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La Corte di Giustizia UE smentisce Meloni sui “paesi di origine sicuri” e sul “modello Albania”
La Corte di Giustizia dell’Unione europea si è pronunciata, con la sentenza della Grande Sezione del 1° agosto 2025, sul ricorso pregiudiziale sollevato dal Tribunale di Roma, con ordinanze del 31 ottobre 2024 e del 4 novembre 2024, sulla distinzione dei poteri del governo e dei giudici nella designazione dei paesi di origine sicuri, da prevedere con una apposita lista adottata per legge, affermando che “Nell’elenco devono esserci solo Stati che offrano una protezione sufficiente a tutta la sua popolazione”. Secondo la Corte di Lussemburgo, uno Stato europeo “può designare Paesi d’origine sicuri mediante atto legislativo, a patto che tale designazione possa essere oggetto di un controllo giurisdizionale effettivo”. La vergognosa nota di Palazzo Chigi resa pubblica subito dopo, secondo cui” la decisione della Corte indebolisce le politiche di contrasto all’immigrazione illegale di massa e di difesa dei confini nazionali”, non merita neppure una parola di commento, scambiando richiedenti asilo per migranti illegali e confondendo il tema delle procedure accelerate in frontiera per i richiedenti asilo, provenienti da paesi di origine sicuri, con la difesa dei confini nazionali. Secondo il ministro Salvini “è un precedente grave non solo per l’Italia ma per tutta Europa. L’ennesima dimostrazione che queste istituzioni europee, così come sono, sono un danno”. Appare invece del tutto fuorviante il tentativo del governo, e di Giorgia Meloni, di attaccare la decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea per nascondere il suo più grande insuccesso, rivendicando i poteri sovrani, ma sarebbe meglio dire il sovranismo degli Stati, e dunque la piena discrezionalità del governo, in materia di politiche migratorie. Come ha riconosciuto in passato la Corte Costituzionale con la sentenza n.81 del 2012, “gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nel caso delle procedure accelerate in frontiera, il principio di gerarchia delle fonti, fissato dagli articoli 10 e 117 della Costituzione impone anche al Parlamento nazionale, oltre che al Governo, ed agli organi decentrati della pubblica amministrazione, come Questure e Prefetture, con annesse Commissioni territoriali per l’esame delle richieste di protezione, di rispettare quanto deciso dalla Corte di giustizia di Lussemburgo. Lo stesso principio gerarchico vale per gli organi della giurisdizione nazionale, dai giudici di pace che convalidano i trattenimenti nei CPR, fino alle Corti di appello, competenti per i ricorsi contro i dinieghi e per la convalida del trattenimento, nel caso di richiedenti asilo, ed alla Corte di Cassazione. Per la Corte di giustizia UE, Il cittadino di un paese terzo può vedere respinta la sua domanda di protezione internazionale in esito a una procedura accelerata di frontiera qualora il suo paese di origine sia stato designato come ‘sicuro’ ad opera di uno Stato membro. La Corte di Lussemburgo precisa che “tale designazione può essere effettuata mediante un atto legislativo, a condizione che quest’ultimo possa essere oggetto di un controllo giurisdizionale effettivo vertente sul rispetto dei criteri sostanziali stabiliti dal diritto dell’Unione. Le fonti di informazione su cui si fonda tale designazione devono essere accessibili al richiedente e al giudice nazionale. Uno Stato membro non può, tuttavia, includere un paese nell’elenco dei paesi di origine sicuri qualora esso non offra una protezione sufficiente a tutta la sua popolazione”. La decisione dei giudici europei potrebbe avere immediate ricadute anche sulla condizione di trattenimento amministrativo applicato, in modo generalizzato, nell’ambito delle procedure accelerate in frontiera, ai richiedenti asilo che si assuma provenire da “paesi di origine sicuri”, come il Bangladesh, la Tunisia o l’Egitto. Nel caso di queste procedure accelerate in frontiera caratterizzate da una estesa applicazione del trattenimento amministrativo prima ancora che la istanza di protezione venga formalizzata, addirittura anche in Albania, non si riscontrano basi legali che impediscano al giudice una valutazione ex officio sul singolo caso al suo esame, con specifico riferimento alla individuazione come “sicuro” del paese di origine del richiedente asilo. Il diritto dell’Unione europea, nelle applicazioni della Corte di Giustizia, va esattamente nella direzione di riconoscere i poteri/doveri di “cooperazione istruttoria” del giudice della convalida del trattenimento in un CPR, anche in assenza di una allegazione di fatti specifici che potrebbero rendere “non sicuro” per il richiedente il proprio paese di origine. Valutare in un procedimento giurisdizionale la sicurezza di un paese di origine designato come “sicuro” non significa interferire con politiche della sicurezza o addirittura con “relazioni internazionali”, come è arrivato a sostenere il governo Meloni, in quanto la disapplicazione nel singolo caso della norma interna in contrasto con altra norma di rango superiore stabilita a livello europeo, e per riflesso costituzionale (art.117 Cost.), non implica alcuna conseguenza sulla validità della norma generale che contiene un elenco di paesi di origine sicuri, a meno che non intervenga la Corte di Giustizia dell’Unione europea o su un ricorso di legittimità, la Corte Costituzionale. In ogni caso, fino a quando l’Italia non uscirà dall’Unione europea, i governi e le autorità amministrative, e persino il Parlamento nazionale, dovranno rispettare il dettato delle decisioni della Corte di Lussemburgo, come impone peraltro lo stesso art.117 della Costituzione. Non ci possono essere “soluzioni innovative” come il Protocollo Italia-Albania che consentano di impedire l’accesso al territorio per presentare una richiesta di protezione, e magari costringano i giudici ad una valutazione meramente formale dei provvedimenti restrittivi della libertà personale dei richiedenti asilo (trattenimenti), e quindi delle loro istanze di protezione, che dovrebbero essere rigettate per manifesta infondatezza, sulla base di un regime differenziato imposto per legge da una maggioranza parlamentare. Il modello Albania, con il suo ineluttabile fallimento, costituisce la cartina di tornasole di una crisi di sistema, con la negazione sostanziale del diritto di asilo, ed una illegittima limitazione della libertà personale, che non si potrà risolvere riducendo per decreto i poteri dei giudici, o addirittura attaccando la portata vincolante della giurisdizione della Corte di giustizia dell’Unione europea. Fulvio Vassallo Paleologo
Sentenza catenaccio della Cassazione penale sulla detenzione amministrativa in Albania
Una decisione catenaccio (n.17510/2025) della Prima Sezione della Cassazione penale spiega la fretta del governo per inserire con un decreto legge (n.145/2024) norme stralciate dal codice di procedura penale in modo da trasferire la competenza a decidere sulla convalida dei trattenimenti dalla prima sezione della Cassazione civile alla Cassazione penale, di cui erano già noti gli orientamenti. , In appena otto pagine la prima sezione penale della Corte ha annullato la precedente ordinanza della Corte di Appello di Roma che, con il provvedimento del 19 aprile scorso, non convalidava il trattenimento amministrativo di un cittadino straniero già destinatario di un provvedimento di espulsione, che dopo essere stato trasferito l’11 aprile dal centro per i rimpatri (CPR) di Potenza, Palazzo San Gervasio, al CPR di Gjader, lo scorso 17 aprile aveva presentato una domanda di protezione internazionale. Il trattenimento ex art. 6 del Decreto Legislativo 142/15, di cui era stata chiesta la convalida, era dunque relativo a un “immigrato irregolare” originariamente espellibile, il quale, secondo la Corte di appello di Roma, nel corso della sua permanenza presso il Cpr di Gjader in Albania, aveva mutato la propria condizione giuridica, divenendo richiedente asilo dal momento in cui manifestava la volontà di chiedere protezione internazionale, domanda poi rigettata dalla Commissione territoriale di Roma nel giro di poche ore. Una ipotesi che non è espressamente prevista dal Protocollo Italia-Albania, e neppure dalla Legge di attuazione n.14 del 21 febbraio 2024, come modificata dal recente Decreto legge n. 37 del 28 marzo 2025, tuttora in corso di conversione. Secondo la Cassazione penale (n.17510/2025), invece, “È legittimo il trattenimento dello straniero in quella struttura anche dopo la presentazione della domanda di asilo, poiché il centro di Gjader deve essere equiparato, a tutti gli effetti, ai centri previsti dall’articolo 14 del decreto legislativo 286 del 1998”. Con la parificazione del Cpr di Gjader ai Cpr in territorio italiano, la Corte ritiene irrilevante la disparità di trattamento (art.3 Cost.) subita dalle persone migranti in condizione irregolare trasferite in Albania, rispetto a tutti gli altri irregolari che rimangono trattenuti nei CPR in territorio italiano. Tuttavia, non si può negare che il Cpr di Gjader si trovi in territorio albanese, all’esterno dei confini dell’Unione europea, al di là della finzione di presenza dei suoi “ospiti” in Italia, in quanto lo spazio del centro rimane sottoposto anche alla giurisdizione albanese. Nessuna equiparazione, che sarebbe “a tutti gli effetti”, è dunque possibile con i Cpr ubicati in Italia. Il decreto legge n.37/2025, e gli emendamenti che si annunciano, che confermano i trasferimenti dai Cpr italiani nel centro di detenzione di Gjader ed estendono il trattenimento amministrativo anche in seguito alla presentazione di una domanda di asilo, non possono stravolgere i criteri di riparto della giurisdizione ed i principi di sovranità territoriale affermati dalla Costituzione italiana e da quella albanese, fino ad intaccare quel nucleo di diritti fondamentali che vanno riconosciuti a qualunque persona immigrata, a prescindere dalla sua condizione giuridica (art.2 del Testo unico sull’immigrazione n.286/98). Tra questi il diritto di chiedere protezione internazionale, anche dopo un provvedimento di espulsione, o in caso di precedenti penali, ed il diritto ad un ricorso effettivo. La Cassazione Penale accoglie quindi il ricorso del Ministero dell’Interno e della questura di Roma, con una motivazione assai stringata che poggia soprattutto sulla Relazione di accompagnamento al decreto legge n.37/2025, dunque su un atto di natura squisitamente politica, che non può certo valere come autonoma fonte del diritto, né contiene richiami a fonti normative o a precedenti giurisprudenziali che possano esaurire in modo tanto generico la motivazione di una sentenza di Cassazione. Il decreto sarà convertito in legge alla Camera martedì 13 maggio, con ulteriori emendamenti proposti dal governo, che come al solito potrebbe porre la questione di fiducia. Vedremo se la Corte Costituzionale, che con sentenza n.39/2025 ha già rilevato un vizio di costituzionalità per violazione del principio del contraddittorio nei giudizi in Cassazione sulla convalida del trattenimento, riuscirà a ricondurre questa materia nell’alveo del giusto processo, nel rispetto del sistema gerarchico delle fonti normative interne e sovranazionali, imposto dall’ art. 117 Cost. I diritti di difesa (art.24 Cost.), ed il diritto di chiedere asilo (Art.10 Cost.), non possono essere svuotati per effetto dei trasferimenti improvvisi da un Cpr ad un altro, e poi in territorio straniero. Mancano ancora norme specifiche sulle modalità dei trattenimenti e dei trasferimenti, oggi rimessi alla esclusiva discrezionalità delle autorità di polizia, in violazione della riserva assoluta di legge imposta dall’art.13 della Costituzione in materia di libertà personale. Rimane da valutare la compatibilità del modello Albania, così rivisitato, con il diritto dell’Unione europea, perché al momento, al di là di dichiarazioni estemporanee di singoli esponenti della Commissione UE, non ci sono atti legislativi euro-unionali sui quali possa trovare fondamento. La Direttiva europea sui rimpatri 2008/115/CE non consente il trattenimento pre-espulsivo al di fuori dei confini degli Stati membri. Per effetto delle Direttive europee su procedure di asilo (2013/32/UE) e accoglienza (2013/33/UE) le richieste di protezione internazionale non possono essere processate al di fuori del territorio degli Stati membri. Salvato dai giudici della Cassazione penale, che neppure dovrebbe essere competente in materia di trattenimento amministrativo, il modello Albania sarà demolito dalla prova dei fatti. Anche prima di possibili interventi della Corte costituzionale e della Corte di giustizia UE. Scopriremo, quando lo comunicherà il ministro dell’interno Piantedosi, reduce dal Pakistan, il numero delle persone effettivamente riportate nel paese di origine “attraverso” il centro di Gjader in Albania, ma comunque con un ulteriore transito dal territorio italiano, e se non saranno rimpatri fintamente “volontari”. Oltre le percentuali propagandistiche e fuorvianti diffuse dalla Meloni, su un sistema di rimpatri (forzati) che non potrà funzionare mai, i risultati effettivi dell’operazione Albania sono assai modesti, neppure simbolici. Il 25 per cento delle persone effettivamente rimpatriate in un mese, dopo la deportazione in territorio albanese, annunciato dal governo per questo fine settimana, corrisponde a dieci immigrati irregolari rimpatriati in un mese. Sono “numeri” che servono a scopo politico, ma non aumentano la sicurezza degli italiani e il contrasto del traffico di esseri umani, invece alimentato dagli accordi con paesi terzi come la Libia, che continuano a garantire impunità agli autori di crimini contro l’umanità. Per non parlare di paesi come il Bangladesh o il Pakistan, se non come la Tunisia o l’Egitto, che oggi non si possono certo definire paesi di origine sicuri. Fulvio Vassallo Paleologo