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Cronache, libri, disegni e reportages - Napoli

Il destino della merce
(disegno di otarebill) Andrea Bottalico, La logistica in Italia. Merci, lavoro e conflitto, Carrocci, Roma, 2025, pagg.119, euro 14. Questo volume di Andrea Bottalico, ricercatore esperto del settore, propone una ricognizione esaustiva e politicamente stimolante sul tema “logistica”. Infatti, seguendo un metodo ormai consolidato della ricerca sociologica e storiografica (soprattutto di matrice operaista), l’autore intreccia in ogni capitolo la dimensione organizzativa del fenomeno e quella relativa al rapporto sociale sottostante: alle sue figure, alle sue contraddizioni, ai suoi conflitti. La conoscenza vera di un comparto del capitalismo industriale, si può praticare oggi solo in questo modo: indagando contemporaneamente la struttura e le movenze del soggetto sociale che la abita. L’analisi della “produzione di classe operaia” – cioè l’analisi dei soggetti reali che vivono il rapporto di capitale – diventa così inscindibile dallo studio dell’assetto organizzativo del settore. E il conflitto è la risultante della continua modificazione che tale rapporto subisce. Bottalico propone innanzitutto  una perimetrazione – non scontata né semplicissima – dell’oggetto della sua ricerca: “Oggi è possibile acquistare un qualsiasi prodotto on line che arriva a casa domani grazie a una cosa che non è affatto gratis. Questa cosa è il lavoro di uomini e donne quotidianamente impiegati e sfruttati nella catena logistica del trasporto merci. Senza i lavoratori e le lavoratrici, il flusso di beni e servizi da cui siamo dipendenti si fermerebbe. La logistica si presenta come un universo costituito da molteplici galassie. È una dimensione complessa da delimitare, così come lo sono le attività di trasporto, approvvigionamento, distribuzione a cui viene generalmente associata. Nel tempo la logistica si è trasformata in un termine chiave come una parola d’ordine, e non è un caso che il suono di questa parola, di origine greca, richiami qualcosa di militare. […] Oggi parlare di logistica significa ragionare sull’organizzazione di filiere che si sviluppano su una scala molto ampia, soprattutto in seguito ai cambiamenti tecnologici avvenuti nel corso degli ultimi decenni (flotte aeree moderne, containerizzazione, espansione del trasporto marittimo e su gomma, digitalizzazione). Mutamenti che hanno inciso sull’organizzazione della produzione facendo emergere colossi come Amazon, Walmart, Ups, FedEx, Dhl, Tnt, Gls, Msc”. (pag. 9) Partendo dalla definizione, difficile e non univoca, della categoria, si capisce quanto le  trasformazioni organizzative – in direzione della piena integrazione di diverse fasi un tempo separate, che oggi si presentano come “flusso” integrato e costante che avvolge il pianeta e la produzione – abbiano sostanziato la fase storica della globalizzazione. Quella stagione cruciale sarebbe semplicemente incomprensibile senza la conoscenza delle innovazioni tecnologiche e delle ricadute sociali, infrastrutturali e urbanistiche, che la logistica ha prodotto negli ultimi cinquant’anni. La tesi dell’autore è che la logistica italiana si pone come “anomalia”, rispetto ad analoghi processi europei. È un settore “usa e getta”, ad alta intensità di mano d’opera dequalificata e sottopagata, con un altissimo tasso di esternalizzazione delle attività di magazzinaggio e trasporto – ormai affidate quasi esclusivamente a soggetti esterni al rapporto tra produttore e clienti. Questa tendenza nazionale ha prodotto enormi sacche di illegalità, la costituzione di una autentica jungla di cooperative spurie delegate a coprire questo ambito essenziale del processo di produzione/circolazione delle merci. Tale è stata la pressione al ribasso sulla forza lavoro, che i bassi salari e la precarietà sono diventate la condizione sine qua non per la sopravvivenza di molte di queste imprese le quali, se poste nella condizione di legalizzare il loro profilo, vedrebbero il sostanziale azzeramento  del margine di profitto. “L’ipotesi che guida questo volume è che alcuni processi come l’esternalizzazione delle funzioni logistiche, la repressione dei diritti sindacali, la violenza sul posto di lavoro, l’illegalità strutturale e lo sfruttamento sistematico, l’assenza di tutele e il caporalato sono state le precondizioni per lo sviluppo della catena logistica del trasporto merci in Italia come settore dinamico e in continua crescita. Questi fenomeni non sono stati un effetto, ma una causa della traiettoria di sviluppo del modello logistico italiano. Si è trattato dunque di un modello emerso nel corso degli ultimi decenni. Un modello composto da elementi sempre più caratterizzanti il mondo del lavoro del nostro tempo, al quale le forme autonome del conflitto si sono opposte ereditando dal passato partiche ed esperienze di lotta”. (pag. 11) Bottalico individua, in tema di “movimentazione delle merci” tre precise fasi storiche della vicenda italiana, che caratterizzano rispettivamente: la ricostruzione post-bellica, il boom economico e la configurazione d’impresa nel mondo globalizzato. Sono le tre dimensioni fondate sullo sviluppo della rete ferroviaria, del trasporto marittimo tradizionale e infine della intermodalità integrata e verticale che caratterizza i flussi attuali. A queste tre fasi corrispondono tre dinamiche di protagonismo operaio: la storica figura sindacalizzata dei ferrovieri, ridimensionata dalla perdita di centralità dei binari rispetto al trasporto su gomma negli anni del boom; quella dei lavoratori portuali, che hanno subito i colpi della privatizzazione delle banchine negli anni 80/90; e infine il soggetto operaio della logistica moderna, che richiede una narrazione “in diretta” della sua composizione e dei suoi movimenti. Tre figure sociali profondamente diverse, che hanno conosciuto progressi e sconfitte, interagendo in modo conflittuale con la forma impresa che caratterizzava le diverse fasi storiche.  La composizione della forza lavoro del settore logistico – parliamo di professionalità, potere sulla prestazione, coscienza del proprio ruolo sociale – è ovviamente li prodotto delle enormi trasformazioni che il settore ha subito nei decenni. La containerizzazione e le tecnologie digitali azzerano la manipolazione dei carichi, con una progressiva estromissione della forza lavoro dai settori “centrali” della filiera – pensiamo ai porti iper-tecnologizzati in cui l’intervento umano si sposta “a latere” di ogni operazione – e un incremento esponenziale negli anelli terminali del ciclo, retroporti, hub e magazzini sui territori. “La diffusione del container favorisce l’emergere della logistica integrata. La storia della logistica in Italia, da questa prospettiva, coincide con la storia della intermodalità, una novità dirompente che consiste nella possibilità di usare in maniera integrata due o più modi di trasporto per consegnare la merce. In generale per intermodalità si intende una rete coordinata di vettori ed utenti che operano in concerto allo scopo di trasferire la merce attraverso modi e combinazioni di trasporto diverse e contigue. […] È dal trasporto intermodale che deriva il modello Door to Door, consistente in un singolo carico controllato da un singolo vettore e coperto da un singolo documento, laddove il cliente (o committente) tratta con il vettore esclusivamente il trasporto dall’origine alla destinazione. In questi anni avviene dunque una integrazione che finisce per investire la stessa concezione del trasporto, non considerato più come una somma di attività separate e autonome di singoli vettori interessati, ma come un’unica prestazione da origine a destino, in una visione globale del processo di trasferimento di una merce”. (pag. 10) L’autore nella sua ricerca ha giustamente focalizzato la sua attenzione sui fenomeni di esternalizzazione delle funzioni logistiche – il viaggio della merce dall’uscita dei luoghi di produzione verso la sua destinazione. Resta da indagare un altro grande filone di ricerca – comunemente inserito nella definizione di “logistica” – che è quello dei cosiddetti “appalti interni”: il processo che negli ultimi venti anni ha portato moltissime aziende industriali a isolare reparti e fasi del ciclo per affidarli in appalto a imprese (spesso cooperative, spesso in totale subordinazione organizzativa rispetto al committente) operanti all’interno dei perimetri aziendali. Una sorta di “delocalizzazione interna” che ha favorito uno spezzettamento delle condizioni contrattuali e un indebolimento complessivo dell’unità di classe, anche dentro i luoghi “centrali” del processo produttivo.  Sono molti gli spunti di analisi interessanti che questo libro propone, anche per i non addetti ai lavori. Soprattutto quelli relativi alla lettura della logistica italiana come “metafora” dello sviluppo distorto del capitalismo italiano nell’ultimo trentennio. Ciò che è accaduto in questo comparto produttivo – frammentazione organizzativa, deflazione salariale, precarietà, sfruttamento – è solo il riflesso, magari in forme esasperate, di ciò che ha riguardato tutto lo spettro del lavoro sociale. Così come l’acquiescenza del legislatore, che non ha governato la crescita malata e anomala del settore logistico, ma ne ha solo accompagnato l’espansione: con ricadute fondamentali anche nel ridisegno delle aree portuali, degli interporti, delle zone industriali, delle politiche urbanistiche e territoriali affidate come sempre alla commistione di interessi tra privati e ceto politico compiacente o succube. Solo gli scioperi hanno scoperchiato il pentolone del malaffare e indicato – anche ai ricercatori – la strada dell’analisi impietosa e della denuncia pubblica di queste degenerazioni. I facchini – organizzati dai sindacati di base, poveri, precari e sottopagati – sono stati capaci di scoperchiare un pentolone maleodorante che molti fingevano di non vedere. Non basterà il Decreto Sicurezza per ricondurre i lavoratori al silenzio e azzerare le conquiste di questi anni, strappate dalle lotte e pagate a caro prezzo, con morti nei picchetti, inchieste, arresti e licenziamenti. (giovanni iozzoli)  
Decreto Caivano e detenzione minorile. Contro un nuovo carcere a Santa Maria Capua Vetere
(archivio disegni napolimonitor) Il Decreto Caivano e altre misure di recente approvazione hanno comportato un inasprimento del livello di criminalizzazione nei confronti di soggetti come i giovani delle classi popolari, dei territori più marginalizzati, dei migranti, nonché l’istituzione di nuovi reati atti a colpirli e un’impennata di condanne a pene detentive. Ma questi interventi normativi hanno anche fatto sì che emergesse la necessità di un piano di potenziamento delle strutture detentive per minori e l’apertura di nuove carceri. L’intervento ministeriale che prevede l’apertura di quattro nuovi Istituti penitenziari minorili (Ipm), insieme a L’Aquila, Rovigo e Lecce, individua come sede anche la piccola città campana di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. La struttura individuata come futuro penitenziario è l’Istituto Angiulli, già in passato centro di detenzione minorile, ma che a oggi ospita, oltre a un museo e una biblioteca comunale, un Centro diurno polifunzionale. Questo centro, racconta una volontaria che vi opera, offre un modello alternativo di scontare la pena, a partire da attività che permettano ai ragazzi di costruirsi strumenti di crescita attraverso corsi di formazione lavorativa e non, come la falegnameria e il laboratorio di restauro di moto d’epoca: «Abbiamo anche a disposizione impianti sportivi e un teatro, ma non abbiamo mai ricevuto i fondi destinati alla loro ristrutturazione». Il futuro dell’Angiulli è ancora incerto. In un primo momento si era parlato di chiusura, poi di trasferimento, ma la difficoltà a trovare i locali adatti per dare continuità alle attività del centro, in una città in cui mancano gli spazi tanto per l’istruzione quanto per l’attività sociale, è enorme. Ancora più preoccupante è il silenzio delle istituzioni locali su una decisione calata dall’alto dal governo, considerando anche che, poco meno di dieci anni fa, l’attuale sindaco Mirra (eletto con una coalizione civica in quota centrosinistra) sbandierava come una vittoria la riqualifica della struttura. Come a L’Aquila, in ogni caso, dove l’inaugurazione del nuovo Ipm è stata presentata come una vittoria, il “modello Caivano” arriva a Santa Maria con l’intento di “combattere il disagio giovanile”, un disagio che ha ovviamente radici profonde, e ben radicate altrove: edifici scolastici inadeguati, un’istruzione votata unicamente alla formazione di futuri lavoratori precari e ricattabili, costante e asfissiante presenza di polizia ed esercito in tutte le scuole della provincia di Caserta, con controlli ed eventi propagandistici imbastiti con il solo fine di racimolare consenso e arruolamenti, assenza di impianti sportivi e di luoghi di socialità accessibili anche alle classi meno abbienti. E ancora: emergenza abitativa, lavoro nero e precario, una criminalità organizzata onnipresente e sempre alla ricerca di nuova manovalanza. Il risultato più evidente di tutto ciò è la fuga, per chi può permetterselo, da una gabbia a cielo aperto fatta di sfruttamento, abbandono e marginalità. E chi non può fuggire, si arrangia. In realtà, il rapporto tra marginalità e istituzioni totali è ancora più evidente su territori come questo. La situazione a Santa Maria Capua Vetere, dove già nel 2020 si consumò una mattanza di detenuti nella casa circondariale Francesco Uccella, è il riflesso di un’emergenza che attraversa l’intero paese e che riempie le carceri di “elementi di disturbo”: sovraffollamento, violenze contro i detenuti, isolamento e condizioni di vita indignitose accomunano le carceri ai lager di Stato, i cosiddetti Cpr, e sono in aumento anche negli istituti minorili. I tassi elevatissimi di recidività, i suicidi e i continui atti di autolesionismo ne sono la prova più lampante. Davanti a questa escalation, qualcosa però si muove. Lo scorso maggio a Santa Maria Capua Vetere si è tenuto un presidio proprio fuori all’istituto Angiulli con un messaggio molto chiaro: totale opposizione alla riapertura dell’Ipm e a nuove carceri minorili su tutto il territorio italiano; richiesta di fondi per il potenziamento del Centro diurno polifunzionale, delle scuole, degli ospedali e dei servizi pubblici nel casertano; denuncia dei piani securitari del governo Meloni e del silenzio dell’amministrazione locale. Naturalmente si è trattato solo di un primo passo di un percorso che tenta di rimettere sotto i riflettori il tema del carcere e la sua normalizzazione, ancora di più in aree di provincia e di periferia: un tentativo che avrà seguito con altre iniziative a partire dal prossimo autunno e che avrà bisogno di voce e supporto anche da parte di tutti gli altri territori. (raul lamia)
Pochi splendori e tante miserie. Il disastro degli impianti sportivi a Roma
(archivio disegni napolimonitor) C’è una pagina del libro di Galeano, Splendori e miserie del calcio, che tutti gli appassionati dovrebbero conoscere a memoria. Parla di quella volta in cui il suo amico e scrittore Osvaldo Soriano gli scrisse, raccontandogli di una strana passeggiata. Insieme a un famoso attaccante del San Lorenzo de Almagro degli anni Sessanta, José Sanfilippo, eroe della sua infanzia, Soriano si trovò a camminare in mezzo agli scaffali di un supermercato negli anni dell’espansione incontrollabile dei centri commerciali, verso la metà degli anni Novanta, nel momento forse di maggiore dominazione culturale del modello consumistico americano nel mondo. Tra detersivi e prodotti per i pavimenti, salsicce e formaggi, Soriano racconta come a un certo punto Sanfilppo, mentre la gente intorno cominciava a incuriosirsi e a osservare con la stessa attenzione dello scrittore argentino l’ex attaccante, lo invitò a fermarsi e osservare un punto in alto. «Pensa che proprio qui insaccai quel gran tiro di punta a Roma nella partita contro il Boca». Mentre il calciatore indicava il punto esatto in cui si era infilato un pallone alle spalle di Antonio Roma, portiere del Boca Juniors, in un famoso derby vinto dal San Lorenzo nel 1962, Soriano racconta che una donna avvicinandosi confermò: «Fu il gol più rapido della storia». Sanfilippo descrisse nei dettagli quel gol, come era maturato e quello che aveva suggerito di fare a un compagno: «Appena comincia la partita mandami una palla lunga in area». Quello era rimasto un po’ spiazzato, ma aveva eseguito la consegna. La palla arrivò proprio dove doveva. «Me la mise qui! Il pallone arrivò spiovente un po’ dietro i centrali, scattai ma andò a finire un po’ più in là, dove adesso c’è il riso, vedi?». Nonostante le scarpe eleganti e lo scomodo vestito blu, Sanfilippo si mise a correre come un coniglio in mezzo agli scaffali e poi disse a Soriano: «La lasciai cadere e… plum!». Fece finta di esplodere il sinistro e tutti voltarono lo sguardo seguendo quel pallone immaginario che, sorvolando lamette da barba, batterie stilo, e superando le casse, si insaccava come la prima volta. Cassiere e clienti celebravano intanto gridando e spellandosi le mani per quel gol, come se lo avessero visto realizzarsi di nuovo davanti ai loro occhi. Questo testo descrive bene il dolore che abbiamo vissuto in tanti, troppe volte, di fronte a cambiamenti urbanistici figli della speculazione e degli interessi economici dei grandi colossi multinazionali. Proprio nel punto dove si trovavano Sanfilippo e Soriano c’era infatti il campo storico del Club Atlético San Lorenzo de Almagro, il Viejo Gasometro chiuso nel 1979 e infine sostituito da uno dei primi e più grandi supermercati Carrefour di tutta Buenos Aires. Fu il sindaco dell’allora giunta militare, Osvaldo Cacciatore, a firmare l’ordine di esproprio del terreno, che sarebbe stato demolito poi nel 1983 e all’inizio degli anni Novanta, in piena epoca Menem (il Berlusconi d’Argentina), sostituito dal centro Carrefour. Erano ormai lontani i fasti degli anni Sessanta e i gol di Sanfilippo, l’infanzia di Soriano e il boato delle tribune gremite. Il Viejo Gasometro contava settantacinquemila posti ed era un luogo al quale i tifosi del San Lorenzo erano affezionatissimi. La sua demolizione creò molte proteste, che con il tempo non si sono placate. L’insistenza della tifoseria, che non ha mai accettato di essere stata allontanata dal quartiere di Boedo, ha dato in questo caso i suoi frutti: nel 2012 la hinchada azul-grana è riuscita a imporre al comune di Buenos Aires l’approvazione di una legge grazie alla quale Carrefour è stata costretta a restituire i terreni alla società del San Lorenzo, che ne ha recuperato la proprietà. Grazie alla pressione dei tifosi e all’amore per il luogo dove quella passione era nata, sta nascendo oggi un progetto di ricostruzione dell’antico impianto, parte di una vera e propria operazione di riappropriazione storica: “la vuelta a Boedo”. Se la ricostruzione di uno stadio al posto di un centro commerciale avviene a Buenos Aires, perché qualcosa di simile non dovrebbe poter accadere anche da noi, dove il numero di piccoli impianti abbandonati lasciati all’incuria e all’abbandono − si veda il caso dello storico campo della Roma a Testaccio − si moltiplica anno dopo anno? L’abbandono di vecchi impianti sportivi è sempre più evidente, ma lo è anche l’attacco a quelli ancora in uso, sui quali si rivolge lo sguardo rapace della speculazione. Poteva finire molto male, per esempio, l’esperienza di una delle realtà di sport popolare della città di Roma, l’Atletico San Lorenzo. Nel cuore del quartiere resiste però ancora oggi, quasi unico nel suo genere, un bellissimo e ambitissimo campo di pozzolana. Il pericolo del suo smantellamento a favore di una serie di campi di padel, per fortuna, è stato scongiurato, e l’Atletico ha potuto continuare a svolgere la sua attività sul vecchio campo. Non corre immediati pericoli di questo genere la Borgata Gordiani, che da qualche anno investe in un progetto di sport popolare molte energie, fronteggiando ostacoli di vario genere ben noti a chi prova a rimettere al centro dell’attenzione la mancanza di spazi di socialità, sportivi o di altro tipo, e si autorganizza sulla base di principi come quelli della solidarietà e del mutualismo, costruendo percorsi politici capaci di disertare le violente e ingiuste regole del mercato. La disattenzione nei confronti dei dati su questo tema stupisce: non dovrebbe destare molta preoccupazione il fatto che, nel nostro paese, la quantità di metri quadrati di spazio pubblico a disposizione dei minori per l’attività fisica sia tra le più basse in Europa? Secondo una recente ricerca di OpenPolis e Con i bambini, a fronte di una superficie totale di circa ventisei milioni di metri quadrati, i ragazzi nel nostro paese possono usufruire di uno spazio di dieci metri a testa. A Roma, in particolare, così come nella maggior parte delle città medio-grandi (da Bologna a Genova, da Milano a Reggio Calabria) lo spazio garantito è di soltanto due metri quadrati, un numero clamorosamente più piccolo, per esempio, rispetto a quello dei sessantasei di Ferrara, tra le città più virtuose. Ecco, più che dannarsi l’anima per costruirne uno nuovo, di stadio, forse l’amministrazione capitolina dovrebbe mostrare uguale determinazione nel cercare di restituire alla cittadinanza tutti quegli spazi sportivi oggi inaccessibili, incoraggiando la pratica spontanea senza la quale il calcio non avrà altro futuro se non quello di mero strumento di business. A discapito peraltro, sul lungo periodo, di tutti quei progetti che faticosamente resistono e che provano a dimostrare come sia possibile fare diversamente. (giovanni castagno)
La barriera invisibile. Impressioni da La luna e i calanchi di Aliano
(disegno di sam3) Il tragitto da Conversano – mio paese natale – ad Aliano dura poco più di due ore. Si attraversa la bassa Murgia che sfiora la Valle d’Itria e poco prima di Taranto si svolta per raggiungere la costa jonica lucana fino a Scanzano Jonico. Da lì inizia un lento allunaggio. Non appena iniziamo a dare le spalle al mare per avventurarci verso l’interno della Basilicata, veniamo travolti da un paesaggio per noi inedito che ci sembra non abbia nulla di terrestre. I calanchi. Formazioni argillose percorse da venature che mostrano i canali prediletti dell’acqua quando scorre sui loro versanti, coperti da qualche sparuta formazione di vegetazione. Per arrivare ad Aliano si sale. Un’ascesa dopo la quale crediamo – io e i tre amici in macchina – di aver raggiunto un’altitudine ben maggiore dei quasi cinquecento metri della nostra destinazione. La ragione del nostro viaggio è semplice: assistere e prendere parte a La luna e i calanchi, iniziativa che da quasi quindici anni anima per diversi giorni il paese lucano nella seconda metà d’agosto. Aliano è un paese di dimensioni modeste, ma organizzato in tre parti collegate dalla strada principale. La prima ospita la casa del confino di Carlo Levi e qualche altra costruzione, nella seconda c’è il municipio e la piazza dedicata al partigiano Nicola Panevino; infine, proseguendo sempre sulla via principale, si raggiunge quella che sembra essere la parte più nuova del paese che finisce a ridosso del cimitero dove si trovano le spoglie dell’autore torinese. Mi reco a un infopoint e prendo un programma delle attività. Gli organizzatori definiscono La luna e i calanchi la festa della paesologia. Arresto la mia lettura già al sottotitolo. Cosa è la paesologia? Vado in cerca di risposte sul sito della Casa della paesologia, dove è presente un manifesto, firmato da Franco Arminio, ideatore e protagonista assoluto della “festa”. Lo stile di scrittura è lirico ma informale e cita temi enormi quali la morte, l’anima, il sacro, la comunità per poi nominare anche termini più economici quali la decrescita e il consumismo. La prima lettura del manifesto mi lascia perplesso. In particolare un passaggio cattura la mia attenzione, una specie di inno nichilista: “la paesologia è oltre la decrescita, è fuori dalla logica di costruire società e benessere, l’uomo non deve costruire niente, siamo qui nel mondo, siamo qui e non si può dire nient’altro, siamo nel tempo che passa, non c’è niente da risolvere, non c’è una meta da raggiungere”. Un inno individualista in cui il soggetto diventa una singolarità che trascende completamente la società. Siamo oltre il “ci si salva da soli”, perché non c’è niente da cui salvarsi dal momento che “non c’è niente da risolvere”. Piantiamo le tende in un appezzamento di terra nei pressi del cimitero e torniamo in paese ad assistere ai primi incontri. È già sera e riesco solo a sentire un concerto di organetto di un artista sardo – eccezionale – e poi uno spettacolo teatrale su Gramsci. In una piazza Panevino gremita riesco a ritagliarmi solo un posto dietro un angolo dove ascolto lo spettacolo come se fosse un podcast. Si tratta di un monologo senza grandi movimenti sulla scena. Il pubblico si mostra impaziente perché chi è sulle balconate sente poco, dal momento che l’amplificazione è al livello della piazza. Arminio si fa portavoce del malcontento e a spettacolo inoltrato irrompe sulla scena interrompendo l’attore, che si ritira nelle quinte – il retro della piazza – per ritrovare la concentrazione persa, sbuffando rumorosamente nel microfono rimasto aperto per pochi secondi. Quello che era un sospetto diventa praticamente certezza: Arminio è il centro assoluto di questa festa, introduce e conclude praticamente tutti gli incontri e ha potere assoluto sulla loro dinamica. La mattina dopo decido di girare un po’ in paese, guardarmi intorno e magari parlare con qualche alianese per capire meglio il contesto in cui si svolge la festa. Che percezione hanno de La luna e i calanchi gli alianesi? Che ne pensano dei fruitori della festa? Per puro caso incontro Rocco, un alianese trasferitosi al Nord da più di quarant’anni, ma ancora molto legato al proprio paese. Assieme a lui, intento a recarsi sul luogo di lavoro per iniziare la propria giornata, c’è Giacomo, uno dei pochi dipendenti comunali di Aliano. Gli chiedo se può spiegarmi meglio la percezione che gli alianesi hanno della festa. Mi risponde senza nascondersi che la popolazione è prevalentemente anziana e, pur rallegrandosi che il paese si riempia per qualche giorno, perlopiù rimane indifferente e non prende molto parte alle iniziative messe in campo. In seguito Giacomo lamenta la natura effimera della festa che nel corso degli anni non ha lasciato segni più duraturi della sua presenza. Ma a colpirmi di più è quello che dice dopo. Riferendosi alla popolazione più giovane di Aliano e dintorni, Giacomo mi spiega che questi “fanno i servi”, ovvero i volontari per il festival. Inizio a fare caso a un certo numero di persone con le maglie rosse con su scritto “staff”, tutte volontarie, che riempiono l’infopoint e vari luoghi di interesse. La sensazione è che tra il pubblico della festa – in maggioranza proveniente da fuori – e gli alianesi ci sia una barriera invisibile. Porosa, aperta agli scambi, ma eretta a partire dalla definizione di ruoli precisi nell’economia della scenografia che viene messa in atto nei giorni della festa. Trovo confermata questa mia impressione nelle parole di una giovane barista con cui mi fermo a parlare. Nella nostra discussione con il “noi” si riferisce ai suoi concittadini e impiega invece il “voi” per le persone che da fuori arrivano in paese per la festa. La barriera diventa meno virtuale e più reale. La nostra conversazione si chiude con una sua riflessione: «Noi [alianesi] dobbiamo offrirvi una bella esperienza a voi che venite, però se vuoi vedere davvero Aliano devi venire settimana prossima». La convinzione che questa festa possa esistere solo fuori dalla realtà, o meglio in una sospensione temporanea da essa, si rafforza. Proprio nel pomeriggio di quello stesso giorno, tuttavia, la festa prova ad affacciarsi sulla realtà affrontando il tema di più bruciante attualità: il genocidio messo in atto dall’entità sionista a Gaza. Non riesco a trovare posto nella sala e rimango fuori ingannando il tempo con altri amici arrivati nel frattempo ad Aliano. I racconti di chi ha partecipato all’evento sono inquietanti: persone (bianche) nelle prime file si commuovono per la tragedia – declinata in termini umanitari e non politici – a Gaza. Alla fine dell’incontro mi riferiscono di un alterco tra Arminio e una persona dal pubblico. Mi raccontano che in chiusura è stato mandato un videomessaggio di una persona gazawi che però è stato fermato proprio nel momento in cui questa chiamava all’azione, invocando manifestazioni e boicottaggi. Non è chiaro se il video fosse stato tagliato precedentemente o fermato per iniziativa di Arminio. Certo l’autore ha reagito in malo modo alle proteste di chi dal pubblico faceva notare che il video si fosse arrestato proprio in quello specifico punto. Il tutto si è concluso con il poeta campano che diceva a chi protestava di vergognarsi e di non azzardarsi a dire che lui non tiene alla causa palestinese. Mi appresto a seguire l’incontro seguente, la presentazione di un libro. Cerco informazioni sull’autore. Insegna policy analysis a Milano, alla Bocconi. Un’ora e mezza di bocconianesimo da sagra, con discorsi di mero senso comune e puro opinionismo senza uno straccio di riferimento concreto. Un’alluvione di dichiarazioni fatte con il piglio tipico dell’economista che considera i dati economici come dati naturali, ineluttabili e non come produzioni tutte umane. Non mancano anche accenni ispirati alla nauseante retorica meritocratica liberale, che condanna chi sta indietro a rimanere sempre più dietro. Il panel ruota attorno ai temi dello sviluppo locale, declinato in particolar modo per le aree interne, i cui abitanti dovrebbero aspettarsi meno servizi e stipendi minori. Il relatore, in uno slancio di fantasia degno di nota, afferma: «Magari le persone vogliono vivere in città per usufruire di servizi quali un bel ristorante o un aeroporto per andare in Indonesia!». Frastornato da quest’ultima affermazione, ci metto qualche minuto prima di riprendermi. Siamo davvero sulla luna. Una luna abitata da un ceto alto-borghese lontano centinaia di migliaia di chilometri dalla realtà, tra i cui bisogni principali c’è la vacanza a Bali. Persone che vengono qui per specchiarsi negli occhi delle altre che le guardano mentre leggono in pubblico poesie. Chiuse a chiave in un idillio che priva l’archetipo del paese contadino – rappresentato da Aliano – di ogni elemento di contraddizione. La politica esce di scena. Cosa rimane? Uno sterile esercizio di estetica, che non arricchisce nessuno se non gli ego già rigonfi di una classe che ormai tifa per lo status quo, perché sazia e sistemata. Un arroccamento che non è problematico di per sé. Il problema sorge nel momento in cui la paesologia, questa “disciplina” priva di metodo, apparato scientifico o critico si avventura in analisi sociologiche o politologiche sullo stato della realtà. Il risultato sono affermazioni perentorie formate a partire da un senso comune circa la società, in cui il ceto “riflessivo” alto-borghese è dominante. Un gruppo di persone che non riesce a guardare a un palmo dal proprio esorbitante privilegio e adopera le sue categorie particolari per dispensare consigli che crede di portata generale. Il riferimento alla luna accompagna Aliano da molto tempo, in una metafora materiale ma anche simbolica. L’argilla dei calanchi, che Carlo Levi descriveva come “piagge di aspetto maligno, come un paesaggio lunare”, ospitavano un mondo contadino che doveva apparire alieno a Levi, così lontano dall’urbana Torino e retto da equilibri e consuetudini a volte inspiegabili. In Cristo si è fermato ad Eboli l’autore spinge la società contadina “sulla luna” raccontandola come se fosse fuori dalla storia, come una civiltà altra. Levi estetizza il mondo contadino, lo racconta attraverso il mito, la leggenda e il ricorso a un registro che insiste sulla dimensione ancestrale. In questi due giorni a La luna e i calanchi davanti a me si è manifestato un nuovo isolamento di questi luoghi. Uno cercato e uno imposto. Il primo è quello della classe alto-borghese in villeggiatura sulla luna per sfuggire alle brutture della realtà, alla ricerca di un rifugio nella poesia e nella paesologia; il secondo è quello di Aliano – e dei suoi abitanti – spinto a essere nuovamente solo una scenografia e non un luogo dove la gente vive ed esprime bisogni che la politica deve prendere in carico. I giovani volontari del festival svolgono un altro ruolo fondamentale: quello di figuranti che rendono verosimile la rappresentazione e la pornografia del sud Italia che si inscena nei giorni della festa. Oggi ad Aliano si consuma la sublimazione di un marketing territoriale che vuole rivestirsi di autenticità sfruttando i visi, le pose e le braccia delle persone lucane. Il tutto sfruttando finanziamenti che derivano dall’estrazione delle fonti fossili. Una ferita viva e pulsante nel cuore del territorio lucano. Durante l’incontro con il professore bocconiano una ragazza dal pubblico ha posto una domanda: come si risolve la contraddizione di assistere a un festival che esalta un territorio che però viene devastato dal petrolio, i cui proventi finanziano la stessa manifestazione culturale? Un circolo vizioso che scoperchia l’ipocrisia di questa classe dirigente. Il relatore ha risposto denunciando che il problema ormai è la mancata redistribuzione dei proventi ottenuti dall’estrazione delle risorse naturali e non la prevenzione dei danni ambientali, abilmente nascosti dalla classe politica ai tempi delle autorizzazioni. Una dimostrazione del pragmatismo cinico che i liberali vantano di avere per risolvere qualsiasi problema, a patto che non riguardi le disuguaglianze economiche. Al termine del suo intervento ha presentato una possibilità: «Una scelta è anche quella di non farlo, il festival». Sì, è una scelta. (marco patruno)
La parola della settimana. Carte
(disegno di ottoeffe) All’angolo di via delle Zoccolette, sotto la pioggia, il Riccetto vede un gruppo di persone, e piano piano ci si accosta. In mezzo al gruppo di tredici o quattordici persone e gli ombrelli lucidi, era aperto un ombrello più grande del comune, nero, con sopra messe in fila tre carte, l’asso di denari, l’asso di coppe e un sei. Le mescolava un napoletano e la gente puntava sulle carte cinquecento, mille e anche duemila lire. Il Riccetto se ne rimase lì per una mezz’oretta a guardare. Un signore, che giocava accanito, perdeva a ogni puntata, mentre degli altri, napoletani pure loro, ora perdevano e ora vincevano. Quando quel primo treppio si sciolse, era già verso tardi. Il Riccetto s’accostò al napoletano che stava a mescolare le carte e gli fece: – Aòh, permetti na parola? – Sì. – rispose l’altro allungando la scucchia. – Che sei de Napoli? – Sì. – Sto ggioco ‘o fate a Napoli? – Sì. – E come se fa sto ggioco? – Mbè… è difficile, ma in un po’ de tempo se impara. – ‘O impari pure a mme? – Sì. – fece il napoletano, – ma… Si mise a ridere con l’aria di uno che sta combinando un affare e pensa fra di sè: «Aòh, mettèmise d’accordo, che t’ho da ddì!». S’asciugò la faccia bagnata di pioggia, giovane e tutta rugosa, coi labbroni che gli pendevano a culo di gallina. Guardò il Riccetto negli occhi. – Mbè te lo imparo, come no, – disse lui, visto che l’altro taceva, – ma vojo na ricompenza. – Come no, – rispose serio il Riccetto. Ma intanto intorno all’ombrello stava per formarsi un nuovo gruppo di persone; tra questi c’erano sempre i napoletani di prima. (pier paolo pasolini, ragazzi di vita) Anna Paola Merone è una storica giornalista del Corriere del Mezzogiorno. Si occupa di cronaca, ma soprattutto – parafrasando il titolo di un vecchio rotocalco del Tg2 – di “costume e società” (qui un suo imperdibile ritratto dal sito Iustitia.it): nella storia restano alcune sue rubriche, come quella sugli amori di personaggi influenti della città – per capirne il tenore si possono trovare qui i nomi, anche senza dover leggere gli articoli. (da: corrieredelmezzogiorno.corriere.it) Da un po’ di anni Merone detta le linee di buon gusto e di bon-ton attraverso fulminanti storie su Instagram, esprimendosi lapidaria e frizzante con brevi pillole. “Burraco? No! Ma nemmeno ramino, gin, rubamazzo, scopa o scopone!”. (anna paola merone) Comincia con questa denuncia il breve video pubblicato dalla cronista sul social network, video che lancia il suo articolo su quella che per una parte di Napoli è stata, per tutta la settimana, “la notizia del giorno”: Il circolo Posillipo di Napoli mette al bando le carte. Il verbale dell’ultima riunione del Consiglio […] parla chiaro e con severità stigmatizza e condanna il gioco. È deciso che nei saloni del circolo anche una partitella a carte non sarà tollerata. Una scelta che sorprende, dal momento che i circoli sono, storicamente, luoghi dove i soci si dilettano in sfide che comprendono anche le carte. Non sono certo bische — anche se le cronache cittadine in passato hanno riportato racconti di blasonati sodalizi dove gli equilibri erano scivolati e dove si giocava non per diletto — ma salotti dove si trascorre del tempo anche seduti al tavolo verde. […] La sala attualmente usata dai giocatori sarà svuotata dei tavoli, saranno ritirate dalla segreteria carte da gioco, fiches, blocchetti e ogni materiale legato alle carte. Le alternative di utilizzo dello spazio sono due: renderlo sala Tv e lettura o destinarlo ai servizi di segreteria e amministrazione. […] Tutto a posto dunque? Non esattamente. Si rumoreggia, si protesta, si contesta una decisione che appare paradossale se rapportata a «innocenti evasioni» e, se sono stati ravvisati reati, ingiustamente punitiva per tutti. (anna paola merone, il corriere del mezzogiorno) https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/09/queifdef.mp4 (credits in nota 1) Leggendo sui quotidiani napoletani di questa scottante questione mi sono ricordato che, un po’ di anni fa, sul cartaceo di Monitor pubblicammo un bel reportage con cui Carola Pagani ci faceva entrare nelle sale del Circolo Posillipo, tra milionari novantenni e nuotatori olimpionici. Da accanito giocatore di carte quale ero all’epoca mi spiacque molto che impenetrabile, anche per lei, era rimasta la sala da gioco. Le sale da gioco sono le uniche dove è permesso fumare e quelle dove è più difficile entrare se non sei socio. Ogni tanto ne esce qualcuno con gli occhi rossi e il viso paonazzo, si fa un rapido giro del salone a testa bassa e rientra con foga. Il mercoledì e la domenica pomeriggio il Salone delle feste si riempie di tavoli e i soci con le rispettive consorti si riversano nei tornei di bridge e di burraco. Si incontra spesso, con la moglie, il Professore, ottantadue anni, medico chirurgo di fama adesso in pensione, che è socio del circolo da quarant’anni e proboviro da venti. I probiviri sono una specie di senato del Posillipo e sono eletti fra i soci più anziani. Loro è il compito di regolare l’ammissione dei nuovi soci sostenitori e di vegliare sul rispetto delle regole. […] Il professore lamenta spesso la decadenza dei costumi. Dice che le persone non hanno più il contegno di una volta, che si presentano al circolo senza cravatta e schiamazzano spesso e volentieri. […] L’avvocato Mazzone, consigliere comunale, deputato e poi eurodeputato per l’MSI, confluito in Alleanza Nazionale e presidente del Posillipo per due volte, sostiene che la decadenza dei costumi coinvolge tutta la città e che le classi alte sono ormai rassegnate: «Ai figli ripetono la maledetta frase di Eduardo: fuitevenne ‘a Napule; mentre loro, come me ormai, sopravvivono in quest’oasi di pace senza più la forza di reagire». (carola pagani, posillipo, i lunedì al sole – dal n.30/marzo 2010 di Napoli Monitor) The cabaret was empty now, | Il teatro era vuoto ora, a sign said “Closed for repair”. | un cartello diceva: “Chiuso per ristrutturazione”. Lily had already taken | Lily aveva già tolto all of the dye out of her hair. | tutta la tintura dai suoi capelli. She was thinkin’ ‘bout her father | Pensava a suo padre who she very rarely saw. | che aveva visto molto raramente. Thinkin’ ‘bout Rosemary and thinkin’ about the law. | Pensava a Rosemary e pensava alla legge. But, most of all | Ma, soprattutto she was thinkin’ ‘bout the Jack of Hearts. | pensava al Fante di cuori. (a cura di riccardo rosa)
“Macron! Démission!”. Il 10 settembre a Parigi
(disegno di escif) Alla fine è arrivato questo dieci settembre francese. Se n’è parlato per tutta l’estate: dai grandi giornali era tutto un fiorire di “-isti”: “complottisti”, “putinisti”, “sovranisti”. Aggettivi-spauracchio, buttati lì senza attenzione, però è vero che la data era, più che nebulosa, avvolta nella nebbia, imperscrutabile. Così ho cominciato il mio giro al mattino a place des Fêtes, sopra Belleville. I blocchi erano iniziati sulla porta della tangenziale all’alba, ben prima dell’orario al quale sono giunto in piazza. Lì c’erano diverse centinaia di persone, soprattutto tanti studenti. Una folla era assiepata in assemblea, ma c’era chiasso e mi arrivavano dei lemmi come a intermittenza: Palestina, taxer les riches, occupation, blocages… Più in giù, a République, c’erano invece diverse migliaia di persone. La piazza era gestita dai movimenti dei lavoratori sans-papiers. Dal palco un uomo gridava: «Abbiamo fatto cadere [il governo di François] Bayrou, ora facciamo cadere Macron!». Ed effettivamente il nome del Président è su tutte le bocche e su altrettanti muri, spesso seguito dall’urlo: «Démission!». Mentre passeggio e guardo, la nebbia si dissipa. Ancora non so mettere a fuoco precisamente i contorni del paesaggio, ma riconosco la sensazione di trovarmi in terreno conosciuto: quello che succede è nuovo nelle pratiche, ma anche famigliare e, soprattutto, la gente che vi partecipa non mi è estranea. In disparte scorgo un gruppetto di gilets jaunes. Due di loro hanno il gilet ricoperto da delle date tracciate a mano, in linea retta, col pennarello blu; l’inchiostro è ormai appassito dalle intemperie. Lei si chiama Michèle, lui Jean-Claude e sono entrambi gilet gialli della prima ora, ormai dei veterani. Lavorano entrambi nell’industria farmaceutica nella grande banlieue parigina. Si dicono “tecnici”, ma hanno l’aspetto umile. Lei ha i capelli bianchi arruffati, dice di aspettare con ansia la pensione; lui, alto e magro, ha un filo di barba e qualche problema ai denti. Michèle dice che è contenta «che la gente sia fuori, per strada», ma giudica l’appello – “bloccare tutto” – un po’ «confuso». Comunque, dice, «è un buon inizio». Jean-Claude fa tutto un discorso che risale a quel fatidico 2018. Quando sono scesi in piazza, dice, «era per ottenere il referendum d’iniziativa cittadina» (in Francia il referendum all’italiana non esiste), ovvero, «per riprendere il controllo sulle istituzioni». Hanno fallito, riconosce, e quindi eccoci qua con un presidente che fa quel che vuole con le istituzioni, un presidente che «nomina primi ministri senza tener conto del voto». E il risultato è che si producono movimento come quello odierno. Scendo nella metro mentre qualcuno offre dei panini («Prenez des forces! Vous en aurez besoin!»), mi ritrovo intruppato in un gruppo e di giovani. Una ragazza: «Ce ne siamo presi di lacrimogeni. A Gare du Nord, sì». Poco prima, qualche centinaio di persone avevano tentato di bloccare la stazione ed erano stati caricati dalla polizia. Sui video mi aveva colpito il fatto che, per la prima volta da anni, i ragazzi facessero cordone e non retrocedessero alla prima carica. C’era come un’abitudine, una disinvoltura allo scontro. Esco dal sottosuolo a Hotel de Ville. Voglio andare a Châtelet, ma anche fare due passi, vedere. Non appena metto i piedi sulla strada, sono avvolto da centinaia di bolle di sapone: sorpreso, scorgo un saltimbanco che, con due grandi corde e un pezzo di tela, intrattiene dei turisti riempiendo il parvis del comune con queste grandi bolle insaponate. Più in là la piazza di Châtelet è gremita. Qui la piazza è quella sindacale, convocata dalle federazioni della Cgt che, disobbedendo all’imbarazzo della direzione centrale, si sono buttate nel sostegno a questa protesta spontanea. Chiacchiero con una compagna che torna dai blocchi mattutini, stravolta dalla stanchezza. Dice che è andata bene, che erano ovunque, anche se la composizione è quella solita: tanti gauchistes… Un’infermiera in sciopero mi racconta di un’assemblea con cinquecento persone davanti al suo ospedale, gremita di colleghi e di abitanti del quartiere; e di come dopo siano andati in gruppo al deposito Ratp lì vicino dove c’era un picchetto. Un compagno mi racconta dei picchetti agli inceneritori. Un’altra dell’assemblea dei ferrovieri a Gare de Lyon, poi giunta in corteo a Châtelet, e dell’aggressività della polizia che aveva paura bloccassero i binari. Faccio un giro. Una ragazza bardata con uno scialle dice che ora vanno a bloccare rue de Rivoli, ma è tutto calmo. Poi la massa si muove verso République, come una gigantesca manif sauvage: rivoli di folla emergono sul boulevard Sébastopol, non credo di aver mai visto una manif sauvage così grossa. Spuntano le prime barricate, cassonetti rovesciati e dati alle fiamme, due materassi coperti da spazzatura bloccano il traffico, un giovane dà loro fuoco e partono i primi lacrimogeni. Le persone a malapena ci fanno caso: l’unico gesto di risposta avviene all’unisono, ed è quello della mano che rapida e sicura mette la mascherina a coprire la bocca e il naso. La gente si perde nelle viuzze, verso Opéra. La sera vado a Place des Fêtes, piove. Ci sono migliaia di persone. Un’assemblea gigante, memore di Nuit Debout, ma meno organizzata, il suono degli interventi si perde tra il battere della pioggia sugli ombrelli. Qualcuno fa una barricata e le dà fuoco, le batterie al litio delle bici in sharing scoppiettano e mandano scintille bianche, sotto lo sguardo scazzato dei pompieri. Dopo un po’ la polizia sgombera, e ora riconosco il paesaggio: è quello del movimento nel 2023 contro la riforma delle pensioni di Macron. Che si svegliava all’alba per partecipare ai picchetti davanti ai depositi dei trasporti, agli inceneritori, alle stazioni e agli ospedali. Ma questa volta si è attivato senza chiedere il permesso delle “centrali” sindacali, e quindi non solo detta l’agenda, ma pesca liberamente dalle pratiche dell’ultimo decennio: ecco allora i blocchi e le azioni da gilet jaunes e le assemblee alla Nuit debout, i picchetti… Un decennio di lotte condensato in una strana festa, assembleare, incerta. Promette molto e bene. Chissà. In ogni caso, Macron démission. (filippo ortona)
Reportage e inchiesta sociale. Un corso e un laboratorio a cura di MONiTOR
Sono aperte le iscrizioni per il Corso di scrittura giornalistica: il reportage (ottobre-dicembre 2025). Venerdì 26 settembre alle ore 18:00 ci sarà un aperitivo di presentazione, durante il quale spiegheremo nei dettagli il programma, gli obiettivi e il funzionamento del corso. L’incontro è gratuito e si terrà nella redazione napoletana di MONiTOR, via Broggia 11 (terzo piano). Di seguito le informazioni base: Durata del corso: dal 29 settembre all’1 dicembre 2025 Frequenza: un giorno a settimana, il martedì, dalle 17:00 alle 19:30 Luogo: via Broggia, 11 (Napoli) Requisiti:  un computer portatile e un po’ di tempo a disposizione Numero massimo di partecipanti: dieci Prezzo: 180 euro (materiali inclusi) PROMOZIONE: per chi si iscrive prima del 22 settembre è previsto uno sconto di 20 euro Per info e iscrizioni: formazione@napolimonitor.it Sono aperte le iscrizioni per il Laboratorio di inchiesta sociale (ottobre-dicembre 2025). L’accesso al laboratorio avverrà previo invio di un breve testo di presentazione (max 10 righe) che riporti eventuali esperienze pregresse e motivazioni. Giovedì 25 settembre alle ore 18:00 ci sarà un colloquio di presentazione, durante il quale spiegheremo nei dettagli il programma, gli obiettivi e il funzionamento del laboratorio. L’incontro è gratuito e si terrà nella redazione napoletana di MONiTOR, via Broggia 11 (terzo piano). Di seguito le informazioni base: Durata del corso: dal 30 settembre al 2 dicembre 2025 Frequenza: un giorno a settimana, il lunedì, dalle 17:00 alle 19:30 Luogo: via Broggia, 11 (Napoli) Requisiti: un computer portatile e un po’ di tempo a disposizione Numero massimo di partecipanti: otto Prezzo: 200 euro (materiali inclusi) PROMOZIONE: per chi si iscrive prima del 22 settembre è previsto uno sconto di 20 euro Per info e iscrizioni: formazione@napolimonitor.it
Viaggio nei territori occupati della Cisgiordania. Intervista a un contadino di Via Campesina
(disegno di giancarlo savino) Nel dicembre 2024 una delegazione di agricoltori europei affiliati al movimento Via Campesina è andata in visita in Cisgiordania, da un lato per esprimere solidarietà ai lavoratori agricoli palestinesi dell’UAWC, dall’altra per promuovere la salvaguardia dell’autonomia alimentare palestinese: dalla produzione di ortaggi, all’olio di oliva, fino ai prodotti locali coltivati nei territori occupati. Via Campesina è un movimento internazionale nato nei primi anni Novanta in Belgio, per unire le rivendicazioni di milioni di contadini, lavoratori senza terra, popolazioni indigene, pastori, pescatori, lavoratori agricoli migranti, piccoli e medi agricoltori; una lotta che naturalmente oggi si intreccia con le rivendicazioni palestinesi, visto che l’attacco alla sovranità alimentare è un fattore chiave del sistema di oppressione israeliano, poiché il controllo dei mezzi di produzione agricoli  impedisce l’autonomia del popolo palestinese. Per parlare dell’esperienza in Cisgiordania contatto uno dei delegati che ha preso parte alla visita. Partiamo da Gaza. Qual è la situazione rispetto ai dati in vostro possesso? La situazione a Gaza è catastrofica. Il pesce prodotto in Palestina arrivava dai pescatori a Gaza, ma quella flotta di pescatori non esiste più. Anche la situazione dell’agricoltura è drammatica. La quasi totalità delle terre sono completamente inutilizzabili. L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite rileva che solo l’8,6% dei terreni coltivabili a Gaza è ancora accessibile, mentre solo l’1,5% dei terreni coltivabili è sia accessibile che intatto. Alcuni campi sono stati resi non coltivabili dai residui chimici dei bombardamenti, che nessuno sa come smaltire. Inoltre il cuscinetto di sicurezza che Israele sta imponendo nella Striscia sta diventando sempre più esteso, si parla di una zona inaccessibile profonda fino a due chilometri dal confine della Striscia. Una dimostrazione di come Israele non voglia che Gaza torni a essere abitabile. Siamo preoccupati dall’indifferenza degli organismi istituzionali. Già dai primi mesi del 2024 disponevano di dati che mostravano come a Gaza fosse in atto una carestia. Tuttavia a causa del blocco imposto dall’esercito israeliano all’ingresso di ispettori internazionali, il comitato tecnico legato alle Nazioni Unite ha ritardato il riconoscimento dello status, ratificandolo pubblicamente solo alcuni giorni fa. In Cisgiordania, invece, c’è stato un attacco molto recente a Hebron, contro l’unità di riproduzione di sementi dell’UAWC. L’attacco dimostra come nessun luogo in Cisgiordania è al sicuro, nemmeno gli uffici o i campi coltivati di un’organizzazione. L’offensiva ha colpito una delle unità di riproduzione delle sementi palestinesi nei territori occupati ed è stato lanciato senza alcun preavviso. L’unità di riproduzione garantiva la salvaguardia di un assortimento evolutivo di sementi selezionando, attraverso laboratori all’avanguardia, quelle più vitali e più salubri da distribuire ai contadini che ne facciano richiesta. L’UAWC svolge un altro ruolo fondamentale: identificare i terreni che sono a rischio requisizione. Nel 1950 in Israele è stata approvata una legge che stabilisce che tutti i terreni non coltivati o non lavorati regolarmente, vengano requisiti e redistribuiti a coloni o cittadini che ne facciano richiesta. Per questo è fondamentale il ruolo di supporto a UAWC: perché piantare degli ulivi o prendersi cura della terra viene visto come un’attività che mette a repentaglio l’esistenza stessa di Israele. Tuttavia i metodi di persecuzione maggiormente utilizzati dal governo israeliano consistono nel fiaccare i contadini attraverso attacchi mirati. L’esercito israeliano, per esempio, attacca gli allevamenti di polli quando sono pronti per la vendita, come accaduto nel villaggio di Qusra, dove sono stati messi i sigilli, chiusi gli edifici e staccata l’elettricità. Stessa cosa succede nei campi con la distruzione del frumento poco prima della trebbiatura. Tuttavia vediamo una coscienza contadina e delle radici ancora molto forti. A Betlemme abbiamo visitato un campo profughi palestinese, in luoghi dove l’acqua è razionata. Nel campo, sopra il tetto di una casa, gli abitanti avevano costruito una serra idroponica per svolgere attività educative con i bambini. Un’immagine iconica che dimostra quanto i palestinesi abbiano a cuore il rapporto con la terra e con le proprie coltivazioni. Quali sono i pericoli a cui vanno incontro i contadini che coltivano le terre in Cisgiordania? In primo luogo i contadini ci hanno raccontato delle difficoltà incontrate per l’accesso ai campi. Viene negato l’ingresso ai contadini con un’età inferiore ai quaranta anni. Una strategia per rendere l’agricoltura un settore minoritario e non attrattivo per i giovani. Inoltre, circa il sessanta per cento della Cisgiordania ricade nella zona controllata da Israele, secondo gli accordi di Oslo, denominata zona C; in questa fascia di terra troviamo la maggior parte della produzione agricola palestinese. Per coltivare i terreni è necessario che gli agricoltori dispongano di un documento, rilasciato da un ufficio di coordinamento, che autorizzi i contadini ad accedere ai propri terreni. Senza l’autorizzazione diventa più semplice per i coloni e l’esercito giustificare attacchi violenti contro gli agricoltori e i volontari internazionali. L’altra cosa che abbiamo visto, in particolare nella valle del Giordano, è la presenza di fiumi e fonti d’acqua circondati dal filo spinato. Un modo per negare ai palestinesi il prelievo dell’acqua. Nei casi in cui l’accesso ai pozzi non viene recintato, l’accesso viene regolato da aziende israeliane parastatali, come la Mekorot, che ricattano la popolazione palestinese creando una sorta di competizione interna nei villaggi, costringendo gli abitanti a scegliere se mandare l’acqua verso le case o per l’irrigazione dei terreni. In taluni casi, in cui i villaggi palestinesi vengono dotati di condutture idriche grazie a finanziamenti provenienti da fondi europei – come nel paese di Bardala, nella valle del Giordano, dove un centinaio di famiglie beneficiavano dell’infrastruttura – i soldati hanno distrutto centinaia di metri di tubature. Un’altra questione è legata alla diffusione di un lavoro agricolo, specialmente nella valle del Giordano, in cui si cerca di attrarre manodopera palestinese nelle colonie di monocolture intensive israeliane garantendo paghe molto alte e creando così una doppia frattura: rafforzamento del sistema produttivo israeliano e indebolimento dell’agricoltura palestinese. Non tutti cadono in questa trappola. In alcuni villaggi dove esiste un’organizzazione sociale più radicata, l’intero villaggio sceglie collettivamente, in assemblea, di non piegarsi a questo meccanismo coloniale. Cosa è cambiato dopo il 7 ottobre? Dopo il sette ottobre l’occupazione delle terre procede a una velocità impressionante. Rispetto al 2017 – il mio precedente viaggio in Cisgiordania – il movimento dei coloni ha sviluppato metodologie sempre più violente, come le colonie pastoraliste mobili che si dotano di capi bestiame più o meno numerosi e che, con delle roulotte, si fanno spazio nelle aree semi desertiche tra la valle del Giordano e le zone più popolate della Cisgiordania. Una modalità che aggredisce le comunità beduine che vivono una vita seminomade. Questi ultimi non avendo lo spazio per muoversi, e non essendo più liberi di spostarsi, sono costretti a restare nello stesso posto; a dover comprare il mangime, l’acqua e i medicinali perché gli animali abituati a pascolare allo stato brado cominciano a produrre meno latte. Un’altra cosa che abbiamo notato è la crescita dei cosiddetti “avamposti bandiera”. I coloni che piantano una bandiera israeliana in cima a una collina. E formando un recinto e un piccolo muro bloccano l’accesso ai campi agli agricoltori palestinesi. Basta una bandiera piantata su un mucchio di terra e di colpo interi campi diventano di proprietà dei coloni israeliani come accaduto a Gerusalemme Est. Come movimento su cosa bisogna lavorare per supportare la lotta in Palestina? Abbiamo notato come la presenza di volontari e attivisti internazionali sia fondamentale. Tuttavia bisogna osservare la questione con una lente decoloniale. Nel movimento europeo forse è presente un paternalismo di fondo, una modalità frequente nei progetti della comunità internazionale, dove eleggiamo i rappresentanti e scegliamo quelli che sono i temi. In realtà, sono i palestinesi che devono indicarci le loro priorità. Questo ci è stato segnalato da un’organizzazione femminista incontrata a Ramallah, dove abbiamo parlato per un’ora e mezza su come la violenza di genere, l’oppressione delle donne, e le violenze sessuali sono rilevanti nella strategia di oppressione e di massacro della popolazione palestinese. Allo stesso tempo ci hanno detto che quando la loro organizzazione si rapporta con i movimenti femministi europei, nord americani e le Ong si tende a dare più peso alla violenza domestica, piuttosto che alla violenza strutturale contro le donne nell’occupazione sionista. Noi crediamo in un rapporto orizzontale e internazionalista tra popoli, non a una solidarietà selettiva nei confronti del popolo palestinese. Dobbiamo lavorare per spogliarci di questi retaggi colonialistici, concentrando gli sforzi in ciò che i palestinesi chiedono: cessate il fuoco, fine del genocidio e delle politiche espansionistiche di occupazione in Cisgiordania. Per questo è necessario pressare Israele attraverso campagne di boicottaggio economico, nonché sanzioni e cessazioni degli accordi internazionali. (intervista a cura di giuseppe mammana)
La parola della settimana. Paraculo
(disegno di ottoeffe) “Chiediamo che venga ritirato l’invito a partecipare alla Mostra di Venezia a Gerard Butler, Gal Gadot e a qualunque artista e celebrità che sostenga pubblicamente e attivamente il genocidio. E che invece quello spazio venga messo a disposizione di una nostra delegazione che sfili sul red carpet con la bandiera palestinese”. (venice for palestine, 25 agosto 2025) Gal Gadot, l’attrice israeliana famosa per il ruolo di Wonder Woman, ha svolto due anni di leva militare obbligatoria nell’esercito del proprio paese, con la mansione di istruttore atletico nella Idf, le forze di difesa israeliane, dopo essere risultata tra i primi del suo corso d’addestramento. […] Nel 2007, al mensile Maxim, Gadot descriveva così la sua attività quotidiana nell’esercito: “Insegnavo ginnastica e calistenics; ai soldati piacevo perché li mantenevo in forma”. […] In una cover story per Glamour: “Devo dire che nessun paese dovrebbe aver bisogno di un esercito; ma ad ogni modo, per essere un vero israeliano, devi servire lo Stato, e restituirgli quello che ti ha dato. Per due o tre anni, non pensi a te stessa, rinunci alla tua libertà, ma impari la disciplina e il rispetto”. (cinemaserietv.it) (foto da cufi.org) Una serata di gala con celebrità raccoglie trentotto milioni di dollari per l’Idf a Los Angeles. Tra gli ospiti presenti c’erano Julie Bowen, Gerard Butler, Robert De Niro, Joanna Krupa e Arnold Schwarzenegger. L’evento è stato presieduto dall’imprenditore e magnate dei media Haim Saban e da sua moglie Cheryl e ha visto la partecipazione di numerosi personaggi ebrei di spicco. […] “Siamo lieti di vedere che la fondamentale missione dell’esercito israeliano, fornire programmi di benessere e istruzione agli eroici uomini e donne dell’IDF, continua a riscuotere successo nella comunità di Los Angeles”, ha affermato Saban. (cufi.org / traduzione di -rr) Almeno sette persone, fra cui cinque bambini che erano in coda per l’acqua, sono rimaste uccise in un attacco israeliano con droni avvenuto nella zona di al-Mawasi, nel sud di Gaza, vicino Khan Younis. Lo riferisce Al Jazeera citando una fonte dell’ospedale Nasser. L’emittente riporta che il portavoce della Protezione civile di Gaza, Mahmoud Basal, ha pubblicato una foto dei corpi di cinque bambini, insieme a un’immagine della macchia di sangue nel luogo in cui sono stati uccisi. “Erano in fila per riempire delle taniche d’acqua nella zona di al-Mawasi, descritta come ‘sicura’, quando le forze di occupazione li hanno presi direttamente di mira, trasformando la loro ricerca di vita in un nuovo massacro”. (il fatto quotidiano, 2 settembre 2025) Il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto L’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto. (i nomadi, dio è morto) “Se mi si invita a riconoscere che è in corso un genocidio la risposta è assolutamente sì. Questo è uno di quei casi in cui quello che sta succedendo è evidente, non c’è tanto da stare a discutere. Le testimonianze di istituzioni assolutamente affidabili sono riscontrabili. Se invece poi si scivola dentro un’emotività che ti porta a chiedere di censurare o di boicottare, in questo caso faccio un passo indietro e sono meno propenso, anzi non sono per niente propenso a censurare nessuno. Soprattutto in un luogo come questo che deve accogliere chiunque, anche quelli che sostengono le posizioni più scomode e ai nostri occhi irritanti”. (paolo sorrentino) Il paraculo è l’opportunista, quello che, specie in maniera occulta, cerca di volgere una situazione a proprio vantaggio. Il paraculo è levantino, sa navigare nello scorrere degli eventi, sa compiacere e approfittare per il fine ultimo e supremo del proprio tornaconto. Forse l’unico connotato che conserva del suo significato precedente è lo sprezzo – connotato da non disdegnare, nel qualificare l’opportunista: troppo spesso il furbo scafato ha un profilo positivo, profilo invece tendenzialmente escluso dal paraculo. (unaparolaalgiorno.it) “Mi hanno messo in mezzo. Mi ha chiamato Silvia Scola, la figlia di Ettore chiedendomi se volevo firmare un appello contro quello che sta accadendo a Gaza, che va condannato in tutti i modi, nell’ambito della Mostra, manifestando a una platea ampia la sensibilità del cinema, che non è chiuso nell’indifferenza. E ho firmato. In un secondo momento i promotori hanno aggiunto i nomi di quei due attori. Non sono d’accordo nell’escludere gli artisti. Anche all’inizio della guerra in Ucraina ricordo il boicottaggio verso i tennisti russi. Ma cosa c’entravano loro? Sono sportivi, non militari né politici. […] Quei due non sono gente che tira le bombe, sono attori come me”. (carlo verdone) (credits in nota1) “Quando ho firmato l’appello non c’era questa richiesta sull’esclusione di alcuni artisti. Non mi appartiene, non sono d’accordo”. (ferzan ozpetek) “Sono stato tra i firmatari di un documento che chiedeva di accendere una luce più forte su una tragedia immane a cui stiamo assistendo. […] Credo che il risultato al primo giorno di festival sia già ampiamente raggiunto. […] Non condivido per nulla il boicottaggio di artisti israeliani o di qualsiasi altro paese a manifestazioni come la Mostra del cinema o come la Biennale arte. Credo che questi luoghi siano luoghi di accoglienza in cui si invita tutti e poi ci si confronta e si stabilisce civilmente su che posizione si sta, ma non sono luoghi di esclusione. Questo aspetto, ci tengo a dirlo, non lo condivido”. (toni servillo) “Questo boicottaggio non lo condivido. Però, se entriamo nel merito di chi sono questi, se hanno compiuto delle cose che in qualche modo acconsentono, sono favorevoli alla scelta di Netanyahu… Che poi li si debba censurare… la censura è sempre qualche cosa di inaccettabile, che viene dall’alto, dal potere, che schiaccia. Io sono fautore della protesta non violenta” (marco bellocchio) Faccio fa’ le pulizie di casa all’indianino con la go-pro, almeno vedo se pulisce bene o no. E con tutti i soldi che ogni mese je do’ magari ce esce n’artro marò! […] Questo colla vespa nun me vuole fa’ usci’ c’ha pure l’adesivo de Piero Gramscì, madonna ‘sti qui: che radical chic! […] Sostanzianzialmente penso solo ai cazzi miei per ottenere tutto quello che vorrei: troppe domande fossi in te non ne farei. (brusco, paraculo) Il 2020 ha prodotto risultati positivi da parte di attivisti, studenti, difensori dei diritti civili e legislatori per sostenere il diritto di boicottare Israele. […] Ci sono state molte azioni dirette, vittorie in tribunale e appelli a sanzionare Israele per le sue violazioni del diritto internazionale. […] All’inizio dell’anno, le Nazioni Unite hanno pubblicato il tanto atteso elenco di società che traggono profitto dai crimini di guerra di Israele. […] Il rapporto elenca 112 società coinvolte in attività negli insediamenti come la fornitura di attrezzature e materiali per la costruzione o la demolizione di case, sorveglianza e sicurezza, trasporto e manutenzione, inquinamento e scarico di rifiuti e sfruttamento delle risorse naturali, comprese l’acqua e la terra. Il Bnc ha accolto con favore la pubblicazione del rapporto, che è avvenuto “nonostante le intimidazioni da parte di Donald Trump e del governo di estrema destra di Israele”. […] Ad aprile, l’ufficio del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo in Giordania ha annunciato che non rinnoverà il suo contratto con G4S, una società di sicurezza privata con una lunga storia di coinvolgimento nei crimini di Israele. […] La Corte europea dei diritti dell’uomo ha sostenuto il diritto di boicottare Israele quando ha annullato le condanne penali contro undici attivisti per i diritti dei palestinesi in Francia. Ha stabilito all’unanimità che le condanne contro gli attivisti per aver invitato gli acquirenti a boicottare le merci israeliane hanno violato la garanzia di libertà di espressione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. (continua a leggere!) POST SCRIPTUM – Ho letto che quando Boris Pasternak consegnò agli emissari di Giangiacomo Feltrinelli il manoscritto per la pubblicazione italiana ed europea de Il dottor Živago, avendo saputo che il Pcus stava facendo enormi pressioni attraverso il Pci, addirittura trattando l’argomento in diverse sedute del Comitato Centrale del partito sovietico per non farlo pubblicare, Pasternak gli disse più o meno: «Ecco, questo manoscritto vale anche come invito al mio funerale».  (a cura di riccrado rosa) __________________________ ¹ Fabrizio Bracconeri e Carlo Verdone in: Acqua e sapone, Carlo Verdone (1983)
Dal Cpr al carcere, chi ha ucciso Hamid Badoui?
(disegno di martina di gennaro) All’alba del 19 maggio scorso, tra le 4:30 e le 6:09, nella cella 214 del padiglione B del carcere torinese Lorusso e Cutugno, Hamid Badoui si tolse i lacci delle scarpe e li legò al collo. In quell’istituto i lacci vengono ritirati solo ai detenuti classificati come “ad alto rischio suicidario”. Hamid non era tra loro, e quei lacci, apparentemente un dettaglio, divennero una condanna. Passarono ventidue lunghissimi minuti prima che qualcuno aprisse la porta: ventidue minuti in cui rimase solo, avvolto da un silenzio che lo soffocava. Quando gli agenti entrarono, alle 6:31, per lui non c’era più tempo.  Hamid aveva quarantun’anni e da quindici viveva a Torino. Era nato a Oued Zem, in Marocco, in una famiglia a cui era legatissimo. A soli quindici anni aveva lasciato la sua terra per la Spagna, accolto in una comunità per minori. Lì aveva studiato, ottenuto i documenti spagnoli e un diploma da cameriere. Con i suoi primi lavori riusciva a mandare denaro alla madre, gesto che non interruppe neppure durante i periodi difficili. Anche durante la detenzione a Fossano, nonostante le ristrettezze, continuò a inviarle parte dei piccoli guadagni ottenuti dentro il carcere. Era il suo modo di restare figlio presente, anche dietro le sbarre. Sua sorella Zahira lo ricorda con tenerezza: «Mamma era il suo punto debole, la sua gioia più grande». In Italia Hamid continuò a lavorare in cucina, a studiare, a conservare con cura documenti e ricevute, segni concreti della sua volontà di costruirsi un futuro dignitoso. Ma le difficoltà non mancavano: i documenti scaduti, la vicinanza a persone sbagliate, la lotta con la dipendenza dal crack. Più volte chiese aiuto, affidandosi al Gruppo Abele per percorsi di cura e disintossicazione. Con Zahira parlava spesso del desiderio di tornare al Sert, curarsi e riavvicinarsi alla famiglia. «Parlavamo ogni giorno», ricorda la sorella. «Poi, all’improvviso, il suo telefono è rimasto spento. Il lunedì è arrivata la notizia che nessuno di noi avrebbe mai voluto ricevere». Dopo più di una detenzione Hamid era stato trasferito nel Cpr di Bari e poi deportato in Albania, nel centro di Gjadër. Era rimasto lì trentatré giorni, lo aveva definito “un inferno”. «Meglio il carcere che Shengjin», aveva confidato al suo avvocato, spaventato da quella esperienza che lo aveva segnato profondamente. La decisione di un giudice romano, che ne dispose la liberazione, sollevò dubbi sulla legittimità costituzionale del trattenimento nei Cpr. Hamid era tornato a Torino di venerdì notte, libero sulla carta, ma attanagliato dalla paura di essere nuovamente rinchiuso. Sabato 17 maggio, poco dopo le 14:00, davanti a una tabaccheria di corso Giulio Cesare, chiamò la polizia per denunciare una truffa: la Sim che aveva acquistato non funzionava. Quel gesto, nato dal desiderio di giustizia, si trasformò in un arresto per resistenza a pubblico ufficiale. La folla guardava, filmava, gridava. Da quell’istante la sua fragile traiettoria cambiò. Hamid trascorse oltre dieci ore in una camera di sicurezza, senza alcuna assistenza. Solo alle 3:43 del 18 maggio varcò l’ingresso del carcere torinese. Alle 4:20 un medico lo visitò per dieci minuti, troppo poco per cogliere il suo stato d’animo. Segnalò di assumere Lyrica e Rivotril, ma il rischio suicidario fu giudicato “basso”. Da quel momento si apre il primo vuoto temporale: dalle 4:30 del mattino fino alle 19:00 nessuna annotazione, nessuna osservazione, quasi quindici ore in cui Hamid rimane invisibile. Sappiamo che poco prima delle 19:00 ha trascorso circa un’ora nell’ufficio del sovrintendente, perché aveva rifiutato di condividere la cella. Poco dopo viene riaccompagnato nella 214 e si apre il secondo intervallo di silenzio: dalle 19:00 circa fino alle 4:30 del mattino successivo. Alle 4:30 gli agenti effettuano il giro di controllo per verificare che i detenuti stiano bene. È nel letto, apparentemente dormiente. Alle 6:09 il suo corpo viene trovato legato alle sbarre del cancello della cella 214. Le chiavi sono al piano terra: trascorrono ventidue minuti prima che venga aperta. Alle 6:31, quando gli agenti entrano, è troppo tardi. Zahira, insieme all’avvocato Luca Motta, ha presentato un esposto in procura. Denuncia omissioni, silenzi, ritardi. Ricorda che Hamid avrebbe potuto andare ai domiciliari, che l’arresto non era obbligatorio, che la sua fragilità era evidente. L’esposto parla chiaro: quattordici ore dall’arresto alla visita medica, oltre dieci in isolamento, diciassette escoriazioni sul corpo. Il medico legale ha confermato: non furono le ferite a ucciderlo, ma l’asfissia da impiccagione. Il 27 maggio corso Palermo si riempì di persone. Fiori, cartelli, passi condivisi. Circa duecento voci unite per dire che nessuno deve morire così, nel silenzio di una cella. Hamid aveva scelto di vivere, di curarsi, di ricominciare. Ma in carcere ha trovato tutto fuorché custodia o protezione. Dopo l’autopsia, Zahira ha completato le pratiche per riportarlo in Marocco, come desiderava la madre. Un ultimo gesto d’amore, per restituirgli dignità e pace. Rimane la memoria: il suo sorriso, i suoi gesti di affetto, la sua forza fragile che chi lo ha amato custodirà sempre. Rabi yrahmou, Hamid. Ma tensach. (luna casarotti – yairaiha ets)