Soluzioni semplici: costruire più case per abbassare gli affitti?
(disegno di valentina galluccio)
Scrive un deputato della repubblica italiana, economista, segretario di un
partito, in un post di lunedì 21 luglio: “Facciamola semplice: se in una
qualsiasi città i prezzi delle abitazioni sono troppo alti, c’è un solo modo per
farli scendere: costruire più abitazioni”. Il contesto, inutile dirlo, è il
continuo e sfacciato tentativo di tenere in piedi il “modello Sala”, crollato
rovinosamente a Milano. Ma il deputato Marattin si inerpica su un terreno
spinoso. Secondo lui la speculazione immobiliare, la costruzione estensiva di
abitazioni, sarebbe un modo non solo per far guadagnare i costruttori, com’era
sicuramente l’obiettivo del modello Milano, ma anche per abbassare i canoni
d’affitto. Al di là delle vicende giudiziarie, insomma, fomentare la costruzione
fa bene a tutti.
Il deputato va oltre, e scrive, excusatio non petita: “I tentativi di abbassare
gli affitti controllandoli per legge sono stati un fallimento in tutto il mondo
e in ogni tempo”. Gli inquilini e le inquiline, insomma, avrebbero bisogno di
più cemento, non di leggi che li tutelino. È curioso come un’affermazione così
controintuitiva ancora riesca a trovare spazio nel dibattito pubblico. Perché?
Da una parte si continua ad alimentare l’illusione che gli imprenditori lavorino
per la società e non per il proprio tornaconto, il che permette d’ignorare
l’evidenza, per esempio, che l’enorme aumento di costruzioni degli ultimi anni
sia orientato a favore delle classi medio-alte e al turismo, non certo a
risolvere i problemi abitativi dei ceti impoveriti. Dall’altra, perché persiste
il mito della mano invisibile del “mercato”, che presenta come autoregolato,
spontaneo e in qualche modo magico, il rapporto tra chi compra e chi vende –
anche quando è così evidente, come dimostra proprio il modello Sala, che chi
vende o affitta le case ha il potere, gli appoggi politici, la possibilità di
“inventare” e diffondere una intera retorica, mentre chi le affitta, o prova a
comprarle, non ha strumenti di questo tipo a disposizione. Queste “soluzioni
semplici”, che nascondono potere e diseguaglianze, fanno venire voglia di
mettere mano alla sciabola. Per sublimare questo desiderio vale la pena fare una
piccola carrellata sui “tentativi di abbassare gli affitti controllandoli per
legge” – le leggi per il rent control – che sono invece proprio le misure di cui
abbiamo bisogno ora.
DUEMILA ANNI DI CONTROLLO DEGLI AFFITTI
L’umanità dev’essere proprio impermeabile agli errori, se lo stesso fallimento
continua a riproporsi anche a distanza di millenni. La prima legge per
controllare gli affitti che conosciamo risale alla Roma repubblicana,
cinquant’anni prima della nascita di Cristo: fu sperimentata all’inizio nella
piccola “colonia interna” del porto di Ostia, come cancellazione dei debiti e
blocco dei pagamenti per un anno. Misure simili furono usate da Cesare e da
Ottaviano, più avanti dagli imperatori Valeriano e Gallieno.
Altri esempi importanti furono le misure straordinarie introdotte dalla dinastia
Song in Cina, intorno all’anno 1000; nel 1513, nello Stato Pontificio,
un Decretum Camerae Apostolicae in fauorem inquilinorum sancì il
controllo pubblico sugli affitti; a metà Settecento un editto del Regno di
Sardegna affidò al vicario di Torino il compito di “conoscere e provvedere circa
le differenze per eccessivo aumento di fìtto tra li padroni di case poste in
detta Città ed i loro affittavoli, e di procedere ove d’uopo alla tassa de’
luoghi appigionati”; nel 1815 il Ducato di Modena pubblicò una legge che fissava
l’affitto al 6% del valore della proprietà.
Si possono citare un’infinità di altri esempi, particolarmente concentrati
nell’Europa meridionale – da Parigi a Malta, dal Portogallo alla Madrid del
1600: in alcuni casi le leggi funzionarono, in altri casi no (come quelle
dell’imperatore Gallieno: i proprietari le aggirarono stipulando contratti
brevi, non regolati). Ma quello che più interessa sono le forme di regolazione
moderne, che si diffusero in varie parti d’Europa e in Nordamerica all’inizio
del Novecento. Le lotte del movimento operaio di metà-fine Ottocento in molti
casi reclamarono il diritto alla casa per chi viveva in affitto, cioè la
totalità della classe lavoratrice: i padroni delle fabbriche erano spesso anche
i padroni delle case. In Scozia, Inghilterra, Irlanda, Svezia e Spagna, a
cavallo del secolo, ci furono grandi “scioperi dell’affitto” che si conclusero
spesso con l’approvazione di leggi per il controllo dei canoni: 1915 in Scozia,
Inghilterra e Irlanda, 1917 in Svezia, 1919 in alcune parti della Germania, 1920
in Spagna e a New York. Erano leggi pensate per essere temporanee, ma furono
rinnovate per reggere l’emergenza della Grande Guerra.
La storica Jo Guildi spiega che il primo movimento inquilino moderno
per l’abbassamento dei canoni era in primo luogo un movimento anticoloniale:
furono i contadini irlandesi vessati dai proprietari inglesi a reclamare
l’abbassamento per legge degli affitti delle terre e delle masserie, con
il primo sciopero degli affitti della storia. Il parlamento irlandese
approvò un Land Act che impose che i contratti tra inquilini e proprietari
considerassero il diritto all’uso delle terre, non solo quello alla proprietà, e
regolati da un tribunale speciale. Dei valutatori professionisti analizzavano i
canoni caso per caso. I movimenti inquilini di altre regioni britanniche presero
l’esempio e iniziarono altri scioperi dell’affitto: il più grande fu quello del
1915 a Glasgow, dove c’è ancora la statua di una delle leader della protesta
inquilina, Mary Barbour (gli inquilini e le inquiline che trattenevano l’affitto
furono chiamati “l’esercito di Mrs. Barbour”).
Anche in Spagna le donne erano molto attive nelle organizzazioni inquiline di
inizio secolo: i sindacati inquilini di Bilbao, Valencia e Barcellona furono
fondati nel 1904, e nel 1920 riuscirono a far approvare la prima legge per
ridurre i canoni, estendere la durata dei contratti e limitare gli sfratti. Le
proteste non si fermarono, e nell’aprile 1931 a Barcellona iniziò un
enorme sciopero dell’affitto (la huelga de alquileres), chiamato dal sindacato
anarchico della CNT, a cui parteciparono oltre centomila unità abitative.
Queste leggi ottennero l’abbassamento dei canoni, anche se spesso il risultato
fu inferiore alle aspettative: l’obiettivo della CNT era che
gli affitti scendessero del quaranta per cento e fossero azzerati per chi non
aveva reddito (perché la casa è un diritto!). Il governo repubblicano spagnolo
non arrivò a tanto, ma certamente molte famiglie operaie o disoccupate videro
migliorare le proprie condizioni prima che Francisco Franco iniziasse a
intaccare il controllo pubblico sugli affitti. Anche in Italia fu Mussolini, nel
1923, a eliminare il blocco degli affitti in vigore sin dalla Grande Guerra: fu
la prima legge del fascismo, fatta per compiacere proprietari immobiliari e
investitori. Gli affitti aumentarono vertiginosamente, soprattutto a Roma e
Milano, e nel 1930 il regime dovette reintrodurre la regolamentazione. Anche i
governi più conservatori ricorrono al controllo degli affitti in tempi di guerra
e di crisi, e gli effetti sono evidenti: gli affitti scendono e gli inquilini
più vulnerabili hanno meno difficoltà a rimanere nelle loro case. Lo dimostra
anche l’esempio dell’Argentina, dove il rent control permise a migliaia di
famiglie di sopravvivere dopo la prima e la seconda guerra mondiale, con
regolamentazioni molto stringenti.
INEFFICACIA DEL RENT CONTROL, UN MITO DEL MACCARTISMO
L’attacco più duro al controllo degli affitti fu negli anni Cinquanta,
quando forme di rent control erano attive in molti stati e
città sia d’Europa che d’America. Il mantra degli economisti liberisti
statunitensi, orientati dal maccartismo, dall’anticomunismo e dalla retorica
del laissez-faire, divenne proprio “l’inefficacia” del rent control
, argomentazione ripresa oggi dal deputato Marattin. Per non dire che il
controllo degli affitti fa male ai proprietari, si iniziò a dire che faceva male
agli inquilini. Negli anni Settanta, importanti economisti come Milton Friedman
e Friedrich Hayek furono i campioni di questa nuova ondata di retorica
liberista, che si scatenò ovunque si fossero ottenute conquiste sociali nei
decenni precedenti. La retorica contro il rent control raggiunse picchi epici,
come quando l’economista svedese Assar Lindbeck scrisse che il controllo degli
affitti “sembra essere la tecnica più efficace per distruggere una città, oltre
a bombardarla”.
Ora sappiamo che queste sparate erano parte di un vero e proprio progetto
politico, quello identificato da Marco D’Eramo in Dominio, e cioè l’assalto dei
think tank conservatori alle conquiste del movimento operaio e delle battaglie
degli afroamericani per i diritti civili. Think tank finanziati dalla lobby
immobiliare come il Fraser Institute ebbero un ruolo determinante nel modellare
il discorso pubblico. Mentre Lindbeck e gli altri pontificavano sull’inefficacia
del rent control, l’associazione dei proprietari immobiliari californiani
spendeva quattordici milioni di dollari per far ritirare le regolamentazioni,
allora attive in tredici comuni dello stato – oltre che in cinque città del
Massachusetts, centoventi del New Jersey, e a New York. Anche in Europa il
controllo degli affitti cadde, prima in Irlanda, nel 1966, poi in Inghilterra,
nel 1982, poi in Spagna, nel 1986, infine in Italia, con la liberalizzazione dei
fitti del 1998. Mentre la prima stagione di liberalizzazioni fu guidata dalla
destra (Reagan e Thatcher), la seconda è interamente opera della cosiddetta
sinistra (il Psoe di Felipe González in Spagna, il governo D’Alema in Italia).
L’opera iniziata da Franco e Mussolini fu conclusa dagli ex comunisti.
Tom Slater e Hamish Kallin, geografi marxisti scozzesi, oggi i principali
esperti di rent control, descrivono questo assalto come una “pseudoscienza”,
promozione organizzata dell’ignoranza. L’assalto degli economisti al rent
control si basa sempre su tre miti. Il rent control spingerebbe i proprietari a
ridurre l’offerta di case (supply myth), non incentiverebbe i proprietari a
migliorarne la qualità (quality myth), e in generale sarebbe inefficiente
(efficiency myth) perché gli inquilini finirebbero per abitare case migliori di
quelle che si possono permettere. In un libro che uscirà a fine anno con Armando
Editore, scritto insieme a Chiara Davoli, entreremo più nel dettaglio sulle
fallacie fattuali e logiche di questi tre miti, il cui debunking comunque si
trova negli articoli e nelle interviste di Slater e Kallin
(come questa, questo, e questo, purtroppo protetti da paywall accademici). Per
riassumere, basti vedere che trent’anni di liberismo non hanno certo prodotto
maggiore offerta di case, né maggiore qualità; qualità e offerta sono molto
migliori in paesi dove ci sono regolamentazioni, come i Paesi Bassi, rispetto
che a dove non ci sono, come il Regno Unito. Si pensi alla tragedia della
Grenfell Tower a Londra, dove morirono settanta persone a causa della pessima
qualità delle abitazioni, in un sistema ultraliberista: la mano invisibile del
mercato non aveva dato neanche una passata di vernice. Anzi, è proprio il libero
mercato a produrre effetti simili a un bombardamento: un esempio per tutti,
Detroit. Meglio non commentare il mito dell’efficienza, che dà per scontato che
i poveri debbano vivere sempre al minimo della sussistenza, e che le case grandi
e belle devono essere per forza abitate dai ricchi.
RENT CONTROL OGGI
Nonostante questo assalto neoliberale, nonostante i Marattin, nonostante i think
tank nostrani (il presidente di Confedilizia Calabria, Sandro Scoppa, ha curato
un recente volume dal titolo Controllare gli affitti, distruggere l’economia),
nuove forme di controllo pubblico sugli affitti stanno tornando in auge in tanti
paesi del mondo. L’evidenza del fallimento del libero mercato, soprattutto di
fronte alla catastrofe abitativa dopo il 2008 e dopo il 2020, è così evidente
che i vecchi miti economicisti non reggono più. Le stesse amministrazioni
pubbliche che per decenni hanno ignorato ogni studio non finanziato dalle lobby
dei costruttori oggi hanno iniziato ad ascoltare altre posizioni, in particolare
quelle dei sindacati inquilini e dei loro esperti indipendenti. Oggi ci sono ben
sedici paesi dell’Unione Europea in cui sono attive forme di controllo degli
affitti: le regolamentazioni più dure sono presenti in Francia, Irlanda, Paesi
Bassi, Austria, Svezia e Danimarca, e quelle più leggere sono in Spagna,
Germania, Svizzera, Belgio, Lussemburgo, Croazia, Polonia, Cipro, Scozia,
Norvegia. L’Italia è uno dei diciassette paesi dell’Unione che non ha più
nessuna forma di controllo degli affitti, insieme a Portogallo, Grecia,
Inghilterra, Islanda, Finlandia, Slovenia, Slovacchia, Repubblica Ceca,
Ungheria, Romania, Serbia, Bulgaria e i tre paesi baltici. Gran parte delle
leggi sul rent control sono state introdotte negli ultimi cinque o sei anni, per
cui è presto per dire quale è stato il loro effetto (primi studi si
trovano qui e qui). Ma è interessante sapere che oggi il paese dove ci sono più
forme di controllo degli affitti sono proprio gli Usa: New York ha un controllo
sugli affitti che si applica solo a un numero limitato di abitazioni, e la Rent
Stabilization Ordinance di Los Angeles stabilisce un tetto massimo agli aumenti
degli affitti, che fino al Covid era del tre per cento. Negli Stati Uniti
il rent control è l’unica politica pubblica che si possa ancora usare per
limitare i danni del neoliberalismo, perché le leggi federali impediscono la
costruzione di nuove case popolari (se non per sostituire quelle da abbattere).
La domanda chiave, ovviamente, è: il controllo pubblico sugli affitti riesce
davvero a far calare i prezzi dei canoni? Oggi che le case sono completamente
costruite da privati, e che è possibile produrne una grande quantità, che
effetto ha l’intervento pubblico? Intanto, niente panico, sappiamo bene che lo
Stato interviene in un enorme quantità di settori economici, e che di fatto non
c’è niente di simile a un vero “mercato”: lo stato regola, interviene, sussidia,
promuove, detassa, finanzia, aiuta. Non sarebbe un’eresia se invece di
intervenire solo sul tabacco e sul sale, o su pasta, latte e uova come durante
la pandemia, si intervenisse anche sulle case. Gli studi esistenti dicono
chiaramente che i miti sulle presunte catastrofi del rent control sono falsi: in
nessuno dei paesi in cui sono attive politiche di questo tipo c’è stato niente
di simile a un bombardamento, né drastiche riduzioni della qualità e
dell’offerta. Anche le regolamentazioni attivate sono piuttosto blande: si
congelano i canoni, permettendo solo aumenti legati all’inflazione, o a
miglioramenti sostanziali nella qualità degli alloggi (rent freeze) oppure si
fissa un tetto massimo sopra il quale non si può aumentare (rent cap, in
tedesco Mietendekel).
Il progetto del Sindacato inquilini della Catalogna di abbassare gli affitti del
cinquanta per cento, sostenuto da una grande manifestazione a Barcellona a
novembre, non si è ancora realizzato, e la nuova legge spagnola è piena di
“buchi” che permettono ai proprietari di aggirarla, proprio come avevano fatto i
loro omologhi al tempo dell’imperatore Gallieno: stipulando contratti brevi non
regolati. Anche quando non ottiene i risultati sperati, tuttavia, il rent
control non fa di certo male, almeno non agli inquilini. Fa anche bene? Le prime
analisi sembrerebbero confermarlo: uno studio condotto dalla municipalità di
Parigi sui primi sei anni di controllo degli affitti mostra che i canoni sono
scesi del quattro per cento rispetto a quanto avrebbero fatto senza
regolamentazione: del due per cento nel primo triennio (che però è anche quello
della pandemia), e poi addirittura del sei per cento. Sono sessantaquattro euro
di media al mese risparmiati dagli inquilini. Intanto sono stati
segnalati milleseicento casi di infrazione, con i relativi procedimenti contro i
proprietari: quasi la metà degli annunci indicano prezzi più alti di quelli
consentiti per legge. Se tutti i proprietari avessero rispettato la legge, la
diminuzione degli affitti sarebbe stata superiore agli otto punti percentuali.
Conclusioni simili risultano dalla Catalogna, dove il controllo degli affitti è
stato in vigore per un anno e mezzo, prima di essere annullato dal Tribunale
costituzionale (e sostituito dalla timida Ley de Vivienda del governo Sánchez).
I prezzi sono scesi del cinque per cento già dai primi tre mesi di
regolamentazione, secondo i dati dell’Istituto Catalano del Suolo. Naturalmente,
i proprietari hanno reagito riducendo i contratti indefiniti e stipulando molti
più contratti temporanei, che il governo aveva iniziato a regolare quando è
stato bloccato dal partito catalanista Junts, oltre che dai fascisti del Pp e di
Vox. Altre situazioni sono ancora più complesse. A Vienna, per esempio, dove il
settantotto per cento degli abitanti vive in affitto, e appena un terzo di
questi è in affitto da privati, ci sono forme molto estese di regolamentazione
dei prezzi: solo il sette per cento non è regolato. Eppure, negli ultimi anni i
prezzi sono comunque saliti, portando il governo ad approvare un nuovo
congelamento dei prezzi. In Olanda invece il sistema sembra funzionare bene, con
un meccanismo centralizzato che calcola i prezzi, e che tiene fuori dalle
regolamentazioni solo le case di lusso. Ci sono tribunali che sanzionano le
violazioni, e tutti i contratti d’affitto sono diventati contratti permanenti.
Insomma, far scendere gli affitti è una priorità assoluta, ma non si può credere
che si possa fare con “soluzioni semplici” alla Marattin: serve un’azione
combinata, in cui si colpisce in primo luogo il mercato libero, poi gli affitti
brevi, poi altre forme di speculazione, come i grandi proprietari che tengono
centinaia di case vuote, e che devono essere tassati. Dire “basta fare x per
abbassare gli affitti” è la tipica soluzione “semplice, elegante e sbagliata”
che permette di continuare a produrre i danni che si vuole contenere, magari
anche a peggiorarli: stampare moneta per risolvere la crisi del debito, tagliare
le politiche sociali per affrontare la recessione (in Grecia), imporre dazi per
salvare posti di lavoro (in Usa), congelare i conti bancari per impedire la fuga
di capitali (in Argentina), o immettere enorme quantità di moneta per far
funzionare il sistema bancario malato dopo il 2008 (ovunque).
Il sistema delle abitazioni è complesso, perché nessuno può rimanerne fuori, e
perché si basa su un bene già distribuito in maniera diseguale, cioè la terra.
Non si può applicare astrattamente la legge della domanda e dell’offerta, perché
non è un mercato competitivo, dove se aumenta l’offerta i prezzi scendono. La
stessa metafora del “mercato” è fuorviante: si potrebbe paragonare più a un
centro commerciale, dove i negozi dipendono tutti dallo stesso franchising, e un
singolo operatore è in grado di influenzare tutti. L’offerta di case è un
oligopolio, regolato da cartelli e da lobby, che sono sostenute dai governi, e
che mantengono i prezzi alti mettendo sul mercato poche case alla volta e
tenendone chiuse migliaia di altre per usarle come deposito di investimenti e
garanzie per ottenere nuovo credito.
Pensate a quanto ci siamo scandalizzati durante la pandemia, quando alcuni
commercianti mettevano sul mercato piccole quantità di mascherine e amuchina per
far alzare i prezzi, e vendere a otto euro quello che sarebbe dovuto costare
pochi centesimi. Ma come! Sono beni di prima necessità, presidi indispensabili
per la salute! Lo stato deve impedirlo! Bene, lo stesso ragionamento si applica
alle case, che sono un bene di prima necessità, presidio di salute fondamentale,
e che pochi speculatori mettono sul mercato in piccole quantità per tenere
prezzi assolutamente insostenibili. Il controllo degli affitti è sicuramente un
modo per iniziare a scalfire il dumping commerciale delle grandi lobby della
proprietà, e deve diventare assolutamente una delle richieste prioritarie del
movimento per la casa (come già annunciato dal sindacato Asia-Usb in un convegno
a Roma).
Mentre facciamo crescere le campagne per il rent control, però, dobbiamo
studiarne in dettaglio l’applicazione, gli effetti, le varianti, prendendo in
considerazione tutti i fattori che possono far aumentare o diminuire gli
affitti. Ci vuole un pensiero olistico, che rifiuta a priori gli “è semplice”
alla Marattin, e che sia in grado di combinare un’azione politica decisa con un
ragionamento scientifico complesso, capace di mettere in discussione anche
quello che consideriamo ovvio. Come scrivono due economisti svedesi
nello studio su cui si basa la nuova politica di rent control del governo
svedese: “Il rent control ci riporta alla macroeconomia: se lo studi e non ti
senti un po’ confuso, probabilmente non stai pensando lucidamente”. (stefano
portelli)