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Cronache, libri, disegni e reportages - Napoli

L’eco dei fiori sommersi, stasera al Modernissimo. Intervista a Rosa Maietta
(disegno di manincuore) L’occasione per questo articolo è duplice: per un verso il desiderio di chi scrive di “stare” su Napoli coi suoi artisti e le sue contraddizioni, le sue “novità” e le sue puntuali bruttezze; per altro verso la proiezione del film L’eco dei fiori sommersi al Modernissimo il 5 dicembre alle ore 21; proiezione inattesa per quanto è difficile trovare un film “piccolo” al cinema, un film auto-distribuito e aggiungerei femminista. Si parla poco della lotta politica che si gioca sulla distribuzione: perché il cinema resta l’arte delle masse e se è preclusa la possibilità di vedere buoni film tutto è perduto. Ho conosciuto Rosa Maietta durante la lavorazione del film Gli ultimi giorni dell’umanità di Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo. Lei lavorava sul mitico e irraggiungibile (per me) archivio-fiume di Ghezzi, e questo me la rendeva già simpatica in via pregiudiziale. In seguito, l’ho incontrata innumerevoli volte alle rassegne indipendenti che si tengono a Napoli, nei soliti quattro o cinque spazi dove si può vedere qualcosa di diverso dal cinemino italiano borghese e fasullo. Siamo diventati amici, e grazie a lei ho scoperto Julio Bressane e soprattutto Radu Jude, che per me è il Godard del nostro tempo. Lei vive a Napoli, ha studiato lettere, è cinefila e viene da Benevento. Incredibilmente siamo nati lo stesso giorno, lei però nel 1990.  L’eco dei fiori sommersi è il suo primo lungometraggio. Partendo dall’idea di un documentario sull’Archivio di Stato di Napoli, è diventato un film con tutti i crismi, scritto e messo in scena a partire da storie vere contenute nei faldoni dimenticati tra i corridoi dell’Archivio. Prendono così vita, in forma poetica e politica, vicende realmente accadute nei decenni e secoli scorsi. Sono storie di donne, e accanto a vicende atroci (stupri, aborti clandestini, amori fatti a pezzi dalla guerra) è sempre riflessa la voglia e il desiderio di liberazione dai nemici di sempre, il sistema patriarcale e quello capitalistico. Il documentario ha una durata breve, 67 minuti. Colpisce la ricchezza di soluzioni stilistiche che adotta, dovuta probabilmente sia all’abilità al montaggio della regista – che nasce come montatrice –, sia al desiderio di utilizzare al massimo le possibilità del mezzo. Si va dal registro simbolico a quello teatrale, dal realismo tipico del documentario all’inserto d’animazione, fino all’utilizzo con parsimonia di materiale d’archivio. Piuttosto ricercata la scrittura; paradosso, poiché essa deriva quasi integralmente dalla lingua burocratica utilizzata nelle carte processuali. Questo tessuto plurilinguistico e i continui shock a cui assistiamo sono la forza straniante e felice del film. Il gergo asettico della macchina della giustizia, che tutto può e a cui tutti si sottomettono, viene messo in discussione dal film, attraverso l’esplosione soggettiva delle protagoniste, i fiori sommersi che riemergono in una sorta di giudizio universale. Loro, queste donne, ci dicono “come sono andate veramente le cose”, non attraverso una contro argomentazione logico-giuridica, ma coi corpi e con la voce, luoghi privilegiati della verità e della testimonianza. Per queste ragioni mi sembra un film importante. Ho conversato con Rosa Maietta sul film a fine luglio. Sintetizzo qui alcune delle mie domande e delle sue risposte, poiché la conversazione è durata più di due ore. Perché hai scelto l’Archivio? In realtà è un film d’occasione. L’Archivio di Stato, per aprirsi a un pubblico non di soli specialisti, cercava una rappresentazione cinematografica. Mi è arrivata la proposta e l’ho accettata. Volevo evitare un documentario basico, fatto di interviste e immagini “neutre”. Ho allora cominciato a frequentare l’archivio, e ho notato che ci lavoravano soprattutto donne. Le ho conosciute, loro mi hanno fatto scoprire quelle storie che poi ho portato nel film. Loro stesse sono nel film. L’operazione poetica di portare al cinema il contenuto dei faldoni è inusuale. Qual è stato il processo creativo? Volevo evitare di fare un film su una storia, o su più storie. Ho cercato di dare una certa circolarità al racconto, a mo’ di cantastorie. Insomma, non una singola storia ma la storia collettiva per le donne. Ho voluto far emergere l’emozione (il dolore, la passione) che sta dietro quel brutto e inavvicinabile linguaggio della burocrazia processuale, linguaggio perfettamente consono alla struttura patriarcale della giustizia e del mondo. Per questo, giocando sul contrasto, uso luci calde e recitazione forte di contro a questa fredda lingua del Potere. Nel film avverto un eccellente lavoro di scrittura. Negli ultimi anni abbiamo però assistito al desiderio di liberarsi della scrittura, a un certo sperimentalismo visivo nel cinema indipendente. Tu cosa ne pensi? L’attenzione alla scrittura oggi mi sembra un modo più democratico e meno elitario di fare cinema. Quindi sì, ho fatto un enorme lavoro di scrittura. Passavo le giornate all’archivio a leggere storie, a parlare con le archiviste, anche in maniera terapeutica, per dimenticare la perdita di mio padre. La scrittura è un momento decisivo e facilita la relazione col pubblico. Qual è la differenza tra il tuo lavoro e un documentario standard? Penso che il cinema venga definito Settima Arte non a caso. Abbiamo un privilegio e anche una responsabilità con quello che facciamo. Ho provato a lavorare sul film in quanto pezzo unico, perché non volevo che un singolo procedimento formale, come la colonna sonora o frammenti simbolici, prevalessero sul resto e diventassero tappabuchi o toppe. In questo senso, non volevo abusare di materiale d’archivio anche per avere rispetto di quello che andavo a utilizzare e manipolare. Cosa ti domanda il pubblico? Resta più su questioni di stile, o sul perché hai fatto il film, cosa volevi dire? Entrambe le cose. Il pubblico è una parte del film, quando si gira si pensa a quale pubblico è indirizzato, nei limiti del possibile. Dove è stato proiettato il tuo film? Come sta girando? Il film lo sto distribuendo io, lo invio assieme alla produzione ai festival e organizzo le proiezioni in Italia e all’estero. Ovviamente circola in modo del tutto peculiare: collettivi femministi interessati (come Non Una Di Meno a Cagliari), amici e amiche via passaparola, e anche l’accademia, nell’insospettabile sezione degli storici, poiché è uno dei pochi lavori cinematografici sugli archivi. Poi ci sono i festival in Italia e all’estero. Mi piace presentarlo in presenza, vedere il pubblico e confrontarmici. Lotto, insomma, per il mio film. A Napoli manca comunicazione tra registi, mi capita di parlare di questo problema anche con altri tuoi colleghi. I registi dovrebbero frequentare di più i festival, guardare i film degli altri. Questo non lo fanno, e così c’è poco scambio. Con le ultime vicende politiche, e la riduzione dei fondi alla cultura, mi è capitato di partecipare alle assemblee dei lavoratori precari dello spettacolo, dove nessuno parla di cinema. È assurdo! Napoli è una città senza scambio, io parlo di cinema con te e pochissime altre persone. Proveremo a portare avanti pratiche per metterci insieme. Vedremo… (salvatore iervolino)
Un ricordo di Enrico Pugliese
(disegno di cyop&kaf) Enrico Pugliese ci ha lasciati la scorsa settimana. Oggi sarà ricordato alle 11:30 alla Sala della Promoteca del Campidoglio. Anche noi vogliamo ricordarlo, riproponendo questo articolo da lui pubblicato sul Manifesto esattamente trent’anni fa, nel dicembre 1995, in un periodo molto delicato, nel pieno della discussione politica su una possibile sanatoria e di una mobilitazione dai tratti chiaramente razzisti incentrata sul legame tra immigrazione e criminalità che iniziava a sfondare anche a sinistra. Leggendolo si possono ritrovare tutte le tracce che hanno fatto di Enrico una figura radicale e autorevole, capace di coniugare attività scientifica e impegno militante senza fare sconti a nessuno. Formatosi alla scuola di Portici, sociologo inizialmente concentrato soprattutto sugli studi sul mercato del lavoro, l’agricoltura e l’emigrazione, ha poi allargato molto le attività, avviando cantieri di ricerca sulle politiche sociali, sulle trasformazioni del mondo produttivo, sull’immigrazione straniera, che ha letteralmente “scoperto”, tra i primissimi, già alla fine degli anni Settanta. Pugliese è stato negli anni Settanta tra i fondatori del Centro di coordinamento campano, con Fabrizia Ramondino e Giovanni Mottura, ha sostenuto le lotte dei disoccupati, ha contribuito ad avviare negli anni Novanta un ciclo dirompente di mobilitazione antirazzista, culminato nel 1995 nella nascita della Rete antirazzista nazionale. *     *     * Strano paese, l’Italia. Sembra passata una vita dall’ossessione della grande stampa per la criminalità degli immigrati, mentre è passato sì e no un mese. Ora l’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa si è spostata – e ringraziamo la Madonna – sulle difficoltà di vita degli immigrati e sull’irrazionalità di molte norme del decreto sull’immigrazione. Gli stessi giornali che ora riportano interviste sul decreto e sui suoi difetti, prima pareva non vedessero altro che prostituzione e sporcizia. Al martellare continuo sulle nefandezze di spacciatori e lenoni neri (esistenti o immaginari, poco importa) si è sostituita la pietà e la commozione per la bambina rom alla quale un qualche buon padre di famiglia ha deciso di spaccare le braccia. Le brave persone che a Torino fiaccolavano contro la criminalità straniera saranno state finalmente contente: qualcuno ha avuto il coraggio di usare le maniere forti. Non bisogna dimenticare infatti che la bambina poco prima di essere massacrata aveva – pare – tentato un furto. C’era stata – pare – flagranza. Roba da espulsione, se straniera. Una buona lezione da piccoli insegna a vivere. O no? Pensiero debole e maniere forti: ci voleva poco a capire che quell’insistere continuo sulla criminalità degli stranieri come se fosse l’unica questione di rilievo nelle grandi città italiane avrebbe favorito un orientamento contrario agli immigrati in quanto tali. I compagni pidiessini e gli intellettuali non-di-destra che andavano a fiaccolare avrebbero potuto fare un qualche pensiero sul come le loro iniziative avrebbero favorito un’immagine falsata e negativa degli immigrati. In quei giorni si andava determinando in Italia l’identità immigrato=criminale. Naturalmente non mancavano i distinguo basati soprattutto sulla fondamentale distinzione sociologica tra buoni e cattivi. E i fiaccolatori di Torino o gli opinionisti di Repubblica se la prendevano – per carità – solo con i secondi. Ma questi diventavano sempre di più; i buoni si riducevano a un’astrazione. Quando poi si propose di considerare crimine anche la condizione di clandestinità si raggiunse il colmo. Questo avveniva ieri. Le cose sono cambiate con velocità impressionante. Ho ancora nelle orecchie la lettura mattutina su Rai Tre dell’articolo di Gianni Vattimo, credo sulla Stampa, con l’irritante racconto delle sue emozioni di fiaccolatore. E l’orrore di quei giorni non è certo passato. Ma devo dire – non per raccontare anch’io le mie emozioni – che avverto una nuova fiducia e una nuova speranza. GENTE CHE LAVORA È come se d’improvviso in Italia ci si fosse resi conto di un fatto ovvio ed evidente: cioè del fatto che, innanzitutto, gli immigrati sono gente che lavora. Anzi, gente che lavora molto e guadagna poco; gente che non fa parte di eserciti della camorra (la quale dispone di ben altre truppe). Comincia a farsi strada sulla stampa e anche nel senso comune un fatto che pareva dimenticato nei mesi scorsi: cioè che le immigrate non fanno in generale le prostitute (come sembrava dall’Espresso e da Panorama), bensì semplicemente le donne, le lavoratrici, le madri di famiglia, le figlie, le scolare ecc. La stampa e il senso comune sembrano aver scoperto che quasi mai gli immigrati riescono a godere dei diritti (pochi) che le leggi dello stato stabiliscono per loro. Insomma, sembra che stia cambiando l’aria. Lo so, sembra. E il clima delle istituzioni non è certo dei migliori: il voto del Senato (Pds compreso) sulla costituzionalità dell’articolo 7 non è certo un buon segno. Ma c’è qualcosa di meno greve nell’umore della gente. Torino avrà pure avuto le fiaccolate dei giannivattimi e le ronde dei mazzieri. Ma ha avuto anche la manifestazione del 19. E a Firenze il sindaco Primicerio è sceso in piazza non contro gli immigrati, ma per i loro diritti. Questo abominevole decreto, poi, è esso stesso pieno di contraddizioni. E di questo ha mostrato di rendersi progressivamente conto la grande stampa, compresa – anche se più tardivamente – l’Unità. La penosa difesa d’ufficio del decreto da parte del Pds e del suo giornale sta mutandosi in un dibattito più o meno pubblico sulla questione, nonostante il voto al Senato. La situazione è in movimento e la matassa è difficile da sbrogliare. SCAMBIO TRA DIRITTI Per capire qualcosa anche sul possibile futuro del decreto è bene forse partire dalla sua storia. Esso doveva nascere come intervento punitivo contro gli immigrati criminali, sulla base delle sollecitazioni dei fiaccolatori di Torino e loro alleati. Poi qualcosa è cominciato a muoversi nella società e nella politica. Non sappiamo la “storia nascosta” del decreto. Ma è come se a un certo punto fossero entrate in gioco una serie di pressioni, anche progressiste e solidaristiche, e come se alla fine si fosse determinata una sorta di scambio tra area dei diritti e dei principi costituzionali e area dei diritti sociali: insomma, “uno scambio tra espulsioni e regolarizzazioni”. Non è certo una bella cosa, e d’altronde tutto questo è un po’ fantapolitica. Ma la mostruosità economico-giuridico-sociale del decreto, e la sua contraddittorietà – cioè il suo carattere “benevolo” su qualche punto (si pensi all’articolo sulla sanità) e al contempo lepenista oltre ogni limite su altri – mostra che il suo estensore – vorrei conoscere la sua faccia – ha dovuto contentare molti partiti, molti gruppi di pressione, molti umori. Ci sono poi i “si dice”, che come tutti i “si dice” vanno presi con le pinze, ma non tutti sono improbabili. Per esempio pare che la Lega sia riuscita a far cancellare un articolo relativo alla regolarizzazione dei lavoratori autonomi (questione essenziale, soprattutto nel sud). Se non è vero, c’è stata una distrazione imperdonabile del “legislatore”, il quale ha lasciato fuori una parte significativa degli interessati. Se invece è vero, si è trattato di un episodio di indubbio squallore. SCHIZOFRENIE ANTISANATORIA Passiamo al lato positivo. Devo riconoscere innanzitutto che non mi aspettavo una apertura sul tema della regolarizzazione. La regolarizzazione è un’operazione di buon senso necessaria anche dal punto di vista della legge e dell’ordine. E quelli che sono contrari – il partito antisanatoria – sono a mio avviso un po’ schizofrenici: da un lato tendono a raccontare un’improbabile avvenuta invasione di oltre un milione di clandestini; dall’altro sostengono che l’immigrazione clandestina è essa stessa crimine da punire, per cui non resta che la deportazione di massa. E vorrei vedere come si fa: manco la Bosnia! Tuttavia su questo aspetto la chiusura in passato era netta. Non entro nel merito delle espulsioni e della loro incostituzionalità (oltre che ingiustizia). Il voto del Senato è un punto a svantaggio della civiltà, ma ancora ci sono la Corte costituzionale e altre istanze. Trovo ora importante la questione della regolarizzazione e delle impossibili condizioni richieste per ottenerle. Qui la contraddittorietà del decreto è sublime. In primo luogo non è chiarito quanto tempo sia stato necessario lavorare presso un padrone per aver diritto alla regolarizzazione come lavoratore dipendente. In generale, sembra difficile che, allo stato, possano regolarizzarsi la maggior parte dei lavoratori immigrati occupati al nero in attività precarie. Si dice che le regolarizzazioni non devono incentivare il lavoro nero. Ma è proprio questo il punto: solo permettendo al lavoratore occupato al nero di regolarizzarsi gli si concede anche la possibilità di difendere i propri diritti sul lavoro. E qui entra l’altra questione veramente irritante, quella del risparmio. La penalità finanziaria prevista riguarda tutti, anche quelli con un lavoro stabile. L’ineffabile “legislatore” deve aver subìto pressioni diverse. Per esempio è entrato in campo il partito del risparmio. Non so quali malaccorti consiglieri hanno suggerito di far spendere ai datori di lavoro quelle cifre per regolarizzare i propri dipendenti. Sei mesi di contributi arretrati sono davvero un’enormità. Una punitività del genere, in un’occasione volta peraltro a fare emergere il lavoro nero, non si era davvero mai vista. Non sono storie quelle che si raccontano su datori di lavoro che licenziano i loro dipendenti per non regolarizzarli. Idea davvero disumana è stata quella di far pagar caro un doveroso atto di civiltà qual è quello di ufficializzare rapporti di lavoro già al nero. L’idea di imporre un costo finanziario così grave non è stata solo crudele: è stata anche stupida. In questo modo l’Inps non incasserà i soldi degli immigrati e dei loro datori di lavoro, giacché rischia di esserci lo sciopero dei padroni che impedirà le regolarizzazioni. A volte però questi sono brave persone (o delle brave famiglie nel caso delle colf) che non hanno potuto in passato regolarizzare la posizione dei propri dipendenti a causa della chiusura delle norme finora vigenti. Insomma, il furbacchione che molto voleva far avere all’Inps rischia di non fargli avere nulla. E poi, proprio sugli immigrati bisognava andare a risparmiare? Si è trattato, secondo me, di una miscela di rigorismo, crudeltà e scarsa conoscenza del problema espressa trasversalmente da gentiluomini di varia fede. Queste cose le sanno bene gli immigrati che si stanno mobilitando dappertutto in Italia. Essi capiscono come il decreto funzionerà (e ovviamente che implicazioni avrà per la loro vita) ben più di chi lo ha stilato. Dai tempi della legge Martelli non si vedevano tante mobilitazioni con contenuti concreti e con grande scambio di informazioni. Dopo gli anni della crisi dell’associazionismo, si vedono di nuovo insieme immigrati di varie nazionalità discutere all’interno dei loro gruppi e con gli altri. Le sedi sindacali vedono assemblee affollate di immigrati e personale competente (volontari, avvocati). OBIETTIVI PRIORITARI Insomma, si è venuto formando un movimento con l’obiettivo che il decreto faccia il minor male possibile. Ora, affinché questo obiettivo venga in qualche modo raggiunto, credo che ci si debba mobilitare secondo due direzioni prioritarie. La prima riguarda i criteri di attuazione del decreto nel periodo in cui resterà in vigore, quindi già da oggi. A questo proposito c’è molto da fare e molto si sta facendo. Bisogna controllare che non vengano date interpretazioni restrittive sia per quel che riguarda le regolarizzazioni che per quel che riguarda i ricongiungimenti familiari o le forme di assunzione dei lavoratori. L’altra direzione è la mobilitazione contro il decreto così come è ora affinché lo si possa cambiare con pochi e mirati emendamenti. La messa in luce delle incongruenze e della estrema selettività del decreto deve servire a questo scopo. Il decreto decadrà molto probabilmente, a prescindere dalle mobilitazioni, per i motivi tradizionali per cui i decreti, almeno quelli importanti, spesso decadono. Bisogna però evitare che esso venga reiterato nella sua forma originaria. Bisogna approfittare di questo periodo di parziale rinsavimento dell’opinione pubblica e di forte impegno dei gruppi di pressione in materia di immigrazione perché quel mostro che è ora il decreto diventi qualcosa di più organico. Bisogna innanzitutto che l’obiettivo della regolarizzazione non venga vanificato, come ora, da norme e vincoli che lo rendono impraticabile. Per quel che riguarda gli immigrati il clima è leggermente migliorato nelle ultime settimane. Essi non godono più tanto di pessima stampa. Non sappiamo quanto questo nuovo clima possa durare. Tuttavia questa mi sembra una buona occasione per darsi da fare.
Terzo settore e turismo. L’impresa del bene, oggi a Bologna
(l’impresa del bene. terzo settore e turismo a napoli) Sarà presentato mercoledì 3 dicembre a partire dalle 19:30, al Centro sociale della pace di Bologna (via del Pratello, 53), L’imprea del bene. Terzo settore e turismo a Napoli, di Luca Rossomando. Alla presentazione, che si svolgerà nell’ambito del ciclo di incontri “Le mani su Bologna”, interverrà l’autore, insieme ad attivisti e sindacalisti protagonisti di battaglie contro la privatizzazione dei servizi pubblici nel capoluogo emiliano. Dell’Impresa del bene abbiamo pubblicato qui un estratto. In questa pagina trovate invece i link ad alcune recensioni e/o riflessioni scaturite dalla lettura del volume.
Lo specchio dei tempi. Sulle reazioni all’irruzione a La Stampa di Torino
(disegno di martina di gennaro) È fecondo configurare l’attualità come storia contemporanea. In merito all’irruzione presso la redazione de La Stampa di Torino di venerdì 28 novembre, lo storico contemporaneo dovrebbe studiare la reazione mediatica, e spettacolare, che si è scatenata, e chiedersi perché in modo così unanime e accorato istituzioni, politici, intellettuali e organizzazioni di questo paese hanno condannato l’evento. Qual è l’origine materiale di un discorso tanto compatto, in apparenza inscalfibile? Il primo dicembre nelle pagine nazionali de La Stampa compare un articolo intitolato: “Stampa città aperta”. Si riportano le visite in solidarietà alla redazione e le dichiarazioni rilasciate per l’occasione. Appaiono l’editore Elkann, il presidente della regione Piemonte, un deputato del Pd, un ministro del governo; è annunciata la venuta del ministro della cultura e, forse, di Elly Schlein. Il sindaco della Città s’era già presentato in visita. Uno sguardo storico deve allora individuare le relazioni concrete fra un centro di emanazione dei discorsi e le classi dirigenti. E da qui discende una possibile mappatura delle forme del potere e della loro riproduzione simbolica. Ecco un esempio, forse marginale eppure peculiare. Una delle prime reazioni è stata quella di Jacopo Rosatelli, assessore alle politiche sociali della Città e membro di Sinistra Ecologista, la costola di Avs a Torino. Lo stesso venerdì pomeriggio dalle colonne blu di Facebook scriveva l’assessore: “Nel giorno in cui le e i giornalisti scioperano, un vile attacco squadrista colpisce la redazione de La Stampa. Nulla può giustificare questa violenza. Solidarietà al quotidiano e a tutta la comunità professionale dell’informazione torinese”. Durante il mandato di Rosatelli sono stati sgomberati i baraccati di piazza d’Armi e senza garantire degne soluzioni abitative. Di recente sono state create “zone a vigilanza rafforzata” per sottoporre a controlli di polizia persone potenzialmente destinate al Cpr e si è condotta una repressione sistematica di uomini senza dimora che vendono pochi oggetti in strada. Ancora, si è portata avanti una campagna di sgombero di famiglie occupanti di case Atc senza offrire soluzioni alternative e spesso lasciando in strada donne e bambini. In merito a questa violenza urbana contro poveri e subalterni La Stampa, come tutto il giornalismo cittadino, è silente o compiacente. Per quale ragione? Come spiegare il silenzio? Lo sgombero di piazza d’Armi avvenne per permettere il sereno svolgimento di Eurovision. Accanto alle zone a vigilanza rafforzata sorgono aree interessate da interventi di speculazione immobiliare, i presìdi di polizia riguardano spesso i distretti aperti ai sogni turistici e gli isolati pronti ad accogliere la nuova linea della metropolitana. E dopo la stagione di sgomberi degli alloggi occupati è recente la notizia della possibilità di privatizzare alcune unità delle case popolari torinesi. Qui lo storico può intravedere le connessioni tra istituzioni, poteri economici e funzionari della diffusione dell’informazione. Abbiamo in passato analizzato stile e contenuti del giornalismo torinese e di certo dovremo trovare il modo di persistere con più continuità e ostinazione. Ora ricordiamo le parole vivissime che Goffredo Fofi scriveva a proposito del quotidiano torinese. Era il 1964 e il libro – straordinario – è L’immigrazione meridionale a Torino. (redazione monitor) *     *     * Il monopolio a Torino ha costruito una sua catena d’influenza economica e politica, esercitata attraverso il controllo diretto o indiretto della vita pubblica. Questa influenza è determinante anche e specialmente all’interno della fabbrica, dove l’operaio è compresso e asservito da una politica paternalistica, e allo stesso tempo non meno oppressiva: da una parte la possibilità di arrivare al frigorifero, alla 600, alla televisione, e all’appartamento; dall’altra un progresso tecnologico che impone massacranti ritmi di lavoro e un comportamento da macchina, la impossibilità di processi di avanzamento nella qualifica al tempo stesso in cui cambia la mansione e il tipo di lavoro in conseguenza del processo tecnologico, l’impossibilità di un “rapporto tra la forza-lavoro incorporata nelle merci prodotte e l’ammontare delle paghe”. Al di fuori, essa si esercita innanzitutto con uno strumento formidabile di formazione e controllo dell’opinione pubblica, La Stampa. Il giornale della Fiat ha infatti un’influenza determinante nella vita e nelle opinioni dei torinesi. Esso sbandiera un antifascismo sterile e di ricordi, e una politica di “riforme sociali”, propone un paternalismo “illuminato” avallato anche sul piano nazionale grazie alle firme di rispettabili nomi della cultura e dell’antifascismo italiani, e sul piano torinese, con la seconda pagina e “Lo specchio dei tempi”, indirizza l’opinione pubblica su binari ben precisi. In essa trovano posto le “inchieste” e le “denunce” interessate (il costo della vita, le case che mancano e che lo Stato dovrebbe finanziare, e così via), le cronache della Torino-bene e dei suoi eroi con le loro mensili “opere buone”, i preti e gli assi della Juventus, la cronaca delle disgrazie, degli incidenti (narrati, sempre, in stile “Cuore”), i fattacci degli immigrati (con appariscenti titoli: “calabrese ruba…”, “meridionale uccide…”, “siciliano rapisce…”) ed infine le buone azioni quotidiane. Il tono è dato pur sempre dallo “Specchio dei tempi”. Questa rubrica epistolare, che si dice sia personalmente supervisionata dal direttore del giornale, è più una guida che uno specchio della pubblica opinione. In essa trovano posto regolarmente le recriminazioni antimeridionali, il patriottismo più vecchio (specialmente in occasione delle infinite rievocazioni risorgimentali), un’incredibile dose di richiami al “buon senso”, le piccole proteste (della vecchietta sui tranvieri scortesi, ad esempio, ma anche di Togliatti sugli chalet scomparsi dalla Valle d’Aosta o su “l’amore del prossimo”), e infine i “casi pietosi”. La soluzione miracolistica dei problemi più gravi, attraverso la sottoscrizione del “caro Specchio”, serve a contrabbandare il più vecchio dei paternalismi. Ma gli esempi più chiari sono sempre dati dalle lettere, accuratamente scelte e presentate con appropriati titoletti, che riguardano gli operai. L’esaltazione sfacciata del crumiro, condotta durante gli scioperi Fiat (e nella pagina di fronte, si trovava l’articolo di qualche noto scrittore o intellettuale di sinistra) col ricorso al patetico familiare o a quello della “libertà da difendere”; l’appoggio “fraterno” agli operai delle piccole fabbriche come ai tessili della valle di Susa, che guadagnano così poco, e che serve a ricordare agli operai Fiat la loro “condizione di privilegio”; la richiesta di un’automobile che un impiegato Fiat fa allo “Specchio” e che serve di pretesto per stimolare dozzine e dozzine di lettere che lo accuseranno di non volersi accontentare e lo inviteranno a ringraziare il cielo e Valletta del suo stato di privilegio – tutto questo mira al mantenimento di un clima di subordinazione passiva e addormentamento delle coscienze, mira alla conservazione di una Torino che si vorrebbe tranquillamente sottomessa e che non pensi da sé, ma si lasci guidare, accontentandosi di sentirsi blandita ed esaltata per il suo “buon senso”, le sue “tradizioni di civismo” e la sua “operosità”. Per gli immigrati il discorso viene ripetuto fino alla ossessione, alla nausea: la Torino dal buon cuore che li accoglie, nonostante i loro difetti e i loro demeriti, chiede delle condizioni. Si dice insomma, e con il tono del padrone: siete sporchi e incivili, sfaticati e violenti, analfabeti e disonesti, ma noi – così bravi! – vi lasciamo venire… ma, attenzione!, c’è un patto da seguire: dovete cioè diventare come noi vi diciamo, come il bravo torinese medio, il buon operaio o impiegato che non dà fastidio, il cittadino gentilmente egoista. Dovete “adattarvi” e adeguarvi: adattamento è una parola che si legge con estrema frequenza sulle pagine de “La Stampa” e si sente nelle relazioni e nei discorsi ufficiali sull’immigrazione, come nelle chiacchiere del tram o dell’osteria. I sociologi e gli psicologi – di fabbrica o no – ne fanno poi un uso superlativo, premurandosi tutt’al più di mascherare il concetto con il termine più intelligente di “integrazione”, ma intendendovi esattamente le stesse cose: tutta la tematica dell’immigrazione si riduce per loro, in fondo, a questo. Adattarsi vuol dire dunque inserirsi in uno stato di fatto accettandone in pieno le regole, non provocando scosse, non protestando per la propria condizione inferiore, seguendo i modelli offerti da chi comanda.
Rewind Roma, novembre 2025 # Case agli italiani, beni pubblici ai fondi immobiliari
(disegno di peppe cerillo) Celebrazioni ovunque per il 2 novembre, cinquantenario dell’omicidio di Pasolini a Ostia. Un’associazione dell’Idroscalo – il quartiere autocostruito a pochi passi dal luogo dell’omicidio – ricrea la partita del ’75 interrotta allora, e convoca gli “Stati generali dell’Idroscalo” per discutere del futuro della zona. Il 3 crolla un pezzo della Torre dei Conti tra via Cavour e Fori Imperiali, uccidendo un operaio romeno sessantaseienne, Octay Stroici, rimasto intrappolato per undici ore sotto le macerie. La sera una dozzina di neofascisti fa irruzione al liceo Righi occupato, con caschi, bottiglie e canti per Mussolini. Il 4 il presidente del municipio V chiede la fine degli sgomberi al Quarticciolo. Presidio davanti al ministero della pubblica istruzione contro la censura nelle scuole e nelle università. Di nuovo un gruppo di fascisti tenta di attaccare il Righi ma viene respinto. Il 5 sgomberi a Cinecittà, in via Eudo Giulioli, “palazzi occupati dai latinos” secondo la stampa. Di notte ancora un attacco di neofascisti, al liceo Aristofane occupato. Il 6 arriva a Roma il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen, per incontrare il papa e il presidente della repubblica. Stretta di mano con Mattarella, che continua a inviare armi per massacrare i palestinesi. Il sindaco riceve Robert De Niro, a cui consegna un’onorificenza, la Lupa capitolina. Poi presenta un “rapporto alla città” che sostanzialmente dice che va tutto a gonfie vele. Il 7 gli studenti del Righi manifestano contro le aggressioni fasciste subite durante l’occupazione. Domenica 9 manifestazione a Fiumicino contro la costruzione del Porto Turistico della Royal Caribbean. Il 10 il sindaco annuncia l’accordo con Hines, una delle più grandi società di investimento immobiliare al mondo, per cedere i Mercati Generali sull’Ostiense e farne uno studentato di lusso. Il 12 nuovi sgomberi a Cinecittà-Don Bosco: gli appartamenti ex tutelati saranno ceduti al Fondo Scoiattolo. Siccome sono latinos, gli occupanti sgomberati non avranno nulla. Blitz antidroga su via dell’Idroscalo. Il 13 un trentenne di Torbellamonaca muore al San Filippo Neri, forse per un sedativo somministrato dopo un incidente: i parenti protestano davanti all’ospedale. Il 14 la Regione Lazio scrive al comune di Roma ribadendo che il bosco di Pietralata è vincolato, pertanto gli scavi archeologici per lo stadio non possono avere luogo, nonostante gli annunci pubblici. Il 15 grande assemblea dell’“esercito di terra” per la Palestina alla Sapienza. Al ministero del Made in Italy un assessore scivola sulle scale e distrugge una vetrata artistica made in Italy. Il 16 notte tre ladri sfondano la vetrina di Louis Vuitton a via Condotti e scappano con migliaia di euro di bottino. Fratelli d’Italia convoca una protesta in automobile contro le piste ciclabili, ma il corteo non parte perché c’era troppo traffico. Le auto rimangono bloccate all’Eur, dove erano state convocate. Il 17 il Comune nomina “sindaco per un giorno” l’attore Carlo Verdone per il suo settantacinquesimo compleanno. Il 18 il governo approva la creazione di una Zona Logistica Semplificata nel Lazio, cioè sgravi fiscali per le imprese. A Villa Gordiani un gruppo di una quarantina di persone capeggiate da Forza Nuova cerca di impedire l’accesso a una casa popolare a degli assegnatari regolari, rifugiati dei Balcani, perché rom. Il 19 un compratore anonimo acquista un attico di duecentottanta metri quadri a piazza di Spagna, pagandolo sedici milioni di euro, la compravendita più costosa mai realizzata a Roma. Il 21 inizia il convegno “About a city”, in affidamento diretto alla Fondazione Feltrinelli per sessantamila euro. La giunta approva una memoria perché le librerie possano prendersi pezzi di strada e di marciapiede per vendere cibo e bevande. Intanto il Consiglio di Stato annulla la proibizione delle smartbox dei bnb e l’identificazione a distanza, approvate dopo le azioni del gruppo Robin Hood. Il 22 grande corteo di “Non una di meno” da piazza Repubblica contro la violenza di genere. Il 23 davanti alla stazione Lido Centro a Ostia c’è una grossa rissa tra ventenni, tre ragazzi accoltellati. Il 26 la famiglia assegnataria di Torre Angela rinuncia alla casa popolare per le proteste razziste contro di loro: sindaco e dipartimento patrimonio assecondano la richiesta dell’estrema destra di “case agli italiani”. A Ostiense si tiene un incontro sul futuro degli ex Mercati Generali, per cui il Comune ha già firmato una concessione con il gruppo texano Hines. Decine di abitanti riempiono la sala per protestare contro lo studentato di lusso. Il 28 un operaio ucraino di trentatré anni muore schiacciato da un macchinario sulla ferrovia vicino a Civitavecchia. Muore anche un cinquantenne in motorino, scontrandosi con un furgone al Quartaccio. Sciopero generale, e il 29 grande manifestazione per la Palestina: centomila persone in piazza, tra loro Greta Thurnberg, Francesca Albanese, Thiago Avila. La notte un militare della Folgore muore in un incidente sulla Braccianese, forse per un colpo di sonno. (stefano portelli)
Le priorità della lotta. Un mese di scioperi nella logistica
(archivio disegni napolimonitor) Genova, 21 ottobre. Le mobilitazioni che hanno attraversato il paese nelle ultime settimane, portando in piazza centinaia di migliaia di studenti e lavoratori, preparano il terreno a un grande sciopero contro la legge finanziaria del governo. Negli ambienti del sindacalismo di base si discute delle prossime iniziative, e a Genova, città portuale che ha contribuito significativamente a polarizzare durante l’inizio dell’autunno il fenomeno dei blocchi della produzione e delle arterie metropolitane, c’è agitazione nei magazzini della logistica. In arrivo ci sono il “black friday” e il picco natalizio. Un gruppo di lavoratori iscritti al Si Cobas si riunisce in assemblea. Nel magazzino di Cornigliano della Bartolini, periferia ovest del capoluogo ligure, lavorano circa duecento facchini assunti dalla Alba Srl, la metà dei quali sono attivi a livello sindacale. Nei periodi di incremento del lavoro, come quelli compresi tra novembre a gennaio, si registra un continuo ricambio della manodopera, con il via vai di lavoratori delle agenzie interinali. I diritti conquistati negli anni dagli operai attraverso gli accordi sindacali, a loro sembrano non spettare. Così, dopo lo sciopero, i lavoratori di Cornigliano chiedono che al tavolo di trattativa per il rinnovo del Premio di risultato annuale si discuta anche della stabilizzazione dei precari. Lo stato di agitazione sentenzia che qualsiasi accordo sul premio dovrà essere garantito “anche ai nuovi”. L’astensione dal lavoro inizia la notte tra il 4 e il 5 novembre, ma i lavoratori presidiano i cancelli di via Fratelli di Coronata fino al primo pomeriggio. All’alba dell’11 inizia un presidio che si protrarrà per venti ore. «In quel magazzino – spiegano i delegati sindacali – c’è un accordo firmato, che va rispettato. Chi si spacca la schiena scaricando camion per diciotto mesi ha diritto alla priorità di assunzione». Bartolini e la società in appalto però, in risposta al blocco, riorganizzano i volumi e firmano in gran segreto un accordo con Cgil, Cisl e Uil per il taglio al premio di duemila euro che era stato ottenuto proprio dal Si Cobas negli anni addietro. La merce viene intanto spostata verso altri hub nel milanese e nel torinese e così, a pochi giorni dalle festività natalizie, per i lavoratori interinali nella filiale “002” non c’è più lavoro. Per loro, e per altri quaranta operai del sindacato, viene stabilito un piano di ferie forzate. La serrata è alle porte. La lotta dei lavoratori per le nuove assunzioni, per l’aumento del premio natalizio correlato all’aumento del lavoro (e alla possibilità di fronteggiare le spese di fine anno con un aumento minimo in proporzione alla perdita del potere di acquisto delle famiglie), si appresta a trasformarsi in lotta per la difesa del posto di lavoro. La minaccia esplicita è quella della cassa integrazione. Milano, 28 novembre. Sono le sette del mattino. Al bancone del bar che chiude via Dante Alghieri, a Pioltello, si affollano decine di lavoratori dell’hinterland milanese per consumare la colazione al caldo, prima di immergersi nella nebbia fittissima che coprirà per tutta la mattina la visuale sull’arteria logistica più trafficata dell’area. A pochi passi ci sono gli uffici doganali e i terminal di DSV, a sinistra il magazzino di stoccaggio e scarico merci di Logtainer. Due grossi cancelli, a poche centinaia di metri di distanza uno dall’altro, segnalano l’entrata e l’uscita dei mezzi pesanti su gomma delle due società specializzate nel trasporto merci intermodale. Le bandiere in spalla agli operai del Si Cobas, e un grande vessillo che recita “Embargo, ora!”, sostenuto da un’attivista dei Giovani Palestinesi d’Italia, riempiono improvvisamente lo stradone. Mentre gli operai legano le bandiere, già posizionati al primo cancello, un addetto alla sicurezza, dal vetro del suo gabbiotto, fa un cenno all’agente della guardia di finanza addetto al controllo doganale. Prima che gli operai abbiano avuto il tempo di spegnere la sigaretta che segue al caffè, i due cancelli si chiudono. Inizia lo sciopero generale proclamato dai sindacati di base contro la Finanziaria 2026, contro il riarmo europeo e il cosiddetto “piano di pace” nella Striscia di Gaza. Il picchetto a Pioltello ha l’obiettivo di bloccare la logistica di guerra in uno snodo strategico della pianura padana: dai terminal dell’interporto milanese, la società DSV, tra le tre compagnie di spedizione più influenti al mondo, e la Logtainer, che nel 2025 ha puntato i suoi investimenti sul trasporto merci ferroviario, fanno partire ogni giorno centinaia di container targati Maersk verso i porti di Genova, La Spezia, Livorno, per gli interporti di Rubiera e Padova, e l’aeroporto di Milano Malpensa. Dalla fila di camion che si allunga fino allo svincolo dell’autostrada si nota che molti carichi su gomma arrivano dall’estero. Per gli organizzatori del picchetto, “sotto l’apparente routine della movimentazione ordinaria di merci, si nascondono i flussi di materiale bellico destinati all’industria militare”. A denunciare l’opposizione alla guerra ci sono decine di lavoratori dei magazzini di Sda e Poste italiane. Sono stati proprio loro, nell’ultima settimana, a siglare un accordo-quadro provinciale che in parte sopperisce alle problematiche legate ai picchi di lavoro intensivi. «A Milano ci sarà qualche piccolo nuovo impianto dove gestire il surplus della merce. Grazie a questo accordo qualcuno potrà decidere di lavorare lì, con un’indennità di dieci euro al giorno, anche se la distanza dal magazzino attuale è minima», spiega un driver. L’accordo prevede anche altri aumenti salariali che verranno effettuati con gradualità entro il febbraio 2026. I lavoratori rivendicano il risultato della loro lotta, soprattutto perché le nuove introduzioni salariali non saranno legate a maggiori e più dure prestazioni di lavoro. In contrasto con le rivendicazioni operaie, e con il tema della riduzione dell’orario di lavoro, si configura però la bozza di proposta di Legge di bilancio 2026, che assoggetta le agevolazioni fiscali per i lavoratori dipendenti a modelli di produttività più flessibili e intensi. In riferimento ai premi di risultato, la bozza di legge presume una riduzione delle tasse tra il cinque e l’uno per cento su un premio massimale di cinquemila euro annui. In cambio di prestazioni usuranti come lavoro notturno, festivo e straordinario, la tassazione verrà ridotta al quindici per cento sul massimale di mille e cinquecento euro annui, con un recupero del potere di acquisto di appena centoventi euro. Sono le tre del pomeriggio quando la nebbia lascia spazio a qualche raggio di sole che batte sull’asfalto. Qualcuno tra i camionisti in coda ha spento il motore, altri giurano di non stare trasportando “neanche un proiettile” e vengono invitati dai manifestanti a bere un caffè e a partecipare a un’assemblea sul posto. I lavoratori prendono la parola, si rivolgono a colleghi che non conoscono, provano a spiegare che lo sfruttamento nella logistica non è un ricordo del passato, ma uno spettro sempre in agguato, come testimoniano i fatti di Genova: «Quelli che fanno gli scioperi continuano a rischiare i licenziamenti, perché le condizioni stanno peggiorando e il tema della guerra c’entra molto con questo peggioramento. È con le nostre tasse che si possono comprare le armi, ma non è con qualche sconto che possono comprarsi il nostro sudore». Passano più o meno ventiquattr’ore e nel pomeriggio di domenica, sempre a Milano, sfila una grande manifestazione indetta dalle realtà palestinesi. I lavoratori della logistica sono presenti al concentramento di piazza 24 Maggio. Il corteo avanza verso piazza Fontana, dove prendono parola gli operai di Bartolini “002”, spiegando ai colleghi delle altre regioni e di altre filiere la propria preoccupazione. Dopo un’iniziativa al comune di Genova, le istituzioni e la dirigenza della Fedit, la Federazione italiana trasportatori, hanno promesso un incontro per risolvere la vertenza. «Rischiamo la cassa integrazione per aver scioperato, rivendicando l’assunzione dei nostri colleghi, ma in questo fine settimana abbiamo voluto comunque presidiare i cancelli della fabbrica. Siamo pronti a mettere le tende!», urla uno di loro tra gli applausi. La difficile lotta, tutta in salita, dei facchini del genovese, è in connessione non solo con le complicate vertenze in atto da Torino a Napoli, ma anche con le vittorie, come quella ottenuta dai lavoratori di Sda a Milano. Le radici dei conflitti, certo, sono diverse, ma a emergere è un obiettivo comune: superare le dinamiche di una stantia contrattazione sindacale, quella sui bonus di Natale, per mettere al centro i temi delle condizioni di lavoro, la necessità di nuove assunzioni, gli aumenti salariali per tutti. (alessandra mincone)
La parola della settimana. Fucile
(disegno di ottoeffe) L’inizio ‘ell’anne Ottanta, ‘o boom d’a robba ‘int’e fiale, ‘na Delta dint’o viale riflette cu ‘e spurtielle undice piane. ‘Mmano ‘e principiante curtiell’, bravi guagliun’ cu ‘e bazooka, nun bazzeca nisciuno, nun pavano e cunsumano. (co’sang, 80-90) Un paio di settimane fa l’esercito italiano ha organizzato un’iniziativa a Rotonda Diaz, patrocinata dal comune di Napoli e dalla Regione, per celebrare i duemila e cinquecento anni del capoluogo campano. Diciassettemila metri quadri di fiera promozionale del riarmo, con macchine da guerra, robot, droni e fucili ipertecnologici. «Buongiorno a tutti! Siamo in diretta su Radio Esercito da una Napoli che ci accoglie sempre calorosamente, vero Benito?», apre uno dei radio conduttori. «Assolutamente, guarda quanta gente! Ricordiamo gli appuntamenti della mattinata…». In realtà, solo pochi e sparuti avventori si accostano alla quindicina di stand, ben distanziati uno dall’altro. […] Tra loro c’è qualche scolaresca elementare e superiore. Le giacche di generali, ammiragli e colonnelli sono tutte una gara di coccarde, medagliette e gradi militari. […] All’improvviso, un cane robot verde militare fa capolino sull’asfalto della rotonda, alle sue spalle c’è la banda che scandisce le prime note di una fanfara. Mi avvicino a due insegnanti che accompagnano una classe delle superiori, chiedo perché abbiano scelto quest’iniziativa per una gita scolastica: «È stata una scelta della dirigente», mi risponde con scoramento una di loro, l’altra fa spallucce. (edoardo benassai, riarmo e propaganda. in gita al villaggio esercito di napoli) Se è vero che la realtà supera la fantasia, mi è venuto da pensare che all’appello mancavano la suora che in Brazil chiede specifiche tecniche a un militare su una bellissima nuova mitragliatrice, e Travis Bickle, ex Marine, tassista di notte, pornomane, sceso a Napoli per candidarsi come nuovo eroe metropolitano con la sua Colt Python 357 Magnum. Atteso invano a lungo anche il soldato Palla di lardo, annunciato ospite d’onore. (credits in nota 1) A proposito di soldati. Leggo che il ministro della difesa Guido Crosetto, notoriamente legato all’industria bellica, ha rilanciato la proposta di una nuova leva militare, che presenterà come disegno di legge prima al governo e poi al parlamento. L’idea è di un meccanismo volontario, ancora da definire. L’obiettivo sarebbe quello di una riserva di almeno diecimila persone, per farsi trovare pronti alla guerra. Il ponte sullo Stretto rappresenterà un punto importante per il trasporto, per l’evacuazione e per garantire la sicurezza nel caso di un attacco da Sud del fronte Nato. […] Non è solo l’acquisto di armi, la sicurezza. Ho una visione della sicurezza molto ampia. Le infrastrutture sono fondamentali per garantire la sicurezza. Credo che si debbano inserire anche ospedali militari, e non solo, negli interventi e nel conto della percentuale di spese per la sicurezza. Immaginiamo un ospedale specializzato per le vittime di attacchi Nbc (nucleare-batteriologico e chimico). Speriamo che non accada ma bisogna essere pronti. (antonio tajani, ministro degli esteri) Il livello di analisi di Tajani è pari al mio quando auspico che entro una cinquantina d’anni il continente africano sarà stato ridotto talmente allo stremo che la sua intera popolazione si riverserà via mare verso le coste europee, e saranno talmente tanti e arrabbiati che nulla potranno i cannoni della Nato per arginare l’invasione. A questi ottimistici discorsi da bar fa da contraltare la retorica paradossale per cui l’esercito sarebbe il più importante attore nel percorso verso la pace universale nel mondo. Si sente in effetti sempre più in giro, questa roba, per esempio a me è capitato nei venti minuti che ho dedicato qualche settimana fa alla visione di una surreale serata promossa da Rai Uno e dall’esercito italiano dal titolo: “La forza che unisce”, condotta da Fabio Rovazzi e Serena Autieri – è giusto che si prendano le loro responsabilità di fronte ai posteri anche gli altri partecipanti come Noemi (peccato, mi era simpatica), Enrico Brignano (classico comico che non fa ridere), Pietro Mazzocchetti e Luca Cena (ignoro chi siano). Almeno dieci volte in pochi minuti ho sentito dire che l’esercito serve a “garantire sicurezza, ma anche portare aiuto” e soprattutto “a costruire ponti” (forse si riferiva a questo Tajani, parlando di quello sullo Stretto). Un po’ come in quei musicarelli tutta propaganda degli anni Sessanta, dove Morandi e i suoi commilitoni, in servizio di leva sotto il Vesuvio, giocavano sulle brande facendosi scherzi bonari, per poi fidanzarsi, da reclute, con le figlie dei marescialli (povero Nino Taranto, doveva avere seri problemi di soldi per ridursi a fare quella roba). https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/11/morandidef.mp4 (credits in nota 2) Certe vecchie buone abitudini non vanno perdute. Fiction d’accatto, film su presunti eroi in divisa e speciali televisivi non raggiungono tuttavia la sfacciata ipocrisia delle istituzioni, che evidentemente non possono fare a meno di una protezione fucile in spalla per sopravvivere. Il 7 dicembre, il giorno di Sant’Ambrogio, santo patrono di Milano, il comune assegnerà le benemerenze civiche o, come vengono chiamati di solito, gli “Ambrogini d’oro”. Sono riconoscimenti che vengono dati tradizionalmente ogni anno ai cittadini di Milano, agli enti o alle associazioni che “con atti di coraggio e abnegazione civica abbiano giovato a Milano”. […] Tra queste c’è anche il nucleo operativo radiomobile dei carabinieri del comando provinciale di Milano. Non è strano che un riconoscimento del genere venga assegnato a un reparto delle forze dell’ordine: questa unità si occupa del pronto intervento in caso di emergenze, risponde alle chiamate del 112, pattuglia le zone della città e fa i posti di blocco. La candidatura del nucleo radiomobile, però, era stata fatta dalla consigliera leghista ed europarlamentare Silvia Sardone, che l’aveva motivata sottolineando che i carabinieri di questo nucleo “rappresentano un simbolo di affidabilità e credibilità nella Milano di oggi. Lo hanno dimostrato anche la notte del 24 novembre 2024 durante un inseguimento che è poi finito sulle cronache dei giornali alimentando assurde polemiche”. (redazione “il post”, milano assegnerà un “ambrogino d’oro” molto compromettente) Per chi non ricordasse, il 24 novembre è la data in cui un diciannovenne del Corvetto, Ramy Elgamil, è morto cadendo dal motorino al termine di un inseguimento per opera proprio del nucleo radiomobile; le inchieste giudiziarie non hanno chiarito la dinamica dell’incidente, ma l’Arma era finita in enormi polemiche per le modalità con cui gli agenti avevano portato avanti l’inseguimento, testimoniate dalle dash-cam delle auto, e per i tentativi di depistaggio: oggi cinque di loro sono indagati, ma soltanto uno per “omicidio stradale” – per approfondire si consiglia la lettura di La Milano di Ramy e quella delle zone rosse, di Rajaa Ibnou, pubblicato su Monitor il 13 gennaio 2025. A proposito di militari e fucili, una cosa ancora: c’era un vecchio partigiano che ho conosciuto quando ero ragazzo che una volta disse, in un umido box auto allestito a sezione di un partito che si considerava impunemente comunista, che il fucile in sé non è una cosa sbagliata. Bisogna solo che stia nelle mani giuste. Dalla tragedia cilena capimmo le gravi responsabilità dei partiti riformisti che, non avendo dato fiducia alle masse proletarie che chiedevano armi per difendere quel percorso di trasformazione sociale, riposero fiducia nelle istituzioni rendendosi responsabili del massacro. Gli slogan chiarivano il nostro pensiero: «Cile, Cile, mai più senza fucile!». (salvatore ricciardi, maelstrom) (credits in nota 3) a cura di riccardo rosa ________________________ ¹ Ronald Lee Ermey e i suoi aspiranti marines in: Full Metal Jacket, di Stanley Kubrick (1987) ² Dolores Palumbo, Nino Taranto, Gianni Morandi e Laura Efrikian in: Se non avessi più te, di Ettore Maria Frizzarotti (1965) ³ Diego Armando Maradona ferisce, sparandogli con un fucile ad aria compressa, quattro tra le decine di giornalisti che, in accampamento fuori i cancelli della sua villa di Buenos Aires, gli assediavano casa (1994)
La libertà non è un’opinione. Per la liberazione di Mohamed Shahin
(disegno di sam3) Mohamed Shahin, imam della moschea Omar Ibn al-Khattab di via Salluzzo a Torino, si trova al Cpr di Caltanissetta dopo aver ricevuto un decreto di espulsione, firmato dal ministro degli interni Matteo Piantedosi. A Mohamed è stato revocato il permesso di soggiorno come lungo soggiornante e rischia il rimpatrio nel suo paese d’origine, l’Egitto di Al Sisi, dove prima dell’arrivo in Italia, vent’anni fa, era oppositore al regime. In Egitto, rischia la tortura e la morte. Le ragioni della revoca del permesso sono legate al suo pensiero ed al fatto di averlo espresso sulla pubblica piazza: parlare di Gaza e del genocidio in corso, prendere posizione senza censure equivale a condannarsi, soprattutto se sei musulmano. In questi anni Mohamed non è stato il solo a ricevere la revoca del permesso di soggiorno con successivo trattenimento in Cpr per aver parlato di Palestina. Noto è anche il caso del cittadino algeino Saif Bensouibat, trattenuto al Cpr di Ponte Galeria e poi liberato. Negli anni passati anche diversi palestinesi sono stati rinchiusi in centri per il rimpatrio: a Ponte Galeria, Brindisi, Palazzo San Gervasio. Le ragioni risultano perverse: tra queste la pubblicazione di foto “sospette”, o valutazioni discrezionali delle forze dell’ordine relativamente alle interviste rilasciate alla commissione per la protezione internazionale. Rinchiusi in Cpr per il solo fatto di essere gazawi o per aver parlato a favore della Palestina, questi uomini sono stati prelevati, imprigionati, in un attimo resi nulla e deprivati di ogni diritto, un trauma che ancora oggi segna le loro vite. La situazione negli ultimi mesi continua a peggiorare, con un attenzionamento feroce verso chi continua a portare in piazza la questione palestinese. Una spirale repressiva che sembra non aver fine e che lede la libertà di espressione soprattutto verso chi osa promuovere una narrazione alternativa a quella dominante, complice dello stato genocida di Israele. Questi tempi distopici richiedono grande  coraggio per continuare a mobilitarsi. Lo ha fatto Mohamed Shain che per questo rischia ora, concretamente, la morte. La negazione del genocidio e dei crimini di Israele, nonostante le testimonianze quotidiane dei palestinesi sotto assedio, dei giornalisti uccisi, delle immagini che arrivano attraverso canali social, delle accuse della Corte penale internazionale e dele relazioni e dichiarazioni dei rapporteurs o della relatrice speciale Onu per i territori palestinesi Francesca Albanese, rappresenta una delle più grandi vergogne della storia, di cui parleranno le future generazioni, pari alla violenza che continua a proseguire a Gaza e in Cisgiordania. Tante sono le realtà ed i gruppi che hanno espresso solidarietà nei confronti di Mohamed, mostrando la sua forza, evidenziando la sua capacità di promuovere dialogo tra realtà diverse, dialoghi che hanno innescato processi di  pacificazione e collaborazione con la comunità ebraica torinese e con le chiese valdesi, come dichiarato in un comunicato firmato circa un mese fa dove Mohamed viene lodato come esempio di dialogo interreligioso e promotore di una convivenza pacifica. Non solo, al fianco di Mohamed vi è anche il gruppo per il dialogo cristiano-islamico di Torino, che ha presentato una lettera al capo dello stato, Mattarella, in difesa di Mohamed e che così riferisce rispetto alla moschea di cui è imam: “Come la maggior parte dei centri culturali islamici della Città di Torino, la moschea di via Saluzzo è sempre stata aperta e collaborativa, ospitando iniziative che hanno coinvolto tutte le comunità, laiche e religiose, testimoniando concretamente e giorno dopo giorno l’impegno sincero della sua direzione, dell’imam e di tutti i fedeli nel senso del rispetto delle leggi, della pace e della cooperazione civile e inter-culturale. Auspichiamo perciò che il sig. Shahin possa essere rilasciato, che gli possa essere concesso di riprendere la sua permanenza in Italia e così la sua opera di dialogo e di solidarietà”.  In questi giorni numerosi sono stati i presidi di piazza a Torino, Caltanissetta, Milano, che hanno solidarizzato con Mohamed cui nel frattempo è stato convalidato il trattenimento e per il quale sono a lavoro gli avvocati Gianluca Vitale e Fairus Ahmed Jama, contro l’espulsione e l’incredibile diniego della commissione per la protezione internazionale. Una rete di docenti universitari e ricercatori e ricercatrici ha presentato un appello per Mohamed oggi: potete leggerlo a seguire e firmarlo a questo link. Per sottoscrivere la petizione promossa su Change.org invece si può cliccare qui. È nostro dovere rafforzare queste posizioni e continuare a chiedere che Mohamed venga immediatamente liberato, torni alla sua famiglia e nella sua comunità, a Torino, il prima possibile. (yasmine accardo)
Il confine come gabbia. Storia di due migranti rinchiusi in un container nel porto di Napoli
(disegno di diego miedo) Come in tanti altri luoghi del sud Italia, anche a Bacoli, il piccolo paese che mi ha adottata, la prima domanda che segue l’arrivo di uno straniero (un furestiero) è: «Ma tu a chi si’ figlio?». Non si tratta di curiosità, quanto piuttosto di un tentativo di collocare l’altro in una rete di relazioni, di trovargli un posto, anche piccolo, nella comunità. Nel linguaggio giuridico questa domanda prende il nome di “identificazione”. Più specificamente, nella normativa sull’immigrazione, si traduce nel Verbale delle dichiarazioni del cittadino straniero, annotate nel cosiddetto Modello C3 previsto dal Decreto legislativo 25/2008. È qui che lo stato italiano annota, tra le altre cose, a chi sei figlio. Prima di poter rispondere, lo straniero entrato in Italia senza “autorizzazione” deve essere informato dalla polizia di frontiera dei suoi diritti, tra cui quello di chiedere protezione internazionale (a sancire quest’obbligo è una direttiva europea del 2013). Nei fatti, al confine, molto spesso i diritti soccombono insieme alle persone. Il 19 novembre due cittadini marocchini di circa venticinque anni sono stati chiusi a chiave in un container al porto di Napoli per diverse ore, colpevoli di essersi imbarcati a bordo di un mercantile in partenza da Casablanca senza avere una “autorizzazione” per entrare in Italia. Entrambi, in realtà, avevano con sé il passaporto, ma erano arrivati in Italia senza il timbro del privilegio sui documenti di viaggio. Per quattro giorni, allora, si sono nascosti nella stiva nella nave, viaggiando al buio e immobili, respirando fumi. A quel punto il comandante, che aveva sentito cattivi odori provenire dalla zona della stiva, li ha scovati, e ha informato la polizia. I medici saliti a bordo, intanto, appuravano che uno dei due giovani si trovava in stato di incoscienza e che entrambi avevano bisogno di esami specifici da effettuare in ospedale. La procedura prevista in questi casi dalla legge è precisa: trasporto in ospedale e informativa legale sui diritti legati alla protezione internazionale, da effettuare con l’ausilio di un mediatore linguistico-culturale. Per i due cittadini marocchini, invece, è scattato il trattenimento di fatto in altri container del porto di Napoli, quelli che le forze dell’ordine hanno in altre occasioni chiamato i container “dei tunisini” (attraverso una generalizzazione gergale e apertamente razzista riferita alle persone straniere che entrano in Italia senza autorizzazione al soggiorno, che ha reso in aree portuali la parola “tunisino” sinonimo di “clandestino”). Dal 19 al 22 novembre questi due giovani uomini, pur essendo fisicamente in Italia ­­– prima nei container e poi a bordo di una nave ormeggiata al porto di Napoli – non sono esistiti. La polizia di frontiera, intervenuta allo sbarco, ha redatto uno sbrigativo verbale di affido al comandante che, dietro minaccia di essere accusato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, è stato incaricato di “restituirli” al paese di provenienza: è questa d’altronde la modalità di gestione dei confini della “roccaforte europea”, che mette al primo posto la loro protezione pur nell’essenza di bene giuridico astratto, burocratico, geografico ed evidentemente non umano. All’arrivo della nave a Gioia Tauro, però, dopo che questa aveva lasciato il porto di Napoli, i due giovani erano riusciti a mettersi in contatto con il numero di telefono di InLimine (progetto di Asgi – Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) manifestando in lingua araba, alla mediatrice culturale, la volontà di chiedere protezione internazionale. Ai due richiedenti asilo non è stato comunque consentito di sbarcare, se non dopo circa otto ore, quando ormai non era più possibile alle istituzioni coinvolte mantenerli nell’invisibilità. Questa vicenda evidenzia come tanto il sistema legislativo quanto l’immaginario collettivo abbiano trasformato il diritto fondamentale a lasciare un territorio – consacrato dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici – in un atto criminale. La distorsione pubblica dell’immagine dello “straniero senza documenti” ha reso questo diritto, e chi lo esercita, sinonimo di pericolo, di illegalità, di minaccia, sebbene per esempio la legge italiana punisca questa condotta di reato solo con una sanzione pecuniaria. Fino al 1989 (anno di adozione del Testo Unico sull’Immigrazione), d’altra parte, l’attraversamento della frontiera non era previsto come reato: il Testo Unico sulle leggi di pubblica sicurezza del 1931 si limitava a prescrivere alcuni obblighi per il cittadino straniero, tra cui quello di presentarsi dinanzi alle forze dell’ordine entro tre giorni dall’arrivo, “per dare contezza di sé”. Allo straniero privo di documenti di soggiorno, in sostanza, si richiedeva di rendersi visibile, obbligo che ha oggi ceduto il posto a una dovuta disposizione verso le autorità di pubblica sicurezza, in centri di trattenimento amministrativo o magari in un container, dove è il confine a decidere se siamo criminali o invisibili. Ma il primo criminale, furestiero, e profugo di guerra sbarcato sulle coste a Bacoli, era figlio di una dea. Si chiamava Enea. (martina stefanile)
Il cemento è fatto per sgretolarsi. Dentro il quadrilatero di Rozzol Melara a Trieste
(disegno di irene servillo) Sono a Trieste per lavoro. Alle persone dico che mi occupo dell’accoglienza per un noto festival cinematografico, ma in sostanza faccio l’autista. Devo trasferire gli ospiti in vari teatri e poi assicurarmi che non perdano il volo di ritorno. Non è un lavoro difficile, forse stancante, ma di positivo ha il metterti alla prova in varie situazioni. La principale difficoltà è quella di trovare parcheggio, soprattutto in una città piccola e ricca come questa. Ovunque mi giri vedo suv, berline e macchine costose, sembra che nessuno guidi utilitarie. Ogni volta che torno in questa città il pensiero va al tenore di vita. Le persone sono ben vestite, solitamente hanno una shopper di qualche boutique tra le mani. I palazzi sono bassi, curati, con bellissimi infissi colorati e piante verdeggianti dietro grandi finestre-balcone. Dopo giorni in continuo movimento i miei occhi si abituano a quella realtà fatta di pellicciotti, cappellini, caffè in vetro e attese ai semafori. Finisco per assuefarmi e neanche mi chiedo più dove siano finiti tutti gli altri: quelli che non parcheggiano e non vanno in boutique. Incontro Emanuela, una giornalista che trasporto dal lussuoso e centralissimo Hotel Modernist alla periferica e abbandonata Rozzol Melara. Deve fare una presentazione di un libro nella sede di un’associazione. Percorro i tornanti che dal centro portano verso il limite nord della città. Superata la zona residenziale mi si para davanti un gigantesco complesso brutalista: due scatoloni in cemento collegati da ponti in ferro e costellati da piccole finestre intervallate da giganteschi oblò. Percepisco una sensazione già nota. Sono attratto da quella struttura come da un morto in autostrada, che vuoi vedere e non vuoi vedere. Accompagno Emanuela e decido di addentrarmi. Ho poco tempo prima del prossimo pick-up. Mi rendo conto che quel tipo di complesso è qualcosa di contemporaneamente familiare e inedito. Il cemento delle pareti sta iniziando a macchiarsi e a formare lunghe lingue verdastre. Molte vetrate sono spaccate, i graffiti ricoprono le superfici interne, c’è un’intensa puzza di urina e pochissime persone: un’anziana con un carrello, un uomo con un cane. Mi addentro ancora di più, arrivo fino ai garage. Si accende automaticamente la luce generale, attivata da un qualche sensore. Ci sono molte macchine costose in fila: suv, berline, ecc. Un uomo in tuta e scarpe da ginnastica mi taglia la strada, a tracolla ha delle racchette da tennis. Entra in una Bmw e parte. Salgo la rampa di scale, passo in una delle uscite di emergenza che permettono l’ingresso nei palazzi dal garage. Mi ritrovo in un lungo tunnel con il pavimento in gomma, ai lati file di attività abbandonate. Un gruppo di ragazzi fumano una canna. Li supero e finisco in una piazza coperta all’incrocio di quattro vie. Seduti su un cubo in cemento, utilizzato come panchina, ci sono due anziani. Il signor Michele e il suo amico Giovanni. Chiedo se sono del posto e intanto mi accendo una sigaretta. «Noi sì, siamo nati qua – dice il signor Michele –. Qua l’ha fatta l’Atar, sarebbe l’azienda territoriale per l’edilizia. Ha fatto seicentoquaranta appartamenti, hanno cominciato nel ’69, hanno fatto mezza ala, poi hanno fatto l’altra, ci abitavano milleseicento persone in quasi novantamila metri quadri. Ma adesso sono cambiate le cose. Prima c’era un ufficio postale, c’erano un sacco di cose. L’hanno costruito gli architetti di Trieste, era un Ordine intero… trenta tra architetti e ingegneri. Il coordinatore era Celli, che aveva anche uno studio importante a Trieste. Doveva essere un paese nel paese, ma hanno fatto una cazzata. Il cemento è fatto per sgretolarsi, e qui si sta sgretolando tutto. L’idea di partenza era anche buona, i primi vent’anni ha funzionato. Adesso mi sembra solo un mostro di cemento, non c’è un cazzo». «Qui ci vive un po’ di tutto – continua Giovanni, l’amico –. Lo chiamano “il quadrilatero” quando parlano di cose ufficiali, ma è conosciuto anche come Bronx. Ci sono cose che non vanno bene, mettono gente che si dovrebbe recuperare. Non sanno dove metterla e la mettono qua, extracomunitari e zingari. Gira un po’ di tutto. Qua per fare politica costruiscono casone, palazzoni e se ne fottono di quelle vecchie, qualcuno gli dovrebbe dire: “Dio bono, sistema quello che c’era prima”, no? Lo fanno perché così possono dire che hanno costruito». Ora capisco la sensazione provata inizialmente. Quel richiamo che mi ha portato a scendere dall’auto, che mi ha fatto immergere nel quadrilatero di Rozzol Melara: come trovarsi davanti un sogno disatteso, una visione rimasta incompleta. L’idea di una schiera di ingegneri e architetti influenzati dalle teorie socio-architettoniche di Le Corbusier che hanno creduto di poter costruire una città fatta su misura dei cittadini, con tutto ciò che sarebbe servito, trascurando i fattori dell’identità e del rapporto con la “dimensione umana” che impallidisce all’ombra di un colossale blocco di cemento. Domando al signor Michele e al signor Giovanni come si vive oggi nel “quadrilatero”. «Qua aprono solo cose di comunità e associazioni, non ci sono attività. Provano a fare qualcosa per le persone, hanno aperto una biblioteca per i ragazzi un anno fa – risponde Michele –. Poi c’è un bar e basta, manco un panettiere, bisogna andare fuori, non c’è neanche una banca. Almeno c’è l’autobus che ti porta a Trieste, sono dieci minuti. Poi qua spendono un mare di soldi, stanno a spendere per cambiare gli ascensori, quindi bene, perché qui ci stanno dei vecchi come noi che capirà, come salgono su sti palazzoni? Ma sono cinquanta ascensori, strutture enormi… Quindi qualcosa la fanno. Ma poi è tutto pisciato. Gli extracomunitari, che per carità io non voglio giudicare, ma non si possono integrare, fanno le cose a cazzo e magari non hanno lavoro…». «C’era anche un’altra passerella, ma l’hanno tirata giù – ricomincia Giovanni –, hanno tolto dei ponti perché una decina si sono buttati giù. Sai, qui c’è gente che ha problemi, non c’è psicologo, non c’è niente, e si sono buttati giù dal ponte. Queste sono case popolari. I giovani non possono lavorare e magari si trovano i debiti o si sentono falliti. Io il mio l’ho fatto, prendo mille e quattro di pensione, non mi lamento. Sono del ’54, ho lavorato quarantadue anni e cinque mesi. Mi dispiace per loro. I giovani stanno impazzendo per questo, si fanno patologie, disturbi, io non riesco a fregarmene anche se sono vecchio». «Io ho fatto un po’ di tutto – continua Michele –. Sono andato in alto e poi sono andato in basso, nelle fabbriche sempre qua in zona. Poi sono andato in “mamma Rai”, mi ha mandato l’ufficio del lavoro. Però sempre meglio di quelli di adesso: un ragazzetto che era perito in telecomunicazioni doveva riparare una radio e non sapeva fare un cazzo. Ma dio bono, dico io, che si studiano questi? A che serve? Io sono radioamatore. Sono entrato in Rai con la terza media, sono andato a lavorare con le camere e con i registratori. Ma ci mandavano in posti a cazzo, sui campi minati… Eravamo in tre, giornalista, operatore e uno che segue per portare il necessario. Io portavo le cose, che sembrava avessi addosso un’armatura, quindici chili pesava quella roba là. Era faticoso, in due anni dieci persone se ne sono andate. Uno che è andato dove dovevo andare anch’io, qua vicino in Bosnia, gli è arrivato un missile ed è morto. Ho fatto bene ad andarmene, mi sono salvato, altro che. Gli davano dei soldi, ma ti sparavano, col cazzo che ci andavo, già normalmente camminavo sulle bombe…». Guardo l’orologio, è tardissimo. Ringrazio il signor Michele e il signor Giovanni e procedo a ritroso: passo dalla piazza al tunnel, discendo le scale di uno dei palazzi, taglio per un parchetto con delle giostrine, arrivo sulla strada ed entro in auto. Metto in moto e discendo i tornanti a velocità sconsiderata. Prima dell’ultima curva guardo lo specchietto retrovisore. Vedo i palazzoni in cemento scomparire dietro la montagna. (fabrizio ferraro)
Maltrattamenti ai disabili nel centro Stella Maris. Per i giudici i dirigenti non hanno responsabilità
(disegno di andrea nolè) Il processo di primo grado per i maltrattamenti nei confronti degli ospiti della struttura per persone con disabilità di Montalto di Fauglia, gestita dalla fondazione Stella Maris in provincia di Pisa, si è concluso, dopo sette anni di dibattimento, il 4 novembre scorso con dieci condanne agli operatori e alle operatrici e cinque assoluzioni. Due operatori sono stati assolti. Assolti anche il direttore sanitario e le due dottoresse responsabili della struttura. Il dispositivo sposa quasi a pieno la tesi che la Stella Maris aveva caldeggiato sin dall’inizio, tanto che la giudice Messina ha condannato penalmente solo gli esecutori materiali delle violenze. Evidentemente non poteva farne a meno: le immagini degli abusi e dei maltrattamenti erano e restano inequivocabili. L’assoluzione dei dirigenti medici, figure apicali dell’organizzazione, vorrebbe rappresentare un segnale chiaro: i piani alti non si toccano. Alla Stella Maris è stata però riconosciuta una responsabilità civile da quantificare in un futuro processo civile, qualora lo decideranno le famiglie. E questo non è poco. Innanzitutto, perché per molti mesi si è rischiato che il processo rimanesse impantanato sino alla prescrizione, tanto era stata lenta, e rallentata scientemente in una prima fase, la successione delle udienze. Poi perché, almeno in primo grado, una forma di responsabilità, anche se solo civile, è stata riconosciuta alla Stella Maris. Alla Fondazione spetta infatti il pagamento delle spese processuali, anche di quelle spettanti agli operatori condannati, qualora questi non fossero in grado di sopperire autonomamente. Il “noi non c’entriamo nulla” che trapela dal conciliante comunicato del presidente della Fondazione (che si conclude con uno goffo appello al “Bene” con la B maiuscola) andrebbe pertanto riconsiderato in questa prospettiva. Rimane lì, infatti, a testimoniare un malcelato imbarazzo nei confronti di una vicenda che ha gettato non poco discredito sulla sbandierata “eccellenza” dell’“istituto di ricovero e cura a carattere scientifico”. La sentenza, tuttavia, non soddisfa la richiesta di giustizia che le famiglie si sarebbero aspettate dopo anni di attesa. La tesi del pubblico ministero, che assegnava alle dottoresse la responsabilità maggiore per le violenze perpetrate all’interno della struttura, è stata ribaltata. Colpevole non è chi aveva assunto personale non qualificato, chi deteneva la gestione della struttura, chi doveva vigilare. Colpevole è, ancora una volta, solo chi agiva in prima linea e lì si è “sporcato le mani”. Rimangono impuniti i responsabili, assolto è chi doveva occuparsi della formazione del personale, non colpevoli penalmente sono state considerate tutte le rappresentanze della filiera di gestione e organizzazione che avrebbe dovuto occuparsi della presa in carico e della cura dei ragazzi con disabilità. Il primo a uscire di scena è stato il direttore generale Roberto Cutajar: dapprima condannato con rito abbreviato a due anni e otto mesi, poi assolto in appello con la motivazione che “le responsabilità della gestione e delle assunzioni andavano ricercate altrove”, una motivazione fondata sul fatto che Cutajar era il responsabile dell’intera Stella Maris e non solo del presidio di Montalto. Le responsabili effettive della sede Stella Maris di Montalto sono state in seguito individuate quindi nelle due dottoresse, ma anche loro, alla fine, sono state ritenute non condannabili (si attendono sul punto le argomentazioni nella motivazione della sentenza). Rimane inevasa una domanda cruciale: ma allora, chi decideva a Montalto? Chi ne presiedeva la gestione e il controllo? Un velo di omertà ha coperto sin dall’inizio le vicende di un processo di per sé clamoroso, che avrebbe dovuto avere una ribalta nazionale. Si è trattato infatti del più grande processo per maltrattamenti a persone con disabilità nella storia d’Italia, eppure le telecamere sono state tagliate fuori sin dalla prima udienza. Secondo la giudice non sussisteva alcuna rilevanza sociale per un evento di questa portata: ventiquattro famiglie, diciassette imputati, oltre duecentottanta episodi di violenza registrati dalle impietose microcamere (posizionate esclusivamente negli spazi comuni) in tre mesi. Coerentemente con questa impostazione, la giudice ha pensato bene di emettere la sentenza a porte chiuse, in presenza di soltanto alcune famiglie, come se per i sette lunghi anni della durata del processo l’aula fosse stata assediata da orde di parenti scomposti e irrispettosi. In realtà, mai un urlo di sdegno, mai un commento sopra le righe si è levato nell’aula. Non davanti alle immagini delle sevizie dei propri cari, quando qualche genitore ha preferito uscire dall’aula piuttosto che inveire; non di fronte alle testimonianze di chi con arroganza parlava di “buffetti di simpatia”, “linguaggio colorito”, “strumenti inadeguati di relazione” da parte degli operatori; non di fronte a un consulente di parte che impunemente affermava che “quelle persone non sono neanche in grado di provare dolore”; e neppure quando, come se fosse una cosa normale, è venuta a galla l’aberrazione dei “tappeti contenitivi”, comprati all’Ikea e spacciati come un “presidio di civiltà”, per “evitare i lividi sui pazienti” prodotti dai consueti strumenti di contenzione fisica (strumenti di contenzione che intanto continuavano a essere utilizzati, producendo fratture e traumi vari). Di fronte a questa galleria degli orrori il pubblico e i parenti hanno mantenuto un atteggiamento fin troppo rispettoso: lacrime e dolore soffocato, nel rispetto di chi avrebbe dovuto assicurare loro una parvenza di giustizia. Solo al termine della requisitoria del pm Pelosi, nella quale erano state individuate motivazioni e responsabilità di tanta violenza a partire dalle figure apicali, si è levato dai banchi in fondo (luogo di costante presenza delle parti civili) un applauso lungo e liberatorio. Ciò che emerge dal processo, ma non dalla sentenza, è che la Stella Maris sapeva. Risultano agli atti violenze compiute nella struttura sin dal 2002. Nel 2009 un altro operatore aveva mandato al pronto soccorso un ospite per una ecchimosi e una frattura a un dito. Nel 2014 lo stesso avrebbe schiaffeggiato e schiacciato con le ginocchia un adolescente (davanti a questa denuncia il direttore Cutajar avrebbe sospeso il responsabile, senza licenziarlo). Dalle intercettazioni telefoniche, le dottoresse responsabili della struttura lamentavano di aver denunciato più volte i dipendenti violenti: “Questi quattro stronzi dovevano essere mandati via illo tempore perché noi abbiamo fatto tutte le segnalazioni all’istituzione, la quale si è ben guardata dal procedere…”. Ancora più inquietanti i messaggi dei genitori alla giornalista della Rai Maria Elena Scandaliato, che provava a intervistarli: “Io ho paura. Me lo dico da sola che è una cosa sbagliata, ma io c’ho mio figlio lì dentro…”. D’altronde anche il tono degli scambi telefonici tra i dirigenti della Stella Maris, era questo: “I genitori sono ambigui, però io voglio dimettere tre persone, per dare un segnale ai genitori eh… Perché loro devono stare attenti!”¹.[1] Il tutto, mentre la struttura di Montalto di Fauglia propagandava sé stessa con queste parole, tratte dalla sua Carta dei servizi: “La nostra filosofia di intervento è ‘prenderci cura’ oltre che curare, ascoltare e coinvolgere sia il paziente che i familiari. […] La nostra organizzazione è centrata sul modello del piccolo gruppo di pazienti condotto da educatori professionali e da assistenti con funzioni educative, che fungono da ‘io ausiliario’ o ‘compagni adulti’ dei pazienti, che li supportano concretamente e psicologicamente in ogni atto della vita quotidiana. I programmi di trattamento sono differenziati sia sulla base dei protocolli che sulla base delle caratteristiche individuali di ogni ragazzo che è visto come portatore di affetti, bisogni emotivi, aspirazioni, competenze”. HANNO VINTO I POTENTI Medici e sanitari dei reparti psichiatrici hanno avuto la conferma di quella sorta di scudo penale che spesso li protegge nell’esercizio delle loro funzioni. Troppe volte come Collettivo Artaud abbiamo assistito alla cerimonia inconcludente della giustizia dei tribunali. Questa sentenza assolutoria è solo l’ennesima di una lunga serie, con la conseguenza che all’aumento della presunzione di intoccabilità corrisponde un incremento del ricorso agli strumenti più controversi della pratica psichiatrica di derivazione manicomiale: elettroshock, contenzioni, Tso. La Fondazione (privata) Stella Maris continuerà a ricevere contribuzioni di milioni di euro dalla Regione Toscana, che intanto si era guardata bene dal costituirsi parte civile al processo. Al contrario, si era anzi premurata di premiare l’eccellenza Stella Maris con il Gonfalone d’argento, massima onorificenza toscana, nello stesso 2021 in cui il processo era nelle sue fasi più calde. D’altronde, Stella Maris continua a investire: 27.830 metri quadri su quattro livelli, quarantaquattro camere per la degenza, altrettanti ambulatori, cinquanta sale per l’osservazione terapeutica, ventiquattromila metri quadri di parco. Sono queste le cifre del nuovo ultramoderno ospedale che sorgerà a Pisa, zona Cisanello. L’inizio dei lavori è stato inaugurato in pompa magna da sindaco, vescovo e autorità varie, compreso il presidente della Regione, quelle stesse autorità che non hanno rivolto nemmeno una parola alla famiglie, di fronte allo scempio del dolore e delle immagini dei maltrattamenti e di un processo che è andato avanti per anni. Certo, non si può sospettare di chi agisce per conto del Bene: “Nei nove anni che sono trascorsi dai fatti di Montalto di Fauglia ­– afferma ancora il comunicato di Stella Maris emesso dopo la sentenza ­– abbiamo impegnato tutte le nostre energie per migliorare sempre più le nostre attività riabilitative. Il nostro compito è sempre quello di dare il meglio con professionalità e soprattutto con il cuore, imparando dagli errori”. A Marina di Pisa, intanto, la struttura che sostituisce Montalto di Fauglia da quando è stata chiusa, il personale è sì cambiato, ma non vi può entrare nessun visitatore, neanche i genitori o i parenti dei ragazzi (gli ospiti vengono accompagnati all’esterno quando i familiari vanno a prenderli). Nel frattempo, all’interno di altre strutture, dove nessuno entra e dove non è previsto alcun tipo di controllo, storie simili a quelle della Stella Maris continuano a ripetersi, riproponendo i dispositivi delle istituzioni totali. Imperia (Villa Galeazza), Manfredonia (Stella Maris), Foggia (Opera Don Uva), Como (Comunità Sacro Cuore), Cuneo (Cooperativa Per Mano), Ivrea (Ospedale di Settimo Torinese), Siracusa (strutture per disabili e anziani), Bologna (Villa Donnini), Perugia (Centro Forabosco), Decimomannu (Centro AIAS), Brescia (Comunità Shalom), tanto per citare solamente i casi più recenti: botte, violenze, contenzioni meccaniche, maltrattamenti, insulti, umiliazioni. Giustizia insomma non è fatta: le pratiche manicomiali sopravvivono intatte e, malgrado le promesse della legge 180, continuano a seminare dolore; le strutture che le utilizzano, continuano a presentarsi all’esterno come paradisi di accoglienza e cura, mentre la giustizia dei tribunali volge lo sguardo altrove, di fronte ad abusi perpetrati da un modello di psichiatria obsoleto e fallimentare (collettivo antipsichiatrico antonin artaud) ______________________ ¹ La Storia di Mattia in una puntata di Spotlight (Rai News 24)
Un assaggio di libertà. La storia del Chiosco blu di Ferrara
(disegno di lorenzo la rocca) “Cònia, la cui falsa etimologia deriva dal cono, è una scuola che dalla montagna trae alcuni caratteri: rarefazione dell’aria, altezza panoramica, isolamento, distacco. In queste ideali condizioni si collocano lo studio e l’esercizio intorno al nodo della rappresentazione del mondo operata dall’arte in generale, nelle sue implicazioni storiche e sociali, e dall’arte come tecnica personale”. Così la Socìetas Raffaello Sanzio nata a Cesena nel 1981, presenta la Scuola Cònia diretta da Claudia Castellucci, il corso estivo triennale di Tecnica della Rappresentazione. È qui che ho incontrato Matteo, ventisette anni, che, arrivato alla terza annualità, costruiva la sua performance. «Posso iniziare dall’esperienza a Cònia, nata in concomitanza con l’attività del Chiosco. Ho aperto il chioschetto al Lido di Spina, una frazione di Comacchio, una località balneare in provincia di Ferrara, dove mio padre ha uno stabilimento balneare. La mia estate l’ho vissuta sempre lì, con le hit italiane degli anni Ottanta della Riviera Romagnola. Il Lido di Spina non è la Romagna, però ha un po’ quella vibe, figli che mandano avanti il lavoro dei genitori, o ragazzi che hanno creato gruppo. Lavorando da sempre con mio padre, ho cominciato ad avere i miei primi guadagni, ma non mi sono mai trovato a mio agio, c’è stata una continua sensazione di distanza. Ho studiato al liceo artistico di Ferrara, però abitavo fuori dal centro e non sono mai riuscito a integrarmi, ero un po’ outsider; mentre in estate non avevo un ruolo preciso, ero conosciuto come il figlio del proprietario. FOTOGRAFIA «Dopo il liceo sono andato a Padova a studiare fotografia e lì ho capito che la fotografia commerciale non mi bastava, volevo di più e nel 2019 sono riuscito ad avere un contatto per lavorare a New York nei due mesi estivi. Ho sempre fatto questa altalena, fare esperienze nel mondo e tornare in provincia, uscire e ritornare… Tornato da New York, l’esperienza che mi ha fatto innamorare della fotografia è stata lavorare come assistente nel collettivo Cesura, a Pianello Val Tidone, provincia di Piacenza, fondato dagli assistenti del fotografo della Magnum Alex Majoli. «Dopo i primi tre mesi che ero in studio a spazzare per terra, a fare un po’ lo sgargino, ho avuto la fortuna che Majoli avesse bisogno di un nuovo assistente e tutti gli altri erano già stati presi. Sono diventato il suo assistente, rimanendo con lui per tre anni. Avevo ventidue anni, era l’anno del Covid. «Gli avevano proposto di documentare il Covid per tutta Italia, ed è stato un po’ obbligato ad accettare la mia presenza. Questo ci ha legati molto. Ho passato tre anni duri, che mi hanno aiutato a vedere il mondo in un modo completamente diverso, ad amare l’arte, a non vederla più come un hobby. «Alex Majoli è un fotogiornalista, io gli reggevo le luci. Nelle sue foto c’è un approccio teatrale alla realtà, fa delle foto che sembrano costruite. Siamo andati in ospedali, case private, abbiamo seguito medici che andavano a fare i tamponi. Abbiamo attraversato molte delle dinamiche del Covid, dai cimiteri ai corpi che venivano bruciati nella bergamasca. Tutte le dinamiche possibili di questa pandemia, avendo come soggetto medici e pazienti. «Dopo tre anni col mio maestro, ho deciso di dedicare il mio tempo alla fotografia e sono tornato a vivere a Ferrara dai miei, perché avevo comunque bisogno di denaro, non avevo più soldi. Non venivo pagato per l’assistentato, quindi lavoravo d’estate. «Torno a lavorare per mio padre, torno a farmi l’estate a Lido di Spina, però con una visione diversa dopo la pandemia. Inizio a fare dei ritratti tutte le sere, quando tornavo da lavoro, nel bar sotto casa. Il secondo anno faccio ancora un sacco di foto, le unisco alle altre e iniziano a dirmi qualcosa, anche se non riuscivo a capire cosa. Mi attraevano, ma non riuscivo a dargli un nome: questa espressione è tristezza o felicità? È gioia? Rispecchiavano esattamente la situazione che c’era in provincia d’estate. Volevo farci un libro, ma mi sono detto, perché invece di un libro fotografico inaccessibile, difficile da mostrare alle persone, non provo a cambiare quella realtà lì? La Scuola Cònia mi ha aiutato a viverla come una performance: e così ho pensato al Chiosco. CHIOSCO «A cento metri dal mare mio padre aveva un chiosco per vendere gelati e bottigliette d’acqua, un servizio del suo stabilimento. Gli ho detto “ti ripago i settemila euro che tu fai in una stagione, e noi facciamo quello che vogliamo”. Ero sicuro di quello che stavo facendo, sapevo che poteva funzionare: avevo il problema, avevo la soluzione, e non vedevo nessuna interferenza nel mezzo. «Ho aperto il chioschetto blu. Volevo un pugno nell’occhio, tra questa sabbia pastello e questo cielo, queste piadine. Vado a Parigi e cerco quel colore perché ero andato in fissa, volevo quel colore lì perché non è un blu casuale, un blu che ha fatto anche una certa storia nell’arte. Ho iniziato a sperimentare con tutto quello che ruotava intorno a questo chiosco. I miei clienti non erano clienti, erano ospiti, cercavo di mantenere un rispetto e un concetto di casa, più che di servizio. Il nome Chiosco blu era per essere riconosciuto su Instagram, era semplice. «Poi ogni anno gli davo un nome diverso. Il primo anno si chiamava La cabina di Despina, lì c’era il gioco delle due spine, e anche un racconto delle Città invisibili di Calvino, che parla di una città tra deserto e mare, un porto costantemente influenzato da altre culture. «La tematica portata avanti nel primo anno era concentrata sull’accogliere chiunque fosse perso, perché era un po’ anche la mia storia: mi ero perso in questa provincia e ho voluto ricreare questa casetta, per sentirmi libero di esprimere quello che volevo, per creare collettività, creare gruppo, anche attraverso le feste. «Il primo gesto per convincere i ragazzi a venire è stato fare le feste di lunedì, il giorno della settimana che tutti odiano. Chiamavo i dj, o persone che avevano il sogno di fare il dj, ma la piccola provincia non gli dava la possibilità di fare. Un amico tornato da Londra è caduto in depressione, faceva fatica a ripartire e cercava costantemente delle fughe, tra alcool, droga, eccetera. Un giorno gli ho detto, facciamo una cosa, domani facciamo una festa e te sei il dj, ti do anche cinquanta euro. Ha iniziato a farlo, è diventato il resident… «I primi lunedì sono venute venti persone, poi cinquanta, poi cento, pian piano siamo arrivati a Ferragosto che sono arrivate settecento persone, e lì ho conquistato l’amore e la fiducia, perché rompevo un po’ gli schemi… La festa di Ferragosto l’abbiamo fatta fino alle nove del mattino, era palesemente illegale, però l’abbiamo organizzata bene, non era un rave, non c’era politica, non c’era niente in mezzo, c’erano semplicemente dei giovani che volevano divertirsi, ascoltare della musica buona, bella, ricercata. C’era il dj che veniva lì per fare il dj, e cambia tutto quando quello che fai si slega dal guadagno. «Il Lido di Spina ha una spiaggia lunghissima. C’è lo stabilimento di mio padre che fa ristorante, piadine, eccetera, poi c’è tutta la distesa di ombrelloni che si fermano a duecento metri dal mare; in questi duecento metri lui ha altri cinquanta metri di concessione e qui era collocato il chioschetto, a cento metri dal mare. Ero sotto lo stabilimento balneare, però questa distanza fisica mi creava libertà nella gestione delle cose; non comunicavamo, se facevamo una festa contemporaneamente, non si sentiva neanche. «La prima serata non c’era ancora niente, poi ho costruito tutto io, insieme a dei ragazzi che mi davano una mano. Il dj era stanco, ma volevamo continuare a ballare. Ho chiesto, c’è qualche dj? Uno ha alzato la mano e ha detto, è una chiavetta con la musica, non la porto mai con me, ma stasera… Questo ragazzo ha suonato, e ha spaccato. Adesso è diventato dj art-techno, suona spesso ad Amsterdam, viene da Palermo. Non so perché da Palermo fosse finito qui, ma questo è un po’ il concetto di viandante che intendevo, sono arrivate persone da ovunque. Anche dei dj da Londra. Perché lavoro come fotografo per un collettivo in Inghilterra, e in tre anni di lavoro non mi hanno mai pagato. Quando ho aperto il chiosco gli ho detto, voi non mi avete mai pagato, venite, io non vi pago. Quindi ho fatto suonare gratis dei dj che non sarebbero mai venuti a Ferrara. «Poi facevo delle esposizioni con le mie foto. La cosa bella della spiaggia è che puoi piantare un palo in tre secondi. Creare e modificare lo spazio come vuoi. Avevo fatto tutta una serie di fotografie che delimitavano lo spazio per danzare, c’erano vari allestimenti, sperimentavo anche con le stampe, poi con le tende. Cercavo delle scenografie. Poi ho comprato delle lampade di carta che sono diventate simboliche, richiamando un po’ la casa. Contemporaneamente facevo la Scuola Cònia che mi aiutava a pensarla, la casa. CASA «Quando parlavo con mio padre, mi diceva di smetterla di fare le feste. Succede nei paesi, provano a farti vedere problemi che non esistono; soprattutto se hai una buona idea, non ne sono contenti, provano invidia. Non trovi mai quello che ti dà una pacca sulle spalle e dice, cazzo, fai una cosa fantastica! «Poi pian pianino ho trovato le mie energie, chiamavo un sassofonista e lo facevo suonare col dj. Tutta sperimentazione che poi veniva da Claudia Castellucci. Ho usato molti concetti della Scuola Cònia, come la Teoria dello sfondo, o la Teoria dello spazio e altri approfondimenti sull’arte e la rappresentazione fatti lì, per applicarli nel mio chioschetto. «Il secondo anno, ancora più carichi, siamo arrivati con il budget dell’anno precedente. Avevo preso dei divani in Marocco con un mio amico, e lì abbiamo raccolto un sacco di idee. Questi grandi divani marocchini, come materassi, fatti tappezzare tutti blu, li avevo messi all’unico grande tavolo che c’era, dov’eri obbligato a socializzare con altra gente, e sono successe cose fantastiche: la nonnina col bambino e i due ragazzi magari un po’ burini, una coppia che litiga e tutti a provare a risolvere il problema… Mi piaceva giocare con questa realtà nuova, con queste persone che si sentivano a loro agio. Avevo trovato delle diapositive di vecchi quadri e li ho messi a disposizione; durante le serate si creavano collettivi di gente che suonava, un vero spazio di creazione, di libertà. Abbiamo fatto una festa anche con i collettivi di Bologna e sono venute mille persone. All’alba avevo tutta la spiaggia piena di gente, con ragazzi che ballavano anche in mare, bellissimo! E lì sono iniziati ad arrivare anche problemi legati al Comune, alla legalità… «Non ti ho detto che il primo anno i club e le discoteche che suonano musica commerciale mi avevano già mandato i controlli, chiamando i carabinieri: “c’è un chioschetto blu in riva al mare, andate a vedere”. Una discoteca storica di Ferrara aveva paura di un’attività aperta da un anno. Io e mia sorella di diciannove anni, che mi ha aiutato a ritinteggiare di blu un chioschetto di tre metri per tre, e questi qua ci mandano i carabinieri. «Io me ne fregavo, mi hanno mandato i carabinieri il primo anno alla fine della stagione e ho pagato la multa. Il secondo anno ho cominciato ad avere un po’ di paranoie, poi ho fatto due feste e mi sono detto, ne pago dieci di multe. Però ad agosto c’era davvero tanta gente, e i problemi potevano diventare molto più grossi; non avevo buttafuori, avevo gente che pagavo trenta euro con la maglia della security, trovata magari al mercatino dell’usato. Stavo iniziando a spaventarmi un po’ di quella realtà lì e quando ho provato a rendere questa cosa legale e a cercare un modo per far sì che diventasse un lavoro, ho capito che era una cosa campata in aria, fluttuante, temporanea, non poteva essere nient’altro. È stato un assaggio di speranza, un assaggio di libertà. «A volte i clienti dello stabilimento di mio padre chiamavano i carabinieri. Io non volevo fare il ribelle, volevo che quella cosa funzionasse perché era casa mia, quindi mi adattavo. Avevamo tutte le casse rivolte al mare, e andavo su al bar di mio padre per sentire se effettivamente davo fastidio, perché se do fastidio è giusto che chiudo, però, se non do fastidio c’è un problema, stiamo parlando di repressione. «Il secondo anno, dopo questa grande festa, anche mio padre ha iniziato a mettersi contro questa attività, aumentando l’affitto. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo, perché funzionava tutto perfettamente, però man mano che cresceva, sempre più parassiti arrivavano e volevano soldi: un fornitore faceva il furbo e mio padre aumentava l’affitto, poi ci mandavano delle multe… C’è stato un gran litigio. «Ho mollato, perché non capivo più niente. Mi dicevano non puoi fare niente, ma se hai un po’ di coraggio, lo puoi fare. Cosa vuol dire? Si può lavorare così? Ho iniziato ad avere quest’ansia, questa difficoltà anche a organizzarmi, perché se chiamavo un collettivo da Milano e poi non suonavano, che figura ci facevo con i clienti. Non riuscivo a proteggere la mia casa e quindi, citando la mia performance di domani qui a Scuola Cònia, questa casa l’ho indossata e me ne sono andato in Francia con l’idea di potermi vestire ancora di queste pareti e recuperare quello che ho raccolto in questo chiosco. FUOCO «Per rendere questa cosa simbolica ho deciso di dargli fuoco alla fine dell’anno, a settembre. È stato un rituale, ero contento. Non era un addio, gli dava un valore temporaneo, dava un valore al mio rapporto con la città di Ferrara. Ho provato a fare qualcosa per questa città ma ho capito che non era la mia lotta. Se la tengano la palude riqualificata, adesso se la riprenderanno, non lo so. «L’atto più rispettoso che potevo fare era di bruciare questa casa, un atto di purificazione. Volevo liberarla, questo è il primo motivo. Un altro motivo per il quale l’ho bruciata è stato che mio padre voleva darla in gestione, con una leggerezza… senza riconoscere tutto il mio lavoro. Non potevo permettere che il mio chiosco blu fosse gestito da altri, perché è stata casa mia. Questo mi ha dato la rabbia per bruciarlo, ero obbligato, non potevo fare altro, potevo solo bruciarlo. Non potevo farlo abitare a qualcun altro. «Si è bruciato anche il rapporto con mio padre e con tutta la mia famiglia. Sono stato da settembre a novembre a Ferrara, e poi sono fuggito, non riuscivo più a reggere tutto quello che mi stava intorno, lo sentivo soffocante, stavo iniziando a prendere brutte abitudini. Dopo che ho bruciato la casa, tutto intorno a me ha iniziato a bruciare, dalla relazione familiare, alle relazioni con gli amici, alle relazioni amorose, tutto si è fatto terra bruciata e una sera ho preso un volo e sono andato in Francia. «Quest’anno ho ricominciato un’altra vita e sono tornato viandante come quando ho costruito il chiosco. Sto cercando un’altra realtà che mi accolga. È la prima volta che torno in Italia dopo mesi che sono fuori, sono tornato per la Scuola Cònia, perché fa parte di questo percorso, e lo chiuderò con questa performance, che rappresenta un po’ il mio esodo da questa casa». (daniele balzano)