a uno scenario di guerra che vede già impegnato lo Stato nella mobilitazione delle sue risorse (obiettivo del 5% del Pil alla Difesa a scapito della spesa sociale, legislazione repressiva del dissenso e della conflittualità interna con il DDL sicurezza, militarizzazione delle decisioni e dei territori in prossimità di strutture energetiche, logistiche, produttive e militari sensibili come il futuro impianto di accumulo energetico di San Damaso, progetti di formazione e propaganda militare nelle scuole, ipotesi di ripristino della leva, eccetera). Nel nostro territorio, uno degli apici dello sviluppo industriale italiano insieme a Lombardia e Veneto, infatti, la scienza prodotta dalla mano pubblica attraverso l’università, la ricerca, la formazione e il lavoro di ricercatori, serve per essere infusa nella produzione di merci delle imprese – sopperendo una quota di investimenti in ricerca e sviluppo aziendali tra le più basse d’Europa, in particolare nelle medio-piccole imprese che si concentrano nel tessuto industriale emiliano – le quali nell’accesso a programmi di sviluppo tecnologico e mercati ad alto valore aggiunto possono trovare la porta d’ingresso ai piani più alti e redditizi delle catene del valore, quelle filiere in cui spesso hanno maggior peso gli asset immateriali (design, marketing, brevetti, datasets, ecc.). E quale settore più redditizio, in tempi di guerra imperialista, che l’industria militare, con cui la guerra viene materialmente preparata? Con tutto il corollario di merci, produzioni, subforniture visto come volano per trainare fuori dai guai un capitalismo in crisi di valorizzazione. 6. Dal laboratorio alla fabbrica della guerra: il pivot militare A fianco del laboratorio università, spetta dunque alle amministrazioni politiche cittadine e regionali plasmate e occupate dal PD – utilizzando anche “cinghie di trasmissione” come la Cgil, la cooperazione, l’associazionismo progressista tipico della società civile emiliana –  il ruolo di governare e armonizzare lo sviluppo di questa fabbrica sociale che è il nostro territorio in «fabbrica della guerra», coordinando, mediando, i processi decisionali, attirando flussi di capitale, indirizzando saperi “spendibili”, oltre che organizzando il territorio e la sua forza-lavoro a essere “più competitivi”, “più specializzati”, “più pacificati” rispetto ad altri, e gestire le inevitabili ricadute negative sulla composizione sociale di cui facciamo parte e sull’ecosistema già martoriato e nocivo in cui viviamo. Non è strana, dunque, la timidezza delle burocrazie e delle strutture dei sindacati concertativi “di Stato” (Cgil-Cisl-Uil) verso i processi di rinconversione in senso militare dell’industria emiliano-modenese, o l’inconsapevolezza di questi processi da parte degli stessi delegati sindacali dentro le fabbriche: il complesso militare-industriale porta commesse, quindi lavoro, spesso anche specializzato, quindi magari a più alto salario in un frangente di scarsa disponibilità di manodopera qualificata o giovanile disposta a introiettare tempi della fabbrica e “status” operaio. E lavoro, per i sindacati, vuol dire rappresentanza, e quindi coinvolgimento in tavoli istituzionali, tavoli di trattativa, tavoli per stilare accordi. Tavoli per controllare la forza-lavoro e dare un senso alla propria esistenza nel suo rapporto con le parti Confindustria e Stato. Il “modello Emilia” è stato un modello di sviluppo peculiare che, dal dopoguerra agli anni Ottanta, ha proiettato il sistema economico della regione dal sottosviluppo agricolo a punte d’avanguardia dell’industria internazionale. E ricordiamo che le basi di questo sviluppo industriale, a Modena, sono state posto da acciaierie e fabbriche messe al lavoro per la produzione bellica fin dal primo Novecento. Oggi, dopo il passaggio di crisi del 2008 e dentro le temperie prima pandemiche e poi belliche che dal 2020-2022 stanno ridefinendo il sistema della globalizzazione, anche l’Emilia è investita da un processo di riconfigurazione dagli esiti non scontati, e insieme ad essa Modena. A partire dalla crisi dell’industria tedesca, in particolare l’automotive, a cui pezzi non secondari di industria modenese ed emiliana sono strettamente legati da rapporti di subfornitura. E dalle necessità geopolitiche dell’egemone americano di reshoring e friendshoring, ovvero di ricostituzione interna al campo NATO – o di paesi “fedeli” e “sicuri” selezionati in esso, tra cui l’Italia sembra ambire la posizione – di una base industriale, di catene della produzione, in particolare nel settore militare, che la fase superata di globalizzazione ascendente (1989-2008) ha disperso e allungato in giro per il mondo. Un mondo, oggi, non più pacificato sotto l’indiscutibile dominio degli Stati Uniti e del suo prolungamento Occidente, ma che a Washington sono determinati a far rimanere tale. Preparandosi alla guerra. In tale contesto l’opportunità, che si fa urgenza, di ammodernare i settori, le filiere e le lavorazioni di punta utilizzando il pivot militare, con buona pace di quello stuolo di imprese (ancora troppo piccole o arretrate, obsolescenti di managing, con forza lavoro dequalificata e scarsamente presenti nei mercati internazionali) che non avrà capacità, canali e capitali per stare al passo se non un’ulteriore dequalificazione, sfruttamento e comando sul lavoro. Di qui il peso specifico che acquisisce sempre di più, dentro l’istituzione Unimore, il dipartimento di Ingegneria, e l’importanza sistemica di figure di raccordo come la rettrice Cucchiara, con la sua rete di contatti internazionali “dual use” (civili e militari) nei settori strategici più avanzati di sviluppo tecnologico e a più alto valore aggiunto, tra cui figurano colossi dei semiconduttori e dell’Intelligenza artificiale di calibro geopolitico come NVIDIA. 7. Intelligenza artificiale: dalla Motor alla Silicon valley emiliana? Dal punto di vista capitalistico, solo se si riconfigura integrando vocazione manifatturiera e ricerca tecnologica, produzione e brevetti, utilizzando l’occasione del pivot del militare, l’Emilia può continuare a garantire alla sua imprenditoria di restare a galla in un Italia e in un’Europa strette nella morsa della crisi globale. Ancor meglio se una singola lavorazione o un singolo brevetto può prestarsi contemporaneamente a più settori: ecco il senso del valore strategico del dual use, ossia della capacità di un prodotto di venire utilizzato sia per il mercato civile che per quello militare. Non sorprenderà dunque che la rettrice Cucchiara sia nel CDA di ART-ER, il consorzio della Regione finalizzato a rafforzare la proiezione internazionale e la produttività delle imprese e della ricerca locali e nel gruppo di lavoro del Programma Strategico per l’Intelligenza Artificiale 2022-2024. Si noti che a entrambi è da ricondurre la “Data valley” di Bologna, ossia un reticolato di imprese e servizi legati all’elaborazione di dati orbitante intorno al supercomputer Leonardo di Cineca: un progetto dal costo stimato di 240 milioni di euro, che fornisce l’infrastruttura materiale anche per le sperimentazioni sviluppate a Modena. Peter Thiel, fondatore di Palantir, tecno-oligarca della Silicon Valley e ideologo neoreazionario dell’amministrazione Trump, spiega che, come molti altri investitori di alto profilo, ha deciso di scommettere sull’AI perché senza di essa non resta nient’altro: nessun segno di progresso, nessuna immagine del futuro. Nessun nuovo ciclo di sviluppo in grado di superare la grande stagnazione. Nelle sue parole è palpabile una certa disperazione capitalistica. Per il capitalismo in crisi l’Intelligenza Artificiale è considerato come elemento decisivo, ultima spiaggia attraverso cui far valorizzare flussi di capitali altrimenti in marcescenza: sia nella ristrutturazione della base produttiva nazionalee nel suo riorientamento verso l’estrazione di plusvalore; sia per la cattura di capitali internazionalizzati da mettere a valorizzazione attraverso investimenti; sia nella riconfigurazione della divisione internazionale del lavoro, in cui la competizione tecnologicatra Stati Uniti (e Occidente) e quella dei suoi avversari (su tutti, la Cina) diventa immediatamente una forma di scontro geopolitico esistenziale. 8. Alcune piste aperte di ricerca politica Grande crisi significa grande guerra nella storia del capitalismo contemporaneo. Oggi, di fronte a tutti, sembra stagliarsi questo passaggio d’epoca. Non sappiamo quanto grande crisi sociale comporterà, se sarà possibile dopo di esso un ritorno di grande ciclo di sviluppo, e se questo passaggio sarà segnato dal ritorno in grande di lotta di classe e lotta politica. Per quanto ci riguarda, il «che fare?» riguarda come starci dentro a questo passaggio. Dentro al nostro tempo, ma contro di esso. Non si tratta di negare quello che è. Si tratta di anticiparlo e, passateci un’immagine, surfarlo. Prenderne atto senza lasciarsi subordinare dalla sua logica. Rovesciandolo nell’occasione che rimette in discussione, ancora prima che il sistema di produzione e il rapporto di potere, il nostro modo di osservare e agire nella complessità del mondo con punto di vista di parte, a partire dai territori e dalle contraddizioni dove siamo socialmente collocati. Alla ricerca di una forza collettiva possibile in grado di farne una scadenza e un passaggio in avanti, di ricomposizione e organizzazione di momenti di attacco e di rottura, di costruzione autonoma di nuove prospettive di fuoriuscita da questa «fabbrica della guerra» che è il modo di produzione capitalistico, la sua forma di vita e il suo modello di società, a partire dai sui «laboratori» più avanzati, come appunto l’università. Considerate dunque le trasformazioni, dentro e fuori i muri dell’università, in cui il nuovo rettorato dell’Unimore si inserisce e di cui è espressione, si aprono piste di ricerca del conflitto su cui continuare l’inchiesta, dentro il «laboratorio della guerra», reparto baricentrale della «fabbrica della guerra» del nostro territorio. Qui, in conclusione, ne elenchiamo alcune, da ampliare e mettere a verifica nel proseguimento dell’inchiesta. Composizione studentesca e forza-lavoro dentro l’università. Quale ruolo e consapevolezza, dentro le trasformazioni dell’università, hanno studenti e lavoratori, in particolare ricercatori, assegnisti di ricerca, dottorandi più o meno precari, coinvolti e messi al lavoro per il «laboratorio della guerra»? Come cambiano la fruizione dell’università e le aspettative studentesche verso di essa in relazione alla «fabbrica della guerra», alla propria formazione in funzione del «dual use», ai percorsi lavorativi interni o coinvolti nel complesso militare-industriale? I lavoratori verranno coinvolti più strettamente, anche grazie a miglioramenti di posizione e di condizione, o il loro lavoro ulteriormente impoverito di autonomia e sfruttato attraverso meccanismi di precarietà? Sono possibili in tale frangente comportamenti di rifiuto della propria condizione e della propria messa al lavoro per la guerra? E di che tipo, su quali basi e in quali settori? Trasformazione della città e del territorio. Come si trasformeranno la città di Modena (e il suo territorio allargato alla provincia) a fronte dell’importanza sempre più crescente nel sistema regionale, nazionale e internazionale della propria università in «laboratorio della guerra», di cui Ingegneria avrà sempre più un ruolo preminente? Che tipo di composizione studentesca e lavorativa attirerà, con quali aspettative, a quali condizioni abitative e di possibilità di reddito? Che tipo di infrastrutture dedicate andranno a impattare – e come – sulla popolazione studentesca e cittadina, a fronte di speculazioni edilizie di “studentati” monstre (quello sull’area delle Ex-Officine Corni in via Fanti e via Benassi nel quartiere Sacca) o di lusso, con sventramento e gentrificazione dei quartieri del centro in funzione di movida e turismo (come la trasformazione di via Carteria e zone limitrofe a S. Eufemia, praticata attraverso la cinghia di trasmissione dell’associazionismo progressista), e con quali contraddizioni? Che effettivo ruolo e funzione hanno certe opere impattanti, imposte dall’alto con la scusa della transizione energetica, come il progetto di impianto di accumulo energetico BESS di San Damaso? Lavoro e fabbrica della guerra. Che tipo di lavori, con che qualità e salari, si verranno a creare sul territorio trasformato in «fabbrica della guerra» attraverso la filiera del complesso militare-industriale? Che tipo di formazione scolastica e universitaria, tecnica e specialistica, necessiteranno? La piccola-media impresa riuscirà a inserirsi nel processo di riconversione, e come, o assisteremo a processi di ulteriore accentramento? Che tipo di figure operaie e/o tecniche saranno baricentrali in questa settore di produzione? E quale sarà il peso specifico degli ingegneri e tecnici formati dall’Unimore? L’espansione del complesso militare-industriale nella filiera meccanica e metalmeccanica modenese produrrà più scomposizione e frammentazione a livello di classe (salari e inquadramento alti per determinate figure insieme a maggior sfruttamento e dequalificazione per altre) come gestione della crisi o più ambivalenze da poter piegare dentro a un processo di rinnovato sviluppo? Che ruolo avranno i sindacati confederali “di Stato” (Cgil-Cisl-Uil) dentro questo processo e quali possibilità di attivazione conflittuale fuori, oltre, di essi? Soggettività politica In un contesto peculiare come Unimore (divisa tra le sedi di Modena e Reggio) che ha sempre faticato a esprimere momenti e spazi conflittualità, perfino dentro le facoltà umanistiche, come si trasforma la composizione studentesca e le soggettività che esprime? Come può e deve cambiare – se è possibile – la militanza politica dentro l’università trasformata in «laboratorio della guerra»? Può essere lo spazio STEM, intrecciato ai più alti processi di sviluppo e trasformazione descritti, essere ambito dove ricercare ambivalenze e potenziali soggetti conflittuali? Attraverso quali canali, linguaggi e forme organizzative? E le figure studentesche delle facoltà umanistiche come si collocano in questo contesto? Quali salti in avanti di metodo e formule organizzative sono necessari per ambire all’altezza dei processi che si vogliono aggredire, sabotare e rovesciare? È possibile pensare percorsi e processi di trasformazione dell’università di Modena da «laboratorio della guerra» a «laboratorio delle lotte»?
Cronache di polizia: la stampa embedded e la fobia delle regie occulte
L’ultimo articolo de La Stampa, a firma di Caterina Stamin, sulle inchieste contro i movimenti sociali giovanili torinesi, è un esempio lampante di come, in Italia, il giornalismo di cronaca stia scivolando sempre più verso un linguaggio e una prospettiva di derivazione poliziesca e giudiziaria. Nell’articolo si individua in “Aska” la fantomatica regia dietro ogni protesta torinese, confermando una tendenza pericolosa: ridurre i movimenti politici e sociali a operazioni criminali pilotate. In questo modello narrativo, il dissenso non è mai spontaneo, ma sempre “manovrato” da organizzazioni segrete. La cronaca si riduce a un inseguimento ossessivo delle fonti di polizia, alla ricerca di figure da schedare. L’inchiesta, significativamente intitolata “Aska, le nuove leve”, utilizza tre nomi scelti dalla redazione per raccontare il centro sociale come il “cuore nero” di un presunto coordinamento che starebbe dietro alle mobilitazioni studentesche e antifasciste, ai presidi contro il CPR, ai cortei per la Palestina, alle proteste contro la Tav e il G7. Tutte mobilitazioni che, ben oltre Torino, stanno coinvolgendo migliaia di giovani in ogni angolo d’Europa e del mondo. La narrazione è sempre la stessa: dietro le proteste, dietro le piazze, ci sarebbe una “centrale occulta” che dall’alto manovra le “nuove leve” dell’antagonismo. Un cliché che ritorna da decenni, ogni volta che una generazione si affaccia nello spazio pubblico per mettere in discussione modelli di sviluppo, politiche securitarie, guerre di conquista. Ciò che sfugge — o meglio, viene scientemente occultato — in articoli come questo è la dimensione massificata e transnazionale di queste mobilitazioni . Le piazze per la Palestina stanno riempiendo le capitali di tutto l’Occidente. I cortei studenteschi contro la scuola-azienda attraversano l’Europa, dagli atenei di Parigi alle scuole italiane. Le proteste contro la devastazione ambientale non nascono certo in un centro sociale torinese, ma sono il frutto di una consapevolezza globale sulla crisi climatica e sulla responsabilità delle grandi potenze economiche, come dimostrano le mobilitazioni contro il G7. Questo approccio, così attento a individuare “teste pensanti” da colpire per disinnescare i movimenti di massa, non è frutto di un errore ingenuo. È una precisa scelta di campo di un giornalismo embedded che non si limita a riportare i fatti, ma li filtra attraverso la lente delle procure e delle questure politiche, contribuendo a costruire mostri mediatici e capri espiatori. La costruzione del “nemico pubblico”, già vista con il Movimento No Tav , è un meccanismo mediatico e politico che trasforma soggetti o movimenti di dissenso in “minacce alla sicurezza”, isolandoli dalla legittimità sociale per giustificare misure repressive. È una strategia di delegittimazione che trasforma conflitti politici in problemi di ordine pubblico. La copertura mediatica ossessiva dell’Operazione Sovrano (2019-2022), coordinata dalla Procura di Torino contro il CSOA Askatasuna, il Movimento No Tav e altri attivisti, è emblematica di questo modo di agire. Un maxi-processo con 112 reati contestati, richieste di 88 anni di carcere e risarcimenti milionari. A distanza di anni, il tribunale ha assolto tuttə gli imputatə per il capo d’accusa di associazione a delinquere, dichiarando infondata l’ipotesi della “regia” criminale (“perché il fatto non sussiste”). Sono rimaste solo condanne per reati specifici, a dimostrazione del crollo dell’intero impianto accusatorio e una fitta narrazione giornalistica tossica e criminalizzante: non gli sembrava vero avere un argomento così acchiappa click! È evidente che oggi ci troviamo di fronte allo stesso schema: criminalizzare, isolare, colpire preventivamente chi si oppone. Non è un caso che l’Italia sia scivolata fino alla 49esima posizione nella classifica mondiale della libertà di stampa (Reporters Sans Frontières, 2025), dietro Paesi come Botswana e Sudafrica. In Italia, fare giornalismo di inchiesta, che scavi nel potere politico, economico e industriale, è diventato sempre più difficile. Più semplice, più comodo, è fare il cronista embedded, allineato alle veline di questura, trasformando ogni fenomeno di dissenso in una questione di ordine pubblico e inseguendo la chimera della “regia occulta”. Questo modo di raccontare i conflitti sociali non è solo intellettualmente disonesto: è pericoloso. Alimenta un clima culturale e politico in cui le ragioni di chi protesta vengono oscurate, mentre si costruisce il consenso attorno alla repressione. La domanda da farsi dovrebbe essere un’altra: perché in Italia un giovane che manifesta viene descritto come un potenziale terrorista, mentre chi lucra sulla distruzione dei territori e sui traffici d’armi siede indisturbato nei salotti della politica e dell’economia? Chi scrive questi articoli sa benissimo da che parte sta. Ancora più grave è il fatto che tre giovani attivistə, studentə universitari, siano statə espostə con nome e cognome sulle pagine di un quotidiano nazionale prima ancora che sia iniziato un processo. Questa non è informazione: è criminalizzazione preventiva. È la costruzione del nemico pubblico in chiave mediatica. Si salta il processo e si procede direttamente alla gogna, alimentando una narrazione di colpevolezza sociale che anticipa (e condiziona) qualsiasi dibattito pubblico e giudiziario. Quando si sbatte il “mostro” in prima pagina, si crea una frattura tra il diritto di manifestare e il diritto di esistere nello spazio pubblico senza essere marchiatə come pericolosə. È questa la dinamica più tossica della repressione: trasformare giovani militanti in bersagli sociali, cercando di isolarli e annientarli pubblicamente. Eppure, a dispetto di questa strategia di delegittimazione, la realtà continua a smentire chi cerca di imporre il silenzio. La verità non si fabbrica negli uffici delle questure né si scrive nelle redazioni compiacenti: la verità abita nelle piazze, nelle lotte, nelle comunità che si organizzano e resistono. Nessuna narrazione tossica potrà fermare chi sceglie di stare dalla parte di chi lotta contro l’ingiustizia, contro la devastazione dei territori, contro le guerre e le frontiere. Perché ogni tentativo di isolarci non farà altro che rafforzare le ragioni che ci spingono a tornare, insieme, nelle strade.