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Continua la strage degli invisibili nel Mediterraneo in guerra
Mentre nella Striscia di Gaza si sta consumando un vero e proprio genocidio, e le complicità internazionali con il trumpismo dilagante, inclusa la complicità del governo italiano, stanno allontanando la soluzione di tutti i numerosi conflitti in corso nel mondo, continua la serie di naufragi nel Mediterraneo centrale. Stragi di sistema, frutto degli accordi con il governo tunisino e con le entità militari e statali che si contendono la Libia, supportate dal monitoraggio aereo di Frontex e dalle prassi operative di “difesa” dei confini marittimi e di contrasto dell’immigrazione illegale, attuate nel Mediterraneo centrale dall’Italia ed i misura minore, dal governo maltese. In nome della sicurezza dello Stato, e addirittura della lotta al terrorismo, si violano ormai tutte le norme di diritto internazionale sulla salvaguardia della vita umana in mare e sulla protezione dei richiedenti asilo. La vicenda Almasri, ancora torbida nei suoi più recenti sviluppi in Libia, e i tentativi di insabbiamento in corso per nascondere le gravissime responsabilità istituzionali, confermano il tracollo dei diritti umani nelle relazioni bilaterali tra Stati e la crisi di legittimazione delle Corti internazionali. A nessuno sembra più importare la sorte delle persone intercettate in mare o arrestate e respinte dalla Tunisia e trasferite nei centri di detenzione diffusi in tutta la Libia. Negli ultimi mesi sono aumentate le partenze ed i naufragi dalle coste della Cirenaica. La zona SAR ( di ricerca e salvataggio) “libica” sembra ormai sfuggita a qualsiasi controllo, a parte le intercettazioni violente, con l’uso di armi da fuoco, da parte della sedicente guardia costiera libica. Le autorità marittime che intervengono, spesso colluse con i trafficanti, ed alle quali secondo il governo italiano si dovrebbe obbedire, sono prive di qualsiasi legittimazione internazionale, oltre a commettere gravi crimini. Una “zona SAR”, quella “libica”, che andrebbe sospesa immediatamente, con il ripristino degli obblighi di soccorso in acque internazionali a carico delle autorità italiane e maltesi, con il supporto dell’agenzia europea FRONTEX, che non può ritirarsi dalle operazioni di ricerca e salvataggio. Oltre cento rifugiati sudanesi sono morti o risultano dispersi dopo due naufragi avvenuti sabato 13 e domenica 14 settembre al largo della costa di Tobruk, nella Libia orientale, come hanno annunciato mercoledì 17 settembre l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR). Con questi ultimi naufragi, nel 2025 secondo l’Oim sono oltre 500 le persone che hanno perso la vita e altre 420 risultano disperse lungo la rotta del Mediterraneo centrale. I dati sono aggiornati, conferma Oim Libia, dall’inizio dell’anno al 13 settembre. Nello stesso periodo, precisa l’agenzia dell’Onu, i migranti intercettati in mare e riportati in Libia sono stati 17.402, di cui 15.555 uomini, 1.316 donne, 586 minori e 145 di cui non si conoscono i dati di genere. Pochi giorni fa un altro naufragio al largo delle coste tunisine, di cui nessuno ha scritto. Dopo il capovolgimento del barcone che li trasportava sono morte 39 persone, tra cui diversi cittadini camerunensi. Il 15 settembre una ragazza ventenne ha perso la vita in un naufragio a 45 miglia nautiche da Lampedusa. Il barchino di ferro su cui viaggiava insieme a una cinquantina di persone ha iniziato ad affondare, e secondo i sopravvissuti anche un’altra donna sarebbe dispersa. In una sola settimana dal 6 al 13 settembre, approdavano a Lampedusa oltre 3000 persone. E il 9 settembre venivano sbarcati nell’isola anche i cadaveri di due donne. Un fallimento su tutta la linea delle politiche migratorie italiane basate su accordi con governi che non rispettano i diritti umani. Ma in proporzione aumentano più le vittime che i cosiddetti “sbarchi”. E nei paesi di transito la condizione dei migranti peggiora sempre di più, nella totale impunità degli autori di abusi che vanno dalla violenza sessuale alla detenzione arbitraria ed all’estorsione attraverso torture atroci. Questa volta non sono arrivate neppure le dichiarazioni contrite ed ipocrite della presidente del Consiglio, come invece era avvenuto dopo i naufragi a sud di Lampedusa, lo scorso mese di agosto. Se non si vedono cadaveri, le vittime non esistono. Ormai l’interesse generale deve essere deviato verso i discorsi d’odio contro il governo, in vista delle prossime scadenze elettorali, e il vicepresidente del Consiglio Salvini annuncia l’ennesimo decreto legge contro le persone migranti. Intanto si rilancia in tutta Europa una violenta campagna anti-immigrati basata su fake news e manipolazioni con l’intelligenza artificiale. Secondo un recente Rapporto del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Michael O’Flaherty. “La cooperazione esterna in materia di asilo e migrazione deve essere progettata e attuata con grande attenzione, per non mettere a repentaglio i diritti umani. I governi che sviluppano politiche di esternalizzazione in questo campo dovrebbero valutare attentamente il loro potenziale impatto negativo sui diritti umani, poiché tali politiche possono esporre donne, uomini e bambini a rischi significativi di gravi danni e sofferenze prolungate”.  Una valutazione puntualmente elusa dal governo Meloni, dopo il fallimento del modello Albania,  fortemente voluto dalla presidente del Consiglio e da Ursula von der Leyen, senza l’approvazione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio UE. Un modello perverso e personalistico di gestione delle relazione esterne dell’Unione europea, che oggi sta mostrando una serie di fallimenti a catena, purtroppo sulla pelle di persone innocenti. Mentre continuano i fermi amministrativi delle navi umanitarie e degli aerei civili, che permetterebbero di salvare migliaia di persone, il governo italiano, malgrado le pronunce di annullamento o di sospensione dei tribunali, continua a supportare le autorità di quei governi, o meglio entità statali neppure riconosciute dalla comunità internazionale, che sparano sulle imbarcazioni cariche di migranti e sulle navi umanitarie. Al di là delle gravissime responsabilità che dovranno essere accertate sul caso Almasri, occorre denunciare i responsabili delle politiche di morte che, in giorni in cui l’umanità sembra cancellata dal genocidio in corso a Gaza, continuano a produrre vittime nascoste nel silenzio prodotto dalle prassi di abbandono sistematico in mare e dalla censura dei canali informativi sui crimini che si consumano nelle acque del Mediterraneo. Le imbarcazioni civili dei cittadini solidali, comunque vengano contrastate, non abbandoneranno quelle zone di ricerca e salvataggio (SAR) in acque internazionali che, in virtù di accordi bilaterali come il Memorandum Italia-Libia del 2017, sono diventate spazi di intercettazione e deportazione. Occhi e voci di operatori umanitari che salveranno quante più vite possibile, ma anche testimoni inflessibili degli abusi e delle omissioni perpetrati dalle autorità statali e dalle milizie con la divisa di guardia costiera. Quelle autorità e quelle milizie che il governo italiano, con il sostegno dell’Unione europea, continua a finanziare e ad assistere, malgrado le sentenze che affermano come il Centro di Coordinamento del Soccorso libico e la Guardia Costiera libica non possano essere considerati soggetti legittimi per le operazioni di ricerca e soccorso. Fulvio Vassallo Paleologo
Cosa può una città? Margini, feticci e spazi sociali
Questo il titolo di Assemblea cittadina che si svolgerà alle ore 18 del 26 settembre prossimo, in occasione dei cinque anni della biblioteca sociale “booq” alla Kalsa a Palermo. Se ne discuterà insieme a Marco Assennato della Université PSL, Verdiana Mineo del Centro Sociale Ex Carcere, Laura Pavia della Fondazione Don Calabria ETS, un rappresentante di Corrente Cinema, Loriana Cavaleri di Send, Vivian Celestino di Handala e Flora La Sita di booq. Così gli organizzatori presentano il dibattito. > Un campetto, una piazza, una biblioteca di quartiere. Guardare la città a > partire da luoghi marginali può rivelare un’immagine non appiattita di un > territorio: delle sue tensioni e delle sue passioni. > > Nella Palermo duale, le distanze tra i dentro e i fuori, materiali e > simbolici, sono siderali. > Ogni spazio diventa terreno di contesa e l’accesso a beni, luoghi e diritti > diventa impresa individuale. La solitudine diviene, trasversalmente, una > condizione di massa. > Quello che era lo spazio della politica diventa oggi lo spazio dei consumi. > > Chi è impegnato nel lavoro sociale deve costantemente confrontarsi, oltre che > con le problematiche dei quartieri, anche con le narrazioni stridenti che > parlano di rinascita e rigenerazione. > > La città è stata sostituita dal suo feticcio, la partecipazione ridotta ad > edulcorata organizzazione del consenso, la cittadinanza ha smesso di essere > l’insieme degli abitanti di un territorio diventando lo spazio della > competizione individuale all’accesso ai diritti. > Il racconto di una città diventa un operazione di marketing, il suo nome un > brand e la polvere del territorio viene nascosta sotto il tappeto di una > mappa, artefatta e pacificata. > > Ma la spinta fagocitante della merce non è mai totalizzante e incontra > continui piani di resistenza. Costantemente emergono pratiche di > attraversamento dei territori che sfuggono ad ogni ipotesi preordinata e > disegnano relazioni inedite. > > È importante allora pensare pratiche che rompano gli argini e tengano insieme > solidarietà, cura e conflitto. > > In un suo recente articolo sul rapporto tra Urbanistica, Architettura e > Politica, Marco Assennato scrive: > > “occorre domandarsi quale soggettività politica, quale livello istituzionale, > insomma chi può (chi ha sufficientemente forza per) «rallentare, selezionare e > diversificare la mobilità del capitale» e la sua riproduzione urbana? > Possiamo limitarci a redarguire i gestori degli enti locali – il Comune e i > suoi Municipi – per la loro mancanza di coraggio e ricordare agli > amministratori il loro dovere di difesa dei pubblici diritti contro i privati > interessi? > O non è forse necessario chiedersi perché mai ciò non accada praticamente più? > Ed avviare una ricerca, difficile, rigorosa ma possibile attorno a > contropoteri efficaci e realistici rispetto alla delirante dinamica del > capitale contemporaneo e delle sue politiche”. > > Il recente sgombero, dall’altra parte del paese, del Leoncavallo ha portato, > oltre che ad una straordinaria risposta solidale, anche ad una ripresa del > dibattito pubblico sugli spazi sociali, la cui importanza non è riducibile > soltanto ad un discorso sui dispositivi di repressione e resistenza. Bisogna > interrogarsi piuttosto sulle soggettività politiche adeguate alle attuali > trasformazioni urbane. > > Ci chiediamo in altro termini: a chi appartiene una città? > > Quali sono oggi i luoghi della politica e come pensare oggi una politica dei > luoghi? > Insomma, cosa può una città? > ___________ > Il programma completo della due giorni per i 5 anni di booq: > https://www.booqpa.org/amore-citta-e-altre-catastrofi-5-anni-di-booq-nella-galassia-kalsa/ Redazione Palermo
La Statale di Milano per la Pace
Il Senato accademico dell’Università Statale di Milano ha approvato nella seduta di oggi, 16 settembre, all’unanimità, la mozione “sulle violazioni dei diritti umani nella Striscia di Gaza” Di seguito il testo del documento approvato. Di fronte al perdurare inaccettabile dell’azione militare di Israele nella Striscia di Gaza e in  particolare alla luce del piano di occupazione militare di Gaza City, l’Università degli Studi di  Milano si unisce agli atenei italiani e internazionali e alle rappresentanze della società civile in tutto  il  mondo, soprattutto tenendo conto della risoluzione dell’11 settembre 2025 del  Parlamento Europeo, nella denuncia delle gravi violazioni dei diritti umani fondamentali accertate  e continuamente reiterate nella Striscia, ivi compreso l’uso della fame nell’ambito di una quella che ormai si configura come una guerra di sterminio dalle conseguenze di portata catastrofica.  L’Università Statale di Milano ripudia l’uso della violenza in ogni sua forma. Nel riaffermare sdegno  e condanna per l’ingiustificabile attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, nel reiterare la  richiesta di liberazione di tutti gli ostaggi, fermo restando che ogni persona, popolo e Stato ha diritto  alla sicurezza, l’Ateneo ribadisce tuttavia con forza che l’autodifesa non può in alcun modo implicare  azioni di guerra indiscriminate, tali da giustificare, secondo autorevoli istituzioni come l’Alto  Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR), Human Rights Watch, Amnesty  International e la Corte Internazionale di Giustizia, l’uso del termine genocidio. L’Ateneo condanna con determinazione ogni atto contrario al diritto internazionale, quali ad  esempio lo sfollamento forzato, la distruzione indiscriminata di edifici civili e l’impedimento  all’accesso agli aiuti umanitari, nonché l’uccisione di medici, paramedici e giornalisti. L’Ateneo  esprime profonda preoccupazione per il recente attacco alla Global Sumud Flotilla, effettuato con  l’obiettivo di ostacolare il passaggio di aiuti umanitari destinati alla popolazione civile, in chiara  violazione del diritto internazionale. Contestualmente l’Ateneo richiama l’assoluta necessità di un immediato cessate il fuoco,  dell’apertura di corridoi umanitari sicuri per soccorrere coloro che necessitano di urgenti cure  mediche e del rispetto delle Convenzioni di Ginevra. Ribadendo la necessità di una soluzione  politica fondata sul rispetto reciproco, l’Ateneo sottolinea l’urgenza di dare piena attuazione alle  risoluzioni delle Nazioni Unite e agli accordi internazionali che riconoscono il diritto  all’autodeterminazione del popolo palestinese.  Ma a poco valgono condanne e appelli se ad essi non si accompagna l’azione. Per questo motivo  l’Università degli Studi di Milano si è attivata concretamente bandendo e assegnando 22 borse di  studio a studentesse e studenti residenti nei Territori Palestinesi – quasi tutti nella Striscia di Gaza – nell’ambito di un’iniziativa nazionale, alla quale ha aderito con convinzione, integrandola con  fondi propri per ampliarne l’impatto e garantire un’accoglienza dignitosa e solidale. Al fine di  assicurare l’arrivo in Italia dei borsisti l’Università si impegna quotidianamente da settimane, di  concerto con le autorità competenti. L’Università degli Studi di Milano ribadisce inoltre il ruolo fondamentale delle università nella  società civile: esse sono non solo luoghi dove si costruisce il sapere, ma anche e  soprattutto istituzioni etiche, chiamate a formare coscienze oltre che competenze. Il motto della  Statale – Scientia illuminans dignum – è anche un monito a ricordare che la conoscenza è una  responsabilità: appartiene a chi la usa per costruire giustizia, libertà, dignità. Nel solco della propria  tradizione di impegno civile e accademico, improntata a questi principi, l’Università degli Studi di  Milano promuove da sempre il coinvolgimento attivo di tutta la comunità accademica in iniziative  di formazione, ricerca e cooperazione volte alla costruzione di una cultura della pace, della giustizia  e della solidarietà. È in questa tradizione consolidata che si colloca l’iniziativa “La Statale per la  Pace”, alla quale hanno aderito oltre 100 docenti e che vedrà la realizzazione, all’interno dei corsi,  di lezioni aperte al pubblico sul tema della pace declinato nelle forme specifiche delle varie  discipline. L’iniziativa vuole essere un invito a ricordare che la pace non è un concetto astratto, ma  una realtà vissuta in ogni ambito dell’esistenza.  L’Università degli Studi di Milano riconosce inoltre che la pace è un’impresa collettiva. Nel  riaffermare il ruolo centrale della cooperazione scientifica e didattica, l’Ateneo ribadisce che ogni  accordo di cooperazione accademica deve essere coerente con i diritti fondamentali, con la  promozione della pace, nonché con i diritti sanciti dal proprio Statuto e dal Codice di Integrità della  Ricerca.   In tale prospettiva l’Ateneo conferma che, stanti le attuali condizioni di grave violazione dei diritti  umani nella Striscia di Gaza – ma anche in Cisgiordania – in coerenza con i sopra citati principi, non  potrà che astenersi dal procedere a nuove stipule o rinnovi di accordi con università, istituzioni o  attori di altro tipo che siano direttamente o indirettamente implicati nelle violazioni attualmente in  essere. Nel rinnovare l’auspicio per un’immediata cessazione del conflitto in corso nella Striscia di Gaza,  nell’ottica della salvaguardia della vita, dell’identità e dell’autodeterminazione della popolazione ivi  residente, l’Università degli Studi di Milano si impegna infine a promuovere, in collaborazione con  le altre istituzioni accademiche nazionali e internazionali una posizione condivisa a sostegno della  pace e del rispetto del diritto internazionale.   Redazione Italia
Antisemitismo, antisionismo, razzismo: un libro e una riflessione a più voci
È stato presentato ieri all’Istituto Gramsci Siciliano il libro di Donatella Della Porta Guerra all’antisemitismo? Il panico morale come strumento di repressione politica (Altreconomia). Il prof. Nicosia, aprendo l’incontro, ha ricordato come il 7 ottobre costituisca una lacerazione politica ed etica che impone una ricostruzione storica. Il prof. Tommaso Baris dell’Università di Palermo ha conversato con l’autrice, dopo averla presentata: Donatella Della Porta è docente di scienze politiche alla Scuola Normale di Firenze ed ha pubblicato molti libri, fra i quali Proteste e polizie (Il Mulino) e No Global sui fatti di Genova 2001. Il suo ultimo scritto esamina l’accusa di antisemitismo usata oggi in Germania in quanto criminalizzazione delle critiche a Israele. Baris: L’antisemitismo è il lato oscuro della coscienza europea che si porta dietro la memoria dell’Olocausto e presume un progetto razzista più ampio, la discriminazione di Rom Sinti omosessuali etc. Ed è un problema non solo tedesco ma anche francese italiano norvegese ucraino polacco. La responsabilità dell’Olocausto è di tutta Europa e attiene alle destre. Com’è potuto accadere che adesso venga rovesciata sulle sinistre? Della Porta: A destra oggi il razzismo si rivolta contro i migranti. In Germania  si parla adesso  di “antisemitismo importato” dai migranti musulmani, dimenticando che un quarto dell’elettorato vota Alternative für Deutschland. È stata negata la connessione fra antisemitismo e razzismo in Francia Germania e Gran Bretagna, cioè proprio nei Paesi che più hanno contribuito alla Nakba. In Israele c’è stata la pretesa, da parte della destra nazionalista, di rappresentare uno Stato religiosamente “pulito”; la diaspora ebraica nel mondo, invece, continua a ripetere “Non in mio nome”. Anche in Germania gli ebrei antisionisti sono i primi obiettivi della repressione. Le “Voci Ebraiche per la Pace” sono state dichiarate associazioni estremiste. L’antisemitismo viene percepito come distaccato dal razzismo. È stato introdotto il “reato di comparazione”: parlare di genocidio è antisemita, paragonare Gaza a un ghetto è reato. Israele non può essere criticato, artisti e intellettuali ebrei ed ebree come Judith Butler o Nancy Fraser sono banditi. Baris: A proposito di comparazione, l’insistenza sul 7 ottobre ricorda l’interrogativo ripetuto contro la Resistenza “E allora le foibe?”. Colonialismo e nazismo, allora come oggi, e non solo rispetto alla Shoah ma anche per l’apartheid in Namibia e Sudafrica, per esempio, sollevano la questione della responsabilità. Della Porta: La memoria induce a chiedersi che fare. In Germania l’Olocausto è stato inteso come una parentesi nella storia gloriosa dell’Occidente. Io credo invece che la Resistenza continuamente rivisitata sia ancora attuale. I bambini arabi in visita ad Auschwitz si identificavano con le vittime, ma veniva detto loro che dovevano identificarsi con i colpevoli, distruggendo così la possibilità di empatia fra i popoli. È mancata la possibilità di costruire identificazione tra popolazione tedesca e palestinesi. È stato criminalizzato il boicottaggio, mentre qui da noi in Italia è stato possibile: al festival del cinema di Venezia, in occasione della partita di calcio con Israele, col movimento BDS, lo sciopero della fame dei lavoratori della sanità, l’iniziativa dei camalli di Genova, le mobilitazioni sindacali. Interviene a questo punto Giuseppe Lipari, collaboratore della prof. Della Porta presso la Scuola Normale di Firenze e si interroga sul che fare di fronte alla “soluzione finale” in Palestina. Anche in Italia, sostiene, viene oppressa la libertà e si muove la dinamica del “panico morale”. L’omicidio Kirk negli USA ha scatenato pure qui da noi accuse di violenza alla sinistra. Esiste poi un controllo governativo sui panel delle lezioni universitarie. Si connette da remoto Amal Khayal, responsabile del CISS a Gaza, dove ha perso tanti amici e parenti e che non manca mai di partecipare alle iniziative per la Palestina. Nel mio Paese non esisteva l’antisemitismo, spiega. I miei nonni convivevano con i vicini ebrei. Del resto, anche i palestinesi sono semiti! Ma il termine “antisemitismo” intende surrettiziamente solo l’odio contro gli ebrei. Il sionismo è altra cosa, è un’ideologia nazionalista, e dunque altra cosa è anche l’antisionismo. Che cosa può fare il movimento antisionista per i palestinesi? La campagna BDS può aiutare a bloccare il genocidio nella striscia di Gaza e così pure il dibattito nelle scuole e all’università. A questo proposito, Baris cita la mozione della Normale di Firenze che rifiuta ogni tipo di rapporto sia economico sia culturale con le istituzioni che collaborino alle azioni militari o alle occupazioni civili nei Territori. Questa mozione è stata definita antisemita, ricorda Dalla Porta: Ebrei allora e Palestinesi adesso sono additati come fonte del male dalle ideologie dell’estrema destra ostili alla cultura “woke” e al “gender”. Ma arte sport musica sono luoghi della politica: anche lì occorre praticare il boicottaggio e costruire solidarietà. Inoltre si può contribuire a fermare lo sterminio con aiuti concreti, come borse di studio per gli studenti profughi, come si fece con i profughi cileni dopo l’undici settembre 1973. Quanto alle scuole, la celebrazione della “giornata della memoria” il 27 gennaio in sé non è un errore né è propaganda, ma bisogna evitarne la banalizzazione e la strumentalizzazione, perché può rischiare di provocare “lo svuotamento semantico dell’antisemitismo” o peggio il suo rovesciamento razzista in chiave antipalestinese. Occorre non dimenticare che l’attuale genocidio in passato ha trovato sponda nel centro-sinistra: Biden e Scholz vendettero armi a Israele. Lipari conclude la serata invitandoci a guardare, pur nella tragedia, il lato positivo: il movimento internazionale, pur con tutte le sue contraddizioni, sta funzionando oltre la rassegnazione e il conformismo, come dimostra la Global Sumud Flotilla. Ci lasciamo proprio per raggiungere il presidio dell’equipaggio di terra alle 20 a Piazza Verdi, cui parteciperà anche Pif. Daniela Musumeci
In odio veritas: l’utilizzo fazioso del termine “odio” nell’agone politico
Basterebbe sfogliare un comune vocabolario di lingua italiana per capire la ricchezza di sfumature contenute nel termine “odio”, meglio se si va a ricercare la derivazione etimologica plurima. «Ira condensata e invecchiata nell’animo, che non si sazia mai, né si acquieta, se non con il disfacimento del nemico» (Francesco Bonomi – Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana). Un sentimento forte e persistente di avversione verso qualcuno, dunque, fino a desiderane il male o la rovina (che può essere rivolto anche contro sé stessi); ma anche, in senso più attenuato, un sentimento di ripugnanza, di contrarietà e intolleranza verso qualcosa che si cerca di evitare, dalla quale rifuggire. Il Vangelo di Luca riporta un detto di Gesù: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, […] e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14, 26); il latino della vulgata, traduce il greco οὐ μισεῖ con non odit, un’espressione che in ebraico significa mettere in secondo piano, amare di meno. La morte violenta, l’assassinio del giovane influencer MAGA, Charlie Kirk, è stata l’ennesima occasione per agitare le acque e utilizzare un evento tragico per rinfocolare accuse di fomentare l’odio politico in Italia. La stessa presidente del Consiglio non si è sottratta alla strumentalizzazione, anzi alla festa dell’UDC ha utilizzato la sua retorica polemica contro il matematico Piergiorgio Odifreddi, reo di aver affermato: «Sparare a Martin Luther King e sparare a un rappresentante Maga non è la stessa cosa». La Presidente ha stigmatizzato come spaventose le parole dell’Odifreddi. La modalità di utilizzo fazioso delle dichiarazioni si ripete in continuazione: si estrapola dal contesto di un discorso una frase, talvolta una sola parola, e si va addosso a colui o colei che viene considerato un avversario politico, più spesso un nemico da delegittimare. Nel nostro caso, lo stesso professor Odifreddi ha chiarito di essere assolutamente contrario a ogni forma di assassinio, citando il Vangelo e le parole di Gesù che dice: «Chi di spada ferisce di spada perisce». La posizione di chi rifiuta la violenza e si affida alla nonviolenza non può contemplare un atto violento. Purtroppo la storia degli Stati Uniti, fin dalla loro nascita, è costellata da numerosi assassinii politici, i più noti dei quali sono quelli del presidente J.F. Kennedy e di suo fratello Robert nella seconda metà del secolo scorso. In che senso allora “sparare a Martin Luther King e a un rappresentante Maga non è la stessa cosa”? La cosa in sé, il gesto dello sparare e l’effetto che produce quell’atto sono identici: la morte di entrambi. Perciò, senza alcuna giustificazione. Tuttavia, c’è una differenza nel vissuto delle persone: Martin Luther King ha predicato la nonviolenza e l’ha praticata nella lotta pacifica contro la discriminazione razziale negli USA, motivo per il quale gli è stato conferito il Premio Nobel per la pace; Charlie Kirk, è stato propugnatore dell’deologia MAGA (Make America Great Again). “Rendiamo di nuovo grande l’America” è lo slogan utilizzato da Trump durante le campagne elettorali del 2016 e del 2024. Il movimento MAGA predica l’odio e la violenza contro chi non ha la stessa visione della vita, la stessa provenienza territoriale, sociale o religiosa, la sopraffazione dell’immigrato, il suprematismo bianco, l’espulsione violenta dello straniero. Può, perciò, generare una reazione altrettanto violenta. Inoltre, se tutte le persone possono comprare le armi nei supermercati, come negli USA, la possibilità di utilizzarle è sempre dietro l’angolo. La cronaca quotidiana statunitense è drammaticamente stracolma di eventi tragici. “Bisogna essere disposti a pagare un prezzo – che un po’ di gente sia uccisa – pur di andarcene tutti in giro armati”, una delle affermazioni di Kirk. L’ideologia MAGA «sintetizza efficacemente l’ideologia populista e ultranazionalista del movimento, contrapponendo una presunta identità collettiva statunitense a ogni forma di diversità etnica e culturale e delegittimando politicamente e moralmente le forze di opposizione. Le implicazioni programmatiche di tale assetto ideologico sono costituite da strategie isolazioniste e protezioniste […], dalla negazione dei diritti civili alle categorie identificate come “altre” e dalla dismissione delle politiche sociali e di tutela ambientale contro cui Trump ha già assunto posizioni nette nel corso della sua presidenza […]» (in https://www.treccani.it/enciclopedia/eol-maga-make-america-great-again/ ). In Europa e anche in Italia, è la destra estrema che fagocita l’odio contro gli stranieri, i migranti per motivi economici e/o a causa di guerre e carestie, e i rifugiati politici. Non solo, ma discrimina le persone in base alla etnia, condizione sociale (rom, senza tetto), colore della pelle o al proprio credo etico e religioso, generando xenofobia e islamofobia. Personalmente, mi sento in piena sintonia con alcuni pensieri che ha condiviso con me Angel Sanz Montes, un amico spagnolo nonviolento: «Questo evento conferma, soprattutto, la tragedia di un Paese in cui l’accesso illimitato ad armi d’assalto, da guerra e alle loro munizioni più letali moltiplica la violenza e trasforma qualsiasi dissenso in tragedia. Da una posizione di nonviolenza, affermiamo che nessuna differenza, per quanto profonda sia, giustifica la soppressione di una vita. Se vogliamo davvero un futuro diverso, non si tratta di mettere a tacere con i proiettili chi la pensa in modo differente, ma di trasformare la cultura dell’odio e dell’esclusione che, da diverse fazioni, alimenta questa spirale. A volte una fazione non scelta. La via d’uscita può venire solo dal riconoscimento di ogni vita come preziosa e dall’impegno comune a risolvere i conflitti senza mai ricorrere alla violenza. Neppure alla violenza verbale o alle minacce, perché non sono che il preludio a un cammino discendente che termina in tragedie come questa: genitori devastati dal dolore, famiglie distrutte».       Pierpaolo Loi
Le case-lavoro, parcheggi di esseri umani
Questa mattina una delegazione di Radicali Italiani e Radicali Cuneo ha visitato la Casa-Lavoro di Alba, uno dei cinque istituti di questo tipo in Italia. «La particolarità di queste strutture è inquietante: non ospitano persone condannate per un reato, ma individui giudicati “socialmente pericolosi” – dichiarano Patrizia De Grazia e Lorenzo Roggia, tesoriera nazionale di Radicali Italiani e tesoriere di Radicali Cuneo –. Ogni anno il magistrato di sorveglianza decide, spesso in base a criteri arbitrari, se possano tornare in libertà. Il risultato è un vero e proprio parcheggio di esseri umani: luoghi che non si chiamano carceri, ma ne riproducono le logiche, con ancora meno garanzie. Internati provenienti da lunghi periodi in Alta Sicurezza convivono con persone affette da gravi problemi psichiatrici o da tossicodipendenze, in un contesto che non consente né cura né reinserimento lavorativo. La frustrazione è altissima – proseguono –: molti non sanno se e quando usciranno, non hanno legami con il territorio né rapporti familiari stabili. Le Case-lavoro finiscono così per diventare “non-luoghi”, dove individui sono esclusi dal diritto e il diritto stesso non li tutela. In questo clima di ostilità e disillusione, anche per agenti e operatori lavorare diventa difficilissimo. Case-lavoro che non sono case e non offrono lavoro non solo non risolvono nulla, ma producono nuovi e più gravi problemi – concludono. Redazione Italia
Una grande famiglia multietnica
Se ne parla ancora – troppo – poco, ma per accogliere i minori stranieri non accompagnati non ci sono solo le comunità. Esiste anche l’affido familiare, che, secondo l’ultimo rapporto del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sui minori stranieri non accompagnati presenti in Italia, riguardava al 30 giugno 2025 il 20,3% dei ragazzi migranti soli, per la maggior parte ucraini. Il report sui minori fuori famiglia, invece, al 31 dicembre 2023 contava 953 minori stranieri non accompagnati in affido familiare, pari a circa il 6% dei minori in affido, contro 7.706 Msna accolti in un servizio residenziale. Il calore di una famiglia, per un ragazzo, è sicuramente un’opportunità in più: permette una maggiore inclusione e un percorso più seguito verso l’autonomia. Ma si tratta di un’occasione di crescita anche per chi accoglie, come testimonia la storia di Federico Maria Savia e di sua moglie Alice, che hanno avviato una famiglia-comunità a Piobesi Torinese. Quanti minori stranieri non accompagnati avete avuto in affido? Ne ho avuti 14, insieme a mia moglie. Attualmente sono cinque, perché dal 2000 siamo una famiglia comunità. C’è anche un ragazzo di 22 anni che tecnicamente è un “ex affido” ma che continua a vivere con noi: è arrivato a 11 anni dall’Egitto, ha fatto un bel percorso, è diventato maggiorenne da noi e ha deciso di rimanere. Ora sta costruendo la sua autonomia: si è legato alla nostra famiglia ma anche al territorio. Di fatto ci aiuta: è diventato una specie di mediatore anche con i più piccoli. Tre dei cinque ragazzi che ora vivono con noi, infatti, sono egiziani. E gli altri due? Uno gambiano e uno albanese. Siamo otto in casa. In più, c’è una educatrice della cooperativa Terremondo, che è la proprietaria dell’immobile in cui viviamo. Ci dà una mano nelle commissioni quotidiane e nella gestione dei ragazzi. Come avete deciso di dedicarvi all’affido di minori stranieri non accompagnati? Siamo sposati dal 2004 – sono 21 anni – ma i figli non sono arrivati. Non ci siamo disperati, è andata così. Da sempre siamo stati attivi nel volontariato, nello scoutismo, i ragazzi in giro per casa non mancavano… siamo sempre stati sereni su questo. Nel 2015, siamo rimasti molto colpiti dalla storia di Alan Kurdi (il bimbo siriano il cui corpo senza vita è stato ritratto in un’iconica foto che è diventata simbolo delle stragi in mare, ndr). Abbiamo visto che c’erano tanti minori che mettevano a rischio la propria vita in questi viaggi. All’epoca abitavamo a Collegno, vicino a Torino, avevamo una camera in più per il figlio che non è arrivato e che mia moglie usava come laboratorio. Ci siamo detti: «Usiamo questo spazio per dare accoglienza». Siamo credenti, quindi abbiamo segnalato la nostra disponibilità a Sergio Durando, il direttore della Pastorale dei Migranti di Torino. Che ha rilanciato proponendoci l’affido. E voi? Siamo rimasti inizialmente un po’ spiazzati, ma poi abbiamo detto «ci siamo». Il primo affido è stato di un ragazzo di 16 anni, albanese, che era stato letteralmente sbattuto fuori da una comunità per minori di Torino perché aveva creato problemi. Viveva per strada. L’abbiamo accolto con qualche timore, perché avevamo un po’ di pregiudizi. Invece è andata bene: con noi il ragazzo è rifiorito, ha ripreso serenità. Così ci hanno chiesto di continuare con un secondo affido. In questo caso è arrivato Amir, il giovane egiziano che è ancora con noi: era il 2016. Poi la decisione di diventare famiglia-comunità. Con la cooperativa Terremondo e con Asai, un’associazione torinese che fa animazione interculturale, i servizi per i ragazzi stranieri e l’Ufficio migranti abbiamo cercato una casa più grande. L’abbiamo trovata a Piobesi Torinese. Alla casa abbiamo dato il nome di “Casa Aylan”, proprio perché siamo partiti toccati dalla vicenda di Alan Kurdi. La presenza dell’educatore è arrivata grazie al contributo della Fondazione de Agostini. Nel 2019 ci siamo trasferiti. Il primo ragazzo era diventato maggiorenne e ha deciso di rimanere a Torino, aveva già un lavoro. Continuate a sentire i ragazzi che sono stati con voi? Certo. Abbiamo incrociato tante storie diverse. Ci sono stati degli affidi di minori migranti che arrivavano dal viaggio in mare, oppure ragazzi albanesi che hanno fatto viaggi più sicuri. Per un breve periodo abbiamo avuto anche degli adolescenti afghani che arrivavano dalla rotta balcanica e che sono stati trovati su un camion in tangenziale mentre cercavano di passare in Francia. A casa con noi ci sono stati anche dei ragazzi sudanesi tramite il progetto “Pagella in tasca”, di Intersos e Caritas Italiana, dei corridoi umanitari che sono stati attivi per un po’, per portare in Italia dei ragazzi dai campi profughi in Niger. Quali emozioni vi guidano in questa esperienza? Per noi è una missione. Io sono medico, anche mia moglie lavora. Esprimiamo così la nostra genitorialità: non abbiamo avuto figli nostri e ci siamo ritrovati a essere mamma e papà di adolescenti maschi stranieri tra i 12 e i 20 anni. Lo facciamo anche come scelta politica, per dare testimonianza. Ci piace l’idea di sensibilizzare sull’affido, non solo degli stranieri, ma anche degli italiani. È un’esperienza bellissima e ci sono tante coppie che potrebbero “lanciarsi”. Qual è il vostro rapporto con le famiglie di origine dei ragazzi? Se le famiglie ci sono – alcuni sono orfani o i genitori non ci sono – è un rapporto molto sereno. Sono riconoscenti verso di noi; abbiamo avuto dei contatti, siamo andati in Albania e in Egitto a conoscere le famiglie di alcuni ragazzi, abbiamo ricevuto bellissime accoglienze da parte delle mamme e dei papà che ci manifestavano la loro gratitudine come potevano. In questo senso forse con i Msna è più facile rispetto all’affido di minori italiani che vengono da situazioni familiari complesse. Chiaro è però che bisogna avere la voglia di confrontarsi con una cultura diversa, avere la predisposizione all’accoglienza. Ci sono state situazioni in cui avete avuto delle difficoltà? Senz’altro. Ci sono difficoltà logistiche ma le abbiamo sempre affrontate bene, quindi non sono mai state un peso. Parlo dei documenti, delle iscrizioni a scuola, del rapporto con i tutori. Le complicazioni ci sono, ma sono tutte affrontabili grazie ai servizi che ci sostengono. Abbiamo fatto fatica con alcuni ragazzi, uno degli adolescenti sudanesi in particolare che era arrivato con dei traumi dalla Libia, manie di persecuzione che gli impedivano di stare sereno in comunità o con noi. Aveva paura di tutto, accusava gli altri, aveva creato un clima molto teso. Abbiamo cercato supporto psicologico e psichiatrico. Poi è diventato maggiorenne e ha chiesto l’autonomia. Ora ci sentiamo, ci scriviamo, ci vediamo, ci viene anche a trovare. Ma finché era in casa è stato complicato. Lei ritiene che l’affido sia il modo migliore di accogliere i minori stranieri soli. Come mai? Innanzitutto perché lo dice la Legge Zampa: la prima scelta dovrebbe essere l’affido familiare. Poi, perché l’abbiamo visto nella nostra esperienza: abbiamo conosciuto ottime comunità, ma anche realtà che fanno fatica a causa dei numeri elevati di ragazzi. La famiglia è un ambiente più piccolo, dove il ragazzo è tenuto maggiormente sotto controllo, in senso positivo. Non solo lo si gestisce meglio, ma si riesce a fare un percorso che lo porta ad avere un’autonomia maggiore; in più, spesso i ragazzi chiedono di restare fino ai 21 anni in famiglia riuscendo a prendere un diploma o una qualifica. Un ultimo elemento è che c’è un’inclusione maggiore: i minori in affido sono venuti con noi a delle funzioni religiose cristiane, noi siamo andati con loro ad altre funzioni musulmane. Vivono una vita più normale e vengono coinvolti nelle dinamiche di una famiglia, di una comunità, di un territorio. Redazione Italia
Cancellare Gaza, annettere la Cisgiordania, incendiare il Medio Oriente
Gaza Cancellare Gaza città e deportarne la popolazione. È l’ordine di Netanyahu all’esercito. In modo sistematico vengono bombardate le case con missili lanciati dai caccia, con bombe dell’artiglieria e attacchi con droni. Poi agiscono i robot esplosivi e i bulldozer. Ordini di evacuazione e bombardamenti non hanno ottenuto il loro risultato atteso dai criminali generali. “Non ce ne andremo. È la nostra città”, dice un bambino di 11 anni in un video. Una resistenza passiva e disarmata che affronta a mani nude la pioggia di fuoco israeliano. Più della metà delle vittime di ieri sono cadute a Gaza città. I resoconti giornalistici riferiscono di 72 uccisi in 24 ore. Il rapporto giornaliero del ministro della sanità riferisce di 38 uccisi nel sud della Striscia, fino a mezzogiorno di ieri. Non ci sono collegamenti telematici con gli ospedali del centro e del nord di Gaza. La statistica è parziale. Migliaia di palestinesi vagano nella notte da Gaza città verso sud, senza meta e senza ripari. Affamati, feriti e senza assistenza. Cisgiordania 1000 arresti in un giorno a Tulkarem. Le immagini che arrivano sui social sono terribili. La città è stata trasformata in un campo di concentramento all’aperto. Lunghe file di civili con le mani alzate attorniati da soldati super-armati. Vengono ammanettati e ammassati in una piazza, per essere interrogati. Rastrellamenti anche a Sha’afat. Ingenti truppe hanno invaso il campo profughi a nord di Gerusalemme est occupata. Hanno sparato pallottole di guerra contro i giovani che contrastavano la loro avanzata con il lancio di pietre. Due minorenni palestinesi sono stati feriti gravemente al collo e lasciati sull’asfalto per ore. Versano in gravi condizioni. Qatar Si sono svolti ieri a Doha i funerali di stato delle 6 vittime dell’attacco terroristico israeliano contro la sede delle trattative indirette Hamas-Netanyahu. Alla cerimonia ha partecipato Al-Hayya, il negoziatore politico palestinese che era oggetto dei missili di Tel Aviv. “Israele è un paese canaglia che intende incendiare il M.O. Con l’attacco su Doha ha evidenziato la mostruosità del sionismo espansionista”, ha scritto la testata on line Shorouk. Assemblea ONU Un voto sulla Palestina che ha segnato l’isolamento dei guerrafondai di Israele e Usa. La risoluzione di appoggio alla formula dei due stati ha ottenuto 142 voti a favore, 10 contrari e 22 astenuti. Tel Aviv e Washington si sono trovate in compagnia di Tonga, Micronesia e Palau… a dire no allo stato palestinese. Francia, Gran Bretagna e altri 10 paesi hanno annunciato il prossimo riconoscimento dello Stato di Palestina. Uno schiaffo diplomatico sonoro al militarismo ed espansionismo israeliano, che dovrà essere seguito da azioni concrete di boicottaggio delle armi agli aggressori genocidari. Global Sumud Flotilla Al via da giovedì la missione italiana con la Global Sumud Flotilla, la flotta civile in missione umanitaria verso Gaza per rompere il blocco di Israele e consegnare aiuti alla popolazione civile della Striscia sotto assedio. “Dall’Italia sono 18 le barche che partono per Gaza, sulle quali ci saranno 150/160 persone. Dalla Grecia partiranno sei imbarcazione con una settantina di persone. In questo momento ci sono anche delle barche più grandi. In tutto, dalla Tunisia, da Barcellona, dalla Grecia e da altri Paesi saremo circa 600 persone”, ha detto Maria Elena Delia, la portavoce della Flotilla italiana. Salpa da Siracusa anche la nave di Emergency, la Life Support. La nave di ricerca e soccorso dell’Ong fondata da Gino Strada sarà l’ultima a partire delle barche italiane dirette a Gaza, avrà il ruolo di osservatrice e offrirà supporto medico e logistico alle imbarcazioni che dovessero averne necessità. Emergency insieme alla flotta italiana si incontrerà poi con la delegazione internazionale. La Life Support offrirà assistenza sanitaria ai partecipanti, garantirà assistenza per riparare attrezzature tecniche danneggiate e contribuirà al rifornimento di acqua e viveri alle barche della flotta. “Emergency ha deciso di aderire a questa iniziativa promossa dalla società civile perché ha visto direttamente le condizioni della popolazione nella Striscia – dichiara Anabel Montes Mier, capomissione della Life Support di Emergency -. Lo staff, che lavora nella Striscia in due centri sanitari nel governatorato di Khan Younis riporta una situazione gravissima, mai vista prima. Di fronte al silenzio e all’inazione dei governi, l’ampia partecipazione dei cittadini alle manifestazioni a sostegno di questa cordata umanitaria è segno di una volontà di pace e giustizia che condividiamo e vogliamo sostenere”. Intanto presidi quotidiani permanenti si moltiplicano in tutte le città italiane a sostegno della Palestina e della Sumud Flotilla. ANBAMED
Festival delle Libertà: culture a confronto a Trapani
Positiva apertura, ieri, della seconda edizione del Festival delle Libertà a Trapani. Massimo Conti, autore de La Carta di Manden (Nardini Editore), ha presentato il suo saggio dedicato all’Impero del Mali e, soprattutto, ai suoi documenti: una sorta di Carta dei Diritti Umani che testimonia come la cultura africana medievale non avesse nulla da invidiare a quella europea. Questa cultura è stata tramandata per secoli oralmente dai Griots, i “comunicatori tradizionali”, figure a metà tra cantastorie e consiglieri. Grazie a loro sono giunti fino a noi la Carta di Manden (promulgata nel 1263 dall’imperatore Sundjata Keita) e il Giuramento dei Cacciatori, legato a una classe sociale fondamentale per l’economia mandinga. A dimostrarne l’attualità, alcuni articoli della Carta: * «Le donne, oltre che alle loro occupazioni quotidiane, devono essere coinvolte nei nostri governi». * «L’educazione dei bambini è a carico di tutta la società». * «Nel Manden non fate mai torto allo straniero». * «Veniamo in aiuto di chi ha bisogno». * «La regola è il totale rispetto dell’altro». Il Giuramento dei Cacciatori, dal canto suo, proclamava la libertà dell’essere umano di «dire quello che vuole dire», «fare quello che vuole fare», «vedere quello che vuole vedere». Un’anticipazione della libertà di pensiero, di azione e di movimento. Conti, nella sua presentazione, ha spiegato che le sue ricerche nascono dalla passione per i viaggi, soprattutto in Africa, e che la pubblicazione del libro vuole essere un segno di «riconoscimento dell’altro e delle altre culture». Ha denunciato inoltre come, con il colonialismo, l’Occidente abbia cancellato queste culture per sostituirle con valori imposti, spesso negativi, portati anche dai missionari cristiani. Significativo anche l’intervento dello storico Alessandro Gianfortone, che ha messo a confronto la Carta di Manden con altri testi coevi, come la Magna Charta inglese e la Costituzione di Menfi (Liber Augustalis del regno di Sicilia voluta da Federico II), sottolineando la modernità del documento africano: alla domanda «se nell’occidente del XIII secolo ci fosse qualcosa di simile», Gianfortone ha risposto «in verità non c’è nulla di tutto questo». Tuttavia, l’ultima certamente prevedeva principi meritevoli già per l’epoca quali la tutela anche delle religioni ebrea e musulmana e la libertà dello stato rispetto alle intromissioni del clero nella politica dello Stato. Dal pubblico è arrivata la critica a un vero e proprio “imperialismo dei diritti umani” praticato dall’Occidente [1], che tende a imporre sugli altri la propria prospettiva. Altri interventi hanno posto l’attenzione sui diritti degli animali: la Carta di Manden, già nel XIII secolo, includeva riferimenti per gli animali domestici e da fattoria. Di rilievo l’intervento di Carlo Incammisa (Club per l’Unesco di Trapani), che ha ricordato come la missione dell’Unesco sia diffondere una cultura di pace e salvaguardare le identità locali. Ha inoltre citato le proposte per includere tra i beni tutelati dall’Unesco, come già la Carta di Manden, anche le saline trapanesi. Nel suo contributo, Fabio Altese ha osservato come, in certi aspetti, i diritti umani odierni risultino più ristretti rispetto alla visione ampia e sostanziale contenuta nella Carta di Manden. L’incontro era stato introdotto da Natale Salvo (Sinistra Libertaria), che ha mostrato un quadro cubista raffigurante un volto scomposto dai colori contrastanti. L’immagine voleva rappresentare la pluralità di frammenti che costituisce l’identità umana e culturale, ricordando le dominazioni araba, spagnola, francese e sveva che hanno segnato la storia siciliana. Un messaggio chiaro contro i suprematismi e le pretese di un’identità “occidentale” unica. Il Festival delle Libertà prosegue oggi e domani con altri due incontri, sempre presso la Chiesa Valdese di Trapani alle ore 17: * Liberi di Imparare, con il prof. Maurizio Muraglia, dedicato al tema dell’educazione. * Pensare e credere altrimenti, con il prof. Salvo Vaccaro, centrato sulla laicità. — Fonti e Note: [1] In proposito alcune interessanti considerazioni sono esposte da Samuele Trasforini in “Universalismo dei diritti umani e imperialismo culturale” pubblocato l’8 giugno 2021 sul sito dell’associazione culturale Luigi Battei. Redazione Trapani
Blocchiamo tutto: la rivolta esplode in tutta la Francia
10 settembre: un movimento sociale non è mai scritto prima ma gli appelli di luglio e agosto sono stati rispettati (vedi qui alcuni video della rivolta: shorts/Jw8 , hshorts/n8qn, watch?v=0X8p5pcs3wc)_ Il movimento, nato in risposta alle proposte di bilancio dell’ex Primo Ministro François Bayrou, si è già manifestato nella regione di Parigi, a Montpellier, a Clermont-Ferrand, a Grenoble, La Rochelle, a Tolosa, a Rennes, a Strasburgo, a Marsiglia e alle 10 del 10 mattina la gendarmerie nationale ha contato 154 azioni e 4 000 manifestant* (probabilmente dieci volte di più). 105 persone sono state identificate. Sophie Binet, segretaria nazionale della CGT, ha segnalato che 715 scioperi in corso. In Bretagne le mobilitazioni sono considerate le più radicali con un bus in fuoco che blocca la tangenziale di Rennes. A Parigi, la tangenziale e i suoi accessi sono bloccati in più punti. Tanti liceei sono “bloccati”. Sabotaggi nei trasporti e grande raduno alle 11  davanti alla gare du Nord. A Marsiglia, tante azioni simultanee fra cui picchetto davanti un fabbricante di componenti di armamenti accusato di fornire Israele. A Lione, tensioni tra la polizia e manifestant*. La prefettura del Rodana a annunciato di aver disperso i gruppi dei bloccaggi. Una manifestazione partirà alle 12. A Toulouse numerose mobilitazioni bloccano la circolazione dei treni e un incendio bloca la linea Toulosa-Auch. Vicimo a Douai, l’accesso a un deposito Amazon è bloccato. A Caen il viadotto di Cadix è bloccato da quattro ore.  Con un vocabolario marziale, la prefettura del Rodano a annunciato d’aver ripreso uno a uno i blocchi stradali installati dai manifestant*. Student* arano presenti anche nei blocchi stardali in collera di fronte all’aumento dei costi d’iscrizione, in particolare per gli studenti stranieri e contro l’inazione del governo difronte al genocidio in Palestina: Siamo qui anche se Macron non vuole. La nomina di Sébastien Lecornu come nuovo capo del governo suscita ancora più indignazione. Il paese resterà ingovernabile. E’ la debolezza del governo e la collera del popolo. E’ totalmente ridicolo questo nuovo primo ministro. E’ l’apertura delle porte all’estrema destra. Macron non ascolta il popolo, non ascolta nulla. Non vuole mollare. La sinistra aveva vinto e lui rimette la destra al potere. Comunque durerà al massimo tre mesi, come gli altri. Mediapart     Salvatore Turi Palidda