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I libri sono liberi, ma le opinioni non sempre lo sono
Evidentemente l’Italia ha maturato un problema con i libri. E’ un problema che ha sempre avuto, ma in questi anni si è acutizzato. Non tanto perchè fanno discutere per i loro contenuti, ma perchè fa discutere ciò che rappresentano spesso politicamente. Hanno fatto discutere a partire da chi li ha scritti, dalle opinioni degli scrittori, o lo hanno fatto a partire dai contenuti del libro stesso. Abbiamo anche un problema di schizofrenia con la democrazia, il fascismo, l’antifascismo, la libertà d’espressione e la censura. Problemi che in questi anni ritornano periodicamente al centro del dibattito perchè evidentemente non si sanno gestire. Uso il termine schizofrenia perchè evidentemente ogni anno diventa sempre più patologico. Sembra che non si riesca più a distinguere ciò che è fascista da ciò che non lo è, libertà d’espressione da ciò che non lo è, censura da ciò che non lo è, democrazia da ciò che non lo è. Tutto questo accompagnato da comportamenti confusionari: un anno si critica uno scrittore per le sue opinioni e si invita alla censura; un anno si invita uno scrittore a non presentarsi ad un festival pur essendo stato invitato; un anno nel silenzio assoluto viene esclusa una casa editrice dichiaratamente antifascista dal Salone del Libro di Torino senza che non troppe voci mediatiche si levino in aiuto; un anno alcuni scrittori fanno un appello in contrarietà alla presenza di una casa editrice dichiaratamente fascista senza essere ascoltati. Tutto questo sembra un teatro, una commedia senza trama di cui si intuisce il contenuto e si ignora la conclusione, perchè la fine è sempre diversa: un misero spettacolo da cui si può indagare la salute della nostra democrazia. I fatti recenti, dopo l’appello – firmato tra gli altri da Alessandro Barbero, Anna Foa, Antonio Scurati, Carlo Ginzburg, Giovanni De Mauro, Christian Raimo e Zerocalcare – per chiedere di escludere dall’evento “Passaggio al Bosco”, la casa editrice che pubblica scritti di e su Mussolini, Degrelle, Codreanu e neofascismo, ce lo manifestano senza tante sfumature. Ciò che mi riporta alla mente sono episodi simili che negli ultimi vent’anni l’Italia ha vissuto su questo tema. Nel 2008 il Salone del Libro di Torino dedicò la sua edizione ad Israele “per i sessanta anni della sua nascita”. Un evento percepito mediaticamente come festoso ed importante che solo qualcuno seppe contestare. Il Forum Palestina e altre reti solidali con i palestinesi, organizzarono una efficace campagna di boicottaggio che aprì un discussione a tutto campo nel mondo della cultura e della politica. Moltissimi scrittori, palestinesi e non solo, decisero di non partecipare perchè non aveva senso che una democrazia come l’Italia dedicasse un evento culturale alla nascita di un Paese nato sulla pulizia etnica da parte di gruppi d’estrema destra sionisti e la Nakba del 1948 del popolo palestinese, al quale – già all’epoca – imponeva di vivere in un sistema di apartheid razzista e coloniale fatto di violenza e soprusi quotidiani e repressione militare sistematica. Conclusione: non troppo clamore mediatico e il mondo della cultura italiana celebrava Israele senza che nessuno si indignasse per la sua storia. Nel 2011 nel Veneto leghista, l’allora assessore alla cultura della Provincia di Venezia, Raffaele Speranzon, iniziava una crociata una serie di scrittori italiani invitando alla censura dei loro testi: “Via quegli autori dalle biblioteche pubbliche” – disse pubblicamente. La loro colpa era aver firmato nel 2004 un appello per la liberazione e l’indulto a Cesare Battisti, combattente militante negli anni Settanta nei Proletari Armati per il Comunismo (PAC), organizzazione italiana della lotta armata di estrema sinistra. Fu così che si chiedeva che gli “scrittori pro-Battisti” – così vennero chiamati – venissero messi al bando nelle scuole. “Non chiediamo nessun rogo di libri, intendiamoci. Semplicemente inviteremo tutte le scuole del Veneto a non adottare, far leggere o conservare nelle biblioteche i testi diseducativi degli autori che hanno firmato l’appello a favore di Cesare Battisti”, disse l’assessore regionale all’istruzione Elena Donazzan, 39 anni di Bassano del Grappa, fervente cattolica del PDL, con alle spalle una militanza nel Fronte della Gioventù e un passaggio in An. “Un boicottaggio civile è il minimo che si possa chiedere davanti ad intellettuali che vorrebbero l’impunità di un condannato per crimini aberranti”, sbottava annunciando una lettera a tutti i presidi, mentre nelle biblioteche comunali, nel silenzio generale, stavano sparendo le opere degli autori politicamente scomodi. Donazzan, nota alle cronache regionali per aver deciso di donare a tutti gli scolari delle elementari una copia della Bibbia, dichiarò: “Un autore, un intellettuale, esiste per quello che scrive. Questo è il suo ruolo nella società. Quella a favore di Battisti non è stata una petizione popolare. Ci troviamo davanti a un messaggio aberrante lanciato da intellettuali. A favore di un personaggio che si è macchiato dei peggiori crimini di sangue. L’unica cosa che possiamo fare è boicottare i loro libri. Smettere di leggerli. Non accoglierli nelle biblioteche pubbliche e nelle scuole. (20 gennaio 2011)”. In seguito, a chiederne ufficialmente la censura nelle scuole, era stato l’assessore regionale con l’appoggio del presidente della Regione Luca Zaia, che definì la vicenda di Battisti “abominevole”: “I delinquenti vanno messi in galera, non lasciati liberi”. Intanto casi di censura leghista, strisciante o esplicita, venivano denunciati da alcuni bibliotecari veneti. A venire sconsigliati erano soprattutto i libri di Roberto Saviano. Soddisfatto di aver sollevato “un gran vespaio”, come lo definì lui, l’assessore provinciale Speranzon disse che “Era proprio quello che volevo” anche se poi la presidente della Provincia, la leghista Francesca Zaccariotto, fu costretta a fargli fare marcia indietro. Riassumendo: dei politici locali decisero che era giusto censurare i libri di alcuni scrittori ed intellettuali, che non avevano violato nella regola della nostra fantomatica “democrazia”, solo perchè avevano chiesto in un appello la liberazione di un guerrigliero politico degli anni Settanta, oltre alla richiesta di fare pace con la travagliata storia degli Anni di Piombo, di “assalto al cielo” e di radicalità delle masse. L’azione dei politici leghisti locali fu sicuramente fascista e antidemocratica che violava il diritto alla libertà d’espressione e limitava la diffusione di cultura. Questi politici volevano censurare dei libri sulla base di una loro politicizzazione strumentale di alcuni fatti passati, fondata sulla loro opinione che volevano trasmutare in convinzione di massa. Le opinioni, proprio perchè tali, sono sempre di bassa lega rispetto ai pensieri strutturati e argomentati con cognizione di causa. Ma la storia non finisce qui. Nel 2019, Wu Ming 4 che avrebbe dovuto presentare al Salone del Libro di Torino l’antologia di suoi scritti su “J.R.R. Tolkien Il Fabbro di Oxford” edito da Eterea, decide di annullare la sua presentazione in quanto al Salone del Libro sarebbe stata presente uno stand Altaforte, di fatto la casa editrice di CasaPound, organizzazione d’estrema destra occupante di un palazzo del Ministero dell’Interno che nessuno ha mai sognato di sgomberare. Nei giorni prima la notizia aveva suscitato molte critiche ed esortazioni a tenere fuori dalla kermesse una presenza platealmente neofascista. Dello stesso avviso anche il fumettista ZeroCalcare, che scrisse: “oggettivamente sta roba prima non sarebbe mai successa. Qua ogni settimana spostiamo un po’ l’asticella del baratro”. Come ha risposto il Comitato d’indirizzo del Salone? Con un comunicato che in sostanza dice: “CasaPound non è fuorilegge, dunque può stare al Salone, basta che paghi”. Non tutti seguirono l’esempio, il saggista Christian Raimo, dimessosi da consulente del Salone del Libro, decise di esserci lo stesso “soprattutto per parlare, discutere, ascoltare, e contestare. Ogni spazio pubblico è un campo di battaglia”. Un’opinione condivisibile, soprattutto se il motivo era provare coi propri mezzi a non normalizzare quella presenza inquietante. Riassumendo: Il Salone del Libro decide di invitare una casa editrice di stampo neofascista perchè CasaPound non è fuori legge, ma si dimentica di due punti fondamentali: la Legge Mancino (1993), che punisce l’incitamento all’odio, alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, inclusi gesti e simboli; e la Legge Scelba (1952) che vieta la ricostituzione del disciolto Partito Fascista e punisce l’apologia del fascismo, condannando manifestazioni, propaganda e organizzazioni che ne richiamino principi o metodi, con la Mancino che funge da norma sussidiaria per condotte meno specificamente fasciste ma discriminatorie. Questo basterebbe per dire che il neofascismo non è un’opinione tra le altre e che la sua apologia è reato. Nel 2021, invece, al Salone del Libro di Torino succede qualcosa di estremamente insolito: l’esclusione della casa editrice udinese Kappa Vu da parte della Regione Friuli-Venezia Giulia (con la famigerata Mozione 50) dalla partecipazione al “Salone del libro” di Torino previsto dal 14 al 18 ottobre 2021. La comunicazione è avvenuta non con una comunicazione scritta ma con una telefonata, non alla casa editrice diretta interessata, ma all’Associazione di editori di cui Kappa Vu fa parte, con l’avvertimento di esclusione di tutti gli altri editori appartenenti all’Associazione. Si tratta di un fatto gravissimo un fatto grave: una decisione avvenuta in base ad un “giudizio di merito” dal punto di vista politico da parte della Regione Friuli-Venezia Giulia, sulle pubblicazioni della casa editrice stessa in merito alle esecrabili vicende del confine orientale e sulle foibe. Non si tratta di una casa editrice qualunque, ma una casa editrice che pubblica libri su argomenti storici importanti: l’occupazione fascista della Jugoslavia, l’italianizzazione fascista delle terre slave, la resistenza antifascista jugoslava, le foibe, le amnesie di Stato italiane sulle vicende del Confine Orientale, l’antislavismo fascista, i campi di concentramento fascisti dove vennero rinchiusi e sterminate le popolazioni slave etc. La politica non potrebbe operare discriminazioni sulla base di pubblicazioni non ritenute “proprie”. L’Anpi Udine con il coordinatore Dino Spanghero affermò: “inaccettabile e antidemocratico, una violazione della libertà di stampa sancita dalla Costituzione”. Conclusione: evidentemente la Regione Friuli Venezia Giulia ha delle simpatie revisioniste della storia a tal punto da impedire la presenza di una casa editrice che, attraverso la ricerca storica, ha dichiarato guerra al revisionismo storico. Interessante che il Salone del Libro non si sia espresso…. Per concludere, l’art. 21 della nostra Costituzione afferma che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, essendo il pluralismo delle idee e dei pensieri, e non la censura, patrimonio delle società democratiche. Un conto è esprimere la propria opinione libera; un conto è imporre forzatamente la propria opinione pensando che debba essere legge; un conto è dichiararsi fascisti e, in quanto tale, pretendere di avere voce in capitolo; un conto è accettare che i fascisti possano essere normalizzati in quanto agenti d’opinione; un conto è escludere chi la pensa diversamente a prescindere proprio per il suo pensiero; un conto è esporsi per chiedere democraticamente chiarimenti su fatti democraticamente inspiegabili come appunto la presenza di case editrici apertamente schierate Credo che sia urgente più che mai discutere ampiamente sui temi della libertà di espressione, dei valori dell’antifascismo e sul fatto che l’apologia di fascismo sia reato. Un questione che prima o poi si dovrà affrontare se vogliamo continuare a vivere in un clima pacifico di dialogo. Lorenzo Poli
La plastificazione delle città, un libro sul turismo nei Paesi Baschi
(disegno di otarebill) “Era una città di plastica / di quelle che non voglio vedere / con edifici cancerogeni / e un cuore di paccottiglia / dove invece del sole sorge un dollaro / dove nessuno ride, dove nessuno piange / con gente dalle facce di polistirolo / che sentono senza ascoltare e guardano senza vedere / gente che ha venduto per la sua comodità / la sua ragion d’essere e la sua libertà”. Poteva essere questa strofa di Rubén Blades e Willie Colon l’epigrafe del libro La rivolta nella città di plastica, di Marco Santopadre, una breve inchiesta sulla turistificazione estrema della città basca di Donostia (San Sebastián) pubblicato qualche mese fa dalla Red Star Press di Roma. La mitica canzone Plástico del 1978, un capolavoro della salsa, è un’invettiva ironica contro la superficialità delle donne, degli uomini e delle città del continente americano. Negli anni Settanta questi musicisti latinos di New York vedevano come il modello urbano consumista statunitense si riproduceva anche nei loro paesi d’origine. Mezzo secolo dopo questa plastificazione ha raggiunto tutte le città del mondo: le capitali, come Roma, che con il Giubileo è stata finalmente consegnata alla grande finanza internazionale; ma anche le città meno centrali. Una è sicuramente Donostia (è il nome basco: in castigliano è San Sebastián), la “perla del Cantabrico”, nel nord della penisola iberica. Santopadre, che conosce bene il paese basco, e che per questo libro ha svolto dieci interviste ad attivisti, sindacalisti, consiglieri comunali, portavoce delle associazioni di quartiere, racconta di un passato recente in cui la città aveva due facce: la San Sebastián “turistica, godereccia, dai tratti raffinati, un po’ snob e un po’ retrò”; e la Donostia “estremamente popolare, combattiva, impegnata, verace, dai modi diretti e informali” (p.14). Per decenni questi due mondi hanno condiviso lo stesso territorio, forse ignorandosi, o disturbandosi tra loro poco più delle due città di The city and the city di China Mieville. Ultimamente, però, ed è il tema del libro, la prima ha “fagocitato” la seconda. Come nel libro di Mieville, si parla di classi sociali: la città borghese ha sconfitto la città popolare, divorando anche il suo mondo vitale, la sua lingua indigena (l’Euskera o basco), le sue mobilitazioni politiche. Lo strumento di questa vittoria è il turismo; o meglio, la trasformazione della città in una monocultura turistica. A differenza della vicina Bilbo (Bilbao), città operaia e industriale che si è aperta al turismo solo dopo la costruzione del museo Guggenheim a fine anni Novanta, con il “recupero” delle zone abbandonate dalla deindustrializzazione,  Donostia ha alle spalle due secoli di turismo: perciò la tipica risposta alle critiche al turismo è che Donostia “è sempre stata turistica” (p.31). Per il suo clima e la sua posizione, era meta di vacanze termali per l’aristocrazia già nell’Ottocento; e anche il dittatore Francisco Franco vi passò le estati dal 1940 fino alla morte, nel 1975. Ma per quarant’anni tutta la regione basca, Euskadi, è stata lo scenario della conflittualità indipendentista dell’ETA, di enormi mobilitazioni contro lo stato spagnolo, e della kale borroka, la guerriglia urbana dei giovani. Forse queste grandi mobilitazioni sono riuscite a tenere alla larga non tanto lo stato, quanto la massificazione turistica che incombeva sulla regione (della turistificazione di Bilbao parla anche l’ultimo capitolo del libro di Santopadre, a partire dal lavoro di Adriano Cirulli, altro grande conoscitore del país vasco). Santopadre spiega infatti che la deposizione delle armi di ETA ha segnato l’inizio del nuovo ciclo di turistificazione. Nello stesso anno dell’annuncio di ETA, il 2011, Donostia fu candidata a “Capitale europea della cultura” per il 2016 (l’anno in cui si seppe che il dubbio privilegio sarebbe stato riservato anche a Matera; pochi anni dopo a Procida). Queste grandi celebrazioni cementificano nuove alleanze nelle élite: come le Olimpiadi di Barcellona del 1992, annunciate dall’ex ministro franchista Jose Antonio Samaranch, che sancirono la ritrovata unità economica di destra e sinistra sotto il vessillo dell’impresa e della gentrificazione, così Donostia 2016 è diventata subito il paradiso dell’industria turistica. Non passa neanche un anno dal “grande evento”, che già la turistificazione è estrema; nascono le organizzazioni contro l’overtourism – un termine che il libro giustamente critica, perché la questione non riguarda la quantità di turisti; e neanche la “qualità” (pp. 100-110). Subito dopo la pandemia del 2020 già un quinto dei posti letto nelle zone centrali sono per il turismo (p.49), con il conseguente calo dei residenti (non pronunciatissimo: nel quartiere centrale le statistiche registrano il dieci per cento in meno in venti anni, anche se probabilmente esponenziale; p.51). “Siamo in pericolo”, dichiara un’intervistata (l’unica donna). Quella di Donostia, per uno degli intervistati, sarebbe una “gentrificazione con caratteristiche proprie” (p.51). Eppure – circondata dagli aeroporti, funestata dal lavoro precario e stagionale, satura di bar e bnb (per lo più gestiti da gruppi imprenditoriali), inzeppata di installazioni artistiche, svuotata dall’aumento degli affitti, con il conseguente “sradicamento di un’intera generazione […] oltre all’indebolimento delle reti comunitarie e perdita dell’identità locale” (p.58) – si fatica a vedere in cosa sia diversa dalle migliaia di altre città gentrificate. Il libro ripercorre tutte le politiche con cui l’amministrazione ha favorito la turistificazione estrema: dalla concessione di licenze per hotel in deroga alle norme edilizie, alla demolizione di edifici storici di cui si mantengono solo le facciate, fino agli “errori” intenzionali che hanno accelerato la distruzione della città; e anche le denunce dei numerosi collettivi, studiosi e associazioni di abitanti, quasi sempre senza risultati, almeno nei tribunali. Al di là della forma specifica di vendere Donostia come capitale enogastronomica, una narrativa di cui Santopadre ripercorre lo sviluppo – dal 2009 che si fonda il Basque Culinary Center, si celebra la fiera San Sebastian Gastronomika, si trasformano le sidrerie in ristoranti brandizzati, fino all’assurdità dell’Instituto del Pintxo (p.83) – è evidente che i processi descritti nel libro sono proprio esempi da manuale. Le città gentrificate non si distinguono per forma, storia e vita, ma per il tipo di offerta che propongono ai nuovi arrivati – turisti o gentrificatori. Ed ecco la plastica! È il packaging che trasforma la città in un pacchetto che i visitatori possano consumare rapidamente. Ma è anche una metafora dell’abbellimento superficiale, della ripulitura frettolosa, del consumo in serie, colori e forme attraenti ma identiche ovunque. Il simulacro si moltiplica al punto di sostituirsi alla città. Anche questo processo è standard: lo descriveva Harvey in The Art of Rent ventitré anni fa, spiegando che le città per farsi “globali” sono costrette a distruggere ciò che le rende uniche. Donostia oggi è analoga alla Cappuccino city di Derek Hyra, ma anche alla città di Santa Chiara, le cui mirabolanti avventure racconta Diego Miedo; di fatto, a tutte le altre città turistificate del mondo. Tutte in mano ai city killers, come li chiama Lucia Tozzi. Quello che manca in questo racconto però è la rivolta del titolo. In questa città di plastica, dov’è l’abitante di Zerocalcare che esce col fucile gridando “Rebibbia non sarà mai il nuovo Pigneto! Le vostre apericene fatele da un’altra parte”? O quello di Diego Miedo che grida “Americani di merda non saremo mai il vostro zoo”? Dopo lo scioglimento dell’ETA forse è fuori luogo invocare le armi. Ma è vero anche che l’invasione turistica attuale, soprattutto dopo la pandemia, non ha mai prodotto niente di simile alle proteste anti-gentrificazione degli anni Ottanta, come la rivolta fondativa di Tompkins Square nel 1988. Ci sono gruppi di abitanti critici, reti internazionali come SET, libri ed eventi contro il turismo – ma pochissime rivolte. Un’eccezione forse è stata quest’estate a Città del Messico contro i turisti statunitensi, che le autorità hanno rapidamente definito violenza xenofoba. Le rivolte contro la plastica sono nella nostra immaginazione, sono prefigurazioni, dei simulacri, plastica anche loro. Rivolte vere, per ora, né a Donostia né altrove. Anche perché sarebbe assurdo prendersela con i turisti, ingranaggi della macchina, quasi sempre inconsapevoli. Ma anche sul campo della consapevolezza non siamo avanzati molto. Nel 1979 Ruben Blades e Willie Colon spiegavano chiaramente la strada contro la plastificazione: “Senti latino, senti fratello, senti amico – dice l’ultima strofa della canzone Plástico – non lasciarti confondere / dall’oro o dalla comodità! / Andiamo tutti sempre avanti / c’è ancora molta strada da fare / per farla finita tutti insieme / con l’ignoranza che ci mantiene suggestionati / con modelli importati / che non sono la soluzione. / Non lasciarti confondere / cerca il fondo e la sua ragione / e ricorda: si vedono le facce / ma non si vede mai il cuore”. Studiare, lavorare, andare sempre avanti, contro i modelli statunitensi di plastica: “Ricordati che la plastica si scioglie / quando la illumina il sole” canta Ruben Blades mentre il coro ripete “si vedono le facce, si vedono le facce / ma non si vede mai il cuore”. Questa era la strada con cui “vinceremo insieme”. Per il momento, la vittoria non è arrivata. Cosa vuol dire “cercare il fondo e la sua ragione” nella città di plastica? Le facce di plastica hanno un retro, un fondo, dove si vede la filettatura, il segno della fusione, che ne rivela la natura artificiale, prestampata. Turistificazione e gentrificazione sembrano un pezzo unico, da prendere o rifiutare in blocco, magari regolando quantità e qualità. Il punto di fusione, nascosto, mostra invece che questi fenomeni sono un’accozzaglia di eventi disparati – dai finanziamenti pubblici alle low cost, alla mancanza di regolazioni sugli affitti brevi – fusi insieme da un discorso pubblico che li presenta come solidi e coerenti. E invece sono le forme del momento, che possono cambiare anche all’improvviso. Santopadre, per esempio, spiega il moltiplicarsi degli immobili di lusso (p.119-125), come un nuovo ciclo di valorizzazione (anche se secondo me sbaglia nel considerarla un “dopo” la gentrificazione). A Roma, per esempio, la fase non è più quella puramente turistica: abbiamo il lusso e i maxi studentati (ne parla Chiara Davoli nel numero dello Stato delle città di prossima uscita); altrove le politiche urbane portano tutt’altro, dall’abbandono di Detroit ai massacri di Rio de Janeiro. Dipende da come reagisce la società. Di fronte alla città di plastica, la ricerca dovrebbe fare come il sole della canzone: scioglierla. Scomporne i fattori, capirne gli equilibri, cosa tenere e cosa respingere, quali forze si legano a ogni pezzo; smentire sistematicamente il simulacro, la performance scintillante. Francesco Migliaccio ipotizza che la stessa idea di gentrificazione contribuisce a nascondere le diverse tendenze che influenzano la vita urbana, togliendoci lucidità. Un’altra metafora utile è quella di Mike Davis, Città di quarzo: gli aspetti apparentemente inconciliabili della vita urbana si riflettono tra loro come in un cristallo. Anche Marco D’Eramo in un gran libro su Chicago mostra come la città tiene insieme elementi diversissimi: Il maiale e il grattacielo. La metafora ci serve anche per la struttura politica che promuove questi processi, cioè lo stato. David Graeber ha spiegato che lo stato è un’accozzaglia di elementi inconciliabili tenuti insieme da una retorica convincente, ma che possono sciogliersi in qualunque momento. Anche a Roma dobbiamo capire come si interfacciano le scenette del sindaco con il giubbetto catarifrangente, le parate militari, la vendita di un appartamento per sedici milioni di euro, la Royal Caribbean che si prende Fiumicino. Senza farci confondere dai giornali che ci mostrano un progetto unico e coerente da accettare o rifiutare. “La strategia di orientare il dibattito politico verso l’antinomia ‘turismo sì-turismo no’ – scrive Santopadre – serve a coprire le responsabilità politiche e istituzionali nei cambiamenti strutturali imposti ai nostri quartieri”. Inchieste come questa ci aiutano a sciogliere tutta questa plastica, e a cercare il fondo. (stefano portelli)
Omaggio a Marco Calabria
UNA SALA PIENA, AL POLO CIVICO ESQUILINO DI ROMA, HA ACCOLTO SABATO 8 NOVEMBRE (MALGRADO METRO CHIUSE, BUS DEVIATI, TRAFFICO), LA PRIMA PRESENTAZIONE DI GRIDARE, FARE, PENSARE MONDI NUOVI, L’ANTOLOGIA CURATA DA GIANLUCA CARMOSINO E PUBBLICATA DA ELÈUTHERA CHE RACCOGLIE TESTI DI MARCO CALABRIA. IL LIBRO È UNA BUSSOLA CHE AIUTA A COMPRENDERE I POPOLI E LE ESPERIENZE CHE OVUNQUE STANNO PERCORRENDO SENTIERI COMPLETAMENTE NUOVI, ALTERNATIVI ALLE LOGICHE DEL CAPITALISMO, E PER QUESTO FRAGILI E IMPERFETTI, TRACCIANDO LA STRADA MAN MANO CHE AVANZANO. L’INTERVENTO DI RAÚL ZIBECHI CHE, IN COLLEGAMENTO DA MONTEVIDEO, HA APERTO L’INCONTRO La morte di un amico è una ferita al cuore. La scomparsa di Marco è molto più della morte di una persona cara, è la perdita di una memoria storica inestimabile in un momento in cui il capitalismo sta lottando proprio per cancellare la memoria collettiva di popoli, classe e individuo. È, quindi, doppiamente dolorosa. In un anno abbiamo pero Marco Calabria e Aldo Zanchetta. Due amici, due compagni di lotta, due luci che hanno illuminato le nostre vite, anche nei giorni più bui, e nutrito la speranza in un modo diverso. Marco sapeva trovare alternative al capitalismo nelle piccole cose della vita quotidiana, come ha accennato Stefania Consigliere nella sua recente intervista su Comune (Perché è difficile riconoscere mondi nuovi). Sebbene fosse un fervente ammiratore di Mao (cosa che condividevamo), la sua casa aveva un grande terrazzo dove centinaia di piante e piccoli alberi competevano con la grigia monotonia del cemento urbano. I suoi gatti e quelli del quartiere scorrazzavano li, mente Marco fumava una sigaretta dopo l’altra. Amava la natura con la stessa semplice ammirazione con cui amava giocare o ascoltare i bambini, ai quali dedicava attenzione e rispetto, senza il minimo accenno di paternalismo. Por essendo un uomo bianco, occidentale e urbano, capì lo zapatismo senza essere mai stato in Chiapas, così come capì i popoli in movimento in tutta l’America Latina. Comprendere è un atto creativo, ci ha detto Keyserling. Creare è una pratica sociale, individuale e collettiva che implica andar oltre l’esistente, reinventandolo nel materiale e del simbolico. In questo senso, Marco era un creatore fantasioso di nuovi mondi, sapeva riconoscere quando qualcosa di diverso stava nascendo. Credo che il miglior omaggio che possiamo rendere a Marco oggi, a un anno dalla sua silenziosa scomparsa, sia continuare a comprendere i popoli che stanno percorrendo sentieri completamente nuovi, inediti e originali, tracciando la strada man mano che avanzano, come diceva Antonio Machado. Grazie, Marco, per averci dato così tanto, senza aspettare nulla in cambio. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Omaggio a Marco Calabria proviene da Comune-info.
Potere e resistenza nei territori acquatici
I conflitti attorno all’acqua sono più che mai evidenti, ma da sempre i regimi e i governi cercano di controllare l’aspetto del territorio attraverso lavori idraulici come dighe o bonifiche per controllare la popolazione, sia locale, sia nazionale attraverso la propaganda. Modificare il territorio significa espropriare intere comunità delle loro ricchezze naturali e dell’economia consuetudinaria su cui si reggono e portano sempre a una militarizzazione e ad un accentramento del potere che difficilmente potrebbe imporsi in territori impervi come le montagne o le paludi. Prendiamo ad esempio l’abbassamento del lago di Sevan riportato da Giulio Burroni nell’articolo “acqua sovrane, di guerra e di propaganda” uscito su Il Tascabile (https://www.iltascabile.com/scienze/acque-sovrane-guerra-propaganda/) Il libro “gli uomini pesce” ed. Einaudi vede protagonisti Antonia e Sonic alla scoperta dei segreti lasciati da Ilario Nevi, partigiano regista e attivista ambientale, nonchè nonno di Antonia. Nell’estate della più grande siccità degli ultimi anni, il Po si è ritirato fino a diventare un rigagnolo, mentre la stagione estiva impazzava nel vicino litorale ferrarese, l’ambiente paludoso del Delta ha mostrato tutta la sua fondamentale importanza. Un territorio difficile, costretto a ritardatarie bonifiche e che ha visto uno dei pochissimi casi di guerra partigiana combattuta su barche. La storia di Ilario racconta tutto questo: la resistenza, ambientale e antifascista, di un territorio unico. Gli uomini pesce, disegnati come mostri, sono in realtà i difensori popolari dei territori, mostri che preservavano le acque e che hanno limitato l’espansione antropologica in territori difficilmente accessibili. Ne parliamo con l’autore Wu ming1 (e ci scusiamo per la qualità della diretta) Qualche lettura tratta da “addio alle valli” di Francesco Seratini, poeta romagnolo che racconta la vita delle genti e dell’ambiente del Delta del po.
“ATTRAVERSARE LA NOTTE”: IL LIBRO CHE RACCONTA DELLE DONNE NELL’AFGHANISTAN DEI TALEBANI DI CRISTIANA CELLA
“Attraversare la notte: Racconti di donne dell’Afghanistan dei talebani” è un libro di Cristiana Cella, scrittrice e giornalista, pubblicato nel 2025 e edito da Altreconomia nella Collana Storie. All’interno del volume sono presenti anche le intense immagini scattate dalla fotografa Carla Dazzi. “Le donne afghane stanno attraversando una notte molto profonda” queste sono le parole dell’autrice che da anni fa parte del CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane), che dal 1999 ha contatti con con chi vive in Afghanistan. La speranza si mantiene grazie a queste associazioni che penetrano in territori irraggiungibili. La repressione nei confronti delle donne afghane è talmente pervasiva che “ti mangia da dentro”. Ogni comportamento può essere ed è punito. Si rischia il carcere se una donna parla a voce alta fuori da casa propria, se esce senza l’accompagnamento di un membro maschile della famiglia, se non è completamente coperta. Il tasso di suicidio tra le giovani è aumentato di tantissimo e il fatto più inquietante è che non si hanno più notizie dall’Afghanistan visto che le giornaliste sono state o arrestate o allontanate. Cristiana Cella apre delle finestre su Kabul, sul Nuristan, su un paesino tra le montagne. Nel volume ci sono 70 racconti ispirati dalle testimonianze raccolte dall’autrice in quattro anni, informazioni che servono a sostegno della resistenza delle donne afghane per rompere il silenzio colpevole. Secondo Cella l’Afghanistan è un popolo intero che è soggetto ai capricci dei talebani e le donne afghane non hanno alleati, sono sole. Sulla condizione delle donne sotto il repressivo regime dei talebani in Afghanistan abbiamo intervistato l’autrice del libro Cristiana Cella.  Ascolta o scarica  
Neanche un filo d’erba. Il carcere minorile in un libro di Curcio e Bellati
(disegno di dalila amendola) Neanche un filo d’erba. Socioanalisi narrativa di un carcere minorile è un bel libro curato da Paolo Bellati e Renato Curcio, da pochi giorni pubblicato tra i Quaderni di ricerca sociale delle edizioni Sensibili alle foglie. Il volume costituisce l’ultima tappa di una serie di incontri fatti con un gruppo di giovani ex detenuti del carcere minorile Beccaria di Milano, e restituisce un quadro preciso di questa istituzione che è sempre più uno strumento ordinario nella gestione delle politiche giovanili. Non è un caso che dall’entrata in vigore del decreto Caivano, che aumenta a dismisura le possibilità per un minore di finire in carcere a discapito delle pene alternative, gli ingressi nei penitenziari minorili siano aumentati del cinquantaquattro per cento, facendo arrivare a seicento il numero dei giovani ristretti. Ho letto Neanche un filo d’erba mentre sono costretto a fare i conti con le storie di due ragazzi da qualche mese detenuti in due istituti penali minorili campani (Nisida e Airola). Li conosco da bambini – ora hanno rispettivamente sedici e diciassette anni – e li ho seguiti come educatore per buona parte della loro vita, entrando in relazione con i loro ambienti familiari, con le gioie e le frustrazioni, le aspirazioni e gli errori. M. è finito dentro per una serie di aggressioni, di cui una a un poliziotto, connesse a una patologica difficoltà, mai affrontata da nessuno, a gestire le proprie emozioni negative. L’altro è semplicemente un giovane inquieto e irrequieto. È un adolescente come tanti, C., in cerca di risposte che non sa e probabilmente non vuole darsi, ma che ben presto si è stancato della scuola, del calcio, degli assistenti sociali e di chiunque gli imponga, o anche solo gli suggerisca, una strada o un modo di fare. Sia M. che C., in momenti diversi, hanno scelto di andare in carcere rinunciando alla possibilità, dopo averla sperimentata, di stare in una comunità. Il Beccaria di Milano è uno degli istituti in Italia che più di frequente raggiunge gli onori della cronaca per scandali di vario genere, episodi di violenza, proteste e rivolte dei detenuti. Le riflessioni dei due curatori del libro, e soprattutto le parole dei diretti protagonisti, non risparmiano nulla a chi legge: sovraffollamento a livelli cronici, incapacità (e mancanza di volontà) nell’affrontare la multietnicità sempre crescente, violenza costante e quasi sempre impunita degli agenti con attribuzione arbitraria di punizioni fisiche e psicologiche ai ragazzi, normalizzazione di prassi non scritte – se non in qualche astrusa circolare – che così come nel carcere degli adulti costruiscono le regole de facto del carcere, e che sono diverse istituto per istituto. È il caso di quella che Bellati e Curcio definiscono “pedagogia nera”, la pedagogia della pena o “del bastone”, una traslazione dell’equilibrio basato sulla punizione che sorregge l’istituzione (degli adulti) in un universo che, nelle sue folli teorizzazioni, pretenderebbe di essere educativo per giovani che hanno commesso degli errori ma hanno un’intera vita davanti per recuperare. “Per i maltrattamenti aggravati – si legge nel volume – esercitati tra il 2021 e il 2024 (tra i quali, oltre alle lesioni, le umiliazioni e gli insulti razzisti subiti dai ragazzi compaiono una tentata violenza sessuale operata da un agente nei confronti di un detenuto, e la voce ‘torture’) sono state messe sotto inchiesta giudiziaria quarantadue persone. In un primo tempo, nell’aprile 2024 vennero messi sotto indagine tredici agenti penitenziari, otto dei quali furono anche sospesi dal lavoro. All’inizio di agosto 2025 i pm incaricati hanno però aggiunto a quel primo elenco un comandante e altri tredici agenti, un medico, due operatori sanitari, due ex direttrici e una vicedirettrice”. Il libro ha il merito di partire dall’analisi di un caso per tracciare linee generali, ragionando – sempre a partire dalle parole dei ragazzi – sul (non) funzionamento di questa istituzione. È probabilmente per questo che i capitoli più efficaci risultano quello che rivela il carcere minorile come arma impropria della gestione illiberale del fenomeno migratorio; quelli che svelano con pochi e chiari esempi l’ascensore dei meccanismi premiali, un inferno dantesco che istituisce condizioni diverse di detenzione a seconda della docilità o della renitenza di un detenuto al rispetto di regole assurde; quelli che sconfinano senza perdere il filo del ragionamento nei campi della sociologia dei processi migratori, della psicologia, dell’antropologia culturale, mostrando le continue evoluzioni e involuzioni, a livello individuale e collettivo, delle relazioni tra istituzioni totali e linguaggio, privazione dello spazio e processi di alienazione, gestione chimica del dolore, autolesionismo e “ricadute”, invisibilizzazione burocratico-amministrativa e rivendicazioni identitarie. Vale la pena infine soffermarsi su due questioni che hanno la forza di aprire spunti di riflessione non scontati sulla carcerazione minorile. La prima è quella relativa agli “spazi per il sé”, una lettura più profonda del tema del sovraffollamento, che non si riduce alla denuncia di condizioni pur infami di detenzione, e alla descrizione di stanze in cui per andare in bagno bisogna calpestare i materassi su cui, per terra, sono assiepati gli altri detenuti. Quello che è in ballo, spiegano gli autori del volume, è l’impossibilità di momenti d’introflessione, di elaborazione della propria situazione e delle possibili prospettive: “momenti indispensabili a qualunque età, ma in quella dei ragazzi più ancora decisiva sia per la loro crescita personale che per la maturazione emotiva. Si tratta, insomma, di un vero e proprio soffocamento psicologico e sociale” che “aggiunge un quid specifico alla brutalità ordinaria della condizione carceraria, ne accentua, se possibile, la pena e la sofferenza dei corpi” e “contribuisce in modo decisivo allo smantellamento di un qualsivoglia, sia pure vago ed embrionale, progetto educativo”. Anche la seconda questione, che riporta alle storie dei ragazzi napoletani con cui si è iniziato questo testo, ha molto a che vedere con lo “smantellamento del progetto educativo” scientemente operato dal carcere minorile. È infatti legata alla desolante descrizione, che è uno dei fili conduttori del libro, del complesso equilibrio di relazioni, rapporti lavorativi e personali, compartimentazione delle mansioni e quindi delle responsabilità del mondo degli adulti che operano in carcere. Gli educatori e il personale civile escono a pezzi dalla descrizione dei ragazzi, che ritraggono queste figure per lo più – mantenendo comunque una discreta capacità di differenziazione – come quelle di scialbi passacarte, capaci di parlare e mai di ascoltare, latitanti tra le sezioni persino nelle poche ore durante le quali sono chiamati, con un magro stipendio, va detto, a lavorare nelle strutture. Il fatto che molti ragazzi finiscano loro stessi per preferire, almeno nella brutale quotidianità, la guardia all’educatore, il carcere alla comunità, la repressione al confronto, è a ben pensarci il trionfo dell’istituzione totale, che ha come unico scopo un disciplinamento sociale raggiungibile solo attraverso la punizione, e perciò inconciliabile con qualsiasi millantata velleità di crescita personale, riabilitazione e reinserimento. A parità di vuoto, di noia, di assenza di figure adulte adeguate con cui confrontarsi, e di mancata apertura verso nuove prospettive reali, è comprensibile che i ragazzi scelgano almeno la chiarezza delle regole (per quanto ingiuste) e degli intenti all’ambiguità; preferiscano la crudezza all’ipocrisia, la punizione al ricatto morale, persino le botte alle chiacchiere vuote. Ma se questo modello disciplinante è indispensabile per la buona riuscita di ogni innaturale tentativo di mantenere una persona chiusa e ferma in una gabbia per un certo lasso di tempo, è anche vero che nel mondo dei ragazzi ha bisogno di più sforzo e tempo, elementi necessari a scalfire animi spesso più istintivi, meno interessati a calcolare il rapporto tra i comportamenti e le loro conseguenze, non ancora del tutto assoggettabili al rispetto di piccoli e grandi soprusi. Le continue proteste e le rivolte, più o meno pubblicizzate, che ogni settimana avvengono in molte carceri minorili in tutto il paese ci dicono che questo modello non è necessariamente destinato a vincere. Quella però è la parte che possono fare i giovani detenuti per l’eliminazione di queste inutili e ipocrite istituzioni. È ora di chiedersi cosa siamo disposti a fare noi. (riccardo rosa)
Native American Heritage Month 2025: “Rompere il silenzio mediatico: voci, libri, radio”
San Benedetto del Tronto, 5 novembre 2025 — Novembre, negli Stati Uniti, è il Native American Heritage Month: uno spazio pubblico dedicato alla storia, alla letteratura e ai contributi dei Popoli Nativi. Per la prima volta dal 1990, nel 2025 la Casa Bianca non ha proclamato il Native American Heritage Month: un cambio di cornice che merita attenzione pubblica. Questo comunicato è diffuso da Mauna Kea Edizioni, casa editrice indipendente con direzione editoriale di Raffaella Milandri, perché da anni lavoriamo su questi temi con un catalogo dedicato e un impegno costante a decolonizzare lo sguardo. In un anno in cui l’Heritage Month non è stato proclamato dalla Casa Bianca, chiediamo esplicitamente l’attenzione dei media italiani: non solo per dare voce al nostro lavoro, ma per aprire una conversazione pubblica sul silenziamento della letteratura nativa, sulla sua presenza nei nostri palinsesti e nelle nostre pagine culturali, e su come — anche qui, a casa — si possano costruire spazi di ascolto, racconto e relazione autentica con le comunità indigene. Premessa — un cambio di cornice istituzionale Per la prima volta dal 1990, nel 2025 la Casa Bianca non ha emesso una Presidential Proclamation per il Native American Heritage Month. Al suo posto, il 4 novembre 2025 è stato pubblicato un Presidential Message (una nota testuale nella sezione Briefings & Statements, non numerata e non inviata al Federal Register, a differenza delle proclamazioni formali). Cosa contiene il Presidential Message   Il Presidential Message del 4 novembre 2025 si apre in modo cerimoniale: “In questo National Native American Heritage Month, celebriamo i contributi duraturi dei Nativi Americani alla grandezza della nostra Nazione”. Subito dopo richiama i principi fondativi — libertà, eguaglianza, rule of law — e li aggancia all’orizzonte di America 250, il percorso che porta al 250° dell’Indipendenza nel 2026. Poi entra nel merito politico: rivendica l’impegno ad avanzare il pieno riconoscimento federale della Lumbee Tribe (richiamando il memorandum del 23 gennaio 2025 agli Interni) e spinge sull’idea di “educational freedom” per gli studenti nativi, ribadendo che abbiano diritto alle scuole del BIE (l’agenzia federale per l’istruzione nelle comunità native) e possano usare fondi pubblici per scegliere anche scuole private, religiose o ‘charter’ (pubbliche ma a gestione privata. La differenza chiave, però, è formale: non è una proclamazione. Non è un atto firmato e numerato, non finisce nel Federal Register; è un messaggio pubblicato sul sito della Casa Bianca. In altre parole, non “proclama” ufficialmente novembre, ma ne commenta il senso in termini politico-cerimoniali. Il tutto arriva in un anno in cui la cornice istituzionale si è già ritratta: a fine gennaio la DIA ha messo in pausa le “special observances” interne. Tradotto: nel 2025 non c’è il proclama, c’è un messaggio che celebra in generale, sottolinea Lumbee e scuola, ma non ha il peso formale degli anni 1990–2024. Ed è esattamente qui che si inserisce il nostro invito: se l’istituzione arretra, alziamo noi il volume dal basso. In questo contesto, Mauna Kea Edizioni ha voce in capitolo, contando in pochi anni circa 30 titoli dedicati alle culture indigene nordamericane, con autori come Lance Henson, Jim Yellowhawk, Francesco Spagna, Raffaella Milandri, e le prime edizioni italiane di Luther Standing Bear, Mourning Dove, Zitkala-Ša e altri fondamentali autori nativi americani pressoché sconosciuti in Italia e ignorati dai media. È da poco uscito il volume di Nativi Americani. Guida a miti, leggende e preghiere (Mauna Kea Edizioni), un volume rigoroso e accessibile che intreccia fonti accademiche e testimonianze orali, offrendo al lettore italiano una mappa chiara per decolonizzare lo sguardo su figure, canti, ritualità e linguaggi. Raffaella Milandri inoltre nella sua trasmissione “Nativi Americani ieri e oggi” su Radio Talpa trasmetterà venerdì 7 novembre una puntata speciale dedicata al Native American Heritage Month: un viaggio tra storia viva (dai Navajo Code Talkers a Ira Hayes), musica contemporanea indigena (da Frank Waln a Supaman fino a The Halluci Nation) e soprattutto pratiche concrete per celebrare — anche quando la cornice istituzionale si fa timida — “qui a casa”, sui media, nelle scuole, nelle biblioteche, nelle radio. “Se l’istituzione arretra, avanzano le relazioni”, dichiara Raffaella Milandri. Il silenziamento mediatico: un tema editoriale necessario Il nodo del silenziamento mediatico della cultura, storia e letteratura nativa è un canone ancora eurocentrico, con scarsa attenzione ai protocolli culturali e ai diritti dei Nativi.   “Noi celebriamo qui in Italia”: 5 gesti concreti   1. Adotta una parola: sui media, una parola al giorno sui Nativi: il nome di un popolo o tribù, un saluto in lingua del territorio come Mitakuye Oyasin che in Lakota significa “Siamo tutti connessi/parenti”. 2. La vetrina che orienta: in programmi di libri, in biblioteca e libreria, un percorso che intrecci storie orali, poesia contemporanea, trattati e graphic novel di autori nativi. 3. Apri il microfono: radio e podcast con interventi brevi sui Nativi. 4. Porta la storia sui giornali: racconta i trattati come accordi tra Nazioni; cita una poesia o un testo, ad esempio, di John Trudell. 5. Sostieni il vivente: supporta progetti per le lingue indigene (corsi, “language nests”), archivi orali, editoria: condividi, dona, partecipa. “Non servono palchi solenni: servono ascolto, relazione e scelte quotidiane.” National American Indian Heritage Month: storia, significato e il caso 2025 Che cos’è Il National American Indian Heritage Month (spesso chiamato Native American Heritage Month) è l’osservanza nazionale con cui, ogni novembre, negli Stati Uniti si riconoscono storia, culture, lingue e contributi dei popoli nativi d’America e dell’Alaska. Come mese nazionale nasce nel 1990, quando il Congresso approva una risoluzione congiunta e il presidente George H. W. Bush proclama per la prima volta novembre come “National American Indian Heritage Month”. Radici storiche (1916–1975) Le origini sono più antiche del 1990. New York, nel 1916, fu il primo Stato a istituire un’“American Indian Day” (secondo sabato di maggio), mentre altri Stati seguirono negli anni successivi con proprie date. Queste iniziative derivavano da campagne avviate nel primo Novecento da leader nativi come Arthur C. Parker (Seneca) e Red Fox James (Blackfeet). Dalla settimana al mese (1976–1990) Durante il bicentenario USA, il Congresso autorizza il Presidente Ford a proclamare la “Native American Awareness Week” (10–16 ottobre 1976). La cornice settimanale diventa più ricorrente negli anni Ottanta e, con la Pub. L. 99-471 (1986), il Congresso chiede formalmente di designare la settimana 23–30 novembre 1986 come “American Indian Week” (la Casa Bianca di Ronald Reagan emette la proclamazione). Il passaggio definitivo arriva nel 1990, quando H.J. Res. 577 / Pub. L. 101-343 designa il mese di novembre; il 14 novembre 1990 Bush firma la Proclamation 6230 che inaugura l’osservanza mensile. Dopo il 1990: denominazioni e una “giornata” nazionale Dagli anni Novanta in poi, la proclamazione presidenziale è divenuta annuale, con varianti nel nome ufficiale (“National American Indian Heritage Month”, “Native American Heritage Month”, talvolta “American Indian and Alaska Native”). Nel 2009, il Congresso istituisce anche una giornata nazionale: la “Native American Heritage Day” (il venerdì dopo il Thanksgiving), con la Pub. L. 111-33. Cosa si celebra (e perché importa) Il mese è occasione per: * programmi educativi su sovranità, trattati, lingue e patrimoni culturali; * restituzioni storiche su contributi spesso rimossi (es. code talkers navajo e di altre Nazioni, intellettuali e artisti nativi); * iniziative di collaborazione tra enti federali, Stati e governi tribali. A livello federale, il Department of the Interior/BIA coordina risorse e materiali divulgativi, mentre Stati, contee e città emettono proprie proclamazioni e attività. Il 2025: assenza della proclamazione federale, ma proclamazioni statali attive Nel 2025 non è stata pubblicata una proclamazione presidenziale per il Native American Heritage Month 2025 bensì il Presidential Message di cui abbiamo parlato prima; testate specializzate hanno evidenziato l’assenza del proclama di quest’anno, mentre il Presidente ha emesso altri proclami (ad es. Columbus Day 2025). In parallelo, diversi governatori hanno comunque proclamato novembre 2025 come mese del patrimonio nativo (es. Michigan). Cornice politico-istituzionale Nel 2025 il tema è divenuto più sensibile anche perché un memorandum della Defense Intelligence Agency (28 gennaio 2025) ha sospeso undici ricorrenze (tra cui il National American Indian Heritage Month), e successiva guidance del Pentagono ha limitato l’uso di risorse ufficiali per i cosiddetti “identity months”. Si tratta di direttive interne al DoD, Department of Defense (non leggi nazionali), ma con impatto simbolico e pratico nelle Forze Armate: le strutture militari non possono utilizzare risorse ufficiali — cioè tempo di servizio, fondi, materiali, canali comunicativi — per i “cultural/identity months”, i mesi identitari. Ricordiamo anche che a  fine febbraio 2025 è partita una sorta di “digital content refresh”: una pulizia dei siti e dei social ufficiali per archiviare o rimuovere contenuti considerati DEI — Diversity, Equity, Inclusion, cioè iniziative pensate per valorizzare diversità, equità e inclusione. Fonti chiave * U.S. Senate – Art & History: timeline storica dell’osservanza. (senate.gov) * Congress.gov: Pub. L. 99-471 (1986); Pub. L. 111-33 (2009). (Congress.gov) * The American Presidency Project: Proclamation 6230 (1990); Proclamation 10853 (2024). (presidency.ucsb.edu) * BIA / DOI: pagina istituzionale NNAHM con cronologia e risorse. (bia.gov) * Esempio 2025: Proclamazione del Michigan (1 novembre 2025). (michigan.gov) * apnews.com * them.us * washingtonpost.com   Comunicato stampa di Mauna Kea Edizioni – Gruppo Editoriale Mauna Tel   +390735757457 Via Nazario Sauro 50 63074 San Benedetto del Tronto (AP) Redazione Italia
[2025-11-06] "C’ERAVAMO TANTO AMATI" • incontro con Valerio Mattioli sui formidabili anni Novanta @ CSOA Forte Prenestino
"C’ERAVAMO TANTO AMATI" • INCONTRO CON VALERIO MATTIOLI SUI FORMIDABILI ANNI NOVANTA CSOA Forte Prenestino - via Federico delpino, Roma, Italy (giovedì, 6 novembre 19:00) CSOA Forte Prenestino giovedì 6 novembre 2025 Forte Infoshop presenta dalle ore 19:00 all’aperitivo in sala da tè InTHErferenze "C’ERAVAMO TANTO AMATI" un incontro con Valerio Mattioli sui formidabili anni novanta -> prima e dopo sonorizzazioni a cura di Valerio Mattioli .... Vieni e fai venire! https://forteprenestino.net/attivita/infoshop/info-shop-podcast/3448-c-eravamo-tanto-amati https://www.instagram.com/p/DQl1k6bDEvm/?igsh=c2o5dnBiODZpNXkz
Iniziata la seconda edizione di Eirenefest a Firenze
Eirenefest 2025, il Festival del Libro per la Pace e la Nonviolenza, si è aperto oggi   24  ottobre con due presentazioni a BiblioteCaNova Isolotto, continuando poi la sera alle Baracche Verdi con la proiezione del documentario Inchiesta su Danilo Dolci. L’evento proseguirà all’Isolotto e alla Comunità delle Piagge – Centro Sociale il Pozzo per tutto il finesettimana seguendo l’idea forza che anima questa edizione Se vuoi la Pace, prepara la Pace. Eirenefest Firenze Eirenefest Firenze eirenefest fiEirenefest Firenze Eirenefest Firenze Eirenefest Firenze, Dale artista Eirenefest Firenze Eirenefest Firenze Eirenefest Firenze Eirenefest Firenze, Dale Redazione Toscana
Marco Calabria, una traiettoria politica e di vita tra il ’77 e il manifesto
SCAFFALE. «GRIDARE, FARE, PENSARE MONDI NUOVI», UNA RACCOLTA DI ARTICOLI E INTERVISTE, PER ELEUTHERA. UN OMAGGIO AL GIORNALISTA E CRITICO SCOMPARSO IMPROVVISAMENTE LO SCORSO ANNO -------------------------------------------------------------------------------- Gridare, fare, pensare mondi nuovi è il titolo della raccolta di articoli e interviste di Marco Calabria, critico e giornalista di inchiesta sociale, scomparso all’improvviso l’anno scorso, dopo aver condotto la magnifica vita operosa del cronista globale che è stato viaggiatore a cavallo (in realtà amava la bicicletta) tra lo scorso e questo secolo. Marco Calabria è stato caporedattore al “manifesto”, creatore del settimanale “Carta”, uno dei punti di riferimento dei movimenti altermondialisti, continuato nell’esperienza forte del portale Comune-info.net, ed è stato poeta e artefice di riviste e iniziative importanti, “Ombre lunghe”, “Lunaria”, “Sbilanciamoci!”, sviluppate lungo l’idea dei cantieri sociali nel primo decennio di questi difficili anni duemila. Il punto di intersezione che ha individuato la sua posizione di vita si trova all’incrocio di due coordinate: la verticale biografica della generazione per la quale “il personale è politico”; e l’orizzontale, spaziale di movimento che è stata la superficie di esplorazione, di ricerca e di composizione di altri mondi in questo mondo. Questa superficie di lettura, di scrittura e di pratica sociale emerge dalle pagine della raccolta, curata per Eleuthera dai redattori di “Comune” Gianluca Carmosino e Riccardo Troisi, che ne hanno ripreso e sviluppato temi, immagini, idee e scritture, e prefata da Raùl Zibechi, con una selezione di articoli che dalla metà degli anni novanta arriva al 2023, attraversando i momenti topici dell’ultima storia politica delle resistenze, delle rivolte e delle rivendicazioni globali e locali contro il tempo del capitalismo. Sul portale se ne possono leggere altre prove, compreso l’inizio memorabile del suo lavoro. I due eventi che in qualche modo hanno avviato la passione di Marco Calabria sono stati il ’77 sul piazzale della “Sapienza”- Università di Roma, che ha formato la gloriosa generazione dei diciottenni che hanno cacciato il segretario della CGIL Luciano Lama, e il lavoro al “Manifesto”, unica, vera fucina di giornalismo con la G maiuscola, non replicabile, e pressoché irreperibile tra le testate attuali, dedite per lo più alla sedentarietà monotona e sintetica dei social. Il luogo bio-politico della generazione ’77 è il fuori-testo a partire dal quale si è dipanata l’intensa attività editoriale e di pensiero di Calabria. Dal ’77 provengono infatti gli influssi originali del suo lavoro: l’autonomia sociale, il femminismo anti-emancipatorio della differenza, il rifiuto del lavoro e della rappresentanza, lo sguardo essenziale sulla microfisica dei poteri, il sottoproletariato urbano rivoltoso e l’ironia dissacrante di un immaginario che, se pur in un breve spazio di tempo, ha realizzato i propri sogni, la rabbia salutare contro centralismi democratici e compromesso storico. Questo fenomenale universo, che ha attraversato gli anni della sconfitta e del disincanto, ha costituito il giornalismo come esperienza critica, come “giornalismo filosofico”, diceva Michel Foucault, uno degli intervistati nel volume che Calabria curò per il “manifesto”, con la magnifica prefazione di Rossana Rossanda. Quando una sera del 1982 il giovane redattore la incontra, Rossanda «dopo aver scambiato qualche frase su come quel che facevano potesse interessare i più giovani e quel che gli anni settanta avevano significato, chiese: “Sarebbe un gran peccato che questa nostra storia non interesserà più nessuno”…». (Le interviste, il manifesto e il mondo). In quel momento, si può immaginare che il lavoro di Marco Calabria assume il senso del giornalismo come passione politica, come sguardo di parte per la verità del mondo, contro le menzogne del potere. Questa pratica critica era per sé movimento, esodo dalla società del lavoro e dai dispositivi di disciplina, l’andare continuo e sperimentare modi, forme di vita, ricerche e materiali per la fuoriuscita dal capitalismo. “Bisogna muoversi di continuo” è stato il suo principio di vita, per sperimentare la nuova lingua dei movimenti sociali di fine secolo e inizi del terzo millennio. In questo cammino, che riconosciamo comune, ci sono Eduardo Galeano, Toni Negri, Franco “Bifo” Berardi, Gustavo Esteva, il subcomandante Marcos, il Chiapas e il sudamerica, cioè una delle parti potenti dell’intelletto collettivo che continua a fare storia del presente. Di questa storia avrebbero fatto segno le traduzioni del testo di John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere, sintesi della pratica dei movimenti altermondialisti sull’esempio zapatista e di Disperdere il potere, del teorico e cronachista dei “sottoscala” del mondo, Ràul Zibechi. Nella prefazione scrive che Marco “era parte di quell’altro mondo che non solo sognava, ma di cui sentiva i battiti”, perché forse, come Walter Benjamin, era anche lui un poeta dell’inappariscente. Questa compresenza biografico-politica proviene a sua volta dal pacifismo anarchico di Danilo Dolci che diede una definizione di “dominio” come agente infestante i territori psico-sociali più che i luoghi simbolici del potere. Della lezione di Dolci, Calabria assumeva l’orientamento: evitare di intendere il dominio come il grande Moloch, come lo stato-Leviatano; piuttosto avvertirlo nella dispersione dei rapporti di potere che investono diversi strati delle società e attraversano la soggettività. Quella di Calabria era un’identità in transito, come egli stesso ha definito la vicenda biografica di Carolina Meloni Gonzales, filosofa politica femminista, in esilio dal golpe in Argentina, autrice di Transterrados. Questo è lo spazio politico in cui Calabria ha “fatto” movimento, cioè ha perseguito la pratica del comune che ha animato l’informazione indipendente tra Genova 2001 e l’invasione dell’Iraq (2003). Il settimanale “Carta” viene da là, dall’invenzione di località globali che hanno connesso moltitudini e territori. In un testo del 2012, molto teorico e non astratto, Senza dominio, leggiamo che per sottrarsi alla servitù volontaria oltre all’immaginazione serve restare in silenzio anche per lunghi periodi per imparare ad ascoltare. Togliere parole. Vivere senza dominio non significa reprimere un istinto, ma anzi, aggiungiamo, portarlo all’estremo quando si avverte la cattura e farlo diventare intelligente quando si pensa di essere liberi. Leggendo il libro si cammina domandando come ha insegnato lo zapatismo, ed è sulla superficie del mondo da viaggiare, soprattutto per contrastarne la turistizzazione, che si fa tappa sulla storia recente delle insorgenze che sono “dentro e contro”, ma per andare fuori e lontano, per disertare – ultima prova in vita del mondo in rovina. Nella raccolta ci sono le testimonianze dirette di rivendicazioni e conflitti che sono lotte per la sopravvivenza, comunque animate dalla speranza che è fragile, discontinua e disarmata. La prima guerra di Bosnia, Taranto e la morte per ILVA, le operazioni sporche del Plan Colombia in Honduras, le lotte campesine, le prime rivolte popolari per l’acqua e le inchieste sugli spazi sociali a Roma sono i capitoli della raccolta che riepiloga l’epoca dei movimenti restituendo centralità alle periferie prima che la ferocia euroatlantica suscitasse le ibride alleanze dell’ex-sud del mondo. C’è inoltre la testimonianza più efficace della guerra ai migranti, combattuta agli inizi degli anni ottanta con la Rete antirazzista e che bisogna confrontare con gli ultimi rapporti sull’accoglienza. Nell’Introduzione al Rapporto del 2020 (“Benvenuti ovunque”) leggiamo la differenza tra le migrazioni viste allora come problema di accoglienza e la guerra attuale alle e ai migranti, affondati, respinti e deportati, – bersagli del razzismo di stato e dell’ossessione identitaria, dispositivo di sicurezza applicato all’intera popolazione. Calabria aveva un’attenzione speciale per i bambini, le scuole, le classi, quelle nei quartieri considerati “disagiati” e in cui invece c’è la maggiore ricchezza psico-sociale non catturata. Si può supporre cosa avrebbe scritto delle ridicole avvilenti “riforme” del ministero dell’Istruzione e Merito. Ma preferiamo prevedere come si faceva nel ’77 che “un risotto li sommergerà”. Perché comunque essere scelti per l’esilio sull’esempio della grande filosofa Maria Zambrano, apre molteplici divenire: essere nomadi, essere leggeri, essere particelle, essere impercettibili e fare l’amore come l’ape e l’orchidea. -------------------------------------------------------------------------------- Una versione ridotta è apparsa su il manifesto (che ringraziamo) del 23 settembre 2025. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Marco Calabria, una traiettoria politica e di vita tra il ’77 e il manifesto proviene da Comune-info.