Imparare a lottare: la mia storia tra operaismo e femminismoTorna disponibile in una nuova edizione ampliata, nella collana Femminismi di
ombre corte, L’arcano della riproduzione di Leopoldina Fortunati, uno dei testi
di riferimento nella teoria femminista marxista italiana — e non solo.
da Machina
Scritto nel 1981, all’indomani del violento attacco repressivo ai movimenti
sociali in Italia, il libro raccoglie le riflessioni elaborate negli anni della
lotta femminista del decennio precedente e porta al centro il tema
della riproduzione sociale come fulcro della produzione capitalistica. In
dialogo serrato con Marx e il marxismo, e facendo propria l’elaborazione
politica della campagna per il Salario al lavoro domestico, Fortunati costruisce
una delle prime e più radicali sistematizzazioni dell’analisi del lavoro
riproduttivo.
La nuova edizione, arricchita da un lungo capitolo conclusivo in cui l’autrice
porta alla prova del presente le riflessioni e le categorie analitiche elaborate
nell’Arcano, si presenta come un’occasione politica oltre che editoriale:
l’opera di Fortunati continua, infatti, a interrogarci su questioni cruciali —
cos’è la riproduzione sociale e come si articola nel capitalismo contemporaneo
il rapporto tra produzione e riproduzione? Possiamo ancora parlare di «operaia
della casa»? Come si rapporta l’analisi della riproduzione alle nuove sfide
teoriche e politiche che attraversiamo nella congiuntura presente di guerra,
genocidio e sfruttamento?
Oggi Fortunati è anche tra le figure chiave del Reproductive Labor Network, un
network internazionale di ricerca e attivismo che indaga il lavoro riproduttivo
— dalla cura domestica al lavoro affettivo, dalla maternità alla mercificazione
dei corpi — promuovendo analisi marxiste-femministe e progetti collettivi di
trasformazione.
Il brano che segue è la traduzione di un testo del 2013 in cui Fortunati
ripercorre la propria formazione politica, il rapporto con l’operaismo, le
urgenze dei femminismi in quegli anni e le tensioni irrisolte di quella
stagione. Sono elementi indispensabili per comprendere non solo la genesi
de L’Arcano, ma anche la sua attualità: immaginare oggi un femminismo
materialista capace di leggere i processi di valorizzazione della
femminilizzazione e di assumere il femminismo come strumento rivoluzionario in
grado di riattivare l’articolazione tra genere e classe. Perché, come
scriveva, «a noi non interessa liberarci dal lavoro domestico per assimilarci
allo sfruttamento dell’operaio. Né ci interessa cambiare il tipo di sfruttamento
cui siamo soggette per poterci dire emancipate […] è la strada esattamente
opposta a quella percorsa da questo saggio che vede come momento centrare della
strategia politica femminista non la lotta per il lavoro extradomestico, ma la
lotta organizzata contro il lavoro, per la definitiva distruzione del lavoro non
direttamente salariato, oltre che di quello salariato» (pp. 8-9).
Traduzione e corsivo a cura di Chiara Luce Breccia.
Il testo è tratto da Learning to struggle: my story between workerism and
feminism – Leopoldina Fortunati | libcom.org.
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Quando ho incontrato l’operaismo avevo diciannove anni ed ero una militante del
movimento studentesco dell’Università di Padova. All’inizio ero molto giovane e
ascoltavo più che parlare. Ricordo bene quante volte avrei voluto intervenire
nelle assemblee, ma ero timida e insicura e alla fine preferivo restare in
silenzio.
I leader del movimento erano studenti con esperienze politiche precedenti,
spesso già legati a partiti o organizzazioni. Io invece avevo solo le mie
convinzioni: volevo un mondo più giusto, libero ed eguale. La mia unica
esperienza politica era stata, a quattordici anni, la partecipazione agli
scioperi contro i test nucleari francesi nel Pacifico. Frequentavo il liceo Tito
Livio di Padova, e gli studenti in sciopero erano pochissimi. Ricordo il preside
che cercò di prendermi per un orecchio per farmi rientrare in classe: io mi
liberai e gli risposi che non poteva trattarmi così. Tutti gli studenti
coinvolti furono puniti, con conseguenze che comportarono un ritardo nel loro
avanzamento scolastico.
La seconda grande esperienza che mi ha preparato alla militanza politica è stata
dichiararmi atea a 16 anni. Vivevo con la mia famiglia a Dolo, un piccolo paese
tra Padova e Venezia, e la mia famiglia era molto cattolica. Guardandomi
attorno, vedevo talmente tanta povertà e ingiustizia, e una Chiesa che faceva
troppo poco. La mia presa di posizione, che era soprattutto contro il ruolo
della gerarchia ecclesiastica, fu inizialmente uno shock per i miei genitori,
che alla fine la accettarono.
A diciott’anni decisi di lasciare casa per essere indipendente mentre studiavo
all’università. Non tanto perché i miei genitori non avessero i mezzi per
sostenermi, al contrario, erano benestanti. Il punto era che volevo avere più
controllo sulla mia vita e vivere senza privilegi. Ho fatto un sacco di lavori
diversi: commessa in una libreria, rappresentante d’arte, bibliotecaria
all’università. In quel periodo i miei genitori piangevano spesso: dal loro
punto di vista, la loro unica figlia (avevo tre fratelli) era la più ribelle e
affrontava la vita in una maniera che le avrebbe creato difficoltà.
Quando entrai all’università, nella Facoltà di Lettere, il movimento studentesco
era in piena espansione. Era un movimento straordinario: voleva reinventare la
vita quotidiana e la società, a partire dal cambiamento dell’università. Mi unii
subito, con entusiasmo. In quanto studenti, però, eravamo isolati dal resto
delle persone, specialmente dai lavoratori, che in quel periodo erano impegnati
nelle loro lotte. Per questo motivo decisi di partecipare alle lotte dei
pendolari e dei magazzinieri.
I pendolari chiedevano che il tempo di viaggio fosse riconosciuto come tempo di
lavoro, e non come un problema personale. I treni erano i peggiori di tutte le
ferrovie dello Stato: fatiscenti e sempre in ritardo, senza alcun rispetto per i
lavoratori – per esempio, se c’era un ritardo, nessuno informava le persone sul
perché o su quando effettivamente sarebbe arrivato il treno. I lavoratori dei
grandi magazzini chiedevano salari più alti e condizioni di lavoro più umane, a
partire da un orario più breve. Partecipare a queste lotte mi forzò a
comprendere meglio il ruolo dei lavoratori nella società capitalista e a
riflettere su come capire meglio questo ruolo.
In quel periodo seguii un seminario di Ferruccio Gambino su Il Capitale di Marx,
alla Facoltà di Scienze Politiche. Finalmente iniziai a comprendere il
significato di molte categorie e concetti che venivano usati nel movimento, ma
che per me erano sempre rimasti vaghi. Le cose più importanti che imparai
durante quelle lezioni furono concetti di base come classe, capitale, classe
operaia, lavoro produttivo e improduttivo, plusvalore, e via dicendo,
reinterpretati alla luce del presente, capace quindi di cogliere i cambiamenti
prodotti dal capitale nella storia. La lettura proposta da Ferruccio era molto
diversa dalla visione ortodossa elaborata dal Partito Comunista Italiano.
Mi resi presto conto che, in questo contesto, c’era una grande intelligenza
politica nel confrontarsi con il presente, ma anche nel comprendere il passato,
e che il gruppo Potere Operaio e il suo discorso offrivano una formidabile
cassetta degli attrezzi per tutti i militanti nelle loro lotte politiche. E
soprattutto, questo gruppo era impegnato a costruire un’organizzazione dove
studenti e lavoratori potessero trovare uno spazio per unirsi. In quel momento,
il grande problema era rompere le barriere sociali che separavano ostinatamente
gli studenti dai lavoratori, sia quelli nelle fabbriche che tutti gli altri.
Comunque, questo Marx ripensato, nonostante la sua forza rispetto
all’ortodossia, rimaneva cieco rispetto all’esperienza delle donne. Il discorso
di Potere Operaio rimaneva d’avanguardia quando si trattava di nuove fabbriche e
del nuovo ruolo dei lavoratori nel sistema capitalista contemporaneo, ma
ignorava tutto ciò che riguardava il lavoro domestico, le relazioni, le
emozioni, la sessualità, l’educazione, la famiglia, la socialità e così via.
Non mi piace troppo parlare dei limiti di Potere Operaio; come femministe li
abbiamo contestati e criticati in varie maniere per la loro mancanza di
consapevolezza riguardo alla condizione sociale delle donne. Ma, comunque, penso
che i militanti di quel movimento facessero davvero di tutto per allargare il
campo degli attivisti e per attrarre diverse sezioni di classe, dagli operai
agli impiegati, dagli studenti dei licei agli insegnanti. E hanno fatto davvero
dei progressi enormi nell’espandere il discorso politico oltre l’ortodossia
marxista. Hanno reso la tradizione marxiana qualcosa di dinamico e utile
nell’analizzare e comprendere la società della seconda metà del XX secolo. Hanno
insegnato a tutti i militanti, me compresa, l’abilità di usare Marx senza
temerlo. La mia partecipazione in Potere Operaio è stata limitata, in ogni caso,
perché ad un certo punto ho iniziato a organizzarmi con l’emergente gruppo di
Lotta Femminista.
A quel punto avevo 22 anni. Nel frattempo, ero cresciuta, avevo imparato molto,
avevo superato la mia timidezza nel parlare in pubblico, e avevo capito che era
arrivato il momento di dare un significato politico anche alle mie scelte
personali. La lotta quotidiana che molte donne avevano intrapreso per cambiare
la propria condizione e la società intera aveva bisogno di una cassa di
risonanza e di una forza unificante che ne aumentasse il potere. Questa forza fu
la scoperta della coscienza di classe, che servì alle organizzazioni politiche
per organizzare le loro lotte sociali. Lotta Femminista portò l’esperienza
operaista al movimento femminista.
A partire da questa esperienza politica, decisi di dedicare tutti i miei sforzi
ad analizzare le condizioni delle donne tramite la chiave di lettura
dell’economia politica marxiana, riconsiderando le categorie marxiste alla luce
dell’esperienza politica femminista. Scrissi L’arcano della riproduzione, spinta
dalle esigenze della lotta femminista. Mi aiutarono molto Mariarosa Dalla Costa
e Sandro Serafini (di Potere Operaio), che lessero e discussero il testo
capitolo per capitolo.
Questo libro discuteva i principali temi politici dibattuti all’interno del
movimento all’epoca. Dovevamo gestire il dibattito pubblico e politico
all’interno dei nostri gruppi, all’interno del movimento femminista e nel più
ampio movimento, composto da studenti e organizzazioni politiche come Potere
Operaio e Lotta Continua. Avevamo bisogno di fare chiarezza e spiegare, prima a
noi stesse e poi all’intero movimento, perché i militanti avessero bisogno di
andare oltre le categorie marxiane e in che modo. Per esempio, in che modo le
donne possono essere considerate classe operaia? Quali donne?
Lotta Femminista è sempre stata una tendenza minoritaria all’interno del più
ampio movimento femminista, perché le donne nel movimento femminista erano
inizialmente comprensibilmente diffidenti verso qualsiasi teoria politica
sviluppata nelle tradizioni politiche maschili.
Tuttavia, per me l’ironia sta nel fatto che l’intero movimento femminista
sarebbe stato molto più forte se avesse condiviso la proposta politica del
«salario al lavoro domestico» (cioè, lavoro di cura, educazione, assistenza,
genitorialità), piuttosto che assumere, senza davvero saperlo, la strategia
leninista di combattere per il lavoro oltre il lavoro domestico, in modo da
assicurarsi uno stipendio. Ma era molto difficile per il gruppo del Salario al
lavoro domestico trovare consenso con la loro proposta, perché le femministe
tendenzialmente pensavano fosse meglio rifiutare il lavoro domestico in toto,
fuoriuscendo così dalle case.
In questo periodo, noi femministe operaiste non siamo state capaci di convincere
l’intero movimento che il rifiuto del lavoro dovesse passare da un processo di
contrattazione salariale, altrimenti il lavoro domestico sarebbe tornato in
un’altra forma insieme al lavoro fuori dalla casa, che rimaneva comunque un
orizzonte di lotta. In altre parole, il movimento femminista non ha mai incluso
nel suo programma politico generale il nostro obiettivo di ottenere per prima
cosa un riconoscimento sociale del valore del lavoro domestico tramite il mezzo
del salario. La strategia che le femministe applicavano al lavoro domestico
passava semplicemente dal rifiuto di questo. Ma dopo poco è diventato chiaro che
questa strategia non era sufficiente, perché non era capace di far sparire il
lavoro domestico su scala di massa.
Il movimento femminista ha avuto il grande merito di dare alle donne un potere
di contrattazione a livello sociale. Ma, come avevamo anticipato, il problema
del lavoro domestico non è sparito dall’agenda politica delle donne.
Sfortunatamente, una riflessione sul fallimento di questa strategia non è ancora
stata fatta. Nuove generazioni di donne hanno bisogno di imparare da questo
errore politico e capire che il lavoro domestico, nei suoi aspetti materiali e
immateriali, deve essere riconosciuto socialmente come lavoro produttivo.
*Da: Learning to struggle: my story between workerism and feminism – Leopoldina
Fortunati | libcom.org
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Leopoldina Fortunati tra le protagoniste della campagna per il salario al lavoro
domestico e figura centrale del femminismo materialista europeo, è Senior
Professor di Sociologia della Comunicazione all’Università di Udine. Fra le sue
pubblicazioni più influenti figurano L’arcano della riproduzione (1981), scritto
all’interno del dibattito sul lavoro riproduttivo; Il grande Calibano (con
Silvia Federici, 1984), testo chiave sulla genealogia della subordinazione
femminile; e volumi pionieristici negli studi su media e tecnologie come Gli
Italiani al telefono (1995) e Telecomunicando in Europa (1998).