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Soluzioni semplici: costruire più case per abbassare gli affitti?
(disegno di valentina galluccio) Scrive un deputato della repubblica italiana, economista, segretario di un partito, in un post di lunedì 21 luglio: “Facciamola semplice: se in una qualsiasi città i prezzi delle abitazioni sono troppo alti, c’è un solo modo per farli scendere: costruire più abitazioni”. Il contesto, inutile dirlo, è il continuo e sfacciato tentativo di tenere in piedi il “modello Sala”, crollato rovinosamente a Milano. Ma il deputato Marattin si inerpica su un terreno spinoso. Secondo lui la speculazione immobiliare, la costruzione estensiva di abitazioni, sarebbe un modo non solo per far guadagnare i costruttori, com’era sicuramente l’obiettivo del modello Milano, ma anche per abbassare i canoni d’affitto. Al di là delle vicende giudiziarie, insomma, fomentare la costruzione fa bene a tutti. Il deputato va oltre, e scrive, excusatio non petita: “I tentativi di abbassare gli affitti controllandoli per legge sono stati un fallimento in tutto il mondo e in ogni tempo”. Gli inquilini e le inquiline, insomma, avrebbero bisogno di più cemento, non di leggi che li tutelino. È curioso come un’affermazione così controintuitiva ancora riesca a trovare spazio nel dibattito pubblico. Perché? Da una parte si continua ad alimentare l’illusione che gli imprenditori lavorino per la società e non per il proprio tornaconto, il che permette d’ignorare l’evidenza, per esempio, che l’enorme aumento di costruzioni degli ultimi anni sia orientato a favore delle classi medio-alte e al turismo, non certo a risolvere i problemi abitativi dei ceti impoveriti. Dall’altra, perché persiste il mito della mano invisibile del “mercato”, che presenta come autoregolato, spontaneo e in qualche modo magico, il rapporto tra chi compra e chi vende – anche quando è così evidente, come dimostra proprio il modello Sala, che chi vende o affitta le case ha il potere, gli appoggi politici, la possibilità di “inventare” e diffondere una intera retorica, mentre chi le affitta, o prova a comprarle, non ha strumenti di questo tipo a disposizione. Queste “soluzioni semplici”, che nascondono potere e diseguaglianze, fanno venire voglia di mettere mano alla sciabola. Per sublimare questo desiderio vale la pena fare una piccola carrellata sui “tentativi di abbassare gli affitti controllandoli per legge” – le leggi per il rent control – che sono invece proprio le misure di cui abbiamo bisogno ora. DUEMILA ANNI DI CONTROLLO DEGLI AFFITTI L’umanità dev’essere proprio impermeabile agli errori, se lo stesso fallimento continua a riproporsi anche a distanza di millenni. La prima legge per controllare gli affitti che conosciamo risale alla Roma repubblicana, cinquant’anni prima della nascita di Cristo: fu sperimentata all’inizio nella piccola “colonia interna” del porto di Ostia, come cancellazione dei debiti e blocco dei pagamenti per un anno. Misure simili furono usate da Cesare e da Ottaviano, più avanti dagli imperatori Valeriano e Gallieno. Altri esempi importanti furono le misure straordinarie introdotte dalla dinastia Song in Cina, intorno all’anno 1000; nel 1513, nello Stato Pontificio, un Decretum Camerae Apostolicae in fauorem inquilinorum sancì il controllo pubblico sugli affitti; a metà Settecento un editto del Regno di Sardegna affidò al vicario di Torino il compito di “conoscere e provvedere circa le differenze per eccessivo aumento di fìtto tra li padroni di case poste in detta Città ed i loro affittavoli, e di procedere ove d’uopo alla tassa de’ luoghi appigionati”; nel 1815 il Ducato di Modena pubblicò una legge che fissava l’affitto al 6% del valore della proprietà. Si possono citare un’infinità di altri esempi, particolarmente concentrati nell’Europa meridionale – da Parigi a Malta, dal Portogallo alla Madrid del 1600: in alcuni casi le leggi funzionarono, in altri casi no (come quelle dell’imperatore Gallieno: i proprietari le aggirarono stipulando contratti brevi, non regolati). Ma quello che più interessa sono le forme di regolazione moderne, che si diffusero in varie parti d’Europa e in Nordamerica all’inizio del Novecento. Le lotte del movimento operaio di metà-fine Ottocento in molti casi reclamarono il diritto alla casa per chi viveva in affitto, cioè la totalità della classe lavoratrice: i padroni delle fabbriche erano spesso anche i padroni delle case. In Scozia, Inghilterra, Irlanda, Svezia e Spagna, a cavallo del secolo, ci furono grandi “scioperi dell’affitto” che si conclusero spesso con l’approvazione di leggi per il controllo dei canoni: 1915 in Scozia, Inghilterra e Irlanda, 1917 in Svezia, 1919 in alcune parti della Germania, 1920 in Spagna e a New York. Erano leggi pensate per essere temporanee, ma furono rinnovate per reggere l’emergenza della Grande Guerra. La storica Jo Guildi spiega che il primo movimento inquilino moderno per l’abbassamento dei canoni era in primo luogo un movimento anticoloniale: furono i contadini irlandesi vessati dai proprietari inglesi a reclamare l’abbassamento per legge degli affitti delle terre e delle masserie, con il primo sciopero degli affitti della storia. Il parlamento irlandese approvò un Land Act che impose che i contratti tra inquilini e proprietari considerassero il diritto all’uso delle terre, non solo quello alla proprietà, e regolati da un tribunale speciale. Dei valutatori professionisti analizzavano i canoni caso per caso. I movimenti inquilini di altre regioni britanniche presero l’esempio e iniziarono altri scioperi dell’affitto: il più grande fu quello del 1915 a Glasgow, dove c’è ancora la statua di una delle leader della protesta inquilina, Mary Barbour (gli inquilini e le inquiline che trattenevano l’affitto furono chiamati “l’esercito di Mrs. Barbour”). Anche in Spagna le donne erano molto attive nelle organizzazioni inquiline di inizio secolo: i sindacati inquilini di Bilbao, Valencia e Barcellona furono fondati nel 1904, e nel 1920 riuscirono a far approvare la prima legge per ridurre i canoni, estendere la durata dei contratti e limitare gli sfratti. Le proteste non si fermarono, e nell’aprile 1931 a Barcellona iniziò un enorme sciopero dell’affitto (la huelga de alquileres), chiamato dal sindacato anarchico della CNT, a cui parteciparono oltre centomila unità abitative. Queste leggi ottennero l’abbassamento dei canoni, anche se spesso il risultato fu inferiore alle aspettative: l’obiettivo della CNT era che gli affitti scendessero del quaranta per cento e fossero azzerati per chi non aveva reddito (perché la casa è un diritto!). Il governo repubblicano spagnolo non arrivò a tanto, ma certamente molte famiglie operaie o disoccupate videro migliorare le proprie condizioni prima che Francisco Franco iniziasse a intaccare il controllo pubblico sugli affitti. Anche in Italia fu Mussolini, nel 1923, a eliminare il blocco degli affitti in vigore sin dalla Grande Guerra: fu la prima legge del fascismo, fatta per compiacere proprietari immobiliari e investitori. Gli affitti aumentarono vertiginosamente, soprattutto a Roma e Milano, e nel 1930 il regime dovette reintrodurre la regolamentazione. Anche i governi più conservatori ricorrono al controllo degli affitti in tempi di guerra e di crisi, e gli effetti sono evidenti: gli affitti scendono e gli inquilini più vulnerabili hanno meno difficoltà a rimanere nelle loro case. Lo dimostra anche l’esempio dell’Argentina, dove il rent control permise a migliaia di famiglie di sopravvivere dopo la prima e la seconda guerra mondiale, con regolamentazioni molto stringenti. INEFFICACIA DEL RENT CONTROL, UN MITO DEL MACCARTISMO L’attacco più duro al controllo degli affitti fu negli anni Cinquanta, quando forme di rent control erano attive in molti stati e città sia d’Europa che d’America. Il mantra degli economisti liberisti statunitensi, orientati dal maccartismo, dall’anticomunismo e dalla retorica del laissez-faire, divenne proprio “l’inefficacia” del rent control , argomentazione ripresa oggi dal deputato Marattin. Per non dire che il controllo degli affitti fa male ai proprietari, si iniziò a dire che faceva male agli inquilini. Negli anni Settanta, importanti economisti come Milton Friedman e Friedrich Hayek furono i campioni di questa nuova ondata di retorica liberista, che si scatenò ovunque si fossero ottenute conquiste sociali nei decenni precedenti. La retorica contro il rent control raggiunse picchi epici, come quando l’economista svedese Assar Lindbeck scrisse che il controllo degli affitti “sembra essere la tecnica più efficace per distruggere una città, oltre a bombardarla”.  Ora sappiamo che queste sparate erano parte di un vero e proprio progetto politico, quello identificato da Marco D’Eramo in Dominio, e cioè l’assalto dei think tank conservatori alle conquiste del movimento operaio e delle battaglie degli afroamericani per i diritti civili. Think tank finanziati dalla lobby immobiliare come il Fraser Institute ebbero un ruolo determinante nel modellare il discorso pubblico. Mentre Lindbeck e gli altri pontificavano sull’inefficacia del rent control, l’associazione dei proprietari immobiliari californiani spendeva quattordici milioni di dollari per far ritirare le regolamentazioni, allora attive in tredici comuni dello stato – oltre che in cinque città del Massachusetts, centoventi del New Jersey, e a New York. Anche in Europa il controllo degli affitti cadde, prima in Irlanda, nel 1966, poi in Inghilterra, nel 1982, poi in Spagna, nel 1986, infine in Italia, con la liberalizzazione dei fitti del 1998. Mentre la prima stagione di liberalizzazioni fu guidata dalla destra (Reagan e Thatcher), la seconda è interamente opera della cosiddetta sinistra (il Psoe di Felipe González in Spagna, il governo D’Alema in Italia). L’opera iniziata da Franco e Mussolini fu conclusa dagli ex comunisti. Tom Slater e Hamish Kallin, geografi marxisti scozzesi, oggi i principali esperti di rent control, descrivono questo assalto come una “pseudoscienza”, promozione organizzata dell’ignoranza. L’assalto degli economisti al rent control si basa sempre su tre miti. Il rent control spingerebbe i proprietari a ridurre l’offerta di case (supply myth), non incentiverebbe i proprietari a migliorarne la qualità (quality myth), e in generale sarebbe inefficiente (efficiency myth) perché gli inquilini finirebbero per abitare case migliori di quelle che si possono permettere. In un libro che uscirà a fine anno con Armando Editore, scritto insieme a Chiara Davoli, entreremo più nel dettaglio sulle fallacie fattuali e logiche di questi tre miti, il cui debunking comunque si trova negli articoli e nelle interviste di Slater e Kallin (come questa, questo, e questo, purtroppo protetti da paywall accademici). Per riassumere, basti vedere che trent’anni di liberismo non hanno certo prodotto maggiore offerta di case, né maggiore qualità; qualità e offerta sono molto migliori in paesi dove ci sono regolamentazioni, come i Paesi Bassi, rispetto che a dove non ci sono, come il Regno Unito. Si pensi alla tragedia della Grenfell Tower a Londra, dove morirono settanta persone a causa della pessima qualità delle abitazioni, in un sistema ultraliberista: la mano invisibile del mercato non aveva dato neanche una passata di vernice. Anzi, è proprio il libero mercato a produrre effetti simili a un bombardamento: un esempio per tutti, Detroit. Meglio non commentare il mito dell’efficienza, che dà per scontato che i poveri debbano vivere sempre al minimo della sussistenza, e che le case grandi e belle devono essere per forza abitate dai ricchi. RENT CONTROL OGGI Nonostante questo assalto neoliberale, nonostante i Marattin, nonostante i think tank nostrani (il presidente di Confedilizia Calabria, Sandro Scoppa, ha curato un recente volume dal titolo Controllare gli affitti, distruggere l’economia), nuove forme di controllo pubblico sugli affitti stanno tornando in auge in tanti paesi del mondo. L’evidenza del fallimento del libero mercato, soprattutto di fronte alla catastrofe abitativa dopo il 2008 e dopo il 2020, è così evidente che i vecchi miti economicisti non reggono più. Le stesse amministrazioni pubbliche che per decenni hanno ignorato ogni studio non finanziato dalle lobby dei costruttori oggi hanno iniziato ad ascoltare altre posizioni, in particolare quelle dei sindacati inquilini e dei loro esperti indipendenti. Oggi ci sono ben sedici paesi dell’Unione Europea in cui sono attive forme di controllo degli affitti: le regolamentazioni più dure sono presenti in Francia, Irlanda, Paesi Bassi, Austria, Svezia e Danimarca, e quelle più leggere sono in Spagna, Germania, Svizzera, Belgio, Lussemburgo, Croazia, Polonia, Cipro, Scozia, Norvegia. L’Italia è uno dei diciassette paesi dell’Unione che non ha più nessuna forma di controllo degli affitti, insieme a Portogallo, Grecia, Inghilterra, Islanda, Finlandia, Slovenia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria, Romania, Serbia, Bulgaria e i tre paesi baltici. Gran parte delle leggi sul rent control sono state introdotte negli ultimi cinque o sei anni, per cui è presto per dire quale è stato il loro effetto (primi studi si trovano qui e qui). Ma è interessante sapere che oggi il paese dove ci sono più forme di controllo degli affitti sono proprio gli Usa: New York ha un controllo sugli affitti che si applica solo a un numero limitato di abitazioni, e la Rent Stabilization Ordinance di Los Angeles stabilisce un tetto massimo agli aumenti degli affitti, che fino al Covid era del tre per cento. Negli Stati Uniti il rent control è l’unica politica pubblica che si possa ancora usare per limitare i danni del neoliberalismo, perché le leggi federali impediscono la costruzione di nuove case popolari (se non per sostituire quelle da abbattere).  La domanda chiave, ovviamente, è: il controllo pubblico sugli affitti riesce davvero a far calare i prezzi dei canoni? Oggi che le case sono completamente costruite da privati, e che è possibile produrne una grande quantità, che effetto ha l’intervento pubblico? Intanto, niente panico, sappiamo bene che lo Stato interviene in un enorme quantità di settori economici, e che di fatto non c’è niente di simile a un vero “mercato”: lo stato regola, interviene, sussidia, promuove, detassa, finanzia, aiuta. Non sarebbe un’eresia se invece di intervenire solo sul tabacco e sul sale, o su pasta, latte e uova come durante la pandemia, si intervenisse anche sulle case. Gli studi esistenti dicono chiaramente che i miti sulle presunte catastrofi del rent control sono falsi: in nessuno dei paesi in cui sono attive politiche di questo tipo c’è stato niente di simile a un bombardamento, né drastiche riduzioni della qualità e dell’offerta. Anche le regolamentazioni attivate sono piuttosto blande: si congelano i canoni, permettendo solo aumenti legati all’inflazione, o a miglioramenti sostanziali nella qualità degli alloggi (rent freeze) oppure si fissa un tetto massimo sopra il quale non si può aumentare (rent cap, in tedesco Mietendekel).  Il progetto del Sindacato inquilini della Catalogna di abbassare gli affitti del cinquanta per cento, sostenuto da una grande manifestazione a Barcellona a novembre, non si è ancora realizzato, e la nuova legge spagnola è piena di “buchi” che permettono ai proprietari di aggirarla, proprio come avevano fatto i loro omologhi al tempo dell’imperatore Gallieno: stipulando contratti brevi non regolati. Anche quando non ottiene i risultati sperati, tuttavia, il rent control non fa di certo male, almeno non agli inquilini. Fa anche bene? Le prime analisi sembrerebbero confermarlo: uno studio condotto dalla municipalità di Parigi sui primi sei anni di controllo degli affitti mostra che i canoni sono scesi del quattro per cento rispetto a quanto avrebbero fatto senza regolamentazione: del due per cento nel primo triennio (che però è anche quello della pandemia), e poi addirittura del sei per cento. Sono sessantaquattro euro di media al mese risparmiati dagli inquilini. Intanto sono stati segnalati milleseicento casi di infrazione, con i relativi procedimenti contro i proprietari: quasi la metà degli annunci indicano prezzi più alti di quelli consentiti per legge. Se tutti i proprietari avessero rispettato la legge, la diminuzione degli affitti sarebbe stata superiore agli otto punti percentuali. Conclusioni simili risultano dalla Catalogna, dove il controllo degli affitti è stato in vigore per un anno e mezzo, prima di essere annullato dal Tribunale costituzionale (e sostituito dalla timida Ley de Vivienda del governo Sánchez). I prezzi sono scesi del cinque per cento già dai primi tre mesi di regolamentazione, secondo i dati dell’Istituto Catalano del Suolo. Naturalmente, i proprietari hanno reagito riducendo i contratti indefiniti e stipulando molti più contratti temporanei, che il governo aveva iniziato a regolare quando è stato bloccato dal partito catalanista Junts, oltre che dai fascisti del Pp e di Vox. Altre situazioni sono ancora più complesse. A Vienna, per esempio, dove il settantotto per cento degli abitanti vive in affitto, e appena un terzo di questi è in affitto da privati, ci sono forme molto estese di regolamentazione dei prezzi: solo il sette per cento non è regolato. Eppure, negli ultimi anni i prezzi sono comunque saliti, portando il governo ad approvare un nuovo congelamento dei prezzi. In Olanda invece il sistema sembra funzionare bene, con un meccanismo centralizzato che calcola i prezzi, e che tiene fuori dalle regolamentazioni solo le case di lusso. Ci sono tribunali che sanzionano le violazioni, e tutti i contratti d’affitto sono diventati contratti permanenti.  Insomma, far scendere gli affitti è una priorità assoluta, ma non si può credere che si possa fare con “soluzioni semplici” alla Marattin: serve un’azione combinata, in cui si colpisce in primo luogo il mercato libero, poi gli affitti brevi, poi altre forme di speculazione, come i grandi proprietari che tengono centinaia di case vuote, e che devono essere tassati. Dire “basta fare x per abbassare gli affitti” è la tipica soluzione “semplice, elegante e sbagliata” che permette di continuare a produrre i danni che si vuole contenere, magari anche a peggiorarli: stampare moneta per risolvere la crisi del debito, tagliare le politiche sociali per affrontare la recessione (in Grecia), imporre dazi per salvare posti di lavoro (in Usa), congelare i conti bancari per impedire la fuga di capitali (in Argentina), o immettere enorme quantità di moneta per far funzionare il sistema bancario malato dopo il 2008 (ovunque). Il sistema delle abitazioni è complesso, perché nessuno può rimanerne fuori, e perché si basa su un bene già distribuito in maniera diseguale, cioè la terra. Non si può applicare astrattamente la legge della domanda e dell’offerta, perché non è un mercato competitivo, dove se aumenta l’offerta i prezzi scendono. La stessa metafora del “mercato” è fuorviante: si potrebbe paragonare più a un centro commerciale, dove i negozi dipendono tutti dallo stesso franchising, e un singolo operatore è in grado di influenzare tutti. L’offerta di case è un oligopolio, regolato da cartelli e da lobby, che sono sostenute dai governi, e che mantengono i prezzi alti mettendo sul mercato poche case alla volta e tenendone chiuse migliaia di altre per usarle come deposito di investimenti e garanzie per ottenere nuovo credito. Pensate a quanto ci siamo scandalizzati durante la pandemia, quando alcuni commercianti mettevano sul mercato piccole quantità di mascherine e amuchina per far alzare i prezzi, e vendere a otto euro quello che sarebbe dovuto costare pochi centesimi. Ma come! Sono beni di prima necessità, presidi indispensabili per la salute! Lo stato deve impedirlo! Bene, lo stesso ragionamento si applica alle case, che sono un bene di prima necessità, presidio di salute fondamentale, e che pochi speculatori mettono sul mercato in piccole quantità per tenere prezzi assolutamente insostenibili. Il controllo degli affitti è sicuramente un modo per iniziare a scalfire il dumping commerciale delle grandi lobby della proprietà, e deve diventare assolutamente una delle richieste prioritarie del movimento per la casa (come già annunciato dal sindacato Asia-Usb in un convegno a Roma). Mentre facciamo crescere le campagne per il rent control, però, dobbiamo studiarne in dettaglio l’applicazione, gli effetti, le varianti, prendendo in considerazione tutti i fattori che possono far aumentare o diminuire gli affitti. Ci vuole un pensiero olistico, che rifiuta a priori gli “è semplice” alla Marattin, e che sia in grado di combinare un’azione politica decisa con un ragionamento scientifico complesso, capace di mettere in discussione anche quello che consideriamo ovvio. Come scrivono due economisti svedesi nello studio su cui si basa la nuova politica di rent control del governo svedese: “Il rent control ci riporta alla macroeconomia: se lo studi e non ti senti un po’ confuso, probabilmente non stai pensando lucidamente”. (stefano portelli)
Il Tar dà ragione alla rete contro le zone rosse. Annullata l’ordinanza del prefetto di Napoli
(disegno di cyop&kaf) Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania ha annullato l’ordinanza del prefetto di Napoli che prorogava il divieto di stazionamento nelle cosiddette “zone rosse” cittadine, misura ispirata da una direttiva del ministro Piantedosi dello scorso dicembre. Il Tar ha giudicato “l’esercizio del potere prefettizio privo dei necessari presupposti, illegittimo e lesivo dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale”. La sentenza dichiara che non vi era alcuna emergenza eccezionale, né alcuna motivazione nuova a giustificare l’uso reiterato di poteri prefettizi straordinari. Si tratta di un piccolo grande colpo alla politica di trasformazione dell’eccezione in prassi, che si è concretizzato grazie a una rete di attivisti, tecnici, studenti e lavoratori che si è riunita in città negli ultimi mesi, autorganizzando una mobilitazione all’interno della quale il piano legale è solo uno dei livelli. Stella Arena e Andrea Chiappetta, gli avvocati che si sono occupati del ricorso, spiegano: “Il Tar ha riconosciuto che le ordinanze del prefetto erano illegittime e violavano principi costituzionali. Dopo mesi di contenzioso, viene sancito un principio fondamentale: il potere straordinario non può diventare regola ordinaria. Il diritto non può piegarsi a logiche di emergenza permanente. La decisione ristabilisce il primato della Costituzione sull’arbitrio amministrativo”. L’ordinanza del 31 dicembre 2024 prevedeva un divieto di stazionamento in determinate aree della città di Napoli per soggetti che erano stati destinatari di una segnalazione all’autorità giudiziaria per un certo tipo di reato (tra cui spaccio, rissa, occupazione di edifici) o che avevano assunto atteggiamenti minacciosi o molesti. Il team legale aveva invece denunciato che i provvedimenti “contingibili e urgenti” che l’articolo 2 dell’ordinanza consentiva, hanno come presupposto l’esistenza di “situazioni di carattere eccezionale e imprevisto non suscettibili di essere affrontate con gli strumenti ordinari previsti dall’ordinamento”. Devono però, in quanto atti extra ordinem, avere “un’efficacia temporanea e limitata nel tempo e risultare ragionevoli e proporzionati”. In ogni caso, il ricorso specifica che anche il provvedimento del dicembre 2024 (e non soltanto la sua proroga) non mira a far fronte a una situazione eccezionale e imprevista, ma a situazioni ordinarie, stratificate nel tempo o che si ripropongono ciclicamente; tanto l’ordinanza quanto la sua proroga, inoltre, non risultano giustificate da “alcuna recrudescenza in forme impreviste e particolarmente gravi, di fenomeni di degrado o illegalità in relazione alle cosiddette zone rosse individuate dall’amministrazione”. Viene infine rilevata l’irragionevolezza nell’individuazione dei soggetti destinatari del divieto: da un lato, per la scelta stessa dei reati, dall’altro per il fatto che la sola denuncia, in assenza di una condanna, “non può giustificare una presunzione di pericolosità sociale”. A ciò si aggiunge infine il carattere di indeterminatezza delle condotte, censurata per la discrezionalità che concede alla polizia nell’applicare il divieto e perché viola “i principi di tipicità e determinatezza che dovrebbero accompagnare il provvedimento amministrativo allorché vada ad integrare una norma penale”. La rete di associazioni e collettivi politici ha ribadito che “le libertà personali non possono essere compresse per ordinanza e che nessuna direttiva ministeriale può derogare, neanche di fatto, ai principi di uguaglianza, legalità, presunzione di innocenza e proporzionalità”. (redazione) 
La parola della settimana. Accattone
(disegno di ottoeffe) Voglio mori’ co tutto l’oro addosso, come i faraoni (vittorio cataldi detto “accattone”, in accattone di pier paolo pasolini) (credits in nota1) Sul termine “accattone”, la maggior parte dei dizionari si esprime in maniera chiara:  è tale chi va elemosinando, spesso senza effettivo bisogno, più per vizio che per necessità. Si parla, negli atti, di “eversive degenerazioni in cui opera la Commissione per il paesaggio” con una “strumentalizzazione che ne fa la parte politica, principalmente l’assessore Tancredi, in sintonia con il sindaco Sala e il direttore generale Malangone (servendosi del faccendiere Marinoni), per portare avanti relazioni private con gruppi della finanza immobiliare attivi a Milano e la soddisfazione dei loro interessi”. Questo “nella cornice di un’azione amministrativa viziata da una corruzione circolare, edulcorata all’esterno”. […] Il sistema “deviato” si sarebbe basato su “varianti” ai piani regolatori, camuffate, secondo i pm, con l’interesse pubblico con richiami “all’edilizia residenziale sociale”, per aumentare volumetrie e altezze a vantaggio delle imprese. […] Tancredi sarebbe stato la “copertura” politica di Marinoni, nel “patto corruttivo”, per realizzare questo “Piano di governo del territorio (Pgt) ombra”. E quest’ultimo avrebbe incassato, coinvolgendo nel meccanismo società immobiliari e studi, “alte parcelle” dalla J+S di Pella. Scandurra sarebbe arrivato a prendere anche fino a 2,5 milioni di euro. (urbanistica di milano sotto accusa: indagato anche sala, chiesti sei arresti, ansa.it) Un po’ più a sud della capitale morale, intanto, Matteo Ricci, europarlamentare del Partito democratico ed ex sindaco di Pesaro, sembra prossimo a ritirare la sua candidatura alla presidenza della regione Marche. È indagato per corruzione per atti contrari a doveri d’ufficio. Secondo gli inquirenti avrebbe affidato indebitamente opere di manutenzione dal 2019 al 2024 per finanziare “interventi spot”. Tra questi l’installazione di un casco gigante di Valentino Rossi in piazza D’Annunzio, murales in onore delle vittime del Covid, o un altro dedicato a Liliana Segre, contabilizzato alla voce “manutenzione idrica”. Debiti al comune di Avellino, commissario chiede il cinque per mille ai cittadini: “Altrimenti servizi a rischio”. (repubblica.it, 23 luglio) Mazzetta da seimila euro, arrestato il sindaco di Sorrento. Massimo Coppola è stato sorpreso mentre intascava una sospetta tangente da seimila euro durante una cena con un imprenditore. (tg3, 21 maggio) Un imprenditore della provincia di Belluno è finito al centro di un’indagine […] per presunta malversazione ai danni dello Stato. […] L’inchiesta è partita da un’analisi sulle erogazioni pubbliche destinate a sostenere l’innovazione nel settore delle energie rinnovabili. I militari […] hanno ricostruito il percorso di un finanziamento da un milione di euro, concesso da Banca Progetto S.p.A. e garantito da Mediocredito Centrale – Banca del Mezzogiorno S.p.A., individuando un’anomalia significativa: circa 250 mila euro sarebbero stati distratti e utilizzati per fini personali, del tutto estranei agli obiettivi del progetto. Il finanziamento era stato concesso per realizzare un impianto di pirogassificazione – un sistema innovativo per produrre energia rinnovabile a partire da scarti agricoli e forestali. (lapiazzaweb.it, 16 luglio) Antonio Mancini è un noto personaggio della malavita romana. Ex membro della Banda della Magliana, poi collaboratore di giustizia dopo vent’anni di carcere, oggi è accompagnatore per persone con disabilità a Jesi. Accattone (era questo il suo soprannome) ha ricominciato da qualche tempo a parlare – l’ha fatto di recente in una puntata dell’insopportabile podcast condotto da Fedez e Mister Marra – dei suoi trascorsi criminali e, ovviamente, della scomparsa di Emanuela Orlandi.⁠ Ben pratico dello sport preferito da decine di altri accattoni, ovvero quello di millantare la conoscenza di elementi sensazionali sulla sparizione della Orlandi, alla fine Mancini non dice niente di concreto, né tantomeno, naturalmente, fa nulla per agevolare l’avanzamento sulla ricerca della verità; gli riesce benissimo invece riaprire ferite mai sanate a una famiglia distrutta da un intrigo più grande di lei, che ha coinvolto Stato, Vaticano, servizi segreti e chissà chi altri (approfondimento buono per neofiti della materia è Vatican Girl, documentario del 2022 che pure non sfugge a tentazioni voyer-complottistiche, ma ha almeno il merito di fare una onesta ricognizione di tutto quanto successo in questi anni). Dei tanti “misteri italiani” (svariate seconde serate della mia adolescenza sono state segnate dalla voce di Carlo Lucarelli) era grande appassionato un tizio che avevo conosciuto all’università nei miei primi anni all’Orientale, e che ho poi perso di vista da quando è andato a lavorare in una fabbrica, mi pare, in Veneto. Aveva una bizzarra teoria, vagamente latouchiana, sull’accumulazione dei beni, che francamente ho dimenticato. Ricordo bene invece che disprezzava gli scrocconi e propagandava la retorica secondo cui se non vuoi pagare due euro per andare a sentire un concerto in un centro sociale, ma ne hai in tasca dieci di fumo e cinque di sigarette, “puoi anche andartene a bere una Best Bräu da sessantasei a piazza San Domenico”. È il caso del minor riconoscimento assegnato dagli intervistati al danaro. Innanzitutto, il danaro è considerato “molto importante” dal 33,3 per cento degli operai e dal 17 per cento degli impiegati. Questi ultimi salgono al 61,4 (48,6 per cento gli operai) nella considerazione di un’importanza “media”, mentre rispettivamente il 16,4 per cento di operai e il 21,6 per cento di impiegati attribuisce “poca importanza” al danaro. […] Per gli operai la disponibilità è minore rispetto agli impiegati e quindi maggiormente ne sottolineano la rilevanza. Si consideri a riguardo che l’88,3 per cento del campione non supera la retribuzione mensile di un milione e mezzo e che la maggioranza (70 per cento circa) degli intervistati è costituita da operai. […] Resta comunque il fatto che la bassa posizionalità assunta dal danaro nella gerarchia dei valori espressi dal campione spinge ad affermare che il valore del danaro è più associato alla sua funzione estrinseca (il valore d’uso) che al suo carattere specificamente teleologico. (m. conte, g. di gennaro, d. pizzuti, l’acciaio dei caschi gialli. lavoro, conflitto, modelli culturali: il caso italsider di bagnoli) a cura di riccardo rosa  ___________________________ ¹ da: Sinite Parvulos, Nanni Loy; in: Signore e signori, buonanotte (1976) Nota a margine: con questa puntata la rubrica va in ferie, ci rileggiamo a fine agosto.
Cartografie del terzo settore e della innovazione sociale a Torino #8. Terra del Fuoco
(disegno di adriana marineo) Da mesi l’amministrazione comunale è impegnata a sgomberare con la forza persone e famiglie – rom e non rom – che occupano appartamenti di case popolari inagibili e lasciati vuoti. Donne, uomini e bambini finiscono in strada, senza ricevere assistenza e soluzioni alternative. Allo stesso tempo la Città e la Regione conducono una campagna di odio pressoché quotidiana contro famiglie rom – spesso sgomberate dalle stesse case occupate – che vivono in strada riparandosi in camper e furgoni. Non stupisce il razzismo delle istituzioni, ma inquieta la collettiva assenza di memoria: le famiglie braccate sono le stesse che furono cacciate dai campi formali e informali che si trovavano lungo la Stura, e non solo. La baraccopoli più ampia e abitata, quella di Lungo Stura Lazio, fu sgomberata nel 2015 grazie alla collaborazione di una cordata di enti del terzo settore fra i quali figurava Terra del Fuoco. *     *     * L’associazione Terra del Fuoco (TDF) nasce a Torino nel 2001 con l’obiettivo di promuovere il “protagonismo giovanile”. Appena nata, l’associazione ottiene in concessione dal comune di Torino una grande struttura dismessa nel quartiere San Paolo, dove un tempo aveva sede il dopo-lavoro degli operai Lancia. La nuova sede viene condivisa con altre due associazioni di giovani torinesi: una di queste è Acmos (Aggregazione, Coscientizzazione, MOvimentazione Sociale), da cui avrà origine Libera Piemonte, creazione di Luigi Ciotti ed emanazione del Gruppo Abele; l’altra è Non più da soli che si occupa di far incontrare studenti universitari interessati a dare sostegno a persone anziane a cambio di una stanza. Presto le tre realtà danno vita ad una associazione di secondo livello – Caraglio 101 – che apre il Centro di Protagonismo Giovanile Belleville. Da qui muoveranno i primi passi futuri esponenti della politica torinese e del privato sociale, garantendosi una carriera all’interno del terzo settore o sviluppando legami politici in vista di future tornate elettorali. Alcuni leader infatti finiranno per candidarsi in partiti nati dalle ceneri del Pci o eredi della Democrazia Cristiana. È il caso, fra gli altri, di Michele Curto, uno dei fondatori di Terra del Fuoco, di cui è presidente fino al 2011. Dal 2006 al 2011 Curto è anche referente dell’area europea di Libera e nel 2011 si candida in Sinistra Ecologia Libertà per appoggiare il Partito Democratico con la candidatura a sindaco di Piero Fassino. Il contesto nel quale TDF e la sua leadership muovono i primi passi è quello del progressivo smantellamento del welfare cittadino seguito alla crisi del 2008 e legato anche all’enorme debito lasciato dalle olimpiadi invernali del 2006 nelle casse comunali. Servizi che per decenni erano stati dati in appalto dal Comune a cooperative storiche della realtà torinese sono tagliati o fortemente ridimensionati: ha inizio l’era dei bandi e di chi vince al ribasso, con vecchie e nuove associazioni e cooperative sociali che si ritrovano a competere tra loro. Nel giro di pochi anni i grandi enti del terzo settore torinese si trasformano in imprese sociali attive in diversi campi di intervento per accedere a un maggior numero di bandi al fine di ottenere finanziamenti, complice anche un “marketing del bene” che coinvolge la società civile attraverso la creazione di un immaginario politicamente e socialmente impegnato, mentre parallelamente i soggetti più marginali e fragili da “utenti” diventano “clienti” dei loro servizi. Questa nuova generazione di enti che incarnano l’impegno civile e la ragione umanitaria gettano le basi del terzo settore che osserviamo oggi: sono vere e proprie “imprese del bene” che coltivano, attraverso azioni simboliche e narrazioni, un capitale politico e sociale in grado di garantire un ritorno economico. All’inizio TDF s’impegna nelle politiche giovanili ed educative e tra le varie attività spicca il Treno della memoria che dal 2005 promuove viaggi nei campi di Auschwitz e Birkenau per gli studenti delle scuole superiori. In seguito si specializza nel “settore migranti e politiche sociali”, all’interno del quale rientrano sia le persone rom che rifugiati e richiedenti asilo. A partire dal 2006 TDF inizia a lavorare con persone originarie della Romania che vivono in campi e baraccopoli di Torino o dei comuni limitrofi. TDF diventa capofila del progetto di “autorecupero” di un edificio nel Comune di Settimo Torinese, che verrà chiamato “il Dado”, adibito a social housing per persone e famiglie rom e italiane. All’origine del progetto Dado vi è un rogo accidentale che nel novembre 2006 distrugge un campo a Mappano dove vivono centinaia di persone originarie della regione di Timisoara. Le persone e famiglie rimaste senza casa sono costrette a vagare per mesi tra tendopoli e campi di “emergenza” gestiti da Croce Rossa e protezione civile. Mentre TDF inserisce alcune famiglie rimaste senza casa dopo l’incendio (otto in tutto) all’interno del social housing innovativo, per tutte le altre persone sfollate l’unica possibilità è cercare rifugio nella baraccopoli di Lungo Stura Lazio, il Platz. Gli ospiti del Dado devono seguire una serie di regole stabilite dall’associazione, pena l’espulsione dalla struttura. Gli ospiti non devono solo farsi carico di parte della ristrutturazione (secondo la pratica definita di “autorecupero”), ma devono anche firmare un “patto di cittadinanza” che impone loro il raggiungimento di diversi “obiettivi” come la frequenza scolastica dei minori e l’inserimento lavorativo degli adulti, in modo da stimolare l’“autoresponsabilizzazione” e “l’integrazione” delle famiglie coinvolte. L’esperienza del Dado verrà in seguito riconosciuta come “Best practice” dall’Unione Europea, accreditando TDF tra le associazioni e cooperative più autorevoli che storicamente si sono occupate di popolazioni romanì. Dal 2010 TDF ha avuto in gestione dal comune di Torino il campo informale di corso Tazzoli, in zona Mirafiori sud, abitato da circa tredici anni da oltre duecento persone povere, originarie della Romania, etichettate come “rom”. Anche in questo spazio, in linea con l’esperienza del Dado, vige un regolamento redatto dall’associazione su chi può o non può risiedere e accedere nel campo o intraprendere un viaggio, insieme ad altre forme di controllo e le relative sanzioni. Nella gestione del campo TDF collabora con il nucleo nomadi, un nucleo della polizia municipale apertamente di tipo etnico specializzato nella gestione dei “rom” e nato a Torino nei primi anni Ottanta. Nel 2009 per il comune di Torino è diventato troppo dispendioso e problematico gestire i numerosi campi rom definiti legali, creati cioè dalle stesse istituzioni a partire dagli anni Settanta. Così il comune affida la gestione dei campi autorizzati (quello in via Germagnano e quello in strada Aeroporto) alle cooperative Valdocco, Liberi Tutti, Stranaidea, all’associazione Aizo (Associazione Italiana Zingari Oggi) e alla Croce Rossa. Nel gennaio 2010 inizia il progetto Selarom (che significa “villaggio rom”) nel campo di via Germagnano e strada Aeroporto. Selarom è realizzato dalle stesse cooperative e associazioni strutturate in Rtc (Raggruppamento temporaneo di concorrenti). Alla fine del 2011 Terra del Fuoco entra ufficialmente nella cordata di associazioni. Nel 2010 TDF ha già iniziato alcune attività all’interno della più grande baraccopoli torinese che si trova in Lungo Stura Lazio, nella zona nord della città, dove vivono circa duemila persone povere, rom e non rom, originarie della Romania. Anche in questo caso istituzioni e forze dell’ordine etichettano tutti gli abitanti dell’insediamento come “rom”. A partire da agosto 2010 ha luogo una “bonifica” dei rifiuti presenti nella baraccopoli, promossa da TDF e inserita in una più ampia campagna di volontariato a cui fa capo Legambiente con il patrocinio del comune di Torino e della regione Piemonte. L’iniziativa, a cui viene dato particolare risalto mediatico, rappresenta al contempo un’operazione di polizia e una strategia per iniziare a separare i poveri “buoni” dai “cattivi”. In quest’occasione soci di TDF e volontari vengono immortalati mentre spalano rifiuti o addirittura li rimuovono a mani nude (come ricordano alcuni abitanti di Lungo Stura Lazio) e lo stesso Curto, presidente dell’associazione, dichiara a La Stampa che i partecipanti rom alla pulizia dimostrano «di volersi integrare» a differenza di «chi invece tende a vivere di espedienti a danno della collettività». Poco dopo la bonifica del campo Michele Curto lascia la presidenza di TDF per candidarsi con Sel e viene eletto in consiglio comunale. Nello stesso anno delle elezioni comunali si prospetta l’arrivo di un ingente finanziamento per la Città di Torino grazie ai fondi stanziati dal ministero dell’Interno per la cosiddetta “Emergenza nomadi”. Ha così inizio nel 2013 un mega-progetto di oltre cinque milioni di euro che il Comune affida al raggruppamento temporaneo d’impresa  formato dalle stesse organizzazioni del progetto Selarom. Questa volta gli enti del terzo settore hanno presentato il progetto La città possibile, il cui scopo dichiarato è ancora una volta “realizzare percorsi efficaci di integrazione e di cittadinanza” per le circa 1300 persone “rom” che abitano nei campi di Lungo Stura Lazio, corso Tazzoli, via Germagnano, strada Aeroporto. Nei fatti viene finanziata l’enorme macchina dello sgombero della baraccopoli di Lungo Stura Lazio dove in realtà vivono – a dispetto del censimento dei responsabili e della prefettura – oltre duemila persone. Gli abitanti classificati come “meritevoli” devono firmare un “patto di emersione” dall’illegalità e partecipare attivamente allo sgombero distruggendo la propria baracca. I “meritevoli” selezionati dalle organizzazioni umanitarie vengono collocati in case o strutture reperite dalle stesse associazioni e cooperative sul mercato privato degli affitti (come lo stabile di corso Vigevano 41, di proprietà del noto palazzinaro Giorgio Molino) o devono accettare il rimpatrio “volontario” in Romania. Nell’arco di pochi mesi, o al massimo di un anno, queste stesse persone e famiglie vengono sfrattate a causa della fine dei fondi del progetto che sostenevano i costi dell’affitto, mentre tutti gli altri sono costretti a costruire una nuova baracca in altri campi e baraccopoli della città. Quando la grande operazione militare di sgombero della baraccopoli è quasi giunta al termine, emergono alcune inchieste giudiziarie che di fatto non portano a nulla, ma che svelano alcuni aspetti interessanti sulla gestione dei fondi e sui costi sostenuti da cooperative e associazioni. Una delle inchieste si chiude nel dicembre 2017 con la sola accusa di “truffa aggravata” contestata agli esponenti di Valdocco e Terra del Fuoco contro cui lo stesso comune si costituisce parte civile. A fine progetto (novembre 2015) le ultime famiglie escluse da La città possibile, insieme a un gruppo di solidali e alle altre persone e nuclei che nel frattempo sono stati sfrattati dalle varie, insostenibili soluzioni abitative, decidono di occupare un lato dell’ex-caserma di via Asti, uno spazio enorme di circa ventimila metri quadrati nella precollina torinese. L’ex-caserma però è già stata “occupata” nell’aprile dello stesso anno da alcuni membri di TDF che, mossi da valori civici e democratici, dichiarano di voler utilizzare la struttura per chi si trova in condizioni di disagio abitativo e sociale. Qui nel corso dei mesi TDF organizza eventi sociali e culturali con la collaborazione di accademici, intellettuali e politici di sinistra o di orbita Sel. In questa fase il Comune assume direttamente il ruolo di mediatore tra TDF e la Cassa Depositi e Prestiti, proprietaria dell’edificio, avviando una trattativa segreta affinché la struttura resti ai giovani volenterosi dell’associazione. Quando giungono le famiglie rom rimaste senza casa e senza alcuna alternativa abitativa, le istituzioni decidono di agire con forza: prefettura, questura e Comune sgomberano in grande fretta tutti gli occupanti della vecchia caserma, compresi quelli di TDF. Lo sgombero dell’ex-caserma e l’inizio delle inchieste giudiziarie e amministrative legate al progetto La città possibile segnano per l’associazione un rapido declino d’immagine, accompagnato da difficoltà di ordine politico. Michele Curto ha iniziato da tempo un’attività imprenditoriale nel settore della produzione del caffè a Cuba e altri dirigenti e amministratori di TDF fondano una nuova cooperativa sociale, Babel, che partecipa a bandi pubblici e privati. La cooperativa Babel partecipa da subito al nuovo progetto di sgombero delle palazzine occupate dell’Ex-Moi nella zona sud di Torino, portato avanti da vari enti torinesi del terzo settore che si spartiscono gli ingenti fondi messi a disposizione da ministero dell’Interno e dalla Compagnia di San Paolo (2017-2019). Anche in questo caso l’obiettivo è sgomberare in modo “dolce” circa mille e cinquecento persone con la diretta partecipazione degli sgomberati che finiscono, in una minima parte, in progetti definiti di “terza accoglienza”. Questa, certo, è un’altra storia, parte di un più ampio, feroce, disegno complessivo. (voce a cura di manuela cencetti) ______________________________ QUI L’INDICE DELLA CARTOGRAFIA
Anatomia di un’attesa. Quando il disturbo psichico incrocia il codice penale
(disegno di sam3) Torno a trovare Marta. È al telefono, come quasi ogni giorno da mesi, alla ricerca di un medico, un funzionario, un referente che possa indicarle come muoversi. È la prima volta che il suo inguaribile ottimismo retrocede all’imperativo di trattenere le lacrime. Suo figlio, Silvio, ha ventisette anni. Da dicembre è trattenuto nell’articolazione psichiatrica del carcere di Salerno, in attesa di un trasferimento in comunità terapeutica: un trasferimento che, accertata la sua assoluta incompatibilità con il carcere, il giudice ha già autorizzato in via teorica, ma che nei fatti non riesce ancora a concretizzarsi. Nel frattempo si accumulano colloqui, tentativi, rinvii. Il tribunale non può validare senza un documento o un modulo firmato. Tutto è paralizzato da una catena di responsabilità frammentate: Asl, Uosm, Uepe, Serd, tribunali. Organi distinti con compiti precisi che però, proprio nella loro parcellizzazione, favoriscono una deresponsabilizzazione diffusa nella presa in carico delle persone. In questo quadro, ogni rinvio e indecisione producono conseguenze faticose e danni concreti. Silvio è affetto da schizofrenia paranoidea, diagnosi documentata a partire dal 2018 dall’Asl territoriale (Uosm 9 di Agropoli), dopo un primo Trattamento sanitario obbligatorio e anni di sintomi evidenti: dispercezioni uditive, comportamenti disorganizzati, oscillazioni tra rabbia e chiusura, e un abuso cronico di sostanze iniziato in adolescenza. Il suo quadro clinico dovrebbe rientrare in quella condizione nota come comorbilità psichiatrica, o “doppia diagnosi”. Questa vicenda si sviluppa lungo quasi un decennio di segnali discontinui, negazioni e tentativi frammentari di cura. Tutto comincia in adolescenza, quando i primi segni di sofferenza vengono interpretati, come spesso accade, secondo letture rassicuranti: una crisi passeggera o una fase delicata della crescita. Con il tempo, e non senza esitazioni, la famiglia inizia a confrontarsi con una fragilità più profonda, difficile da decifrare. Ma prendere consapevolezza del disagio psichico non è mai un processo lineare: richiede tempo, strumenti, e una trasformazione lenta anche dello sguardo di chi accompagna. Le resistenze non sono solo del soggetto, ma anche dell’ambiente intorno: affettive, culturali, spesso inconsce. In un contesto sociale in cui il disagio mentale è ancora circondato da stigma, paura o rimozione, le famiglie si ritrovano spesso senza un linguaggio adeguato, senza riferimenti condivisi, senza una rete in grado di accompagnarle. La diagnosi, arrivata nel 2018, non dà avvio a un percorso strutturato, ma rimane un’etichetta sospesa, priva di un progetto in grado di sostenerla. A complicare tutto sopraggiunge la negazione ostinata della malattia da parte di Silvio che ha reso ogni intervento clinico discontinuo e frammentato. La famiglia, spesso sola, comincia a muoversi tra servizi diversi, ricoveri e dimissioni, cercando di orientarsi in un sistema che non sempre riconosce la continuità come parte essenziale della cura. Negli ultimi mesi lo stato di Silvio si aggrava. Sviluppa un’ossessione crescente verso i vicini, convinto siano l’origine di insulti e persecuzioni. Ciò che altrove sarebbe riconosciuto come un episodio di dispercezione uditiva all’interno di un quadro psicotico qui diviene il preludio al crollo. A novembre, dopo alcuni episodi di aggressività, viene arrestato. Il giudice dispone i domiciliari, ma li stabilisce nella stessa casa accanto al contesto persecutorio da cui Silvio cercava di difendersi: un cortocircuito inevitabile. Silvio evade e viene trasferito in carcere. Da quel momento, la sua condizione psichiatrica viene progressivamente soppiantata da quella di reo. La malattia scompare dal lessico istituzionale, resta quasi come premessa accessoria, e il caso comincia a muoversi secondo tempi incompatibili con l’urgenza della sua condizione. Dopo circa un mese di detenzione, Silvio riesce almeno a essere trasferito nell’articolazione psichiatrica della casa circondariale di Salerno. Lì, la gestione sanitaria è affidata all’area penitenziaria dell’Asl. Ma da quel momento, nessun contatto viene permesso tra la famiglia e l’équipe medica. Pec, mail, richieste di incontro vengono tutte ignorate. I familiari cercano allora di supplire, da soli, con la raccolta di documentazione, contattando comunità terapeutiche, medici, garanti, cercando una soluzione che possa sbloccare una condizione arenatasi nel silenzio. La vicenda di Silvio mette in luce criticità strutturali che emergono ogni qualvolta la risposta istituzionale resta incerta e frammentata. Non solo in ambito sanitario, ma anche giuridico, sociale e psicologico. È da casi come questo che si misura l’efficacia, o l’assenza, della psichiatria pubblica. Quando la malattia mentale incrocia la giustizia penale, smette spesso di essere trattata come una questione sanitaria. Diviene marginale, mentre il peso delle decisioni ricade altrove: sul controllo del rischio e sulla gestione dell’ordine. Dopo mesi di rinvii e scarsa coordinazione, il giudice accoglie la richiesta di patteggiamento con misura alternativa: un anno e otto mesi da scontare in una struttura alternativa al carcere. Ma questa possibilità resta ancora soltanto teorica. Per procedere con un invio a una comunità, è infatti necessario che l’accesso avvenga attraverso una presa in carico da parte dell’Asl o del Serd, o da entrambi in presenza di una doppia diagnosi. Nel caso di Silvio, però, l’Asl si rifiuta tuttora di formalizzare qualunque passaggio, negando inoltre la componente di dipendenza, nonostante se ne attesti la presenza da relazioni cliniche precedenti. Di conseguenza, il Serd non può intervenire autonomamente, poiché Silvio non è iscritto al servizio e l’attivazione di una presa in carico interna al carcere si sta rivelando un processo farraginoso, quasi kafkiano. Silvio vive così in un limbo giuridico e istituzionale. Detenuto in attesa, trattato come colpevole, senza alcun margine di elaborazione su quel che è accaduto. L’impossibilità di comprendere il proprio presente, o di immaginare un “dopo”, non è solo un effetto collaterale, è il catalizzatore di una condizione psichica che peggiora progressivamente. Nel frattempo, il giorno precedente l’udienza che avrebbe dovuto finalmente concretizzare il patteggiamento, già rinviata numerose volte e datata poi al 16 maggio, emerge l’ennesimo cortocircuito del sistema. L’Asl penitenziaria di Salerno invia al giudice una relazione in cui si sostiene che “allo stato non sono presenti sintomi di acuzie clinica tali da non poter essere curati negli attuali luoghi”, cioè il carcere. Il documento dipinge un’immagine parziale e ambigua del paziente. La dipendenza da sostanze viene minimizzata, la negazione della malattia non è riconosciuta come tratto strutturale della stessa, mentre l’aderenza alla realtà viene valutata esclusivamente sulla base di dichiarazioni rese da un soggetto ristretto in un contesto tutt’altro che neutro, senza coinvolgere chi ha potuto restituirne la complessità della storia. Il consumo di cannabis è attribuito a un uso esclusivamente “ludico-ricreativo”, contraddicendo tra l’altro precedenti diagnosi che parlavano invece di una dipendenza reale e cronica. Questo giudizio arbitrario non solo sottovaluta la patologia, ma esclude di fatto Silvio dall’accesso alle comunità specializzate nella doppia diagnosi, quelle che sembrerebbero più adatte alla sua situazione. Nel rapporto si legge inoltre che la “non consapevolezza e volontarietà a partecipare a percorsi di cura” costituisce un “elemento prognosticamente inficiante un buon esito”. Qui si apre il primo grande paradosso: chi, per struttura della propria malattia, nega di averne bisogno, viene escluso dall’accesso alle cure proprio per tale ragione. La storia di Silvio non è solo la cronaca di un caso di negligenza istituzionale, ma racconta una condizione umana e clinica di grande complessità. Silvio è un giovane che da anni nega la propria malattia, come spesso accade in quei disturbi psichici che incidono sulla percezione del reale e sul senso di sé. Negare la malattia, in casi come questo, non è un rifiuto superficiale o volontario, ma si concretizza come una struttura profonda dell’esperienza personale, una modalità di difesa indispensabile per non crollare in uno stato di totale spaesamento. Qui sorge una domanda cruciale e mai risolta: come si accompagna una persona che soffre di psicosi verso una graduale consapevolezza della propria condizione? L’esperienza insegna che non si tratta di un processo automatico né di un protocollo applicabile meccanicamente. È un percorso che richiede prossimità e continuità, un’alleanza terapeutica che non può prescindere dal contesto relazionale in cui la persona vive. Un percorso che rimane oggi ancora carico di troppe domande e troppe poche risposte. È noto ormai che, dopo la chiusura dei manicomi, la funzione di contenimento non sia scomparsa ma abbia assunto nuove forme, disseminandosi in una costellazione di strutture: comunità terapeutiche, Rems, Spdc, strutture residenziali, articolazioni psichiatriche del carcere. Queste strutture agiscono in ordine sparso, secondo logiche eterogenee e obiettivi raramente condivisi. In questa frammentazione, la figura stessa del soggetto psichiatrico tende a dissolversi: non più un paziente da accompagnare nel tempo, ma un caso da collocare e un corpo da contenere. Le comunità terapeutiche, spesso pensate come luoghi di ripartenza, finiscono per escludere proprio quei soggetti che più avrebbero bisogno di uno spazio di legame: chi è troppo reticente e non ha ancora accettato la diagnosi, chi fatica a tradurre il proprio disagio nei linguaggi riconosciuti dalla clinica. Si rimanda allora a strutture intermedie, come le cliniche, che nei fatti reiterano una logica contenitiva, configurandosi non come luoghi di soggettivazione, ma di gestione, dove la cura coincide esclusivamente con la somministrazione farmacologica e l’attenuazione del sintomo. Nei casi più complessi, in cui il disturbo psichico intercetta il codice penale, la filiera della cura si interrompe del tutto. Si ricorre allora alle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) o, come nel caso di Silvio, direttamente al carcere, che diventa l’ultimo contenitore residuale. In entrambi i casi, la finalità terapeutica si intreccia a quella detentiva, e il tempo della cura si può svuotare in una durata indeterminata della custodia. In nome della sicurezza, il trattamento psichiatrico assume i tratti della reclusione. Queste strutture divengono un prosecuzione muta dell’apparato manicomiale, la sua ombra più opaca: ne conservano la logica di segregazione, ne aggiornano i linguaggi, ne oscurano la violenza dietro il lessico tecnico della tutela. Nel sistema carcerario la malattia mentale non è trattata, ma gestita come un problema di ordine. Da qui emerge lo snodo centrale: non la diagnosi in sé, ma la totale assenza di potere contrattuale del malato, che non ha voce, non ha strumenti, e spesso non ha altra possibilità di espressione se non attraverso comportamenti estremi, ab-normali, disfunzionali. Qualunque sia la sua condizione mentale, l’uomo finisce per identificarsi sempre con le leggi che lo internano. L’apatia, il disinteresse e l’insensibilità che spesso vengono letti come sintomi della malattia, sono in realtà una forma estrema di difesa: l’ultima risorsa che il soggetto oppone a un mondo che prima lo esclude e poi lo annienta. Accogliere l’eredità della lezione basagliana significa comprendere che non è tanto la diagnosi a produrre la malattia, quanto il rapporto di potere che si instaura tra il medico e il paziente, tra curante e curato. Finché quel rapporto è fondato su un’autorità unilaterale, terapeutica e istituzionale, il malato si adatterà al ruolo che gli viene cucito addosso, anzi in questa oggettivazione troverà quasi sollievo perdendo ogni volontà di agire, di responsabilizzarsi, di riconoscersi come soggetto. È in quel rapporto che la regressione si consolida, e si fa cronica. Se è vero dunque che il problema non è tanto la malattia, quanto il tipo di rapporto che si stabilisce con il malato, allora vien da chiedersi: che tipo di rapporto si sta stabilendo oggi tra paziente e istituzioni che dovrebbero occuparsi della sua cura? Nessuna cura è possibile se l’unica forma di azione risulta essere quella penale e l’unico margine d’azione del soggetto consiste, nel migliore dei casi, nel rifiuto e nella protesta. Se il malato non può aderire al progetto terapeutico, perché per struttura nega la malattia, allora è la comunità che dovrebbe farsi carico, con lucidità e fermezza, della sua tutela. Quando il manicomio non è più una struttura unica e visibile, ma una funzione diffusa e condivisa, allora la sua violenza si fa più sottile e insidiosa, perché si nasconde dietro le pieghe della burocrazia e del linguaggio tecnico, e rende sempre più difficile individuare responsabilità, nominare l’esclusione, rivendicare un’altra possibilità. In questo scenario, ciò che manca non è solo un luogo, ma una disposizione etica: un desiderio di prendersi cura che sappia farsi carico della fragilità, dell’ambivalenza e del tempo necessario. Finché la psichiatria continuerà ad agire come dispositivo selettivo, che cura solo chi si dimostra già adatto alla cura, chi ne parla nei termini giusti, chi ne accetta il linguaggio e le regole, resterà incapace di raggiungere proprio chi più ne ha bisogno. Quando la situazione di Silvio si è aggravata, l’Uosm di Agropoli ha cominciato a suggerire come unica via possibile per attivare un percorso terapeutico strutturato la denuncia penale: solo così, vista l’ assenza di un obbligo di cura e della volontà esplicita del paziente, i familiari avrebbero potuto costruire un aggancio istituzionale e una rete solida. Una prospettiva difficile da accettare per Marta e suo marito Giorgio, che hanno esitato a lungo prima di considerare praticabile una strada che li avrebbe condotti a un paradosso crudele: dover proteggere chi soffre attraverso un atto che può apparire come un abbandono, o peggio ancora, come un tradimento. Assumere un simile ruolo, per un genitore, significa entrare in contraddizione profonda con se stessi, cortocircuitando un sistema emotivo già provato. Chi da anni convive con la malattia di un figlio spesso si muove in un terreno fragile, segnato da sensi di colpa stratificati e da una difficoltà strutturale a porre confini netti, soprattutto quando non si è riusciti a farlo nei momenti cruciali della crescita. Agire in qualunque senso diviene allora ancora più complesso. Il rischio è quello di insistere proprio su quella spirale silenziosa di colpa, in cui ogni scelta appare sbagliata: restare fermi significa lasciare soffrire e soffrire, mentre intervenire rischia di essere percepito come un atto di violenza ulteriore. Allora che fare? Si attende mentre la tua vita retrocede progressivamente davanti al dolore di un figlio. Normalizzazione dell’impotenza. Poi la denuncia arriva dai vicini, il fatto che a pronunciarla sia una voce terza, a tratti quasi impersonale, sembra per un istante alleggerire il carico insostenibile della scelta. Come se da fuori giungesse quasi un verdetto oracolare: qualcosa deve cambiare. Allora ci si riorganizza, sperando sia più semplice, si tenta di leggerlo come un punto di rottura da cui costruire una presa in carico integrata. Ma quella rete, promessa allora come necessaria, fatica oggi ad attivarsi. In quella stessa relazione si legge ancora che il comportamento frequentemente disfunzionale di Silvio non sarebbe tanto legato alla sua condizione psichiatrica, quanto piuttosto espressione di uno stile di vita coerente con il suo retroterra educativo, affettivo e culturale; come se le difficoltà derivassero in misura prevalente dalla sua storia familiare e dal contesto di vita. Ma se davvero si ritiene che il disagio sia radicato anche nel contesto sociale, risulta ancora più inspiegabile l’esclusione sistematica della famiglia da qualunque processo di cura. Il punto non è idealizzare i legami familiari, ma riconoscerne la portata concreta. In una psichiatria che ambisce a essere comunitaria, non è pensabile costruire percorsi terapeutici efficaci ignorando il luogo da cui quella soggettività proviene e al quale inevitabilmente farà ritorno. Escludere la famiglia, senza ascoltarla e senza tentare di responsabilizzarla in modo condiviso, significa reiterare quella frammentazione sistemica che continua a rendere la cura un’astrazione inapplicabile. Nei successivi mesi, numerosi altri patteggiamenti sono stati rinviati, a causa di una cronica mancanza di coordinazione tra i diversi soggetti coinvolti. Marta e Giorgio, consapevoli dell’impasse e della lentezza burocratica, avevano deciso di agire in via privata, nonostante l’ingente onere economico che questo avrebbe comportato, rivolgendosi a una comunità in Umbria. Un gesto consapevole per interrompere una catena di negligenza istituzionale che sembrava inarrestabile. Questa scelta rappresentava un tentativo di restituire a Silvio un margine di azione e di speranza, un modo per dimostrargli che esisteva una possibilità di cura al di fuori del limbo in cui era stato confinato, e che sarebbe bastato portare pazienza ancora per poco. Per un ragazzo che da anni rifiuta ogni etichetta clinica e ogni offerta di aiuto, l’accettazione, seppur esitante, di prendere parte ai colloqui con comunità terapeutiche, è già un atto carico di senso. È un’esposizione fragile, spesso rischiosa e temporanea, che rende necessari accompagnamento e presenza. Non si può chiedere a chi ha appena cominciato a sporgersi oltre la soglia del rifiuto di reggere, da solo, il peso dell’incertezza istituzionale. Ogni rinvio, ogni data annunciata e poi smentita, ogni promessa disattesa, rischiano di frantumare quello spazio minimo di fiducia aperto a fatica. Un primo colloquio era stato fissato con la comunità terapeutica proposta dalla famiglia, in vista dell’udienza inizialmente prevista per il 9 luglio. Parallelamente, un medico della Uosm territoriale di Agropoli, animato da un improvviso risveglio di coscienza, aveva deciso di superare le resistenze dell’Asl di Salerno e procedere autonomamente con un invio verso un’altra comunità di Salerno, specializzata nel trattamento delle tossicodipendenze, con la promessa di un programma condiviso per la parte psichiatrica. Gli incontri, entrambi calendarizzati per il 27 giugno, sono stati compromessi da una gestione organizzativa fallimentare: solo il colloquio con la comunità proposta dall’Uosm ha potuto svolgersi, mentre l’altro appuntamento veniva riprogrammato per il 3 luglio. Questo ha determinato un ulteriore rinvio dell’udienza, fissata poi per il 16 luglio. Nonostante le richieste della famiglia di estendere le possibilità praticabili con invii a più comunità, il medico dell’Uosm ha mantenuto una posizione rigida, convinto della validità del percorso intrapreso, dichiarandosi ottimista sulla buona riuscita dell’inserimento. Invece proprio la comunità da lui segnalata ha poi comunicato l’impossibilità di avviare l’inserimento prima di settembre. Nel frattempo, la comunità privata contattata dalla famiglia ha comunicato la propria indisponibilità ad accogliere Silvio. Pur trattandosi di una struttura specializzata nella doppia diagnosi, il contesto richiede da parte del paziente un certo grado di consapevolezza, partecipazione emotiva e impegno relazionale. Secondo questa comunità un inserimento oggi sarebbe prematuro, e si dovrebbe prevedere prima un passaggio clinico residenziale più contenitivo, capace di accompagnare l’emersione di una maggiore consapevolezza e stabilità. Tale valutazione, seppur lucida su un piano teoricamente clinico, rende evidente la contraddizione strutturale già emersa: l’accesso alla cura viene subordinato a requisiti quali motivazione, lucidità, adesione al percorso, che sono spesso proprio ciò che la cura dovrebbe iniziare a rendere possibili. La selettività dell’accoglienza finisce per escludere proprio i soggetti che più avrebbero bisogno di essere accolti, relegandoli a strutture unicamente contenitive. Di fatto, entrambe le risposte rendono impossibile formalizzare in tempo utile l’esecuzione del patteggiamento, che resta a oggi l’unica alternativa concreta alla detenzione. L’udienza del 16 luglio è l’ultima possibile: in assenza di un progetto di accoglienza, si procederà a rito abbreviato, esponendo Silvio al rischio di un processo penale e a un ulteriore aggravamento del quadro psichico. L’ impressione è che l’Asl penitenziaria non voglia assumersi la responsabilità del passaggio in comunità per il timore che Silvio possa allontanarsi e compromettere l’incolumità di soggetti terzi. Un timore comprensibile, ma che solleva una questione più profonda: che tipo di atto terapeutico può fondarsi esclusivamente sulla prevenzione del rischio? Ogni percorso terapeutico serio presuppone un margine di fiducia, e quindi di rischio. Se la priorità resta solo quella di evitare la fuga, la responsabilità sanitaria si riduce a gestione del pericolo. Le argomentazioni legate alla sicurezza, all’emergenza, alla potenziale pericolosità del paziente psichiatrico, non fanno che riproporre, sotto nuove vesti, il vecchio pregiudizio della follia come minaccia. Quando questo pregiudizio orienta le scelte, l’isolamento e la contenzione appaiono dunque quasi naturali. La vicenda di Silvio non è solo il racconto di una fragilità individuale, è una forma strutturale di logoramento che riguarda chiunque si trovi costretto a muoversi negli interstizi di un sistema che promette cura ma esercita solo controllo. L’atto di fiducia compiuto da Silvio, accettare il confronto e tentare di intravedere una possibilità, rischia ora di infrangersi contro l’ambiguità di una risposta incapace di restituire continuità e reali responsabilità. Nel frattempo, all’alba dell’ennesima visita in carcere, Marta e Giorgio mi chiedono: come possiamo spiegare a Silvio che anche questa volta nulla è cambiato? Per uno sguardo già popolato da demoni persecutori, non è solo l’ennesimo rinvio burocratico, ma l’ulteriore conferma, che nessuno stia dicendo la verità. Io cerco qualche cenno di solidarietà nella totale impraticabilità delle parole e a mia volta mi chiedo: come si nomina il logoramento quotidiano che tante famiglie, come questa, si trovano a fronteggiare da sole? Settimane intere trascorse a inseguire risposte mai definitive, aggrappandosi a promesse informali e mail senza seguito. Come si raccontano queste vite sospese a un telefono nel terrore di mancare la chiamata decisiva? Non si attende solo una voce, di un figlio che chiama disperato dal carcere come di un funzionario che forse darà una risposta, si attende il riconoscimento di una condizione che, fuori dal linguaggio dell’urgenza penale, continua a non trovare forma. Ogni venerdì porta con sé l’eco di un “forse” che il lunedì smentisce. E nel frattempo la vita, lentamente, si ritrae: non scompare, ma si trasforma in gestione: del tempo, dell’angoscia, della speranza. Una gestione silenziosa in cui l’attesa diviene la sostanza stessa dell’esperienza. Il tempo assume l’incedere di un ingranaggio rotto. Non è la malattia ad arrestarlo ma l’apparato. Una macchina che non produce soggetti da curare, ma corpi da gestire, da valutare in base alla governabilità. E intorno a questa macchina, come intorno a un centro vuoto, ruotano organi distinti, parcellizzati, ciascuno convinto di non poter, o non dover, fare il primo passo. (vera nau)
L’indifferenza delle istituzioni campane all’emergenza ambientale del Lago Patria
(archivio disegni napolimonitor) Puntuale ogn’anno, come il due novembre della Livella di Totò, si ripresenta a ogni estate la solita ostruzione coatta alla foce del Lago Patria. La diga di sabbia è stata piazzata all’inizio di luglio, più o meno come lo scorso anno, quando la manomissione artificiale della foce determinò la morìa di pesci per ipossia, con relativa emersione a galla dei cadaveri. Questa manovra, che deturpa gravemente l’ecosistema del lago, avrebbe lo scopo di “preservare” il tratto di costa tra Varcaturo e Ischitella dai reflui che si riversano nel bacino. L’unico risultato è però, piuttosto, quello di trasformare il lago in una vasca stagnante dove la temperatura si innalza a dismisura e la fauna acquatica muore soffocata. Dal 1999 il lago fa parte della Riserva naturale Foce Volturno-Costa di Licola, un’area protetta regionale che ha accorpato e ampliato altre aree già protette. “È una questione che denunciamo da anni, ma che continua a ripetersi”, dichiara Giovanni Sabatino, presidente dell’Ente Riserva Foce. “Nel lago arrivano, a mezzo della centrale idrovora di Patria, le acque provenienti dal canale Vena, per una superficie complessivamente drenata di circa duecento chilometri quadri. Tutto il carico inquinante arriva così al lago. A settembre 2024 abbiamo costituito un tavolo tecnico con attori istituzionali e non, per opporci all’uso criminale del lago come discarica dove vengono smaltiti rifiuti soprattutto liquidi di natura organica, ma anche chimica, attraversando i canali di aree a forte vocazione agricola”. Il tavolo sembra ben apparecchiato: vi partecipano il presidente della Commissione regionale ambiente, Giovanni Zannini; il  vice presidente della Commissione parlamentare ecomafie, Francesco Emilio Borrelli; e poi Fulvio Bonavitacola, vicepresidente della regione Campania, Maria Antonietta Troncone, procuratore capo di Napoli Nord, Gabriella Maria Casella, presidente del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, e ancora i sindaci di Castel Volturno, di Villa Literno e l’ex primo cittadino di Giugliano. Tuttavia, misure concrete per l’individuazione degli scarichi illegali non sono state ancora prese e dopo quasi un anno, l’“usanza” si ripete puntuale (nessuna risposta o dichiarazione in merito ci è stata fornita dalla polizia municipale di Castel Volturno, che ha giurisdizione sulla foce; da quella di Giugliano, che ha giurisdizione sul lago; dalla protezione civile e dalle segreterie dei sindaci). Come storicamente documentato, fasi di profonda distrofia estiva del Lago Patria, con morìe di massa della fauna ittica, si verificavano regolarmente anche negli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo. Tuttavia, si legge in uno studio del Cnr-Irsa, “il precipitare delle condizioni ecologiche del lago, con relativi episodi di mortalità in massa nel periodo estivo, è dovuto in modo preponderante allo scarso ricambio col mare, a causa dell’occlusione, quasi costante, del tratto finale del canale di foce per l’apporto di sabbia dovuto alle mareggiate. L’occlusione è talvolta favorita, o volutamente mantenuta – specie in periodo estivo, quando il lago avrebbe maggior necessità di ricambio delle acque – per non compromettere la balneazione (e gli interessi economici) nei lidi presenti sugli adiacenti tratti di costa”. A fronte della progressiva e selvaggia urbanizzazione del territorio, avvenuta senza la realizzazione di infrastrutture fognarie adeguate e di depurazione degli scarichi, un question time del 2017 di due consiglieri comunali di Giugliano chiedeva al presidente del consiglio di rendere conto degli atti compiuti dall’ente per subentrare alla Regione nella realizzazione del progetto di risanamento del bacino. Sebbene l’ordinanza del commissario alla depurazione che approvò il progetto esecutivo sia del settembre 2005, quest’ultimo non solo a oggi non è stato completato, ma neppure è dato conoscerne lo stato dell’arte. Lo sversamento del sovrappieno degli scarichi urbani in laguna, intanto, continua indisturbato, nonostante, sempre nel 2017, in una interrogazione alla giunta regionale, il consigliere Tommaso Malerba avesse fatto richiesta di conoscere la quantità di risorse stanziate e impiegate fino a quel momento: le carte non sono mai arrivate, o sono arrivate in maniera incompleta. Dopo poco i lavori sono stati addirittura sospesi. Eppure, tra i vari interventi suggeriti nello studio del Cnr vi è l’apertura del canale di foce in modo costante, “al fine di assicurare un ricambio più continuo delle acque lagunari a opera delle maree”. Questa circolazione implicherebbe anche “un processo di progressiva depurazione del Lago Patria e un minor carico generale di inquinanti, in modo da non compromettere la balneazione nei tratti di costa adiacenti, come avviene invece con riaperture della foce effettuate d’urgenza, quando le condizioni delle acque lacustri sono ormai critiche”. Sempre nel 2017, in qualità di sindaco della Città Metropolitana di Napoli, Luigi de Magistris aveva approvato un progetto di fattibilità per “Lavori di riqualificazione paesaggistica del Lago Patria” nel comune di Giugliano, sulla base di un finanziamento regionale di otto milioni e seicentomila euro. Il documento puntava allo sviluppo di strutture turistico-ricettive, delle infrastrutture collegate al tempo libero e allo sport, alla realizzazione di una pista ciclabile, la rifunzionalizzazione della strada principale, la creazione di una fascia boscata e la sistemazione di un’area a verde attrezzato. Quel finanziamento è andato perduto a causa dell’inerzia istituzionale dei vari enti coinvolti, e così lo scorso gennaio la Città Metropolitana ha dovuto avviare una gara d’appalto per un intervento di riqualificazione paesaggistica e infrastrutturale, per un investimento previsto di sette milioni di euro circa. L’unico atto concreto si è avuto lo scorso marzo, quando in tutta fretta, prima di dare le dimissioni (sfiduciato da diciannove consiglieri su venti), l’ex sindaco di Giugliano Nicola Pirozzi aveva dato avvio ai lavori per il rifacimento di un complesso sportivo abbandonato, il centro Remiero, dedicato alla disciplina del canottaggio. Ritardi, inadempienze, uso inappropriato di risorse finanziarie: l’aggressione ambientale a questo territorio prosegue impunita. Intanto, nell’ultima indagine conoscitiva del 23 giugno, l’Autorità nazionale anticorruzione ha evidenziato tutte le carenze nella progettazione, nell’avvio e nell’esecuzione degli interventi previsti per la costruzione e per l’efficientamento dei sistemi depurativi. Su questo tema come su altri, numerose procedure di infrazione da parte dell’Unione Europea sono al momento aperte. (mena moretta)
Marsiglia, la sentenza sui “mercanti di sonno” sette anni dopo la strage di rue D’Aubagne
(archivio disegni monitor) 5 novembre 2018. Nove di mattina. Due edifici crollano a rue D’Aubagne a Marsiglia. È il mio quartiere, la strada in cui vivo da dieci anni. Un quartiere popolare in cui ci si era abituati che le scale degli immobili fossero storte, che le crepe a muri e soffitti disegnassero ogni mese nuove geometrie. Muoiono otto persone. I loro nomi e le loro biografie ci scuotono tutti. Studenti fuori sede, giovani lavoratori, madri di famiglia. Gli otto morti sono il quartiere, un miscuglio di traiettorie umane che condividono uno stesso luogo. Oulome, comoriana, madre di sei bambini, Marie-Emmanuelle, un’artista di Grenoble, per tutte e due la vita si ferma a 55 anni. Julien, franco-peruviano ha appena compiuto 30 anni, Fabien è pittore, Taher, tunisino e Cherif, algerino, sono ospiti a casa di Rachid, che non è lì quella mattina. Sono invece insieme Simona e Pape, italiani, lei di Taranto, lui di origine senegalese. La morte di Simona, appena trentenne, forse dà un brivido in più a tutti noi italiani e italofoni venuti negli anni a vivere qui. La città dà la colpa alla pioggia. Il sindaco non va sul luogo del dramma perché sta inaugurando un salone del cioccolato, e si sa, nella vita, e nella politica, ci sono priorità. La gente si indigna. Scende in strada, protesta, si fa riempire di gas lacrimogeni da una polizia che forse per imbarazzo reagisce con troppa veemenza. Un lacrimogeno sbaglia strada e colpisce Zineb, ottant’anni, che guarda la manifestazione al quarto piano, dalla finestra. Zineb muore. Nove. Questo va e vieni di manifestazioni, di indignazione e repressione violenta durano mesi, noi, forse, riscopriamo una dimensione collettiva di abitanti attraverso il lutto. Come un segreto di Pulcinella si scopre che decine, centinaia di case sono in pericolo. La gente è espulsa, per ragioni di sicurezza, alloggiata qualche settimana in un motel all’altro capo della città e poi dimenticata. Io ho appena comprato casa, ogni mattina mi informo con la vicina che ha la madre che lavora in Comune se rischiamo anche noi. Gli espulsi mi somigliano quasi più che i morti. I bobo. Siamo noi. Tutti per strada perché lo spazio pubblico è il nostro mezzo di informazione. E per una volta nessuno guarda agli altri con compassione, nessuno osserva con un piglio da antropologo la miseria altrui. Popolo in fondo lo si è tutti. Nella sfiga c’è posto per tutti. Nel quartiere si iniziano ad aggirare promotori immobiliari che come avvoltoi per qualche soldo ricomprano le case in cui la gente non può più entrare. Io faccio fatica a non notare con amarezza l’ironia dei supermercati: quando paghi ti propongono di dare soldi per Notre-Dame che è bruciata ad aprile: lutto nazionale. Della rue D’Aubagne e dei suoi morti, invece, ci sono i cartelli, le voci che gridano con rabbia, ma non certo molta eco tra giornali e discorso di massa. 7 luglio 2025. Sono passati quasi sette anni. Il tribunale emette la sentenza. Il sindaco è morto. Né per la pioggia, né per condizioni insalubri: era vecchio. Ma nel frattempo aveva perso le elezioni, dopo venticinque anni, anche per via dell’indignazione popolare per il dramma della rue D’Aubagne che aveva portato alla creazione della Primavera Marsigliese, un movimento popolare che aveva vinto le elezioni, per la prima volta con una donna sindaco, a dire il vero durata poco. Questo processo è sicuramente merito di un movimento che non ha smesso di rimanere attento, che non ha barattato l’indignazione e la rabbia per niente. Che si è organizzato. Nella sentenza si mette in evidenza tutto il sistema di malgoverno e quello della speculazione sulle abitazioni insalubri e popolari. Si dà finalmente una faccia ai marchands de sommeil, letteralmente “mercanti di sonno”, che di poetico hanno solo il nome. Si scopre che sono avvocati, società rispettabili, funzionari in doppio petto. A ricevere una condanna persino Ruas, vicesindaco e delegato agli alloggi insalubri della città. Il giudice lascia intuire che solo la morte ha salvato il vecchio sindaco da essere definito il vero capomafia di tutto l’inghippo. Eppure, le condanne sono nel peggiore dei casi un anno di braccialetto elettronico a bordo piscina. Per lo più sono pene di sursis, cioè stai attento, se lo rifai rischi grosso… Le multe poco più che per un divieto di sosta. La vita di Simona vale ottantamila, le persone che hanno perso casa, dopo aver dimostrato che avevano subito un danno psicologico maggiore, possono, forse, ottenere otto o novemila. Chi non aveva un contratto d’affitto in regola come potrà dimostrare che viveva lì? Si esce tutti dalla sala. Un processo importante. Necessario. Una lente d’ingrandimento sul giochino della mafia che ha scoperto che con più sabbia e meno cemento si gioca al lascia o raddoppia e soprattutto che la miseria e la precarietà sono un ottimo supermercato. Eppure si esce sgomenti. Si sono sentite cose tremende e letti messaggi sconcertanti degli imputati. Parole che trasudano un disprezzo per l’umano che sembra quasi grottesco. La distanza tra le frasi perentorie del giudice che li dichiara colpevoli di lunghe liste di atti vergognosi e le condanne quasi simboliche. Un meccanismo malsano è stato messo a nudo dal lavoro infaticabile dei superstiti. La città aveva sei milioni per gestire le case insalubri. Ne ha spesi solo trecentomila. Ma quel menefreghismo li assolve dal delitto di corruzione. In tutte quelle case gli abitanti avevano da tempo dato l’allarme. Un tecnico li aveva rassicurati il giorno prima del dramma. Partiva per la Grecia il giorno dopo. È dichiarato colpevole di negligenza, ma non di averne approfittato: la vacanza era prevista da tempo. Quando i colpevoli escono, la folla grida un qualche  indignato “assassini”. Nelle manifestazioni le urla erano molto più forti, qui lo si grida con voce rotta. Un avvocato, peraltro della difesa della parte civile, ci rimprovera dall’alto della sua consapevolezza del bene e del male. «Vergognatevi, non hanno mica pugnalato qualcuno. Siate grati, senza di noi non avreste mai avuto giustizia», ci insegna. Immagino Simona, Julien, Taher, Marie Emmanuel, Cherif, Pape, Ouolume, Fabien. La sentenza ha detto che non hanno avuto paura. Che non c’è stata agonia. La morte è arrivata improvvisa e per questo il rimborso vale meno. Quanto fa male una pugnalata? Quanto ci serve questa giustizia edulcorata? (manuel maria perrone)
Scugnizzo cup. Voci e immagini dal torneo dei quartieri di Napoli
Foto di Matteo Ciambelli Il prossimo settembre ricorrerà il decimo anniversario della riapertura degli spazi dell’ex carcere minorile Filangieri, oggi Scugnizzo Liberato, a Salita Pontecorvo. Una tra le attività che lo Scugnizzo ospita – teatro, laboratori, corsi, doposcuola, iniziative culturali – che ha avuto maggiore risalto mediatico negli ultimi anni è la Scugnizzo Cup, torneo di calcio a cinque che si svolge nel chiostro del complesso, con la folla accalcata ai margini del campo e centinaia di persone affacciate ai quindici balconi del primo piano. Fumogeni, cori, fuochi d’artificio si alzano dal cortile e dai terrazzi della struttura, in un’atmosfera che qualcuno paragona alle curve di alcune squadre marocchine. Prima della finale gli organizzatori sembrano volare basso, quasi giustificandosi: «Non sarà come gli altri anni, questa volta ci saranno meno persone, tutto più tranquillo». Semplicemente, all’inizio manca ancora un po’. Ai balconi ci sono bandiere della Palestina e striscioni contro il genocidio in corso a Gaza, accanto ai cartelloni dei tanti sponsor. Un allevamento di Pitbull, un’agenzia di scommesse, una ditta di fuochi d’artificio, una trattoria. Da un lato c’è la spinta popolare e autorganizzata, economica e organizzativa, dall’altro si intuisce il tentativo di qualche grande marchio (vedi Red Bull) di sfruttare l’immagine del torneo, che negli ultimi anni, soprattutto sui social network, ha avuto grossa diffusione. La Scugnizzo Cup è nata nel 2020 anche in risposta alle restrizioni del Covid sul mondo dello sport: una competizione fra amici dei quartieri del centro di Napoli. Ai presidenti delle squadre partecipanti sono imposti alcuni limiti nella composizione delle rose. Si cerca di limitare una tendenza che il torneo aveva rischiato di prendere nelle scorse edizioni, quando in alcune squadre erano stati inseriti troppi giocatori professionisti di calcio a 5, serie A compresa: il livello tecnico si era alzato a dismisura e gli spazi per gli amatori rischiavano di ridursi all’osso. Le due squadre arrivate in finale in questa edizione (Manchester City e Inter Miami) hanno trovato un equilibrio tenendo dentro giocatori che fanno parte di società semiprofessionistiche di calcio a 5 (soprattutto serieC1) e calcettisti completamente amatoriali, che sfuggono a tutte le ricerche Google. Alcuni arrivano fumando, in ciabatte, acclamati dalla folla e circondati dai bambini. Indossano maglie personalizzate con la data della finale della Scugnizzo Cup. A proposito di titoli, chiacchierando nel pre-partita viene fuori che sul gol più bello della storia del torneo concordano quasi tutti gli organizzatori: Emanuele Volonnino (ora al Benevento, serie A di calcio a 5), prima edizione del torneo. Volonnino è spalle alla porta, marcato. Muovendo la palla con la suola evita due difensori che lo fronteggiano mentre con le mani controlla chi gli è dietro. Un altro movimento con la suola, poi il colpo di tacco e il gol. Un esercizio di danza che complessivamente dura quattro secondi, tre difensori evitati in due metri quadrati. Il fischio di inizio si avvicina. Ogni mattonella del campetto è occupata. Tra linee laterali e muro c’è un metro e mezzo circa, e in questo metro e mezzo ci sono quattro file di persone lungo l’intero perimetro del campo. Il pallone esce quando tocca i piedi di qualche tifoso. L’arbitro è Vincenzo Caprio detto Tyson, circa sessant’anni, statuario, ex centravanti dilettante: «Sono l’arbitro più titolato dei tornei napoletani», dice. «Guarda la mia prestazione in campo, vedrai la mia personalità». Il suo sforzo, in realtà, sarà in buona parte per tenere i tifosi lontani dal campo. Luigi Iannone è il capitano del Manchester City, numero 9, capelli ossigenati. «Sono dei Quartieri Spagnoli. Per me questo torneo è come tornare a giocare per strada». Racconta di un pallonetto al River Plate, intorno a lui annuiscono: «Grande gol!». Iannone ha trentacinque anni, un lontano passato da calcettista semiprofessionista, ora è in cerca di lavoro e ha due figlie. La prima gli gira intorno, gioca molto bene a pallone con altri bambini. Prima dell’inizio della partita abbraccia il padre. La partita inizia alle 22:45, il presentatore ha dovuto chiedere più volte agli spettatori di uscire dal campo. «E ora incendiate la Scugnizzo Cup!»: le torce illuminano il chiostro e quando il fumo si dirada le squadre sono pronte per il calcio d’inizio. Il pubblico più rumoroso è a favore del Manchester City e lancia complicati cori contro l’Inter Miami. C’è un capo tifoso con un piccolo megafono rosso. Provoca i giocatori avversari, che non reagiscono mai. Nel primo tempo la partita è combattuta, poi il Manchester City passa in vantaggio con Del Pozzo. I tifosi invadono il campo e festeggiano. Nella ripresa l’Inter Miami è sopraffatta. Emerge il talento di Luca Orefice, che sarà poi votato miglior giocatore del torneo. Tre gol: punizione rasoterra, palla all’angolino dopo azione travolgente a sinistra, testata da corner. I tifosi lo portano in trionfo. Orefice ha ventiquattro anni, un viso da filosofo, Parmenide con i capelli rossi. Gioca a calcio a 5 per l’Mds di Marigliano (C1), probabilmente potrebbe giocare a livelli più alti. Su internet si trovano articoli su di lui: quando era a Scafati era seguito da alcune squadre importanti di serie A. La partita finisce 4-0, la Scugnizzo Cup è del Manchester City. Ultime scene: capitan Iannone indossa occhiali da sole da motociclista e un berretto all’indietro, sembra più giovane, sorride. I compagni di squadra lo sollevano e lo fanno volare per tre volte. Quando torna a terra viene abbracciato da sua figlia. È tempo di foto con la coppa, salti, medaglie, il cielo è illuminato dai fuochi d’artificio. (davide schiavon)
Satnam e i suoi fratelli. Cinque lavoratori indiani morti in provincia di Salerno in nove mesi
(disegno di otarebill) È passato un anno dalla tragica morte, o meglio omicidio, di Satnam Singh in provincia di Latina, avvenuta il 19 luglio 2024. In questi giorni i suoi parenti sono in Italia, e stanno incontrando politici e sindacalisti: il presidente della Regione Lazio, Rocca, il segretario della Cgil, Landini, i deputati Pd, e infine al Senato la Commissione di indagine sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.  In questi incontri è risuonato il condivisibile slogan “mai più casi come quelli di Satnam”, ma cosa è cambiato realmente nell’ultimo anno? Purtroppo poco o niente, la situazione sembra addirittura peggiorata: dalla morte di Satnam Singh a oggi, sono almeno trenta i lavoratori indiani morti in Italia in seguito a incidenti sul lavoro, malori avvenuti sui posti di lavoro o investiti mentre si recavano o tornavano dal lavoro. Una delle comunità indiane più numerose presenti in Italia è quella che vive in provincia di Salerno, che, al primo gennaio 2024, contava 3.529 residenti. Circa un terzo della comunità indiana vive tra Battipaglia, Eboli e Capaccio, ed è impiegata principalmente nei settori dell’allevamento di bufale e bovini e nell’agricoltura. Solo in provincia di Salerno sono morte cinque persone di origine indiana negli ultimi nove mesi, e purtroppo non risultano dichiarazioni di politici, sindacati e associazioni, rispetto a queste morti, neppure semplicemente di cordoglio. Le comunità e i parenti delle vittime sono state lasciate sole, senza alcun supporto. Il caso più recente è avvenuto l’8 luglio 2025, è stato descritto così dal quotidiano La Città di Salerno: “Lo hanno trovato nella vasca, dove si raccoglie il letame. Privo di vita, morto da diversi giorni. Aveva 37 anni, l’indiano. Padre di un figlio, rimasto in Asia in compagnia della madre. La salma è stata sequestrata dai carabinieri di Serre, guidati dal capitano Greta Gentili. Le indagini sono coordinate dal pm Gianpolo Nuzzo che, ieri mattina, ha incaricato il medico legale Gabriele Casaburi di effettuare un primo esame cadaverico esterno. Nell’azienda bufalina erano presenti gli avvocati Mario e Carlo Conte, in rappresentanza del titolare della ditta che non è indagato”. Da quello che è stato possibile ricostruire, leggendo i vari articoli, la mattina dell’8 luglio alcuni lavoratori hanno attivato un macchinario per svuotare dall’abbondante acqua piovana caduta nelle ore precedenti una vasca che raccoglie il letame in un’azienda bufalina in località Borgo San Lazzaro a Serre, ed è riemerso il cadavere di un uomo. Era presente anche il cognato della vittima, anch’egli di origine indiana, impiegato nell’azienda. La salma era già in avanzato stato di decomposizione, forse da giorni. La vasca dove è stato ritrovato il corpo, stranamente, non risulta sequestrata, nemmeno per verificare se fosse stata costruita a norma di legge, e con le misure di sicurezza prevista per evitare incidenti.  Nessun articolo riporta il nome dell’uomo, scrivono che sia stata ritrovato senza documenti ed effetti personali, eppure contraddittoriamente aggiungono informazioni dettagliate quali il fatto che avesse 37 o 38 anni, un figlio e una moglie in India, fosse attualmente disoccupato o non “formalmente impiegato nell’azienda bufalina”, vivesse in Italia da vari anni e fosse stato ricoverato e poi dimesso da un ospedale della zona il 30 giugno. Il 10 luglio si sarebbe dovuta tenere l’autopsia della salma, nell’obitorio dell’ospedale di Eboli. Non si sa se i familiari abbiano potuto nominare un tecnico di parte, o se ne siano stati informati.  In precedenza un altro lavoratore di origine indiana, di 54 anni, era deceduto colpito da un malore il 13 maggio 2025 a Positano. Anche in questo caso non si conosce il nome della vittima né altri dettagli.  Il 21 marzo un lavoratore indiano, che abitava e lavorava ad Altavilla Silentina (paese confinante con Serre) in un’azienda agricola era stato ritrovato senza vita in circostanze “misteriose”: “Il giallo della morte di Sandhu Gurmeet Singhi, 25enne di origine indiana, si infittisce. Il suo corpo è stato ritrovato ieri lungo la riva del fiume Calore, a Serre, nascosto tra i rami, dopo ore di ricerche condotte dai carabinieri di Eboli, vigili del fuoco e Protezione civile. Ora sarà l’autopsia a stabilire cosa sia realmente accaduto. Tre le ipotesi al vaglio degli inquirenti: omicidio, suicidio o caduta accidentale. L’allarme era scattato dopo mezzogiorno, quando il giovane non aveva fatto rientro a casa. Preoccupati, gli amici avevano segnalato la sua scomparsa, dando il via alle ricerche”. A distanza di quattro mesi, anche in questo caso non si è saputo più nulla dei risultati dell’autopsia e delle indagini.  Il 29 novembre 2024 è la volta di Onkar Syng, un ventitreenne di origini indiane, investito da un treno alla stazione di Ascea. I media locali non forniscono nessun dettaglio, la storia di Onka viene riportata solo in un articolo pubblicato da PTC Punjabi UK, un canale televisivo, voce della comunità di lingua punjabi europea, con sede nel Regno Unito: “Onkar Singh era arrivato in Italia nell’ottobre 2023. Il padre di Onkar,Bhupinder Singh, ha affermato che, dopo aver contratto un prestito di dodici-tredici lakh di rupie (circa 13 mila euro) , era riuscito a mandarlo in Italia in modo che il suo unico figlio maschio potesse essere il suo sostegno nella vecchiaia. Ma le circostanze che ha dovuto affrontare dopo il suo arrivo qui non possono essere descritte. L’intermediario che lo aveva invitato in Italia non lo ha aiutato, motivo per cui i documenti italiani di Onkar non erano pronti, e senza documenti in Italia, non riusciva a trovare lavoro regolare da nessuna parte. Mentre viaggiava da Catania a Brescia in treno, per cercare un lavoro, durante il tragitto è sceso alla stazione ferroviaria di Ascea in provincia di Salerno. Il padre ritiene che Onkar abbia preso questa decisione a causa delle vessazioni subite in Italia, che gli hanno causato una depressione”. L’8 novembre 2024 in località Campolongo di Eboli è morto Singh Manjinder, quarantanovenne indiano, schiacciato da un trattore mentre lavorava nei campi della Piana del Sele. Pare che, per cause da accertare, gli sia finita addosso la pala meccanica del mezzo agricolo. Anche in questo caso, gli unici approfondimenti degni di rilievo, provengono da testate giornalistiche indiane e punjabi: “Manjinder Singh Rimpa lavorava nei campi con la sua famiglia da diversi anni. Ieri stava guidando un trattore e stava arando il terreno, quando improvvisamente il mezzo si è ribaltato e qualcosa lo ha colpito gravemente, provocandogli una morte dolorosa. I familiari sono perplessi sul perché si sia verificata questa tragedia e le reali ragioni dell’incidente non vengono presentate in modo adeguato dalle autorità. La famiglia ha affermato che dietro questa morte ci sono ragioni profonde e chiede un’indagine imparziale sull’accaduto. Perché è successo questo? Perché è avvenuto l’incidente? Il proprietario non sta dando la risposta corretta. I parenti del defunto stanno fornendo informazioni su questo incidente”. “Un operaio che lavorava con lui ha dichiarato alla stampa che il defunto Manjinder Singh stava arando i campi come al solito e che lui aveva lasciato il lavoro nel pomeriggio per andare a riposare nei campi poco distanti. Dopo un po’, il proprietario dei campi e suo figlio sono arrivati e gli hanno intimato di non uscire di casa, perché la polizia era arrivata nei campi. Il collega ha inoltre affermato di aver provato a parlare con Manjinder Singh al telefono, ma di non aver ricevuto risposta. Successivamente, ha chiamato un altro lavoratore punjabi di una fattoria vicina e gli ha chiesto spiegazioni. Quest’ultimo gli ha riferito che si era verificato un incidente con un trattore nei campi del suo datore di lavoro, in cui un lavoratore era morto”. Le notizie su queste morti di solito vengono rapidamente dimenticate, i media ne scrivono per un paio di giorni e poi il caso scompare totalmente. Questo avviene proprio perché, senza un supporto solidale, i parenti, gli amici e le famiglie delle vittime non possono farsi sentire, avere i fondi per nominare avvocati e periti di fiducia, e spesso nemmeno le risorse necessarie alla vita quotidiana. I media locali si limitano a riportare le veline degli inquirenti e delle forze dell’ordine, non pongono domande né fanno inchieste, non riportano mai i racconti dei familiari e colleghi delle vittime. I sindacati tacciono: è possibile verificare come sui siti e sui canali social delle principali organizzazioni provinciali di categoria, non ci sia letteralmente traccia di queste morti. Anche l’operato di forze dell’ordine e inquirenti appare superficiale. Il più recente processo relativo alla morte sul lavoro di un bracciante indiano, nella provincia di Salerno, lo scorso 10 dicembre ha visto il titolare dell’allevamento di bufale dove era morto nel 2019 Avtar Singh, assolto in appello con formula piena “perché il fatto non sussiste”. Come per Satnam Singh, anche familiari, amici e colleghi delle vittime nel salernitano, vogliono verità e giustizia, e sono disposti a farsi sentire: è necessaria e urgente la creazione di una rete di solidarietà attiva sui territori, che rompa la cappa di silenzi e complicità che permette lo sfruttamento e la strage di lavoratori e lavoratrici, immigrati e non. (emme)
Dalla giustizia alla forza, il mosaico dell’impunità nelle istituzioni totali
(disegno di mattia vincenzo abbruzzese) Sembra un mosaico in accurata composizione, tassello dopo tassello per rafforzare il potere di chi lo esercita e silenziare la voce di chi lo subisce. Nelle carceri italiane, il tasso di sovraffollamento ha superato il 133 per cento nel giugno 2025: Milano San Vittore ha raggiunto il 220 per cento, Foggia il 212. Secondo il ministero della giustizia, tra gennaio e giugno si sono registrati trentasei suicidi, cui si sommano i novantuno del 2024, triste record assoluto nella storia penitenziaria. È il segno di un sistema al collasso, dove i corpi diventano esuberi amministrativi e la dignità si riduce a statistica. Di fronte a tutto ciò, l’istituzione deputata a garantire trasparenza nei luoghi di privazione della libertà è oggi muta. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, istituito a seguito della sentenza Torreggiani nel 2013, è attualmente presieduto da Riccardo Turrini Vita: magistrato e dirigente di lungo corso del ministero della giustizia, con una carriera soprattutto nel dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Turrini Vita è stato nominato nell’ottobre 2024 su proposta del ministroNordio, con delibera del consiglio dei ministri, affiancato da Irma Conti e Mario Serio. Tuttavia, la relazione annuale al parlamento non è ancora stata presentata dall’attuale collegio, anzi l’ultima risale addirittura al 2023 (sotto la gestione di Mauro Palma). Il garante non effettua inoltre ispezioni non annunciate ed è stato segnalato da avvocati e associazioni come difficilmente raggiungibile dai detenuti, i quali inviano istanze e comunicazioni senza ricevere risposta. A giugno 2025 Michele Passione, storico legale del garante, e le avvocate Maria Brucale, Antonella Calcaterra e Giovanni Rossi, psichiatra e membro esperto, hanno lasciato il loro incarico. La decisione è maturata, da parte di tutti, di fronte a un contesto sempre più impermeabile all’ascolto e al confronto. Passione ha motivato così la sua scelta, in una dichiarazione pubblica: “Se non entri nei luoghi della detenzione, se non guardi, non puoi nemmeno vedere cosa sta succedendo. Io mandavo report, segnalavo, ma nessuno rispondeva. Quando il garante smette di ascoltare, è finita”. Sempre Passione ha rilevato come, dall’inizio del mandato, l’attuale garante “non abbia mai effettuato visite nei centri per migranti in Albania, né svolto alcun monitoraggio dei voli di rimpatrio”. Per quanto riguarda le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), strutture che ospitano persone sottoposte a misure detentive per motivi psichiatrici, risulta che nel primo semestre del 2025 sia stata effettuata soltanto una visita ufficiale, il 30 gennaio, a Rieti. Un dato che lascia perplessi sulla continuità e sull’effettiva incisività dell’attività di monitoraggio in luoghi tanto delicati. Anche il governo, intanto, posizionava i suoi tasselli. Il Decreto sicurezza (Dl 48/2025), convertito in legge il 9 giugno 2025, prevede all’articolo 22 un fondo per coprire le spese legali degli agenti di polizia penitenziaria e delle forze dell’ordine indagati per atti commessi durante il servizio. Il rimborso può arrivare fino a diecimila euro per ciascuna fase del procedimento penale, comprese le indagini preliminari: un vero e proprio scudo legale a favore degli imputati pubblici ufficiali. Contestualmente, il decreto introduce il reato di “rivolta carceraria”, estendendo la resistenza passiva (incluse la battitura delle sbarre e lo sciopero della fame) a una fattispecie punibile con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Si aggiungono aggravanti per le manifestazioni “dentro e fuori le stazioni ferroviarie e della metropolitana”, una nuova disciplina sulla detenzione di materiale “propedeutico al terrorismo” punita con reclusione da due a sei anni anche in assenza di reati collegati, e restrizioni all’accesso a misure alternative per le detenute madri. La Corte di Cassazione, nella Relazione n. 33/2025 (23 giugno 2025), ha mosso critiche durissime al provvedimento. Ha rilevato l’assenza dei presupposti di necessità e urgenza per il ricorso al decreto legge, denunciandone l’eterogeneità, l’approccio repressivo e la vocazione simbolica, definendolo una forma di “ipertrofia penalistica” che rischia di criminalizzare anche le proteste non violente. Secondo la Suprema Corte, il decreto non solo punisce l’intenzione più che l’atto, ma compromette anche l’equilibrio tra accusa e difesa, il principio di proporzionalità, il divieto di trattamenti inumani o degradanti, e il diritto alla libera manifestazione del pensiero. Pochi giorni dopo, il 25 giugno 2025, Matteo Salvini ha annunciato in conferenza stampa alla Camera l’intenzione di proporre una modifica dell’articolo 613 bis del Codice Penale, che disciplina il reato di tortura, introdotto con la legge 110/2017 dopo la condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani per i fatti del G8 di Genova, in particolare per le violenze alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto. Salvini ha dichiarato che il reato di tortura dovrebbe essere modificato per permettere alla polizia penitenziaria di svolgere il proprio lavoro senza rischiare accuse ingiustificate. Ha sottolineato che gli agenti penitenziari sono spesso etichettati come “aguzzini e torturatori” senza motivo. Se Mario Serio, componente del collegio del garante nazionale, ha dichiarato che “il garante continuerà a costituirsi in giudizio contro le forze di polizia accusate di maltrattamenti e tortura”, Michele Passione, a cui è stato richiesto un commento sul punto, ha precisato: “Quanto alla volontà dichiarata di proseguire nell’attività processuale del garante, a oggi non posso affermare con certezza che siano stati nominati nuovi avvocati. Posso solo rilevare che, dopo la mia rinuncia, ho continuato a ricevere notifiche dalle autorità giudiziarie presso le quali ero parte civile. Sembrerebbe quindi che non sia stata ancora depositata una nuova nomina: per legge, infatti, il difensore della parte civile è domiciliatario. Alle date in cui ho ricevuto le notifiche, quindi, un nuovo difensore non era stato probabilmente nominato”. Il 6 aprile 2020, a Santa Maria Capua Vetere, telecamere interne all’istituto riprendevano un vero e proprio raid punitivo condotto da quasi trecento agenti penitenziari. Durante questo raid centosettantasette detenuti furono pestati, insultati, denudati e umiliati. L’inchiesta ha indagato su centoventi persone e portato all’emissione di cinquantadue misure cautelari, ma l’attenzione pubblica si è velocemente dissolta. A Foggia, l’11 agosto 2023, dieci agenti aggredivano e picchiavano due detenuti per oltre mezz’ora: uno di loro soffriva di una grave patologia psichiatrica. L’indagine, supportata da video e testimonianze interne, ha portato a quattordici ordinanze cautelari nel marzo 2024. Nel 2025, la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per tortura, concussione e falsità ideologica, evidenziando coperture sanitarie e tentativi di insabbiamento. Non si tratta di episodi isolati. A San Gimignano, il 9 marzo 2023, il Tribunale di Siena ha condannato cinque agenti della polizia penitenziaria a pene tra cinque anni e dieci mesi e i sei anni e sei mesi per tortura, falso e minaccia aggravata. I fatti risalivano all’ottobre 2018, quando un detenuto tunisino era stato brutalmente pestato. La sentenza ha riconosciuto non solo la violenza sproporzionata, ma anche il tentativo sistematico di copertura dell’accaduto. La Corte d’Appello di Firenze ha successivamente confermato tutte le condanne, sebbene cinque imputati abbiano ricevuto uno sconto di pena. Ancora – ma si potrebbe andare avanti a lungo – nel febbraio 2025 il Gup di Reggio Emilia ha condannato dieci agenti di polizia penitenziaria per il pestaggio di un detenuto tunisino avvenuto il 3 aprile 2023 nel carcere della Pulce. In quel caso il reato di tortura non è stato riconosciuto, e le condanne per abuso di autorità, lesioni e falso ideologico sono variate da quattro mesi a due anni (nonostante ciò, l’impianto accusatorio ha mostrato pratiche di violenza istituzionale reiterata, perseguibili solo grazie alla legge 110/2017, oggi sotto attacco).  Alla violenza fisica si accompagna una crescente medicalizzazione della custodia. Il XXI Rapporto di Antigone (Senza Respiro, presentato il 29 maggio 2025) ha rilevato che il quarantaquattro per cento dei detenuti assume sedativi o ipnotici, mentre il venti per cento fa uso di stabilizzanti dell’umore, antidepressivi o antipsicotici, spesso in assenza di una diagnosi psichiatrica formale. Il fenomeno è particolarmente allarmante nelle carceri minorili, dove il consumo di psicofarmaci è aumentato drasticamente (del sessantaquattro per cento all’istituto di Torino e del trecento cinquantadue per cento a Nisida, rispetto al 2022) Nei reparti per l’“osservazione psichiatrica” sono state documentate prassi come l’isolamento prolungato per settimane, la sedazione forzata e la contenzione meccanica. Secondo le linee guida delle Nazioni Unite e le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt), tali pratiche possono configurare trattamenti inumani o degradanti. In istituti come Poggioreale e Vigevano il Cpt ha segnalato la totale assenza di monitoraggio esterno, l’uso di farmaci senza consenso informato e gravi lacune nella documentazione degli episodi di contenzione, compromettendo ogni forma di trasparenza e tutela. L’approccio segregativo e le pratiche torturatorie si estendono sempre più anche all’esterno dei luoghi carcerari “tradizionali”. Da gennaio 2025, l’Italia ha avviato i primi trasferimenti di migranti irregolari nei Cpr albanesi costruiti a Shëngjin e Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale del 6 novembre 2023. Queste strutture, gestite con appalti diretti e contratti blindati, sono collocate fuori dal territorio nazionale: secondo la narrazione governativa, ciò le escluderebbe dalla giurisdizione italiana.  La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 23105 del 20 giugno 2025, ha stabilito che i centri albanesi sono “formalmente e sostanzialmente sottratti alle garanzie giurisdizionali italiane”, in violazione della Direttiva 2008/115/CE e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La Suprema Corte ha inoltre sollevato due questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, affermando che il trattenimento nei Cpr albanesi rappresenta “una forma di detenzione extragiudiziale in territorio straniero, priva delle tutele minime previste dal diritto europeo”. Secondo quanto riportato dall’Asgi, nei primi sei mesi del 2025 oltre centoventicinque migranti sono stati trasferiti nei Cpr albanesi di Shengjin e Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale siglato tra Italia e Albania. Diverse autorità giudiziarie italiane, tra cui i giudici di pace di Roma, Bologna e Catania, hanno successivamente disposto il rilascio immediato di alcuni richiedenti asilo, ritenendo il trattenimento “giuridicamente nullo” per l’assenza di tutele legali e giurisdizionali. Il 3 luglio 2025 la Corte Costituzionale (con la sentenza n. 96/2025) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina del trattenimento nei Cpr, per violazione dell’articolo 13 della Costituzione. La Consulta ha rilevato che la privazione della libertà personale nei centri per il rimpatrio avviene sulla base di una norma, l’articolo  14, comma 2 del Testo Unico Immigrazione, che non definisce con sufficiente precisione i modi del trattenimento, rinviando a fonti secondarie e a prassi amministrative, in violazione della riserva assoluta di legge in materia di libertà personale. La Corte ha inoltre sottolineato che l’attuale disciplina non garantisce un controllo giurisdizionale effettivo e continuo, come imposto dall’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che tutela ogni persona da forme di detenzione amministrativa arbitrarie. In assenza di una normativa primaria che disciplini condizioni, durata e modalità del trattenimento, questo si configura come un assoggettamento fisico all’altrui potere, potenzialmente lesivo della libertà personale e privo delle necessarie garanzie di legge. Sono state inoltre sollevate (anche se dichiarate inammissibili) questioni relative alla violazione degli articoli 24 e 111 della Costituzione, in particolare per la mancata effettività del diritto alla difesa, l’assenza di informazioni chiare sui diritti del trattenuto e le difficoltà nell’accesso a un avvocato e nel ricorso contro il trattenimento. La Corte ha ritenuto inoltre non scrutinabili le questioni relative alla violazione dell’articolo 3 della Costituzione, che denunciavano una disparità di trattamento rispetto al regime carcerario ordinario. Nel merito, va sottolineato, non ha fornito una disciplina sostitutiva, ma ha rivolto un preciso monito al legislatore: in mancanza di un intervento normativo che regolamenti in modo chiaro il trattenimento nei Cpr quanto a modalità, durata, condizioni materiali e garanzie giurisdizionali, la misura risulta costituzionalmente inammissibile. È chiaro, tuttavia, che un intervento meramente giurisdizionale non può essere sufficiente davanti a un mosaico che si compone e ricompone di continuo. Un garante che non parla, una legge che protegge chi picchia, un decreto che finanzia la difesa degli imputati in divisa, una riforma che sterilizza il reato di tortura, una giurisdizione che si dissolve verso strutture extraterritoriali: tutto è coerente con l’obiettivo di silenziare la denuncia, ridurre al minimo le garanzie, garantire l’impunità e normalizzare l’eccezione. È il passaggio dalla giustizia alla gestione, dal diritto alla forza, e non è solo una crisi: è una precisa scelta politica. Di fronte a un sistema che si regge sulla paura e sull’opacità, il rischio non riguarda solo i detenuti, i migranti o i marginali: è un rischio per tutti, e per gli equilibri democratici generali, perché quando il potere si protegge dalla legge e non con la legge, la libertà smette di essere un principio, e diventa un privilegio. (luna casarotti – yairaiha ets)
L’urbanistica milanese come stato d’eccezione
(disegno di adriana marineo) Si susseguono da giorni le notizie di indagini e arresti per personaggi noti della politica e dell’imprenditoria milanese, culminate questa mattina con quelle che riguardano il sindaco Beppe Sala, indagato nell’ambito della maxi inchiesta sull’urbanistica nella capitale lombarda, per la quale già sei arresti sono stati richiesti.  Per quanto concerne il primo cittadino, le ipotesi di reato sono di false dichiarazioni su qualità proprie o di altre persone (relativamente alla nomina del presidente della Commissione per il paesaggio del Comune, Giuseppe Marinoni) e di induzione indebita a dare o a promettere utilità (intorno al progetto del cosiddetto Pirellino, dell’architetto Stefano Boeri e dell’imprenditore Manfredi Catella, presidente del gruppo Coima). Proprio Manfredi Catella, costruttore e principale artefice dello sviluppo del nuovo profilo urbano milanese, era tra le persone per le quali era già stato chiesto l’arresto ieri. Gli altri sono l’assessore alla rigenerazione urbana del comune di Milano Giancarlo Tancredi, l’ex presidente della commissione paesaggio, Giuseppe Marinoni, Federico Pella della J+S spa, Alessandro Scandurra, della Commissione paesaggio ma anche consulente di Coima, e Andrea Bezziccheri, della società Bluestone.  Sulle vicende politico-giudiziarie dell’urbanistica milanese, di cui ampiamente abbiamo scritto, vi proponiamo l’ultimo articolo in ordine di tempo, scritto da Lucia Tozzi e pubblicato sul numero 14 (maggio 2025) de Lo stato delle città. *     *     *  La rilevanza politica delle vicende dell’urbanistica milanese – il particolare modello di turbocapitalismo immobiliare-finanziario che è stato messo in atto, le proteste prima sommesse poi sempre più incalzanti dei cittadini, le inchieste, la legge Salva Milano e gli eventi che si susseguono da allora – è, a gran torto, molto sottovalutata. La vera posta in gioco non è certamente quella di natura giudiziaria. Le eventuali condanne dei vari soggetti inquisiti – funzionari di diverso livello, professionisti, imprese, ma non i politici che hanno concepito e alimentato le politiche filo-immobiliari – faranno il loro corso, e forse costituiranno una spinta per mobilitare finalmente quella parte di popolazione che non riesce a leggere le ingiustizie sociali se non alla luce del discrimine tra legalità e illegalità. Tuttavia, le indagini hanno avuto una funzione importantissima: sono state il perno tra i confitti sollevati dai comitati e dai movimenti e una percezione più diffusa, a Milano e in Italia, del sostrato profondamente malsano e classista, in ultima analisi produttore di diseguaglianza, del cosiddetto Modello Milano. Scaturite da una serie di esposti presentati dagli attivisti, le inchieste dei giudici hanno contribuito a fornire le prove materiali non solo delle irregolarità di molti cantieri, ma soprattutto dell’iniquità strutturale della crescita urbana per come è oggi concepita. Un sistema modellato sulla massima valorizzazione della rendita fondiaria, che impone una trasformazione fisica non solo escludente perché orientata al lusso, ma anche slegata dalla reale necessità di crescere (esistono abbastanza edifici vuoti da soddisfare la domanda abitativa, lavorativa e per i servizi) e funzionale alla concentrazione della ricchezza nelle mani di gruppi sempre più ristretti: costruttori, ricchi proprietari, studi d’affari e consulenza, finanza immobiliare e non. I casi di questi palazzi o grattacieli spuntati in mezzo ai cortili o sul bordo dei parchi, al posto di piccoli box o magazzini, non sono eclatanti in quanto ecomostri (alcuni lo sono, ma non è la cosa più grave), bensì perché il modo in cui sono stati prodotti è l’avanguardia di un metodo che si sta tentando di generalizzare, di estendere a tutta Italia. In poche parole, si è costruito senza lunghi iter di approvazione, aggirando l’obbligo di realizzare i servizi per il quartiere che l’arrivo di nuovi abitanti richiede, cioè raccogliendo altissimi profitti in punti pregiati della città senza pagare quella parte di tasse e standard che la legge obbliga a restituire alla città stessa, e invadendo lo spazio urbano senza sottoporsi a quelle verifiche che il processo democratico e le norme vigenti obbligano ancora (per fortuna, e direi non abbastanza) a rispettare. Se si trattasse di una dozzina o poco più di edifici presunti abusivi sarebbe ancora un fatto insignificante, ma questi sono solo la punta dell’iceberg di una pratica di densificazione diffusa (si parla di centinaia di situazioni analoghe), e sono l’effetto non di singole trasgressioni, ma di un meccanismo che è stato politicamente incoraggiato e alimentato a più livelli. Sono stati pensati e applicati cavilli interpretativi degni della più perversa mentalità burocratica per distorcere leggi urbanistiche chiare e comprensibili e volgerle a favore degli immobiliaristi e della rendita, chiamando questi barocchi palinsesti giuridici “semplificazioni”. Prima sono stati attribuiti eccessivi sconti sulle tasse e premi in cubatura a lavori che ristrutturassero gli edifici esistenti, invece di abbatterli e sostituirli, teoricamente per la buona ragione di limitare le nuove costruzioni e il loro insostenibile impatto ambientale e sociale sulla città. E poi si è provveduto a estendere la definizione di ristrutturazione a operazioni di abbattimento e ricostruzione di edifici anche completamente diversi, molte volte più voluminosi di quelli precedenti. Con questi e altri strumenti si è creato quel paradiso fiscale, quello stato d’eccezione immobiliare che ha reso così facile e conveniente investire a Milano, a scapito sia dei territori concorrenti che dei cittadini milanesi che hanno perso, si calcola, almeno due miliardi di euro in mancati introiti. Il lavoro di disvelamento operato dalle indagini, quindi, è stato ed è fondamentale per portare allo scoperto non solo e non tanto gli episodi di corruzione e truffa che pure sono emersi, quanto le dinamiche complesse e le conseguenze materiali di quella facilitazione degli interessi privati che è incarnata nell’idea e nella pratica della “rigenerazione urbana alla milanese”. Il disagio abitativo, dall’epidemia di sfratti agli studenti con le tende, aveva già reso palpabile il lato oscuro che la neolingua delle politiche inclusive tentava di coprire. Ma fino a ora è stato abbastanza facile per la classe dirigente sostenere che si trattasse solo di esternalità negative di un processo di crescita virtuoso e insostituibile: la rigenerazione urbana, secondo la loro lettura, è lo strumento che serve per concretizzare il diritto alla città. Poi, purtroppo, l’eccesso di attrattività crea un desiderio troppo diffuso per la città rigenerata e alcuni restano fuori. Quello che è emerso mostra invece inequivocabilmente che gli effetti erano previsti, facevano parte delle premesse: Milano doveva diventare una città Alpha, competere nella gara globale per attrarre gli investimenti più succosi, strapparli a città come Hong Kong, Londra e Singapore. Doveva costruirsi una reputazione nuova, allontanare i poveri, costruire i primi edifici di lusso per poi rimpiazzare zona per zona case popolari, servizi pubblici, spazi aperti con ambienti pittoreschi che combinassero un’immagine smart, pseudo green e dedita al consumo. Una gigantesca sostituzione, una modifica del Dna urbano e delle vecchie regole urbanistiche e amministrative che garantivano ancora un regime moderatamente redistributivo, legato al welfare, alla manutenzione, all’accoglienza e al benessere dei cittadini. Rimuovere gli ostacoli di ordine giuridico a un nuovo modello di crescita urbana fondato sulla concentrazione della ricchezza nelle mani della finanza e del blocco immobiliare, sulla massimizzazione della rendita, è un punto cruciale dell’agenda neoliberale, come argomenta, tra gli altri, Antonio Calafati, commentando i fatti di Milano e mettendoli in relazione con un Manifesto for renewing liberalism pubblicato nel 2018 dall’Economist: “Nel Manifesto c’è in evidenza un tema che contraddistingue il paradigma neoliberale sin dalle origini, sin da quando nella Vienna degli anni successivi alla prima guerra mondiale gli economisti del Mises-Kreis iniziavano a definirlo: la pianificazione urbanistica deve essere sostituita dal mercato come dispositivo di regolazione della morfologia fisica della città”. La conferma che non si trattava di incidenti, eccezioni, ma della prima fase di un progetto politico più ampio, mirato a erodere quelle leggi urbanistiche che ancora impongono a livello nazionale dei processi di controllo democratico sulla trasformazione spaziale, è leggibile nelle reazioni scomposte alle indagini. Media, politici, costruttori e funzionari milanesi hanno immediatamente lanciato una ricattatoria campagna d’allarme per il rischio di una paralisi dei cantieri, degli investimenti e dell’economia in generale. Nello stesso tempo hanno elaborato, insieme alla presunta controparte governativa, una legge (la famigerata Salva Milano) che non condonava gli eventuali abusi, ma si poneva come “interpretazione autentica” del complesso di leggi urbanistiche e edilizie in vigore. Era un modo per negare ogni accusa di irregolarità e soprattutto per portare a termine con velocità insperata un colpo pazzesco: si sarebbe potuto estendere a tutta Italia la rigenerazione alla milanese, legalizzando questa forma di ingiustizia sociale e spaziale per l’intera cittadinanza. Per fortuna questa soluzione era talmente insostenibile da destare, finalmente, l’attenzione di costituzionalisti e urbanisti, attivisti, giornalisti e politici anche al di fuori di Milano. Ma se la possibilità di fare approvare la legge Salva Milano si è fortunatamente assottigliata, l’essenza dei suoi contenuti rischia di passare attraverso una vera e propria riforma urbanistica – la legge sulla Rigenerazione urbana – e una modifica al Testo Unico sull’edilizia. Una larga fetta del mondo professionale legato all’immobiliare, così come i sindaci e gli amministratori del resto d’Italia (anche per bocca del loro rappresentante Anci, Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli) hanno dato il loro appoggio alla Salva Milano, mostrando di condividerne lo spirito e la sostanza. Non è difficile immaginare i motivi per cui una classe politica come quella che ci ritroviamo – sia a destra che a sinistra appiattita sull’orizzonte neoliberale – veda di buon occhio la fine della pianificazione pubblica e la dissoluzione delle ultime responsabilità della pubblica amministrazione. Più inspiegabile invece è la scarsa attenzione che la questione riceve nel mondo dell’attivismo, dei movimenti, persino quelli per la casa. Dovrebbe essere ormai evidente che, se il capitale finanziario impiega così tanta energia per cambiare le leggi che ostacolano la propria libertà di azione nell’appropriarsi delle città, allora difenderle è essenziale. Di sicuro non è sufficiente per trasformare una situazione che precipita verso la guerra e forme di diseguaglianza radicale, ma è un passaggio indispensabile per chi cerca di invertire i processi di distruzione climatica e territoriale, di mercificazione della cultura e del lavoro sociale. Se si cancellano i vincoli che ancora impongono alla trasformazione del territorio una funzione orientata all’interesse pubblico, l’impatto della rigenerazione sulle classi svantaggiate sarà sempre più violento. Gli sfratti, le espulsioni, la dissoluzione della dimensione pubblica e gratuita degli spazi aumenterà, mentre si ridurranno le condizioni anche fisiche per lottare ed esprimere il dissenso. La Milano di questi giorni sta assistendo incredula a due nuovi risvolti della crisi urbanistica: il primo è la svendita dello stadio di San Siro alle due società Milan e Inter, che il sindaco sta conducendo come una furia a dispetto del clima di sfiducia politica e di cinque anni di opposizione da parte di comitati e attivisti. Il secondo è la lacrimosa protesta delle centinaia di famiglie coinvolte nell’acquisto degli appartamenti di lusso o semi-lusso bloccati dalle inchieste giudiziarie, che invocano l’approvazione della legge Salva Milano per salvare i loro improvvidi investimenti. Due figure, quella del potere autoritario che persegue il progetto del capitale fino al suicidio, e quella dell’interesse proprietario che non vede altro all’infuori di sé, che lavorano in combutta per richiudere in fretta la finestra di conflitto, critica, ragionevolezza che si è aperta contro la rigenerazione urbana. Le forze che tramano per il ritorno al business as usual, alla cura dell’immagine, a quell’ottimismo crudele che ci distrae mentre chi comanda lavora indisturbato alla nostra rovina, sono molte: i grandi eventi come giubilei, olimpiadi, giù giù fino alle biennali, i saloni, i festival e le città della cultura; la ruota del criceto dell’economia turistica; i fondi che ci stanno spogliando del welfare, dello spazio vitale, delle risorse e delle leggi che ci tutelano; gli intellettuali venduti alla guerra e allo squallore delle loro miserabili quote di prestigio; l’esercito della comunicazione, che non sopporta l’emersione nelle coscienze del piano materiale e si adopera per offuscare la vista e contaminare il linguaggio appena un lembo del velo si solleva. Non lasciamoglielo fare.
Ballare sul genocidio. Musica, boicottaggio e grandi festival internazionali
(archivio disegni napolimonitor) “Stai dando a un’organizzazione il permesso implicito di essere complice del genocidio in Palestina, per poi fare donazioni a chi riesce a sopravvivere. Non ha davvero alcun senso ed è profondamente ipocrita. Hai potere nell’industria e potresti usare il tuo privilegio con intelligenza. Stai facendo una stronzata!”. “Hai passato così tanto tempo a suonare in Israele e il pubblico ti ha dato tutto il supporto e il rispetto di cui avevi bisogno. È triste e deludente vedere che non dici una parola sugli ostaggi israeliani o sulle persone innocenti uccise al festival musicale Nova. Vergognati!”. “Ecco un artista con le palle! Finalmente!”. Alla fine di maggio 2025, questi tre commenti dai toni decisamente divergenti sono apparsi sotto lo stesso post Instagram. E non sono stati gli unici. In poche ore, il comunicato di Dixon, nome di punta della scena techno e house berlinese, di commenti ne ha raccolti oltre tremila. Il post, molto atteso dai fan e dalla comunità EDM in generale, riguardava la sua partecipazione al Field Day, festival elettronico previsto per il 4 giugno a Brockwell Park, Londra, dove sarebbe stato uno degli headliner insieme a Peggy Gou. In quei giorni il Field Day era sulla bocca di tutti. Una lettera aperta firmata da duecentotrenta artisti – tra cui Ben Ufo, Brian Eno e Robert del Naja – aveva chiesto una presa di posizione forte da parte del festival contro il genocidio in Palestina e l’aderenza alle linee guida del BDS. La mancata risposta del Field Day, diventata poi tardiva, e, secondo molti, rimasta insufficiente, aveva convinto diversi artisti a passare all’azione. Nelle tre settimane precedenti al festival la line up del Field Day si era letteralmente dimezzata, con oltre venti artisti che hanno scelto di ritirarsi. Proprio mentre le cancellazioni iniziavano a prendere piede, Dixon ha pubblicato un post per confermare il proprio set, annunciando che avrebbe devoluto interamente il proprio cachet a un’organizzazione umanitaria attiva nella Striscia di Gaza. La scelta di Dixon ha scontentato molti, e per ragioni evidentemente opposte. Alla fine, pur decimato nella line up, il festival si è svolto regolarmente. Ma qual era il problema del Field Day? Dopo una quindicina di edizioni in crescita, nel 2023 Field Day è passato sotto la proprietà di Superstruct Entertainment, una società britannica attiva nella produzione di festival musicali diventata in pochi anni un gigante del settore. Dalla sua fondazione nel 2017, Superstruct ha condotto un’aggressiva campagna di acquisizione, inglobando oltre ottantacinque cosiddetti macrofestival, tra cui Szieget (Ungheria), Mighty Hoopla (UK), Parookaville (Germania), Øyafestivalen (Norvegia), Hideout (Croazia), Flow Festival (Finalndia), Zwarte Cross (Olanda) e dozzine di altri. Insomma, che siate animali da festival o semplicemente avete viaggiato per ascoltare dal vivo i vostri artisti preferiti negli ultimi anni, è molto probabile che abbiate fatto tappa anche voi a un evento targato Superstruct. Il passaggio non è stato traumatico come ci si potrebbe aspettare. Nella maggior parte dei casi, l’acquisizione ha riguardato non solo il marchio e le licenze, ma anche l’intero team di produzione dietro i singoli festival, assicurando continuità alle scelte artistiche e consolidando il lavoro fatto negli anni con una generosa iniezione di capitale. La campagna acquisti di Superstruct si è fatta più serrata nel post-pandemia, quando molti festival di successo erano sull’orlo della bancarotta. In quel periodo, il passaggio a una compagnia con grosse disponibilità finanziarie è stato visto da molti addetti ai lavori come un’ancora di salvezza – o una strada obbligata – per un comparto devastato da due anni di cancellazioni, incertezze e contributi statali insufficenti. Insomma, fin qui niente di nuovo. It’s capitalism, baby. I problemi veri iniziano nel giugno 2024, quando Superstruct Entertainment viene comprata per 1.7 miliardi di dollari da Providence Equity Partners L.L.C., a sua volta parte di Kohlberg Kravis Roberts & Co – meglio noto come KKR, dai nomi dei tre fondatori. KKR è un fondo fiduciario a stelle e strisce con cinquemila dipendenti, sedi in una ventina di paesi e un portafoglio di investimenti stimato poco sopra i settecento miliardi di dollari. Come è lecito aspettarsi, un fondo di questo tipo non è un esempio di finanza etica. KKR investe letteralmente in tutto il pianeta e in qualunque cosa possa generare profitti: telecomunicazioni e sanità, energie rinnovabili e sviluppo software, raccolta differenziata e costruzioni. E anche nella pulizia etnica. In Israele, KKR detiene quote di società operanti nel settore della cybersicurezza, dell’elaborazione dati e della produzione di armi. È anche azionista di maggioranza in una cordata di compagnie che offrono e pubblicizzano investimenti immobiliari nei territori occupati. Il corto circuito è servito: un comparto che lavora offrendo esperienze culturali e ricreative orientate (almeno sulla carta) alla promozione della diversità, della tolleranza e della pacifica convivenza si ritrova dalla sera alla mattina tra gli asset di un conglomerato che letteralmente investe nel genocidio. Come in un gioco di matrioske, nella più piccola c’è il tuo dj preferito – ma la più grande è sporca di sangue. Dopo il Field Day, l’attenzione si è concentrata sulla Spagna. Qui il dibattito è cresciuto per diversi motivi. In primo luogo, Superstruct in Spagna ha fatto man bassa, acquisendo oltre venti dei festival più amati, tra cui Sónar, Viña Rock, Resurrection Fest, Monegros, Arenal Sound e FIB. In secondo luogo, il sostegno alla causa palestinese nel paese è forte e trasversale, e include (almeno in parte) anche il governo in carica. Infine, i festival in questione non hanno solo un notevole peso economico, ma sono parte integrante dell’identità di un paese che nel giro di trent’anni ha visto crescere la produzione culturale, la qualità della vita e i diritti civili – seppur con tutte le contraddizioni del caso; e che dalla sera alla mattina si ritrova alle dipendenze di un fondo che fa profitti col genocidio. Il primo a finire sotto i riflettori è stato il Sónar, festival simbolo di Barcellona e riferimento europeo per gli appassionati di musica elettronica. Poche settimane prima dell’inizio, una lettera aperta firmata da ottanta artisti ha chiesto al festival di aderire alle raccomandazioni del PACBI (The Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel), una delle entità al cuore del movimento BDS. Le richieste avanzate dal PACBI nei confronti del Sónar riguardavano inizialmente solo gli accordi di sponsorizzazione con McDonald’s e Coca Cola. Dopo un po’ di tentennamenti Sónar ha mollato gli sponsor, e PACBI ha rilanciato con la richiesta di una formale presa di distanza dagli investimenti di KKR e aderenza alle linee guida del BDS in termini di politica culturale. Come già il Field Day, Sónar ha preso tempo, probabilmente sperando che la polemica sfumasse. Alla fine, una tardiva presa di distanza c’è stata, assieme a dei chiarimenti circa la destinazione dei profitti. Nel mentre, circa cinquanta artisti hanno cancellato la propria esibizione. Sónar è comunque riuscito ad assorbire il colpo – per usare un eufemismo – segnando un record di 161 mila presenze tra il 18 e il 20 giugno. I biglietti per l’edizione 2026 sono già in vendita. In attesa che il calendario porti un altro festival sotto i riflettori (mentre questo pezzo viene ultimato stanno iniziando le cancellazioni per il Monegros) ci sembra il caso di prendere spunto dalla vicenda per provare a buttare giù delle considerazioni di carattere più generale sul rapporto tra forme di protesta dal basso, politiche culturali e il funzionamento dell’industria musicale nel post-pandemia. Iniziamo col dire che il boicottaggio spontaneo e diffuso a opera di artisti e pubblico dei festival targati KKR è sicuramente un’ottima notizia – per più di una ragione. Non solo testimonia la sempre più trasversale condanna delle politiche dello stato d’Israele, ma contribuisce a mantenere alta l’attenzione mentre Gaza scivola via dalle prime pagine dei giornali a causa del moltiplicarsi delle tensioni internazionali. Inoltre, cosa forse ancora più importante, segnala la diffusione di una serie di soglie etiche che tanta gente non è più disposta a superare e che riguardano la propria connivenza, anche involontaria, con il genocidio in corso. La pressione sui social costringe gli artisti a prendere posizione, e di conseguenza i festival, che devono dare conto delle assenze nella line up anche agli spettatori meno informati. Ci sono però altri fattori da considerare se si vuole sperare che questa campagna spontanea possa diventare qualcosa di più, e magari forgiare alleanze più ampie. In primo luogo è bene ricordare che un boicottaggio, per essere efficace, deve dotarsi di coordinamento, obiettivi chiari e una strategia per raggiungerli. Per esempio, le linee guida ufficiali del BDS identificano gli eventi o i prodotti culturali da boicottare in quelli che ricevono finanziamenti diretti o indiretti da governo o istituzioni israeliane, ne alimentano la propaganda, o normalizzano l’occupazione. Le stesse linee guida sono inoltre esplicite nell’indicare che il boicottaggio deve essere il più possibile mirato e avanzare richieste specifiche, che di solito consistono nella cancellazione di un accordo di collaborazione, sponsorizzazione o partecipazione. E questo non è esattamente il caso dei festival in questione, dove artisti e pubblico al momento procedono in ordine sparso, e dove il legame con l’occupazione è obliquo e, in molti casi, decisamente sgradito. In Spagna, assieme al dibattito è montato anche il disagio di chi si è trovato, suo malgrado, nell’occhio del ciclone. Il legame tra i singoli festival e KKR non è diretto, ma frutto di una catena di operazioni finanziarie che avvengono senza il coinvolgimento né il consenso dei diretti interessati. Macchine complesse come Sónar o Monegros impiegano migliaia di persone tra produzione, direzione, comparto tecnico e logistico, oltre agli artisti che – non dimentichiamolo – sono anch’essi lavoratori. Parlando con diverse di queste figure, i sentimenti più diffusi sono sconforto e senso di impotenza. Il fatto che larga parte del dibattito si svolga sui social con modalità che oscillano tra callout e shitstorm contribuisce ad aumentare la frustrazione di chi, da un giorno all’altro, si è ritrovato suo malgrado dalla parte sbagliata della storia. Tra quelli che soffrono la contraddizione ma non riescono a partecipare direttamente al boicottaggio ci sono molti lavoratori che non hanno la possibilità economica di rifiutare ingaggi. Per gli artisti di piccolo e medio calibro pesano le penali previste per le cancellazioni e il rapporto con le proprie agenzie. Tra gli artisti maggiori, che sicuramente avrebbero la possibilità economica di cancellare, molti fanno riferimento a una rete di relazioni personali che li legano a determinate organizzazioni attraverso traiettorie condivise negli anni. Per le persone che hanno fondato e diretto questi festival, ora legate a Superstruct da contratti pluriennali, l’unica via d’uscita sarebbe rassegnare le dimissioni, pagare importanti penali e vedere il lavoro di anni andare alle ortiche o passare nelle mani di qualcuno che la contraddizione non la sente neanche. Sono scelte non impossibili ma sicuramente non prive di conseguenze, che sarebbe più facile sostenere collettivamente avendo chiaro il risultato che si vuole ottenere. In assenza di coordinamento e obiettivi tangibili sembra però difficile segnare un punto che vada al di là di quanto già elencato. Se affondare il singolo festival è difficile, come dimostrano il Field Day e il Sónar, colpirne dozzine è praticamente impossibile. E anche se lo fosse, cosa si otterrebbe sul lungo termine? Superstruct è poca roba per KKR, la cui penetrazione nel tessuto economico rende inoltre difficile, se non impossibile, tenersene del tutto alla larga. In Spagna, per esempio, il fondo ha partecipazioni importanti nella prima compagnia telefonica del paese, MasMovil, nella catena di ristoranti Telepizza, nel parco divertimenti Port Aventura, e in decine di altre società. Nel Regno Unito, lo scorso anno è stato a un soffio dall’acquisire Thames Water, la società idrica di Londra. E via così in decine di altri paesi. In altre parole, l’eventuale collasso di Superstruct non sarebbe un grosso colpo per KKR, mentre disporre delle macerie potrebbe essere un compito titanico per il comparto musicale europeo. E allora, che fare? Quello che tanti artisti, fan e lavoratori solidali stanno manifestando nel modo che riescono a permettersi (boicottaggi, comunicati, cancellazioni, devoluzioni del cachet in beneficenza, denunce dal palco, rinuncia al lavoro, e chi più ne ha più ne metta) è l’espressione di un disagio profondo a cui si cerca di trovare una soluzione individuale. E se fosse invece proprio questo disagio – nella sua dimensione collettiva – il dato da cui ripartire per provare a ribaltare il tavolo? Il problema della presenza tossica di KKR non dovrebbe essere un affare del singolo festival, artista o spettatore. È invece un problema strutturale del settore culturale spagnolo e, per alcuni versi, europeo. Come tale, non può essere affrontato solo con scelte e sacrifici individuali, senz’altro ammirevoli, che hanno l’effetto di risolvere il malessere dei singoli senza tuttavia riuscire a intaccare lo stato delle cose. Il disagio, lo sconforto e la frustrazione andrebbero invece coltivati, condivisi, formalizzati e sbattuti sul tavolo con tutto il loro peso. Pensiamo a una piattaforma o una lettera aperta che coinvolga tutte le organizzazioni, gli artisti, i lavoratori, e la comunità degli spettatori e chiami in causa il governo e la società civile. Non per offrire soluzioni che sarebbero necessariamente parziali, ma precisamente per ingigantire la questione a tutti i livelli e farla diventare un problema condiviso. Qualcosa del tipo: “Hey, abbiamo questo grosso problema – così grosso che non è più solo nostro, ma anche vostro. Qualche idea per venirne fuori insieme?”. L’onere della prima mossa in questo senso spetta senz’altro ai festival, che nella maggior parte dei casi hanno gestito la situazione in maniera pasticciata e debole. Comunicati generici e poco efficaci, evidentemente affidati a uffici stampa non avvezzi a gestire questo tipo di questioni, non hanno fatto che peggiorare la situazione. Invece di arroccarsi su posizioni difensive o tentare di salvare il salvabile, i festival dovrebbero invece giocare in attacco, canalizzando il malessere che accomuna tutte la parti coinvolte per provare a rispedirlo al mittente. Ci sono già stati alcuni segnali di apertura in questa direzione. Il ministro spagnolo della cultura Ernest Urtasun ha affermato a maggio che “KKR non è il benvenuto in Spagna” esprimendo “preoccupazione” per la sua penetrazione nel settore della cultura. L’amministrazione di Rivas Vaciamadrid ha rescisso l’accordo con Sharemusic!, altra partecipata di KKR che organizza festival musicali, a partire dal prossimo anno. La creazione di una piattaforma comune potrebbe non solo amplificare ulteriormente le ragioni della protesta, ma anche incentivare il supporto istituzionale e, sul lungo termine, attivare la creazione di protocolli automatici di controllo o di una legislazione specifica che regoli gli investimenti nel settore della cultura. Infine, la situazione dovrebbe servire da monito per una riflessione più ampia sulla direzione della musica dal vivo. Il dogma della crescita a tutti costi negli ultimi venti anni ha avuto un impatto particolarmente forte sulla scena della musica elettronica, riconfezionandone le spinte più anti-normative in favore di un pubblico generalista. Ma prima o poi arriva il conto da  pagare. Oltre una certa soglia, i numeri iniziano a diventare appetibili proprio in quanto numeri, e non per quello che c’è dietro: cultura, sperimentazione, comunità. I grandi festival possono sembrare delle navi da guerra nello specchio d’acqua della musica dal vivo, ma nell’oceano del grande capitalismo finanziario sono poco più che zattere in balia delle onde – e dei pescecani. Voci in disaccordo con la logica dei macro-festival iniziavano a farsi sentire anche prima dell’arrivo di KKR, per motivi che vanno dall’appiattimento dell’esperienza all’impatto ambientale insostenibile. Ma se i dischi non si vendono più, lo streaming paga quasi zero, club e locali chiudono e i piccoli festival indipendenti soffrono l’aumento dei costi e della burocrazia, il peso dei grandi eventi nell’economia del settore cresce in modo esponenziale, fino a diventare irrinunciabile. È tempo, insomma, di ripensare il modo in cui la musica dal vivo si produce, si consuma e si performa. (brian d’aquino)