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Informazione di parte

Sciopero generale: contro la logistica di guerra lunedì 22 settembre blocco del porto di Venezia
Mediterranean Shipping Company S.A., meglio nota con la sigla MSC, oggi è la prima compagnia di gestione di linee cargo a livello mondiale.  Movimenta annualmente 27 milioni di TEU (misura standard nel trasporto marittimo che corrisponde alle dimensioni del container), ha più di 200.000 dipendenti, 675 uffici nel mondo, e trasporta merci su 300 rotte con 520 porti di scalo in 155 paesi; con una flotta dalla capacità di 6.716.575 TEU, gestisce il 20,6% del mercato mondiale, seguito dalla Maersk con il 14,1%. La MSC fu fondata nel 1970 a Napoli come compagnia privata dall’armatore Gianluigi Aponte, quando comprò la sua prima nave. MSC Italia è presente in 13 porti italiani, ha 16 uffici e circa 600 dipendenti. Il trasporto marittimo è la principale modalità utilizzata per il trasporto internazionale di armi convenzionali. Il coinvolgimento della MSC nella logistica di guerra negli ultimi anni, e in particolare nel genocidio in Palestina, è spiegato e ammesso candidamente da un articolo del 1° novembre 2023 del quotidiano israeliano “The Jerusalem Post”, media notoriamente vicino al partito di governo Likud, il cui presidente è Benjamin Netanyahu: “Il gigante delle spedizioni MSC Cargo continua a consegnare in Israele nonostante la guerra. La società annuncia che non imporrà sovrapprezzi di guerra o spese di sosta.” Malgrado questa rivendicata e pubblica complicità di MSC nel sostegno a Israele, compreso il rifornimento di armi, la società è rimasta per lungo tempo fuori dai radar delle campagne di boicottaggio e di protesta del movimento pro Palestina, soprattutto in Italia. La prima azione di boicottaggio contro la complicità di MSC con Israele è avvenuta il 15 aprile 2024 nel porto di Walyalup/Freemantle in Australia, con un presidio davanti al quartier generale della MSC, organizzato da “Unionists for Palestine” (U4P). Una successiva mobilitazione contro una nave MSC è avvenuta in Grecia il 14 giugno 2024. Il sindacato dei lavoratori dei moli del Pireo (ENEDEP) è entrato in azione, invitando i lavoratori del porto e tutti gli abitanti del Pireo a mobilitarsi per impedire alla nave di scaricare materiale bellico. Il 12 giugno del 2025, BDS Movement ha segnalato due navi della MSC coinvolte nel trasferimento di materiale bellico verso Israele, la MSC Laura e la MSC Mombasa. Le due navi cargo della MSC operano sulla tratta marittima che tocca, tra gli altri, i porti di Amburgo in Germania, Anversa in Belgio e Ashdod in Israele – i cui terminal sono controllati tutti da MSC – che è stata potenziata a partire dall’agosto 2023 da MSC in “partnership con l’israeliana ZIM, nell’ambito di un accordo di condivisione delle navi.” I Centri Sociali del Nord Est e ADL Cobas hanno lanciato la mobilitazione per bloccare il Porto di Venezia il 22 settembre, in occasione dello sciopero generale contro il genocidio che Israele sta commettendo a Gaza e in sostegno alla Global Sumud Flotilla. Lunedì 22 settembre appuntamento alle ore 10, Piazzale Giovannacci a Marghera. Da lì ci si muoverà verso il porto di Venezia. Quali gli interessi economici che legano il Porto di Marghera alla logistica di guerra e al traffico di armi verso Israele? Lo abbiamo chiesto a Lorenzo Feltrin ricercatore UniVe. Si occupa di lavoro, ecologia politica e movimenti sociali. Ascolta o scarica da Radio Onda d’Urto
Guerra alla guerra nelle università – Comunicato Conclusivo
Si è conclusa pochi giorni fa l’assemblea nazionale studentesca “Guerra alla guerra nelle università”, tenutasi il 13 e il 14 settembre nell’Università di Pisa, al Polo Piagge occupato. È stato un momento fondamentale, che ha visto collettività studentesche provenienti da ogni parte dello Stivale e delle Isole confluire a Pisa per discutere insieme di come far fronte alla militarizzazione sempre più insostenibile delle nostre Accademie e dei nostri saperi. Un processo che sta rendendo l’Università un luogo sempre più privatizzato, e le vite di chi lavora e studia al suo interno sempre più precarie. L’assemblea era suddivisa in quattro tavoli di discussione: abbiamo parlato del rapporto tra le nostre Università e la militarizzazione del territorio, dimostrando come esse siano spesso coinvolte nelle trasformazioni del tessuto urbano e nei progetti bellici delle città; Si è discusso della mappatura degli accordi, per condividere strumenti e pratiche utili a smascherare le complicità dei nostri Atenei, anche quando si nascondono dietro muri di burocrazia; Un terzo tavolo ha analizzato come, in quanto giovani, possiamo disertare la guerra: abbiamo indagato come questa si articoli nelle università attraverso programmi e metodi didattici volti a legittimare un’idea di scienza e sapere funzionali al dominio e alla pratica coloniale contemporanea; Infine, nel tavolo controinformazione e networking, abbiamo esaminato le nostre modalità comunicative verso l’esterno per migliorare le nostre pratiche e discusso di come continuare a fare rete in futuro, per portare avanti una battaglia contro la guerra efficace e duratura. L’università plasma menti e corpi in grado di soddisfare le politiche e le economie di guerra del governo. Si rivela necessaria, a questo punto, la creazione di una vera capacità di organizzazione e azione politica all’interno dei nostri territori, innanzitutto riappropriandoci dei nostri saperi, saperi che non siano funzionali alla sopraffazione su altri popoli o categorie residenti nei margini della società. Dobbiamo riappropriarci di saperi che siano in grado di mettere a severa critica la concezione mercificata delle conoscenze trasmesse negli ambiti universitari. Delle forme di conoscenze che diano vita a processi di auto-produzione e auto-organizzazione di saperi mai sussumibili perché sempre vivi e immediatamente politici. I nostri quartieri universitari devono diventare i luoghi in cui il soggetto giovanile si riappropria della cultura: producendola e fruendone liberamente. Sentiamo la necessità di sottrarci all’intruppamento delle nostre capacità imposto dall’Università, ci siamo resə conto che questo è uno dei punti nevralgici della guerra. Ricerche, accorgimenti e analisi che abbiamo condiviso tra studentə ci hanno resituito dei dati che non mentono: i nostri atenei, i nostri saperi, sono legati indissolubilmente alla guerra e alla militarizzazione tramite numerosi mezzi, a partire dai progetti condivisi con aziende belliche fino ad arrivare a territori ceduti dalle università ai militari per praticare i loro obiettivi guerrafondai indisturbati. Il genocidio del popolo palestinese ha acuito questa contraddizione, mostrando come le nostre Università, che continuano a proclamarsi luoghi di pace e di sapere neutrale, sono legate a doppio filo con le aziende e le istituzioni che espropriano le terre palestinesi e ne massacrano la popolazione. È diventato imprescindibile per chiunque, ormai, pensare a una nuova Università che sia nostra e non della guerra, che rispecchi i nostri interessi e non quelli di chi sta al potere. Vogliamo bloccare la guerra e le università e vogliamo farlo in modo capillare e continuativo, facendoci forza a vicenda: è l’unità di intenti che ci permetterà di vincere una lotta che non sarà breve. Quello che vogliamo ottenere nei prossimi mesi è una sinergia di azione che ci permetta di sabotare totalmente la macchina della guerra nelle nostre università e fuori. Riteniamo che l’unione, il confronto e la condivisione di saperi e di pratiche fra di noi siano gli strumenti principali per riuscire a ottenere il nostro obiettivo, perché la guerra o si ferma insieme o non si ferma. Ci rivediamo presto: è guerra alla guerra!
Senza dargli pace
In un mondo che scende sempre più in guerra, il problema che si pone è come rompere la pace che l’ha prodotta. da Kamo Modena «Senza dargli pace». È l’indicazione di metodo che ci consegna la lunga tradizione di lotta degli oppressi nel difficile movimento a farsi classe, tra sviluppo di autonomia e costruzione di organizzazione. Dalla Palestina che indomita resiste, alle metropoli e territori della crisi resi fabbriche e laboratori della guerra mondiale. Lungo quali fratture e con quali strumenti si può tentare, qui e ora, di muovere «guerra alla guerra»? Come si struttura, nel fermento di una nuova generazione politica, il campo di battaglia della classe tra razza e nazione? Una serie di incontri per mettere a dialogo inchiesta e militanze politiche, formazione e mobilitazione, territori e generazioni, intelligenze collettive ed esperienze pratiche, riprendendo e intrecciando il filo dei precedenti cicli «Militanti» (2023), «La fabbrica della guerra. Modena nel conflitto globale» (2024) e «La fabbrica della guerra. Geopolitica e lotta di classe nella crisi di sistema» (2025). Non serve raccontarci quello che ci piace ascoltare. Serve quello che ci permette di capire, e quindi di agire, quando le brutture di questo mondo capitalistico sembrano sopraffarci. Per rovesciarle in opportunità di conflitto e sovvertirle in occasioni di rottura. Segnatevi luogo e date, a breve maggiori informazioni.
Dieci giorni di fuoco. Una cronaca della rivolta in Nepal
In Nepal, gli ultimi dieci giorni hanno scompaginato lo scenario politico. A quasi vent’anni dalla rivoluzione che aveva deposto la monarchia, il sistema politico nepalese consolidato è entrato in una forte crisi di legittimità. Da Radio Blackout A partire da una sospensione e limitazione all’uso dei social network, è esplosa una rabbia popolare, particolarmente espressa dalle fasce di popolazione più giovani e diretta verso un sistema di corruzione e privilegi di cui il sistema politico è considerato il punto nevralgico. Palazzi del potere assaltati nella capitale e messi in fuga gli esponenti politici principali, si è determinato un momentaneo passaggio di poteri garantito dai militari e con figure istituzionali che ancora godono di fiducia popolare per condurre a nuove elezioni il paese. Con Santopadre, de il Manifesto e Pagine Esteri, abbiamo provato ad andare in profondità della situazione: leggere le fratture sociali entro cui a preso forza la rivolta, i sentimenti del paese tra voglia di riscatto sociale, nostalgie monarchiche e le strettoie tra attori di scala mondiale, come Cina e India.
Israele sta perpetrando un olocausto a Gaza. La denazificazione è l’unica soluzione possibile
Di seguito traduciamo da 972mag l’importante presa di posizione di Orly Noy, presidente del consiglio direttivo di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. B’Tselem è un’Ong israeliana che si occupa di informare sulle violazioni dei diritti umani nei territori occupati. -------------------------------------------------------------------------------- Il micidiale etno-suprematismo insito nella società israeliana è più radicato di Netanyahu, Ben Gvir e Smotrich. Deve essere affrontato alla radice. La città di Gaza è avvolta dalle fiamme, mentre l’esercito israeliano dà il via alla sua tanto minacciata offensiva terrestre dopo settimane di bombardamenti incessanti. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, già oggetto di un mandato di arresto internazionale con l’accusa di crimini contro l’umanità, ha descritto questo ultimo assalto come una “operazione intensificata”. Vi esorto a guardare le immagini che arrivano da Gaza per capire cosa significhi realmente questo eufemismo. Guardate negli occhi delle persone colpite da un terrore senza pari, nemmeno nei momenti più bui di questo genocidio durato due anni. Guardate le file di bambini ricoperti di cenere distesi sul pavimento insanguinato di quello che un tempo era un centro medico: alcuni sono ancora vivi, altri urlano di dolore e paura, mentre mani disperate cercano di confortarli o di curarli con le poche forniture mediche rimaste. Ascoltate le urla delle famiglie in fuga senza una meta. Osservate i genitori che setacciano l’inferno alla ricerca dei propri figli; arti che spuntano da sotto le macerie; un paramedico che culla una bambina immobile, supplicandola invano di aprire gli occhi. Quello che Israele sta facendo nella città di Gaza non è il tragico risultato di eventi caotici sul campo, ma un atto di annientamento ben calcolato, eseguito a sangue freddo dall’«esercito del popolo», ovvero dai padri, dai figli, dai fratelli e dai vicini di noi israeliani. Come mai, nonostante le testimonianze sempre più numerose provenienti dai campi di concentramento e di sterminio di Gaza, in Israele non si è sviluppato alcun movimento di rifiuto di massa? È davvero inconcepibile che dopo due anni di questa carneficina solo una manciata di obiettori di coscienza si trovi in prigione. Persino i cosiddetti “rifiutanti grigi” – soldati di riserva che non si oppongono alla guerra per motivi ideologici, ma sono semplicemente esausti e ne mettono in discussione lo scopo – rimangono troppo pochi per rallentare la macchina della morte, figuriamoci per fermarla. Chi sono queste anime obbedienti che mantengono in funzione questo sistema? Come può una società così profondamente divisa – tra religiosi e laici, coloni e liberali, kibbutznik e cittadini, immigrati di vecchia data e nuovi arrivati – unirsi solo nella volontà di massacrare i palestinesi senza un attimo di esitazione? I palestinesi piangono i propri cari uccisi negli attacchi israeliani, all’ospedale Al-Shifa, Gaza City, 21 agosto 2025. (Yousef Zaanoun/Activestills) Negli ultimi 23 mesi, la società israeliana ha tessuto una rete infinita di menzogne per giustificare e rendere possibile la distruzione di Gaza, non solo agli occhi del mondo, ma soprattutto ai propri. La principale di queste menzogne è l’affermazione che gli ostaggi possano essere liberati solo attraverso la pressione militare. Tuttavia, coloro che eseguono gli ordini dell’esercito, seminando morte su Gaza, lo fanno ben sapendo che potrebbero uccidere gli ostaggi nel processo. I bombardamenti indiscriminati su ospedali, scuole e quartieri residenziali, insieme al disprezzo per la vita degli israeliani tenuti in ostaggio, dimostrano il vero obiettivo della guerra: lo sterminio totale della popolazione civile di Gaza. Israele sta scatenando un olocausto a Gaza, e non può essere liquidato come la volontà dei soli attuali leader fascisti del Paese. Questo orrore va ben oltre Netanyahu, Ben Gvir e Smotrich. Quello a cui stiamo assistendo è la fase finale della nazificazione della società israeliana. Il compito urgente ora è porre fine a questo olocausto. Ma fermarlo è solo il primo passo. Se la società israeliana vuole tornare nell’alveo dell’umanità, deve sottoporsi a un profondo processo di denazificazione. Una volta che la polvere della morte si sarà posata, dovremo ripercorrere i nostri passi fino alla Nakba, alle espulsioni di massa, ai massacri, alle confische di terre, alle leggi razziali e all’ideologia di supremazia intrinseca che ha normalizzato il disprezzo per i popoli nativi di questa terra e il furto delle loro vite, delle loro proprietà, della loro dignità e del futuro dei loro figli. Solo affrontando questo meccanismo mortale insito nella nostra società potremo iniziare a sradicarlo. Questo processo di denazificazione deve iniziare ora, e inizia con il rifiuto. Il rifiuto non solo di partecipare attivamente alla distruzione di Gaza, ma anche di indossare l’uniforme, indipendentemente dal grado o dal ruolo. Il rifiuto di rimanere ignoranti. Il rifiuto di essere ciechi. Il rifiuto di rimanere in silenzio. Per i genitori, è un dovere necessario proteggere la prossima generazione dal diventare autori di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Israeliani fanno il bagno in una sorgente a Lifta, un villaggio palestinese spopolato con la forza durante la Nakba del 1948, alla periferia di Gerusalemme, 28 luglio 2021. (Yonatan Sindel/Flash90) La denazificazione deve anche includere il riconoscimento che ciò che è stato non può rimanere. Non sarà sufficiente sostituire semplicemente l’attuale governo. Dobbiamo abbandonare il mito del carattere “ebraico e democratico” di Israele, un paradosso la cui morsa ferrea ha contribuito a spianare la strada alla catastrofe in cui siamo ora immersi. Questo inganno deve finire con il chiaro riconoscimento che rimangono solo due strade: o uno Stato ebraico, messianico e genocida, o uno Stato veramente democratico per tutti i suoi cittadini. L’olocausto di Gaza è stato reso possibile dall’adozione della logica etno-suprematista insita nel sionismo. Pertanto va detto chiaramente: il sionismo, in tutte le sue forme, non può essere ripulito dalla macchia di questo crimine. Bisogna porvi fine. La denazificazione sarà lunga e onnicomprensiva, toccando ogni aspetto della nostra vita collettiva. Probabilmente sacrificheremo altre generazioni – sia vittime che carnefici – prima che questo flagello sia completamente sradicato. Ma il processo deve iniziare ora, con il rifiuto di commettere gli orrori che si verificano quotidianamente a Gaza e il rifiuto di lasciarli passare come normali.
Respirando Gaza
Respiro i miei pensieri, non sono io, è un verso di Blessing Calciati, l’ho letto ieri sera ed è perciò che stanotte mi sono svegliato respirando male. Racconto di Cesare Battisti, da Carmilla E l’afa, la colpa al caldo è il mantra di noi detenuti, è un solido soggetto di conversazione. Quando non si può fare o dire altro, buttare li un commento sul clima aiuta. Ci fa sentire partecipi, quasi normali. Succede anche che spingiamo la conversazione oltre e, volendo essere pignoli, viene fuori che è tutta colpa del riscaldamento globale. Un disastro non proprio naturale, che si ostinano a negare quelli che i pensieri non li respirano, li producono prima di vomitarli. E di palo in frasca, strana associazione di idee, spunta Gaza da sotto le rovine. Ed ecco che nell’aria del cortile non rimane più un pensiero da respirare. Abbiamo esaurito le parole, è il silenzio che sovrasta lo sfacelo. Sotto il piombo israeliano è rimasto un gemito, che sale fino al cielo è spegne il sole. È il lamento di una madre che stringe al petto il corpo dilaniato del figliolo. “Respiro i miei pensieri”, ce ne erano altri, di versi, tutti molti belli, ma questo è quello che mi sono portato a letto ieri sera. In cella non si è mai del tutto al buio. Con i rumori, dal ferro e dal cemento penetrano bagliori d’ordine e progresso, e le ombre si mettono a ballare. Non sono proiezioni di pensieri, mai da respirare, sono sagome prescritte dalla sorveglianza che si arrampicano sui muri, prima di cadere. Ombre soporifere, servono a dissuadere i cattivi pensieri, inducono al sonno. A un brulicare di sogni che non sono sogni ma sghiribizzi di un cervello esausto. Niente di straordinario, capita spesso di rimanere appeso a un pensiero, a una sensazione che tocca e fugge, a un ricordo troppo labile per essere messo a fuoco. Può anche essere qualcosa che ci è sembrato importante e che non vogliamo lasciar andare cosi. Respirare i propri pensieri non è una cosa da niente, è precisamente quello che dovrei fare ogni volta che mi siedo qui a scrivere. Quando l’unico pensiero a far rumore è il respiro lieve del mio compagno di cella, che dorme rannicchiato come un bambino e suda. A pochi centimetri dal suo cuore, io cerco le parole che lui respira. La curiosità di sapere se si tratta di pensieri vivi o sono il ricordo di una vecchia lista della spesa. Se invece di un respiro, non sia il boccheggiare di chi cerca invano le parole per dar voce al pianto di un bambino che si sta spegnendo a Gaza.
Francia: blocchi contro l’industria delle armi e il genocidio a Gaza
Il 18 settembre non è stato solo un giorno di sciopero, è stato anche l’occasione per bloccare le aziende che producono armi e che sono complici del genocidio a Gaza. da Contre Attaque Non dimentichiamo che la Francia è il secondo venditore di armi al mondo, che il nuovo primo ministro è un feroce militarista ed è stato fino ad ora a capo degli eserciti, e che il piano di austerità voluto dal governo serve a finanziare il «riarmo». L’industria militare è quindi un obiettivo centrale per il movimento «Blocchiamo tutto». MARSIGLIA: L’AZIENDA EUROLINKS PRESA DI MIRA A partire dalle 6 del mattino, un centinaio di persone hanno risposto all’invito a bloccare tutto e hanno fermato lo stabilimento Eurolinks di Marsiglia. Una solida barricata con pallet, pneumatici, striscioni e determinazione ostruiva l’accesso all’azienda, impedendo ai mezzi pesanti di venire a recuperare munizioni e altri prodotti. Eurolinks produce pezzi di ricambio che equipaggiano i fucili mitragliatrici. Pezzi che vengono regolarmente esportati in Israele. Altre azioni avevano già preso di mira questa azienda, e i portuali di Marsiglia si sono rifiutati di caricare i componenti esportati da Eurolinks nello Stato genocida. THALES BLOCCATA A RENNES Nella città bretone, l’azienda di armi Thales è saldamente radicata. I suoi locali sono stati bloccati da un centinaio di persone. Questa multinazionale francese è specializzata nella sorveglianza ed è coinvolta in particolare nella costruzione di software di droni da combattimento utilizzati nella Striscia di Gaza. Durante questo blocco, la polizia ha attaccato e picchiato le persone che bloccavano l’ingresso dell’azienda. Mentre il genocidio a Gaza è nella fase finale e le nostre leader vogliono precipitarci verso la guerra, questi due blocchi risuonano con grande precisione. L’industria della morte e della guerra è presente su tutto il territorio francese, in ogni dipartimento…
Francia 18 settembre sciopero generale oltre un milione di manifestanti
Lo sciopero generale in Francia del 18 settembre è stato un chiaro avvertimento molto chiaro a Macron. 588 azioni di blocchi sono stati recensiti dalla polizia insieme a 140 fermi e 75 arresti a metà giornata. Scioperi in tutti i settori e nelle scuole. di Salvatore Turi Palidda* L’intersindicale (CFDT, CGT, FO, CFE-CGC, CFTC, Unsa, FSU e Solidaires) si felicita per il successo della mobilitazione. Un avvertimento molto chiaro al governo che ancora non c’è e innanzitutto a Macron. E’ dagli scioperi generale del 2023 contro la riforma delle pensioni che non si aveva una tale mobilitazione in tutte le città francesi. 588 azioni di blocchi sono stati recensiti dalla polizia insieme a 140 fermi e 75 arresti a metà giornata. Scioperi in tutti i settori e nelle scuole. > Qui immagini della mobilitazione: youtube.com Enorme dispositivo poliziesco che provoca e carica a Parigi, Lyon e Nantes nel corteo parigino sarebbero stati visti 200 black blocks. Pioggia di lacrimogeni dappertutto. Stanchi? Mai. Pessimisti? Assolutamente no! A Montpellier, come altrove, di prima mattina, gli assistenti sociali, che da mesi lottano contro i tagli al bilancio, hanno organizzato un picchetto. Avevano partecipato alla giornata del 10 scorso. Questa intensa stagione di ritorno a scuola prosegue la sua corsa a lunga distanza, iniziata all’inizio del 2025 dopo le minacce di licenziamenti nelle organizzazioni non profit. Offre anche l’occasione perfetta per chiedere una convergenza delle lotte con altri settori. Il picchetto, organizzato di fronte alla Direzione Dipartimentale dell’Occupazione, del Lavoro e della Solidarietà (DDETS), voleva essere “interprofessionale”, invitando i ferrovieri, i lavoratori dei settori sanitario ed energetico e gli studenti a unirsi alle truppe del nuovo “coordinamento sociale”.  Fondato nel 2025, questo coordinamento continua a crescere e riunisce assistenti sociali e medico-sociali che si impegnano per coinvolgere altri, nelle varie strutture del dipartimento. “Il coordinamento dà energia”, descrive Max, assistente sociale del quartiere Mosson, un quartiere prioritario a nord di Montpellier. “Abbiamo organizzato assemblee generali, abbiamo visitato le organizzazioni che hanno iniziato a organizzare lo sciopero. È concreto, la gente sente che stiamo davvero facendo qualcosa”, continua. Max crede fermamente nella convergenza delle lotte. “Lo abbiamo fatto sostenendo i ferrovieri. E oggi sono loro ad unirsi a noi. La prossima settimana dovremmo fare lo stesso con il sistema scolastico nazionale”. E tutto questo dovrebbe essere fatto su scala nazionale! Ci sono molte cose da immaginare, ma per questo dobbiamo strutturare e coordinare il movimento.” Antoine, anche lui assistente sociale, concorda: “Ci si può sentire senza speranza quando si rimane isolati nella mentalità del ‘ognuno per sé’.” “Grazie al coordinamento, negli ultimi sei mesi, abbiamo dimostrato di poterci unire, parlare tra di noi e darci forza a vicenda”, aggiunge questo dipendente dell’associazione Area, che sostiene le persone che vivono nelle baraccopoli di Montpellier.  Appelli a continuare a cascata  Antoine lavora nel settore sociale da vent’anni e non ha mai visto così tanti avvisi di sciopero piovere sul settore. “Prima, c’era un avviso ogni dieci anni. “Ora, ogni due o tre mesi!”, racconta all’assemblea, riunita davanti al DDETS (Dipartimento dei Servizi Sociali). Osserva anche un profondo cambiamento nelle rivendicazioni: “In passato, ci si concentrava sulle condizioni di sostegno alle persone”. “Oggi, interi dipartimenti decidono di discutere le proprie condizioni di lavoro. È una novità assoluta. È un momento estremamente critico e la rabbia sta montando.” Antoine, membro del sindacato Sud Santé, nota anche un’accoglienza molto diversa dei suoi discorsi da parte dei dipendenti. “Prima, quando arrivavo per parlare dello sciopero, mi dicevano: ‘Calmati, Karl Marx, e fatti da parte’. Oggi mi dicono: ‘Vieni a parlare con me, sono interessato’. È qualcosa di molto forte.”  È ancora più forte quando la lotta dà i suoi frutti. L’Associazione Specializzata di Prevenzione dell’Hérault (APS 34), che avrebbe dovuto affrontare licenziamenti a partire da settembre, è riuscita a costringere il dipartimento a fare marcia indietro dopo una lunga lotta. “Organizzavamo raduni ogni settimana, volantinaggio, scioperi e serate di supporto”, racconta Max, dipendente dell’APS e membro del sindacato CGT Azione Sociale. Secondo lui, è stato un raduno davanti al consiglio dipartimentale l’11 luglio a cambiare tutto: “Eravamo diverse centinaia di persone, abbiamo quasi invaso i locali, hanno mandato la polizia antisommossa. Sono andati nel panico, è stata una svolta”. Max ne è convinto: anche i primi appelli a “bloccare tutto” del 10 settembre, emersi subito dopo gli annunci di austerità di François Bayrou a metà luglio, hanno influenzato la decisione del consiglio dipartimentale. “C’era quella data per l’inizio dell’anno scolastico e sempre più organizzazioni in sciopero. Devono essersi resi conto di non potersi permettere un ritorno al lavoro così acceso”. Tuttavia, nulla è certo. “Le chiusure dei servizi annunciate per inizio settembre non sono avvenute, ma sappiamo che le minacce torneranno con il bilancio 2026”, sospira l’assistente sociale. “È insopportabile… Ogni sei mesi, dobbiamo lottare e lottare ancora.” Queste parole riecheggiano il contesto nazionale. Le massicce manifestazioni contro la riforma delle pensioni, poi lo scioglimento e la mobilitazione elettorale contro l’estrema destra danno ad alcuni l’impressione di lottare, invano, contro un potere completamente sordo. “È chiaro che siamo stati manipolati per molto tempo!” commenta Antoine di Sud Santé. “Ma per me, questa opposizione alle nostre lotte mi convince che siamo qui”, conclude, invocando “l’auto-organizzazione e l’autodeterminazione a livello di base”. Anche Max rimane ottimista, anche se percepisce “molta rassegnazione tra la gente”. Prosegue: “Non mi sorprende perché non c’è un piano di battaglia. Siamo qui, ci siamo presi un mese per prepararci al 10 settembre, poi è arrivato il 18… e poi? A livello locale, abbiamo un piano di battaglia, questo è il segreto; ci siamo organizzati quest’anno”. Ma a livello nazionale, è l’intersindacale che può premere il pulsante. È il sindacato che manda in piazza un milione di persone.”  Una scena al picchetto davanti alla direzione del lavoro di Montpellier riassumeva la difficoltà del dialogo tra “la base” e le istituzioni. Sceso a parlare con gli scioperanti, il direttore del DDETS (Dipartimento dell’Occupazione, dell’Occupazione e dei Servizi Sociali) ha ripetutamente ammesso, di fronte alle loro domande concrete e pressanti, la sua impotenza di fronte a decisioni di bilancio che non spettavano a lui. “Siamo d’accordo! Allora potete venire a manifestare con noi!”, ha replicato il pubblico in tono beffardo. “Sono felice di partecipare oggi per denunciare Macron, le sue politiche, il fatto che non ascolti mai la gente”, ha confidato Philippe, un dipendente dell’amministrazione locale, questo pomeriggio a Parigi, marciando sotto lo striscione della CFDT (Confederazione Francese dei Sindacati). In tutta la Francia, la mobilitazione – lanciata per la prima volta dal 2023 su appello dell’intero sindacato – rifletteva la rabbia nel vedere i servizi pubblici smantellati uno a uno, in nome del risparmio sui costi. Sono state registrate quasi 600 azioni e manifestazioni.  “Stop all’austerità, uniti per la giustizia sociale, fiscale e ambientale”, proclamava lo striscione in testa alla manifestazione parigina, partita da Place de la Bastille intorno alle 14:00.  “Oggi inviamo un avvertimento molto chiaro al governo e al Primo Ministro Sébastien Lecornu, che ci ha detto di essere aperto al dialogo”, ha dichiarato la Segretaria Generale della CFDT, Marylise Léon. “È ora che il governo ci dica: ‘OK, abbiamo ricevuto il messaggio, prenderemo decisioni di conseguenza’”, ha insistito.  Sophie Binet, Segretaria Generale della CGT, ha lanciato un elenco eloquente: “Vogliamo sapere se il raddoppio delle franchigie mediche verrà accantonato. Vogliamo sapere se la riforma dell’assicurazione contro la disoccupazione verrà accantonata. Se i tagli alle pensioni e alle prestazioni di previdenza sociale verranno accantonati. Vogliamo sapere se i tagli ai posti di lavoro nella pubblica amministrazione verranno accantonati.”  “Non ho mai visto un tale livello di repressione”, ha affermato Julien, membro del collettivo L’Offensive, subito dopo essere stato espulso dal deposito degli autobus Ilevia a Villeneuve-d’Ascq (Nord), che stava bloccando con un pugno di compagni. “Durante le proteste contro la riforma delle pensioni, abbiamo bloccato l’area per un’ora e mezza presso il consiglio regionale. Le forze dell’ordine hanno seguito un modello tradizionale. Ora arrivano e la bonificano con avvertimenti e gas lacrimogeni.”  Il Ministro dell’Interno uscente Bruno Retailleau a mezzogiorno minimizza “Le azioni sono state meno intense del previsto”. Ma ci sono stati anche alcuni episodi spettacolari, come l’ingresso di un centinaio di membri del sindacato Sud Rail nel cortile del Ministero dell’Economia nel XII arrondissement di Parigi, giunti come vicini della Gare de Lyon, armati di fumogeni.  Un altro elemento comune è l’onnipresenza nella mente delle persone della tassa Zucman, il nuovo totem della sinistra, che mira a tassare i super-ricchi al 2% del loro patrimonio. “Sono morbosamente contrario”, ha detto a Mediapart un caro amico di Emmanuel Macron. “Tassare i ricchi non li danneggerà”, ha ribattuto Sylvain, un imbianchino di 52 anni, durante la parata parigina. “Siamo affamati, finiamo il mese quasi senza niente. Anche se l’idea di togliere due giorni festivi è stata abbandonata, non si fa nulla per aiutarci.” *da pressenza
Ravenna: bloccato al porto un carico di esplosivi diretto a Israele
Ieri giovedì 18 settembre un carico di due container carico di esplosivi e diretto ad Haifa in Israele è stato bloccato al porto di Ravenna. Il lavoratori portuali, il Sindaco Alessandro Barattoni e il presidente della Regione Emilia-Romagna Michele De Pascale sono intervenuti per non far partire il carico. Non è la prima volta che materiale d’armamento diretto a Tel Aviv transita da quel porto. Dalle carte dell’inchiesta della Procura di Ravenna sul carico sequestrato a inizio anno in porto emergono i dettagli della presunta triangolazione volta ad aggirare la legge 185. Nel pomeriggio, i due container sono poi ripartiti a bordo degli stessi camion su cui erano arrivati al porto. Il servizio con Axel, operatore portuale e membro del CAP, Comitato Autonomo Portuale di Ravenna. Ascolta o scarica A Milano si segnala una azione nell’aula del Consiglio comunale di Milano con attivisti della campagna BDS che, seduti tra il pubblico, hanno interrotto la seduta al grido di ‘Palestina libera’ e ‘Stop genocidio’, mostrando bandiere palestinesi. Ci racconta quanto accaduto Jalna, della campagna BDS di Milano. Ascolta o scarica da Radio Onda d’Urto
Lo stadio finale di Israele: tra autarchia e capitalismo di rapina
L’immagine di invincibilità che lo stato sionista sta cercando di ristabilire sul piano militare non può nascondere i segni della sua corsa, irreversibile, verso un capitalismo di rapina. Cyril Lionel Robert James, teorico marxista e militante anticoloniale dei Caraibi, ragionando su “Il 18 Brumaio di Napoleone Bonaparte” di Marx, sottolinea una semplice differenza tra gli stati autoritari e quelli dittatoriali: nelle dittature come il fascismo ed il nazismo ci sono le camice nere o quelle brune, dei corpi paramilitari che svolgono il lavoro sporco per conto del partito al potere e che progressivamente si installano all’interno dello Stato conquistando ruoli preminenti. Mentre i regimi autoritari utilizzano gli strumenti statuali per restringere le libertà, le dittature fasciste sottraggono il monopolio della violenza allo stato mettendolo direttamente nelle mani del partito. Questo era vero per Napoleone III, per Hitler e per Mussolini e oggi è altrettanto vero per quella che qualcuno si ostina a chiamare “l’unica democrazia del Medioriente”. Il ruolo che hanno svolto le milizie dei coloni in Cisgiordania da decenni a questa parte è indicativo: essi hanno operato pressoché impuniti al di fuori di ogni legge, finché alcuni dei loro capi sono giunti ad occupare posizioni centrali nel governo israeliano. Certo, formalmente lo stato sionista tutela la libertà di stampa, la separazione dei poteri e altre dimensioni formali del diritto che interessano ai pensatori liberali, ma a livello sostanziale tutte queste dimensioni sono svuotate dal fatto concreto dell’occupazione e dell’apartheid. Magistrati, giornalisti, opposizione e la ridotta parte di opinione pubblica che pone qualche critica al regime sono dei suppellettili posti sulle mensole per gratificare le coscienze occidentali. Non ci lanceremo in spericolati paralleli con il nazismo ed il fascismo, ma ci interessa provare a sottolineare le forme che assume nel suo stadio attuale il regime sionista. Una delle spiegazioni più interessanti della guerra totale portata dal nazismo in Europa e nel Mediterraneo è quella che introduce la nozione di “capitalismo di rapina”. La Germania di Hitler non poteva fermarsi dall’aprire nuovi fronti, conquistare nuove terre e imporre il proprio controllo sulle risorse dei paesi invasi perché altrimenti sarebbe semplicemente collassata sotto i costi dello sforzo bellico. Il complesso militare-industriale andava alimentato ad ogni costo per evitare la sconfitta, ma per alimentarlo andavano rapinati capitali, risorse e forza-lavoro dai paesi occupati. Dunque si formava un loop, in cui la velocità logistica della macchina bellica nazista, la sua apparente invincibilità almeno nelle prime fasi del conflitto avevano un ruolo fondamentale. Nella foto una patch apparsa sulle divise dei militari israeliani che mostra le dimensioni del “Grande Israele”, dal fiume Nilo all’Eufrate. In questa configurazione comprenderebbe parti di Egitto, Iraq, Siria, Arabia Saudita, l’intero Libano e l’intera Giordania. Sembra abbastanza evidente che la strada verso cui si sta imbarcando lo stato sionista sia proprio questa. Nonostante la sicurezza che il governo israeliano mostra in pubblico, le condizioni economiche in cui versa il paese sono tutt’altro che rosee: vi è una crisi economica iniziata ben prima del 7 ottobre e la guerra ha contribuito ad esacerbarne la portata. Tanto che abbiamo sentito Netanyahu pronunciare la parola magica: “autarchia”. L’autarchia è sempre stata il sogno impossibile del fascismo, cioè la speranza, vana, di poter costruire un’economia totalmente autosufficiente dal punto di vista della produzione delle merci. E’ implicito, per quanto possa sembrare paradossale, che l’autarchia ed il capitalismo di rapina sono due facce della stessa medaglia. Infatti per tendere verso l’autosufficienza serve un progetto espansionista che sia in grado di fornire materie prime, forza lavoro, terre e capitali. Il famoso Grande Israele, insomma. D’altronde l’economia ha mostrato segni di cedimento nel secondo trimestre del 2025 con un calo del 4% del PIL. Il consumo privato sta vivendo una lunga fase di contrazione ed uno dei settori che sta trascinando l’economia israeliana è, guarda caso, quello delle costruzioni residenziali. Non per niente il ministro delle finanze di ultra-destra Bezalel Smotrich ha definito Gaza “una miniera d’oro” per gli affari immobiliari. Non bisogna poi dimenticare che l’economia israeliana è in realtà relativamente piccola e fortemente terziarizzata (quasi per l’80%), anche se i settori strategici della difesa e dell’high tech rappresentano ancora delle nicchie importanti. Dunque di fatto esiste un problema di base industriale per sostenere la guerra, tanto più nel caso in cui gli alleati si mostrassero via via meno disponibili a rifornire di armi l’IDF per il genocidio o/e il ridisegno del Medioriente secondo la visione di Netanyahu. Forse è in questo quadro che si può spiegare l’attacco israeliano sul Qatar: la presa d’atto che gli Accordi di Abramo non sono compatibili con le mire espansioniste e dunque possono essere sacrificati in barba ai mal di pancia statunitensi. Il loop si è innescato già da tempo ed è irreversibile, per continuare ad esistere in queste forme lo stato sionista dovrà portare la guerra ben al di fuori dei confini della Palestina. Chi sta girando la testa dall’altra parte rispetto al genocidio di Gaza dovrà prenderne atto obtorto collo e trarne le conseguenze.
Piemonte: verso il 20 e il 22 settembre: giornate di mobilitazione contro il genocidio in Palestina
Continuano le mobilitazioni di piazza in tutta Italia a sostegno della Palestina, si intensificano con l’attuale escalation degli attacchi a Gaza City, e in coordinamento con la Global Sumud Flotilla. A Torino, la manifestazione di martedì 16 settembre ha visto la partecipazione di migliaia di persone. Se ne aspettano ancora di più questo sabato 20 settembre, giornata che vedrà persone confluire a Torino da tutto il Piemonte. La chiamata, infatti, è stata lanciata dalle tante realtà che hanno aderito al coordinamento regionale per la Palestina. Ci dice qualcosa in più su questo corteo (con concentramento in piazza Statuto alle 14:30) una compagna di Torino per Gaza. Lunedì 22 settembre la mobilitazione continua e prende la forma di sciopero generale per la Palestina, contro tutti i governi complici di Israele e l’economia di guerra. “Blocchiamo tutto” non vuole essere solo uno slogan ma un segnale forte da lanciare attraverso l’estensione delle mobilitazioni, anche sui posti di lavoro. La giornata sta vedendo un numero crescente di adesioni: sono tanti i lavoratori e le lavoratrici che, insieme alle realtà studentesche, si rifiutano di normalizzare il genocidio in corso. Ne parliamo con Lorenzo, di USB Piemonte. da Radio Blackout
Invasione via terra a Gaza City: aggiornamenti e collegamento da Deir Al Balah
Nella notte tra lunedì 15 e martedì 16 l’esercito israeliano, sulla scorta di massicci bombardamenti, ha fatto irruzione con centinaia di carri armati sul territorio di Gaza City. Viene così portata avanti l’ultima fase di un piano che Israele ha molteplici volte reso esplicito a partire già dall’ottobre del 2023: spostare forzatamente la popolazione gazawi, solo a Gaza City di un milione di persone, verso uno strettissimo lembo del sud della striscia. “Gaza sta bruciando” ha commentato così il ministro della Difesa Katz l’inizio dell’operazione denominata “Carri di Gideone 2”: “Non ci fermeremo finché non avremo portato a termine la missione”. Al pomeriggio di martedì il ministero della salute di Gaza riportava già 59 morti – secondo Al Jazeera le morti riportate sarebbero salite in serata a 106 –  mentre 300 mila persone iniziavano ad abbandonare la città forzatamente. Eliana Riva, su un articolo di pagine esteri, riportava 50 mila riservisti sul terreno e altri 60 mila pronti ad essere mobilitati. Ora l’esercito è intento a svuotare interi quartieri di Gaza City e Jabalia, e oltre l’86% della Striscia si trova ora sotto ordine di evacuazione o rientra in aree militari. Ne parliamo con Chiara Cruciati, giornalista de “Il Manifesto” IL QUADRO DELLA SITUAZIONE aggiornato a giovedì 18 settembre Insieme a Eliana Riva, giornalista e caporedattrice di Pagine Esteri, facciamo il punto su quanto accade in queste ore nella striscia di Gaza. Un aggiornamento in primis sul piano umanitario: con l’acuirsi dell’invasione della Striscia, mancano sempre più  beni essenziali quali cibo e acqua, si intensificano raid e bombardamenti, peggiora drasticamente anche la possibilità di spostarsi e di comunicare (con un blackout totale in corso). Sul piano politico, come spiega bene Riva, il governo di Israele sembra non curarsi della progressiva, timida, distanza politica che stanno prendendo i governi europei. Sa di poter contare sul sostegno degli Stati Uniti, e questo, al momento, basta. CORRISPONDENZA DA DEIR AL BALAH CON WALEED AL SOLTAN Nel contesto dell’invasione via terra della striscia di Gaza a partire da Gaza City, ci siamo messi in collegamento con Waleed Al Soltan, ingegnere del Nord di Beit Lahia, ora sfollato verso il centro della Striscia di Gaza. Da qualche tempo si è recato a Deir Al Balah per fornire aiuto ai numerosissimi sfollati provenienti da Gaza City. Waleed lavora in particolare con persone con disabilità. Per chi fosse interessato qui il link dell’associazione italo-palestinese “Sanabile” con cui collabora Waleed Al Soltan da Radio Blackout