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Inventare il comune - Sovvertire il presente

Per Paolo Virno
Segnaliamo alcuni fra i molti ricordi di Paolo Virno che sono stati pubblicati all’indomani della sua morte. Francesco Raparelli, E ci mancheranno «le parole per dirlo». Paolo, ciao, su Dinamopress: > Succede, nella vita, che si impara a parlare una seconda, una terza volta, e > ancora. A me, così è accaduto con Paolo Virno. Paolo Virno era un filosofo, > quindi un artista delle parole. Uno che afferrava cristalli di pensiero, > un’idea di mondo, nelle regole grammaticali. Uno che non aveva mai perso di > vista ciò che conta, ovvero che pensiero e prassi sono tutt’uno con le > preposizioni: “con”, “tra”, “fra”. Si agisce e si pensa con le altre e gli > altri, tra le altre e gli altri, fra una cosa e l’altra. Nel mezzo – senza > principio né fine. > > Aula 6 di Lettere, Sapienza, primavera del 1998. Per ricordare l’anno 1968, > presentavamo il libro di Bifo dedicato a Potere Operaio. Comparve Paolo. Il > corpo, senz’altro – così alto. Ma il corpo con la parola, con una parola che > sapeva farsi corpo con i gesti delle mani, con la voce e il suo volume > cangiante, imprevedibile. Filosofo del linguaggio, del linguaggio di Paolo > mancava qualcosa senza vedere le mani, e la braccia, con quei movimenti ampi, > quasi preparassero la scena dell’enunciato. «L’inserzione del linguaggio nel > mondo», avrebbe detto lui. Christian Marazzi, Scavare il linguaggio: l’insegnamento di Paolo Virno, su Effimera: > > Dobbiamo scavare marxianamente nel linguaggio, ma nel linguaggio ormai interno > ai processi produttivi, il linguaggio messo al lavoro dopo la crisi del > fordismo. Così ci diceva Paolo, definendo un programma di lavoro collettivo di > lungo corso per costruire le nuove armi della lotta della moltitudine. > Convenzione e materialismo è del 1986; è in quel libro che, per la prima > volta, si parla del computer come “macchina linguistica”, la tecnologia che ha > determinato la svolta linguistica dei processi di digitalizzazione e > valorizzazione dell’economia, del mondo, della vita. In parte lo scrisse in > prigione, nella cella in cui si trovavano anche Toni Negri e Luciano Ferrari > Bravo. Luciano una volta mi descrisse il ticchettio della macchina da scrivere > di Paolo intento a scrivere i suoi testi: lento, con lunghe pause tra una > parola e l’altra, come se Paolo accarezzasse ogni lettera, come se ogni parola > fosse un corpo in divenire. Sembrava che le stesse ascoltando quelle parole, > scendendo nella profondità della loro verità, della loro carnalità. A volte > usava parole arcaiche, quasi a significare una storia iniziata da molto tempo, > la storia della lotta di classe. Giuliano Santoro, Sostanza di cose sperate, su Jacobin Italia: > «Una cosa è far finta di aver letto Schumpeter o Keynes e una cosa è far finta > di aver letto il ‘Libretto’ di Mao» così, con la consueta divertita ironia, > che nascondeva con fare dinoccolato e sorrisi velati da malinconia, Paolo > Virno raccontava la postura teorica-politica di Potere operaio, gruppo al > quale aderì da adolescente nel 1969. Lo diceva per esprimere ciò che ne aveva > tratto: la larghezza degli orizzonti culturali, la necessità di misurarsi coi > giganti, anche lontani o nemici, per andare alla radice delle contraddizioni.  > > Con le certezze che ci consegna il senno del poi, possiamo dire che quella > vastità di riferimenti è stata anche la condizione del durare a lungo. In > fondo, una delle caratteristiche di Virno e di molti dei suoi compagni e > compagne è stata quella di aver mantenuto questa ottica rivoluzionaria senza > rigidità, di non aver chiuso la porta ai mutamenti costanti del capitalismo e > di averli guardati negli occhi per coglierne le contraddizioni e le > opportunità liberatorie. Senza perdere radicalità ma senza abbandonarsi a > rimpianti. L'articolo Per Paolo Virno proviene da EuroNomade.
Un apripista dell’esodo dotato di ottima mira
di MARCO BASCETTA. Quanto più lunghe e intense sono le storie e intrecciate le esperienze, le sensibilità, le idiosincrasie; quanto più sono numerosi gli scambi, gli azzardi e i ricordi condivisi, tanto meno si sa da che parte cominciare. Perché non, allora, da una piccola rubrica che si affiancava a più impegnative riflessioni nella rivista Luogo comune che, all’inizio degli anni Novanta, aveva messo al lavoro intorno a un nucleo tematico essenzialmente imbastito da Paolo un gruppo di compagni, amici vecchi e nuovi, intellettuali e militanti, interessati a misurarsi con quanto fosse cambiato nel decennio appena trascorso degli anni Ottanta. Si chiamava, quella rubrica, «Citazioni di fronte al nemico», riferendosi alla ricorrente sequenza Western (ripresa anche da Quentin Tarantino) nella quale il pistolero, prima di sparare, declama un versetto della Bibbia. Ebbene, gli articoli di Paolo, i suoi saggi brevi (e non solo quelli con una finalità politica più diretta) costituiscono uno straordinario catalogo di «citazioni di fronte al nemico», tratte e rielaborate da uno studio vasto e rigoroso e rese acuminate da grande passione politica e ottima mira. Mai il lavoro di Paolo è stato privo di un bersaglio, anche se a un certo punto della sua vita ha sentito il bisogno di separare nettamente la militanza politica dalla ricerca filosofica. Non certo per negarne l’imprescindibile connessione e la reciproca necessità in un mondo, quello della merce immateriale, nel quale senza metafisica la vita concreta sarebbe rimasta imperscrutabile. Piuttosto per suggerire rigore e concentrazione delle energie. Due compiti tanto decisivi come la ricerca e la lotta, riteneva Paolo, non potevano essere svolti a metà, con approssimazione, salvo in momenti di eccezionale precipitazione e condensazione degli eventi storici. Ancora oggi non so se avesse fino in fondo ragione. Molti di noi, abituati a vivere proprio in quella zona grigia in cui si mescolano i tempi lunghi della riflessione e della ricerca con l’urgenza dell’agire politico, ne rimanemmo spiazzati. Ma anche se lo strumentario filosofico di Paolo si faceva più indiretto e raffinato, mai rinunciando tuttavia a un esemplare sforzo di chiarezza, la radicalità del suo pensiero continuava ad alimentare la cultura e l’inventiva dei movimenti. E, inevitabilmente, nella lettura degli eventi e dei mutati climi, torniamo sempre a misurarci con qualche suo insegnamento filosofico, o con qualche folgorante «citazione di fronte al nemico». Anche ora che non potremo più ascoltarlo scherzoso e serissimo, serissimo proprio perché scherzoso, intendendoci al volo al tavolo di un bar. Solo negli ultimi anni, lasciato l’insegnamento, Paolo aveva manifestato l’interesse a ritrovare un rapporto più diretto con la battaglia politica. Ne parlavamo spesso, ma non siamo riusciti a trovare una strada all’altezza della radicalità a cui aspirava. Se la parola «compagno» ha un senso, non orribilmente usurpato o pigramente abitudinario, è per me quello che Paolo sapeva conferirle, un significato di amicizia e affetto, speranze ed entusiasmi condivisi, intelligenza collettiva e libertà individuale. Parola serissima e scherzosa ad un tempo con la quale ha scelto di salutarci me e Andrea Colombo ancora una volta lo scorso giovedì mattina. Parola che non certifica certo l’appartenenza alla cosa chiamata sinistra, ma il distacco, l’esodo da una terra inaridita e ostile. Ancora una volta un ricordo e un’ironica citazione possono venirci in soccorso. Facendo il verso agli esponenti del Psi che negli anni Sessanta amavano definirsi la sinistra non marxista, Paolo aveva coniato per sé e per il piccolo gruppo di Luogo comune la definizione di «marxisti non di sinistra». Si intendeva con questo epiteto l’impiego e il rinnovamento di uno strumentario critico non annacquato dalle culture del compromesso, né infettato da fascinazioni populiste. Un pensiero saldamente ancorato nella tradizione materialista in attesa però di essere tratta fuori dalla sua condizione di indigenza teorica. Compito per il quale Paolo aveva scelto la strada non proprio agevole della filosofia del linguaggio. Una strada che richiedeva impegno a tempo pieno. Nondimeno, anche nei lavori più strettamente filosofici non è raro imbattersi nei suoi bersagli politici di sempre (lo stato, il popolo, il lavoro salariato) nonché nelle caustiche «citazioni di fronte al nemico». Quanto possa mancare un affetto tanto lungo e importante, nato nelle aule di un liceo romano 56 anni fa, l’interrompersi sempre brusco anche quando non è inatteso di un rapporto di vicinanza su cui poter sempre contare, confesso di non essere in grado di scrivere. Mi affido allora a un’ultima citazione cinematografica cara a Paolo e che spesso ci siamo scambiati. Caro amico «che te lo dico a fa’?». L'articolo Un apripista dell’esodo dotato di ottima mira proviene da EuroNomade.
New York, Mamdani e la città come campo di possibilità
di UGO ROSSI. L’ascesa di Zohran Mamdani a sindaco della città di New York ha rappresentato per molti una sorpresa perché si è abituati ad associare New York al dominio della finanza di Wall Street, alla gentrification senza limiti dei suoi quartieri più iconici, alle misure di tolleranza zero verso poveri e homeless e alle iniziative di rigenerazione urbana a beneficio delle classi alte sponsorizzate nei decenni scorsi da una sequela di sindaci senza scrupoli: in particolare, il sindaco conservatore Rudolph Giuliani negli anni Novanta, il magnate delle telecomunicazioni Michael Bloomberg negli anni Duemila e ancor prima il sindaco democratico Ed Koch negli anni Ottanta. Per circa mezzo secolo, dalla metà degli anni Settanta a oggi, New York è stata un avamposto della controrivoluzione neoliberale che ha investito le città di tutto l’Occidente e di larga parte del pianeta. L’ascesa politica di Mamdani non giunge però inattesa se si guarda agli avvenimenti degli ultimi anni. Anzi, tale ascesa non nasce dal nulla, ma può essere considerata l’esito di tre significativi momenti di protesta e insorgenza collettiva che hanno segnato la storia recente della città. La prima mobilitazione prende forma in risposta all’annuncio nel novembre 2018 da parte dei vertici di Amazon, il gigante del commercio online, di aver scelto un’area del distretto del Queens a New York come una delle due sedi dei suoi second headquarters. Amazon promette di portare con sé 25mila posti di lavoro nel settore tecnologico. Il sindaco di New York Bill De Blasio offre in cambio 3 milioni di dollari di incentivi ad Amazon. Sarà la fine della sua popolarità di sindaco vagamente progressista. In breve tempo, De Blasio deve tornare sui suoi passi, ritirando la proposta di incentivi, perché la società civile di New York reagisce senza esitazioni per fermare il progetto che avrebbe avuto un effetto devastante sulla vivibilità urbana, in particolare sul mercato delle abitazioni, già con prezzi alle stelle. Nel febbraio del 2019, Amazon annuncia il ritiro del progetto. La mobilitazione vincente contro Amazon del 2018-19 sancisce la priorità della housing crisis, ossia della crisi abitativa nella politica cittadina, un tema oggi ripreso con forza da Mamdani che nel suo programma ha proposto misure drastiche di regolamentazione degli affitti  e del mercato immobiliare, insieme ad altre misure di contenimento dell’aumento del costo della vita. La seconda mobilitazione che prepara il terreno all’ascesa politica di Mamdani avviene a fine maggio del 2020, nel mezzo della pandemia Covid che a New York si era fatta sentire con particolare intensità, generando un parziale spopolamento della città.  Come in molte altre città degli Stati Uniti, a New York si insorge per protestare contro l’uccisione in strada da parte della polizia dell’afroamericano George Floyd avvenuta a Minneapolis, nello stato del Minnesota. All’indignazione per la brutale uccisione di un uomo inoffensivo si accompagna la proposta di un vero e proprio programma politico incentrato sulla demilitarizzazione delle città e sul definanziamento delle forze di polizia. Queste richieste assumono particolare valore in una città come New York dove la gestione securitaria dell’ordine pubblico è stata un tratto distintivo della sua controrivoluzione neoliberale. Infine, a partire dall’ottobre del 2023 New York diventa uno dei punti nevralgici negli Stati Uniti delle proteste contro il genocidio della popolazione palestinese e la distruzione di Gaza da parte del governo israeliano, in particolare con gli accampamenti studenteschi nel campus della Columbia University  situato nel cuore della città, tra Manhattan e Harlem. Nel marzo di quest’anno, l’arresto immotivato e la successiva detenzione con minaccia di espulsione all’estero di Mahmoud Khalil, studente di origini straniere della Columbia protagonista delle mobilitazioni dei mesi precedenti, sono diventate il simbolo della repressione che si è abbattuta sul movimento per la Palestina ad opera dell’amministrazione Trump. Le proteste contro la politica israeliana di aggressione coloniale assumono particolare significato in una città come New York dove le elite politiche cittadine sono tradizionalmente schierate in sostegno di Israele, al punto che tutti i sindaci che si sono succeduti nella città dal secondo dopoguerra a oggi si sono recati periodicamente in visita in Israele per esprimere il proprio sostegno al governo in carica. Di qui si spiega il livore dell’establishment newyorchese nei confronti di Mamdani, da sempre solidale con la causa palestinese. La successione di queste lotte mostra come sia stata possibile l’elezione di un sindaco socialista e multietnico come Zohran Mamdani, in una città segnata da decenni di inarrestabile gentrification e politica securitaria di “sanificazione” dello spazio pubblico urbano dalle sue componenti più irregolari e resistenti.  L’esperienza di New York ci consegna un messaggio che è importante raccogliere: nella sua complessità di organismo vivente, la città resta un campo sempre indeterminato di possibilità per una politica di rottura con l’ordine capitalistico e neoliberale.                    —– Tre libri per capire la storia recente di New York. Miriam Greenberg, Branding New York: How a City in Crisis Was Sold to the World. Routledge, Londra e New York, 2009. Ricostruisce la politica di marketing urbano che rese attraente l’immagine di New York agli occhi degli investitori immobiliari negli anni Ottanta, preparando il terreno ai processi di gentrification e ristrutturazione urbanistica degli anni successivi. Neil Smith, The New Urban Frontier Gentrification and the Revanchist City. Routledge, Londra e New York, 1996. Offre un’analisi critica dei processi di gentrification a New York e dei movimenti di protesta che si svilupparono per fermarne l’avanzata tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta. Samuel Stein, Capital City. Gentrification and the Real Estate State. Verso, Londra, 2019. Esplora la penetrazione del potere immobiliare e finanziario nel funzionamento ordinario dell’amministrazione locale e in particolare nel settore della pianificazione urbana, avanzando la definizione di “stato immobiliarista”. Un’analisi che riecheggia le vicende di città italiane, come Milano travolta nei mesi scorsi dagli scandali sulla collusione dell’amministrazione comunale con gli investitori immobiliari. L'articolo New York, Mamdani e la città come campo di possibilità proviene da EuroNomade.
Presentazione Teiko a Napoli il 7 novembre
Venerdì 7 novembre ore 18 allo Scugnizzo Liberato presentazione di Teiko con: Giro Amendola, Maria Teresa Annarumma, Miguel Mellino, Tiziana terranova L'articolo Presentazione Teiko a Napoli il 7 novembre proviene da EuroNomade.
Martedì 4 novembre a Bologna: incontro con Fedrigo Nunes
Segnaliamo l’incontro con Fedrigo Nunes a Bologna il 4 novembre: in occasione del suo Né vericale né orizzontale Tour, l’autore dialogherà con Wu Ming 1, Enrico Gullo e con la redazione di Teiko. L'articolo Martedì 4 novembre a Bologna: incontro con Fedrigo Nunes proviene da EuroNomade.
“Né veritcale né orizzontale”: alcune note sulla proposta di Rodrigo Nunes
di GIROLAMO DE MICHELE. Pubblicato nel 2020, il libro di Rodrigo Nones Né verticale né orizzontale. Una teoria dell’organizzazione politica (Alegre, 2025) esce in traduzione italiana in queste settimane, accompagnato da un giro di presentazioni dello stesso Nunes. In verità, non avendolo potuto pressentare all’uscita, Nunes era poi venuto in Italia nel 2022: ma adesso, con la traduzione a mano – e, cosa non da poco, con la disponibilità dell’autore di presentarlo e discuterlo in italiano – le presentazioni consentono una discussione e un approfondimento dei contenuti (cui si giova il sottoscritto). Aggiungo che sul primo numero di Teiko, dedicato all’enigma dell’organizzazione, lo stesso Nunes ha discusso le sue tesi. La pubblicazione del 2020 cadeva in un momento in apparenza propizio, venendo dopo un ciclo di mobilitazioni internazionali, che hanno però dovuto fare i conti con il loockdown; la sua traduzione circola oggi in un’Italia attraversata dalle mobilitazioni contro il genocidio di Gaza, sfociate nelle piazze stracolme del 22 settembre e 3 ottobre: per quanto casuale possa sembrare (ma dalla prospettiva ecosistemica di Nunes il “caso” non esiste…), è un’ottima occasione per mettere a verifica la sua teoria. Prima di entrare nel cuore della proposta di Nunes, esemplificato dal titolo, conviene forse partire dalle ultime pagine, nelle quali è dichiarato l’orizzonte entro il quale va considerato il rapporto fra movimenti e organizzazione: il riscaldamento globale, e l’imprescindibile necessità di invertire il processo clmatico prima che diventi irreversibile. Partire dalla lotta al mutamento climatico, ossia a un evento epocale che prende le mosse dalla rivoluzione industriale, significa avere un approccio ecologico sia sul piano della prassi – allargare la potenza dei movimenti fino all’ampiezza necessaria per combattere questa lotta; sia sul piano teorico – elaborare una strategia ecologica nel metodo, e nell’episteme. In altri termini, l’ecologia diventa una modalità di enunciazione collettiva che tiene insieme le cose da fare e le parole per dirlo: concatenamenti collettivi di enunciazione, insomma. La proposta di Rodrigo Nunes sembra muoversi fra un assunto di sapore foucaultiano, e una proposta guattariana: si tratta di infatti di cambiare l’ordine del discorso sul rapporto partito-movimento, e di ottenere un effetto terapeutico che liberi i movimenti dalla doppia malinconia, esito delle sconfitte, a fasi alterne, tanto delle esperienze organizzate quanto di quelle spontanee, che porta a rifiutare l’approccio organizzativo in favore dello spontaneismo, e viceversa. Un doppio rifiuto che retroagisce, in un perverso feedback negativo, sulle macerie psichiche lasciate dai movimenti del passato. In realtà bisognerebbe riconoscere in questo doppio rifiuto preconcetto un doppio movimento simultaneo, un doppio vincolo – una schismogenesi simmetrica, afferma Nunes citando Bateson (un autore la cui epistemologia ha un ruolo ancor più importnate di quanto non sia dichiarato). Di fatto, sostiene Nunes, nessun movimento “spontaneo” è davvero privo di una struttura organizzativa; così come la presenza di un momento organizzativo non per necessità comporta l’affermazione di UN unico modello-ombrello sotto il quale forzare ogni ambito della prassi. Per Nunes la questione dell’organizzazione è imprescindibile nella lotta al riscaldamento globale: non è pensabile che un processo ecosistemico di questa ampiezza possa essere arrestato da una miriade di picocle azioni quotidiane o “locali”. Ma va modificata in modo radicale la grammatica tradizionale della questione organizzativa, che presuppone la domanda su quale sia la forma organizzativa più adatta a svolgere quella funzione-ombrello di cui si è detto. La grammatica ecologica proposta da Nunes parte dal presupposto che, secondo un approccio ecosistemico, non c’è mai una forma ideale, ma ci sono sempre una pluralità di forme a gradi. Non si tratta quindi di cercare una ecologia ottimale o perfetta, ma di chiedersi quale sia la potenzialità insita in una ecologia: non potestas, ma potentia. Questa nuova grammatica, che segue il ritmo dell’approccio ecologico, porta a orerare una risignificazione di alcuni termini chiave (Deleuze avrebbe forse detto parole-baule). La direzione politica deve funzionare come funzione distribuita: la leadership esiste nella misura in cui esiste una funzione di innovazione, cioè di novità all’interno dell’ecologia, e dura fino a quando questa funzione viene riconosciuta. Così come la funzione di avanguardia non è più quella di marciare avanti ai movimenti, ma diviene un evento contingente e sperimentale: un’iniziativa si muove attraverso le decisioni e le iniziative dei gruppi che compongono l’ecologia, ed chi in quel momento esercita tale funzione è un’avanguardia contingente. Nunes sostiene che il ruolo delle avanguardie quale si è dato in passato fosse legato a una visione deterministica della storia come processo; in alternativa a questa visione, propone una episteme aggiornata al livello dei sistemi scientifici contemporanei, secondo la quale ogni momento del sistema è già sempre organizzato – ma non in modo eteronomo, dall’esterno, bensì dall’interno. Questo approccio non comporta però una sorta di effetto-testimone di Geova, ovvero andare casa per casa a citofonare agli “organizzativisti” o agli “spontaneisti” duri e puri per spiegar loro un po’ di teorie scientifiche (sarà il caso di ricordare che, lasciando da parte Lenin e il suo rapporto con Mach, Stalin la meccanica quantistica la conosceva, e non è per accidente che ha stroncato il suo sviluppo nell’URSS). Piuttosto, si tratta di uscire dalle secche mentali che ci fanno categorizzare secondo la falsa opposizione fra spontaneo e organizzato la nostra comprensione del mondo. Un approccio volontaristico, certo: che comporta la necessità di camminere con i piedi nelle scarpe dei movimenti e delle mobilitazioni che si stanno dando, a livello globale, oggi. Resta, a chi scrive, una perplessità teorica. Nunes legge Spinoza (e una la sua lettura di Spinoza in chiave polemica verso Negri e Hardt, collocati fra gli “spontaneisti”) come portatore di una posizione che non afferma che “tutto dovrebbe essere autorganizzato – meno ancora che lo sarà, data la critica di Spinoza alle cause finali – ma riconoscere che ogni cosa lo è già“: il che, oltre a disincantare la natura come autorganizzazione, riconoscendo che non è “dalla nostra parte”, non essendo né buona né cattiva, porterebbe in luce un errore nello spinozismo negriano, che legge nella moltitudine una finalità immanente. È certo vero che per Spinoza ogni elemento del reale è in sé organizzato: la servitù della mente esprime un livello di potenza e di organizzazione, tanto quanto lo esprime la mente liberata. Ma non si può certo dire che per Spinoza le due condizioni siano equivalenti, né che il pensiero e la prassi della liberazione implicano una causa finale, cioè un teleologismo: è una potentia essendi, e potenza di essere ve ne è sempre. Se la moltitudine è sempre pensabile come all’altezza del compito di liberazione, non è per un qualche nascosto provvidenzialismo, ma per la sua composizione politica in quanto forza lavoro: per le potenzialità insite nel suo essere parte del processo produttivo – come, per fare un esempio, il rider che riesce a riprogramare il telefonino, strumento di asservimento al sistema distributivo just in time, per convocare una chat di rider insubordinati e organizzare uno sciopero per superare uno stato del sistema con uno nel quale i diritti dei lavoratori siano a un più avanzato livello. Tornando infine a Nunes: il suo è il libro, ossia una proposta, che parla di politica non in astratto, ma “con il soggetto dentro”, pur essendo al tempo stesso privo di soggetto, nella misura in cui non propone un modello ideale da imitare: nondimeno, la prassi cui il libro – e il suo autore stesso – chiamano è quella che assume l’orizzonte politico più ampio, cioè quello della rivoluzione, non come risposta possibile, ma come l’unica risposta che ha la possibilità di affrontare la questione climatica. Un movimento reale, in conclusione, che non può che proporsi come obiettivo la distruzione dello stato di cose esistente: camminando, come s’è detto, con i piedi nelle scarpe dei movimenti L'articolo “Né veritcale né orizzontale”: alcune note sulla proposta di Rodrigo Nunes proviene da EuroNomade.
Capital and the Global War Regime
di SANDRO MEZZADRA e MICHAEL HARDT. Segnaliamo questo testo di Sandro Mezzadra e Michael Hardt, che inaugura il progetto Portolan, un blog collegato a South Atlantic Quarterly: Portolan, the project we inaugurate with this essay, is both international and internationalist. It aims to include authors and address political issues that arise from a range of national, regional, and local contexts, and, at the same time, to highlight correspondences among political situations and solidarities among movements across a wide variety of borders. Although we use the language of international relations and the international world in a rather conventional way, we are well aware of its limits for grasping the interconnections and superpositions that characterize today the structures of domination and the struggles for liberation. Portolan’s focus on the world scale does not lead us to neglect other levels of analysis. It rather provides an angle from which to investigate various issues, including social reproduction, the operations of capital, race and racism, patriarchy, and the exercise of political rule. These and other domains will figure prominently in Portolan, and we endeavor to explore them while giving priority to the standpoint and methods of social struggles. The reference to nautical maps in the project’s title is a gesture towards the need to forge new conceptual tools for navigating the turbulence of the global present. Il testo Capital and the Global War Regime è qui. L'articolo Capital and the Global War Regime proviene da EuroNomade.
Francesca Albanese: “Il genocidio di Gaza. Un crimine collettivo”
di GIROLAMO DE MICHELE. scarica qui la versione in italiano del nuovo rapporto di Francesca Albanese (di Girolamo De Michele) qui la versione originale in inglese Lo scorso 16 ottobre Masha Gessen ha pubblicato sul New York Times un lungo intervento su Francesca Albanese, intitolato Her Optimism Has Won Her Some of the Most Powerful Enemies in the World. Si tratta, scrive Gessen, del “primo di una serie di articoli sui nuovi ed emergenti tentativi di mantenere la promessa di giustizia internazionale”, nel momento in cui le grandi potenze occidentali stanno operando per far sì che il diritto internazionale umanitario – che non hanno mai amato – resti a lettera morta. Masha Gessen, ebrea russa dissidente, profuga di fatto (in Russia è stata condannata in contumacia a 8 anni di prigione per aver diffuso “false notizie”), è un’editorialista di peso nella grande stampa statunitense, e non solo. È significativo che la sua inchiesta sullo stato critico del diritto e dei diritti nel mondo occidentale prenda l’avvio con un testo su Francesca Albanese. Ed è ancor più significativo il suo punto di vista, per l’autorevolezza sua e del giornale che la ospita, in confronto alle miserie degli organi di stampa italiani, ormai indistinguibili dai Bar Sport social, i cui frequentatori sono impegnati in una squallida campagna di linciaggio mediatico contro la Relatrice speciale dell’ONU sulla situazione dei diritti umani nella Palestina occupata da Israele. Campagna sulla quale non vale spendere parole – se non per ricordare che questo linciaggio mediatico è cresciuto in modo esponenziale da quando Albanese ha reso note le collusioni (e i profitti) di una cinquantina di grandi aziende globali con il genocidio in atto a Gaza. È in questo contesto che cade la pubblicazione del nuovo rapporto di Albanese Gaza genocide. A collective crime. Un rapporto il cui contenuto potrebbe essere sintetizzato parafrasando il celeberrimo (ancorché apocrifo) scambio di battute fra Picasso e un ufficiale nazista davanti a Guernica: – L’ha fatto lei questo rapporto immondo? – No: lo avete fatto voi. Il contenuto di questo settimo rapporto della Relatrice speciale ha infatti per oggetto il ruolo degli Stati terzi nel sostenere e supportare il genocidio attuato da Israele con il commercio di armi, che era già illegale, stante le norme vigenti, prima del 7 ottobre, e dovrebbe esserlo oggi a maggior ragione. Basti dire che si fatica a trovare qualche Stato con le mai pulite, e l’Italia non è certo fra questi pochi. Cosa si intende qui per “armi”? Non soltanto quelle fatte e finite: ma anche componenti, parti, segmenti della catena militare – ad esempio, i pezzi di ricambio degli aerei F-35. Nonché i prodotti dual-use, cioè quelli che formalmente non sono armi, ma che possono essere impiegati come tali. Per capire di quali violazioni si tratti basta leggere il paragrafo 6 del rapporto: > Il diritto internazionale impone a tutti gli Stati una serie di obblighi per > rispettare, prevenire e porre fine alle violazioni, ovunque si verifichino. > Nel contesto dei Territori Palestinesi Occupati (TPO), i più rilevanti sono: > > > > (a) Tutti gli Stati hanno obblighi diretti nei confronti del popolo > palestinese, in particolare l’obbligo di rispettare il suo diritto > all’autodeterminazione e alla libertà dall’apartheid e dal genocidio, e nei > confronti dello Stato di Palestina, nel rispetto dei principi di non > interferenza, integrità territoriale, indipendenza politica e autodifesa. > > (b) Obblighi erga omnes derivanti dalla grave violazione di norme imperative – > l’obbligo di rispettare l’autodeterminazione del popolo, il divieto di > genocidio, segregazione razziale, apartheid e acquisizione territoriale > attraverso la forza da parte di Israele, tra cui: (i) un obbligo positivo di > porre fine, individualmente e in cooperazione, a qualsiasi situazione illegale > attraverso mezzi legali; e doveri negativi di non (ii) riconoscere come legale > la situazione derivante dalla loro violazione, o (iii) prestare aiuto o > assistenza per mantenere tale situazione. > > > (c) Obblighi di dovuta diligenza per prevenire specifiche violazioni del > diritto internazionale, compresi gli obblighi di: (i) prevenire il genocidio > (attivati quando si verifica un “rischio grave”); (ii) garantire il rispetto > del diritto internazionale umanitario (attivato quando le violazioni sono > “probabili o prevedibili”) e (iii) cooperare per prevenire crimini e attacchi > contro persone protette a livello internazionale. > > (d) Obblighi di astenersi dal prestare aiuto o assistenza, o partecipare > direttamente ad atti illeciti a livello internazionale di altri Stati, tra cui > aggressione, apartheid e genocidio. Tutto ciò, che costituirebbe jus cogens, è stato nascosto sotto il tappeto degli scambi commerciali, delle partnership, degli investimenti finanziari, all’interno di una cornice narrativa che era già predisposta prima del 7 ottobre, e che a partire da quella data è diventata luogo comune: > Dopo il 7 ottobre 2023, la maggior parte dei leader occidentali ha ripetuto > acriticamente le narrazioni israeliane, diffuse dai media statali e aziendali, > ripetendo affermazioni di cui è stata dimostrata la falsità, e cancellando le > distinzioni fondamentali fra combattenti e civili. Gli israeliani sono stati > descritti come “civili” e “ostaggi”, e i palestinesi come “terroristi di > Hamas”, obiettivi “legittimi” o “collaterali”, “scudi umani” o “prigionieri” > legalmente detenuti. Attingendo a una lunga storia di “selvaggi” a cui sono > state negate le protezioni del diritto internazionale, rilanciata dal discorso > sulla guerra al terrorismo, gli Stati occidentali hanno contribuito a > giustificare il genocidio contro i palestinesi (par. 20) Proprio alla luce di questa narrazione dominante acquista valore l’aver imposto quantomeno la dicibilità della parola “genocidio”, come risultato di una guerra all’omertà, attraverso una mobilitazione mondiale dell’opinione pubblica che è infine esplosa anche in Italia, Così come acquista valore l’episodio della Samud Flotilla, non sono come innesco o scintilla delle proteste del 22 settembre e del 3 ottobre, ma anche per il collegamento che si è creato fra i lavoratori dei porti di Genova e Livorno con i portuali si una lunga serie di Stati: Francia, Belgio, Marocco, Svezia, Spagna, Gibilterra, Cipro, Malta, Grecia, Creta e Stati Uniti. Questo rapporto, come i precedenti, dei quali continua l’opera, fornisce nuove armi – quelle della critica, beninteso – alla lotta contro il genocidio. E al tempo stesso riqualifica questa lotta: non si tratta, infatti, di semplice empatia (che prima o poi qualcuno dovrà spiegarci cosa c’è di male nel provarla), ma di una opposizione a un sistema globale che, ammantato di ordine geopolitico, esige da un intero popolo litri di sangue e libbre di carne – sarà il caso di ricordare che Shylock è un mercante, e che il dramma shakespeariano è prima di tutto una feroce critica alla mentalità mercantile, entro la quale scompare nei fatti la distinzione fra ebreo e cristiano, così come fra ciò che col denaro si può fare e ciò che non si potrebbe fare. Un sistema nel quale oggi Israele funge da laboratorio di sperimentazione, sulla cavia palestinese, di tecnologie belliche, spionistiche, di controllo; sperimentazioni – si veda il libro di Antony Loewenstein Laboratorio Palestina (citato nel rapporto) – che vengono poi, dopo essere state testate in guerra, trasferite ai partner occidentali: il caso Paragon ne è un esempio lampante. Concludendo, con le parole del rapporto: > Il genocidio di Gaza non è stato commesso da un solo Stato, ma come parte di > un sistema di complicità globale. Anche quando la violenza genocida è > diventata evidente, gli Stati, per lo più occidentali, hanno fornito, e > continuano a fornire, a Israele sostegno militare, diplomatico, economico e > ideologico, anche se Israele ha utilizzato come arma la carestia e gli aiuti > umanitari. Gli orrori degli ultimi due anni non sono un’aberrazione, ma il > culmine di una lunga storia di complicità (par. 67). Che questa complicità debba cessare è un compito che va assunto. Nella consapevolezza che la battaglia in corso riguarda per un verso aspetti “contingenti” – il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e la persistente violazione degli obblighi internazionali da parte degli Stati complici del genocidio – che non sono presenti nel cosiddetto “piano di pace” Trump; ma anche, che la portata di questa lotta è ancor più vasta: in questo momento difendere il diritto internazionale umanitario sotto attacco, così come lo sono i diritti umai alla base della Costituzione americana negli USA di Trump, è un compito non solo radicale, ma rivoluzionario. Perché questa battaglia attacca il cuore dell’alleanza fra la nuova destra suprematista e (neo)fascista, e il capitalismo veccchio (quello “produttivo”) e nuovo (quello delle piattaforme): alleanza che con i diritti umani è di fatto, oltre che di ragione, incompatibile. Diritti che non sono sgorgati dalla mente di un dio, o dal cielo delle idee, ma sono stati conquistati con le lotte dei subalterni contro lo sfruttamento capitalistico, coloniale, razziale, patriarcale. La posta in gioco è questa: non da un fiume a un mare, ma lungo ogni fiume, fino a ogni mare e ogni montagna, per ogni popolo, in ogni angolo della Terra. L'articolo Francesca Albanese: “Il genocidio di Gaza. Un crimine collettivo” proviene da EuroNomade.
La pace nella condizione dei regimi di guerra e della politica del controllo
di ALI ZARKAYEEE. Uno: La macchina governamentale dell’occupazione e del controllo Lo Stato d’Israele non è soltanto una sovranità genocidaria dopo il 7 ottobre, ma una forma estrema di governo totale dello spazio e del tempo. Il genocidio e l’urbicidio a Gaza rappresentano l’esempio più terribile di questo controllo assoluto sugli spazi che stavano sfuggendo al dominio israeliano. Quando Israele ha compreso di non poter più mantenere le aree ribelli entro il proprio ordine tramite la colonizzazione – cioè attraverso l’occupazione e la militarizzazione nella produzione dello spazio – ha elaborato un nuovo paradigma di governo fondato sulla distruzione e sull’annientamento totale: l’urbicidio di Gaza e il genocidio dei palestinesi. Il desiderio israeliano di controllo non è semplicemente un desiderio di dominio sulla terra e sui confini fisici. È un’estensione totale del potere sulla temporalità e sui ritmi della vita collettiva: dal controllo delle frontiere a quello dei movimenti, dall’appropriazione dello spazio all’ingegneria del tempo. Ad esempio, nella guerra di dodici giorni contro l’Iran, Israele ha dichiarato come obiettivo principale il controllo del cielo iraniano tramite aerei da combattimento e droni, considerandolo il proprio maggiore successo – come se il dominio sull’aria fosse una nuova forma di governo spazio-temporale. Fin dalla sua fondazione, Israele ha fatto funzionare la propria macchina governamentale attraverso il controllo dei confini, degli spazi e dei tempi; da qui, la costruzione di frontiere, di campi e la militarizzazione estrema sono state impiegate per governare lo spazio-tempo. L’espulsione e il massacro di massa dei palestinesi – conosciuti come la Nakba (tra il 1947 e il 1949) – furono l’inizio criminale dell’attivazione di questa macchina di governo totale. Da allora, i crimini e le stragi compiuti e tuttora perpetrati dagli israeliani non sono che il prolungamento di uno Stato di controllo e di comunicazione che vuole porre tutti i palestinesi sotto la propria tutela. Per questo motivo, la colonizzazione massiccia, il controllo militare del confine giordano e della Cisgiordania, e l’imposizione di permessi di movimento ai palestinesi anche per le attività più elementari, costituiscono parti integranti di questa macchina di governo distruttiva. I flussi spaziali e temporali nei territori occupati scorrono in modo indefinito, determinando la biopolitica dei palestinesi; Israele, negli ultimi decenni, ha mirato a una completa dominazione della loro temporalità e spazialità. Lo spazio vitale dei palestinesi si trova così immerso in un vortice di forme estreme di governo totale, proprio come i personaggi dei romanzi Il Castello e Il Processo di Kafka si muovono in labirinti di passaggi, permessi, lavori e giudizi senza causa apparente. Allo stesso modo, i palestinesi sono imprigionati in questo spazio allucinato del controllo; ma al posto di ciò che un tempo si chiamava contratto, legge o diritto, oggi sono le armi, i fili spinati, le torri di sorveglianza e le colonie (gli insediamenti) a rappresentare il potere governamentale. La macchina governamentale israeliana, con tutte le sue forme di repressione, si colloca all’interno di un’alleanza globale di regimi economici, bellici e transnazionali: dagli Stati Uniti, al Regno Unito e alla Germania, fino alle imprese e alle istituzioni che operano al di là del gabinetto estremista di Netanyahu o dei blocchi civilizzatori-territoriali più rigidi. Per questo, il genocidio e successivamente l’accordo su Gaza devono essere compresi nel contesto dei regimi di guerra nel mondo multipolare. Sebbene Israele appaia simile agli Stati coloniali classici, la condotta attuale dei regimi di guerra e di frontiera presenta una differenza essenziale: l’intreccio globale degli interessi tra Stati e capitale attorno alla questione palestinese. L’occupazione e il controllo, in questo senso, hanno assunto una forma globale. Un’altra differenza fondamentale va cercata nella forma più estrema di governo necropolitico e nella moltiplicazione dei confini. I regimi coloniali del passato incorporavano le popolazioni e i territori colonizzati all’interno di processi disciplinari, educativi e di regolazione demografica, dichiarando il possesso di una terra sotto l’egemonia di uno Stato-nazione – come, per esempio, accadeva nei Paesi sotto il protettorato britannico. Anche nella condizione coloniale del passato era presente una forma profonda di necro-politica; come afferma Achille Mbembe, il colonialismo nel mondo capitalistico ha prodotto una classe marchiata a fuoco. Ma nella situazione attuale, i confini del controllo, in forma molteplice, spostano le classi tra diversi territori e rappresentano ogni aspetto della vita all’interno di flussi eterogenei di lavoro e sfruttamento. Per questo motivo, la regolazione demografica, l’espropriazione, la militarizzazione e lo sfruttamento costituiscono oggi principi fondamentali per l’accumulazione e il governo. Allo stesso modo, il controllo statale e di frontiera di Israele è sempre stato accompagnato dalla forma più violenta di espropriazione della terra, esercitando sulla vita dei palestinesi la forma più estrema di necro-politica: li uccide collettivamente, sottomette i loro spazi vitali al proprio dominio e controllo, e, una volta ottenuto il dominio – come abbiamo visto negli ultimi mesi — impone la fame, le restrizioni spaziali, lo sfollamento forzato e la privazione delle necessità più elementari dell’esistenza. Oggi l’espropriazione non significa più appropriazione della terra per il lavoro o la produzione; significa estendere i confini del controllo sulla vita e sul tempo. Se il colonialismo britannico agiva integrando le colonie nell’orbita della produzione industriale, i regimi contemporanei come quello israeliano, attraverso l’ingegneria dei confini, la tecnologia della sicurezza e l’assedio, trasformano lo stesso vivere in una fonte di valore. Qui, l’accumulazione non nasce dalla produzione, ma dalla privazione della possibilità di vita: una forma di accumulazione attraverso la morte, la sorveglianza e la crisi permanente. Per questo, i palestinesi hanno continuamente cercato, attraverso diverse forme di lotta e resistenza, di aprire vie di fuga dall’egemonia della necro-politica e dell’occupazione; e proprio per questo l’atto di governo israeliano continua fino alla soppressione totale di questi corridoi di fuga – imponendo, fino ad oggi, le più terribili stragi al popolo palestinese. L’urbicidio di Gaza, il genocidio dei palestinesi e, successivamente, la cosiddetta “pace di Trump”, che costituisce la commedia-tragedia della nostra epoca, devono essere compresi all’interno di questo stesso quadro di governo. La pace di Trump non è una pace per porre fine alla guerra, ma la sua continuazione con mezzi più morbidi, al fine di rendere permanente il dominio dello Stato di controllo e d’occupazione su Gaza. Per questo Israele non riduce i palestinesi in schiavitù, ma esercita su di loro la forma più estrema di necro-politica: li uccide collettivamente, sottomette i loro luoghi di vita al proprio controllo e, una volta ottenuto il dominio, come abbiamo visto negli ultimi mesi, li priva del cibo, degli spazi vitali e delle necessità più elementari dell’esistenza. Ora, dopo aver imposto la fame agli abitanti di Gaza, il genocidio e l’urbanicidio, come mostra il piano di pace di Trump, potremmo assistere a una nuova forma di guerra condotta con strumenti economici, tramite imprese e istituzioni transnazionali e multinazionali. Così, la repressione e l’occupazione continueranno attraverso regimi “di frontiera”, sia all’interno che all’esterno della Palestina, e mediante un controllo costante sulle loro vite. Due: Solidarietà contro il controllo Nella situazione attuale, il controllo sui confini, la logistica e la sorveglianza dei flussi di persone sono elementi centrali per la riproduzione delle forme di governo delle macchine statali e del capitale. Per questo forse Israele ha adottato le tecniche più estreme dei regimi di frontiera, ricorrendo al massacro collettivo e al genocidio e lanciando attacchi verso sette paesi dall’8 ottobre in poi. Interrompere i processi di governo frontali di Israele significa colpire il suo dispositivo statale. Nel capitalismo contemporaneo – in ciò che Sandro Mezzadra e Brett Neilson chiamano le macchine governamentali – il controllo degli spazi e dei tempi è un’operazione fondamentale; tramite questo controllo si costruisce un terreno di governo molteplice: il governo dei regimi di frontiera e l’imposizione di restrizioni alle popolazioni, la sorveglianza dei luoghi e l’accaparramento del tempo e del ritmo della vita sono la strategia che reprime i legami trans-identitari e le forme di solidarietà, soggiogando i movimenti liberi e le vie di fuga dallo spazio-luogo. Perciò il regime israeliano e la sua governance di frontiera, che incide e segnala dentro e fuori un territorio, rappresentano la forma più estrema di quel governo frontale. Per questo il movimento della «Carovana della Resistenza» è stato di grande importanza: le navi e le imbarcazioni, agendo autonomamente, si sono spinte verso zone e margini di frontiera dove Israele applica le forme più severe di militarizzazione per controllare quei punti. La sola paura del regime di frontiera è che si generino interruzioni del governo delle frontiere e che queste interruzioni si ripetano in modo organizzato; quindi questo tipo di intervento sulle rotte logistiche non prende di mira soltanto il regime frontale israeliano e la sua logica del controllo, ma – contrariamente alle dichiarazioni di preoccupazione delle organizzazioni transeuropee e di altri Stati circa gli attacchi e il controllo militare israeliano – genera la sensazione che il monopolio della governance sulle rotte logistiche possa sfuggire di mano proprio perché la carovana agiva in modo autonomo. In particolare, questa carovana è riuscita ad aprire un momento singolare di solidarietà, costruendo non la mano alzata degli Stati e delle istituzioni governative, ma un’alleanza dal basso contro i governi e in particolare contro il regime distruttivo israeliano. Nell’azione collettiva attivata dalla Carovana della Resistenza, la logistica intesa come controllo e militarizzazione si è trasformata in potenzialità logistica di un corpo comune e di flussi auto-organizzati. Certo, di fronte agli strumenti bellici avanzati di Israele questa azione non è riuscita ad infilarsi profondamente nelle frontiere controllate dallo Stato; ma ciò che qui conta è la frattura delle barriere dei campi, anche se solo in modo parziale e potenziale, e il collegamento delle differenze delle politiche locali e autoctone nella forma di un corpo collettivo e internazionale. Per questo, dopo anni, abbiamo visto sommosse e scioperi collettivi contro l’autoritarismo di governi europei e del capitale globale. Di conseguenza, la lotta sui margini delle frontiere e contro i regimi di frontiera non solo può disturbare il controllo e l’occupazione spaziale e temporale, ma potenzialmente può seminare i germi di una nuova forma di rivendicazione democratica che trascenda e fugga dall’assoggettamento degli Stati-nazione. Mezzadra, nella sua recente nota, osserva giustamente: «“Volevamo liberare la Palestina” stava scritto su uno striscione a Roma; “la Palestina ci ha liberati.”» Indubbiamente, in questi giorni moltitudini di giovani, donne e uomini hanno riconosciuto nel genocidio di Gaza la stessa ingiustizia che domina in molte forme il nostro mondo contemporaneo — e nella liberazione della Palestina hanno intravisto l’orizzonte di una lotta più ampia, una lotta che deve organizzarsi ovunque la gente vive, lavora e soffre. Questo è il primo segno di come si debba articolare nei giorni a venire questa mobilitazione: a questo movimento recente va data una prospettiva temporale, e ciò è possibile soltanto collegando la solidarietà con Gaza a un radicamento nella vita quotidiana dell’azione politica. Tuttavia, il ruolo dell’Iran e delle forze che aspirano a instaurare la democrazia contro l’autoritarismo è rimasto mancante in questi cicli di solidarietà; ciò potrebbe indebolire i futuri movimenti in Iran, poiché la presenza delle lotte nel contesto globale e nelle nuove reti di solidarietà è troppo tenue. D’altra parte, il dispotismo interno e un’opposizione filoisraeliana hanno marginalizzato ogni forma di soggettività che si opponga al genocidio e all’autoritarismo come solidarietà con altri flussi di lotta; così in Iran assistiamo a una forma di ingegneria della soggettività che ha sminuito la potenzialità conflittuale. In altre parole, la guerra e l’instaurazione di un regime di polizia da una parte, e dall’altra un’opposizione dipendente dalle potenze imperiali, hanno spazzato via alternative soggettive all’interno della società, rimpiazzandole con meccanismi di soggiogamento da parte di poteri e regimi in cui non esiste alcuna forma reale di democrazia. Per questo l’asse della resistenza e le forze di sinistra, così come le opposizioni di destra, hanno entrambi compromesso la possibilità di costruire solidarietà tra i movimenti combattivi, in modo che le forze alternative in Iran risultino isolate. Di conseguenza, ciò che è stato chiamato lotta sulle rotte logistiche e ai margini delle frontiere ha perso in Iran la sua possibilità di realizzazione. Eppure, nelle immagini diffuse della Carovana della Resistenza, alcuni attivisti hanno brandito lo slogan زن، زندگی، آزادی» Donna, Vita, Libertà» – ma non bisogna ingenuamente sopravvalutare questa presenza: in quella flotta tale slogan, nel migliore dei casi, è una diffusione discorsiva; sfortunatamente oggi esso non può tradursi in una forza materiale radicata nelle molteplici basi sociali del Medio Oriente occidentale. Soprattutto ora, lo Stato di polizia iraniano reprime qualsiasi iniziativa che, al di fuori dell’asse della resistenza, tenti di tracciare progetti materiali di solidarietà con la Palestina e contro Israele; perciò siamo intrappolati nelle forme più severe dei corridoi del potere, e forse il primo passo per uscire da questi corridoi è un’uscita soggettiva dai confini che renda possibile una lotta molteplice contro i regimi del potere. Come abbiamo visto nelle lotte in corso in Europa e in particolare negli scioperi e nelle mobilitazioni estese in Italia, la solidarietà con la Palestina ha costituito una via di fuga dai corridoi dell’autoritarismo statale neoliberale, restituendo capacità collettiva alle lotte di classe. Le solidarietà di frontiera, quindi, non sono lotte concentrate su un unico asse centrale, ma creano plessi moltiplici di conflitto che collegano il locale al translocale e all’internazionale; per questo possono sovvertire i controlli statali sulle frontiere, sia a livello soggettivo che geopolitico, e rappresentano una urgenza per il futuro delle nuove lotte in Iran: che non sia il governo, ma il popolo a calcare la scena globale per infrangere i dispositivi di controllo delle frontiere. Tre: Pace e controllo La pace, nella logica delle potenze dominanti, non è la fine della guerra, ma la sua continuazione in forma attenuata. Lo Stato d’Israele e i suoi sostenitori globali chiamano “pace” ciò che in realtà è una nuova fase di riorganizzazione della macchina governamentale e di riproduzione dell’occupazione in forma economica e diplomatica. In particolare, la cosiddetta “Pace di Trump” rappresenta un modello coloniale completo fondato sul commercio e sull’accumulazione. La pace, in questo senso, è la gestione della distruzione: sorvegliare la ricostruzione, ingegnerizzare una sopravvivenza minima, e proseguire la necro-politica nei confronti dei palestinesi attraverso il controllo della vita stessa e la sospensione del militarismo sotto forma di tecnocrazia. Così, ciò che sul campo di battaglia si manifesta come bombardamento e assedio – ciò che ha prodotto l’“urbicidio” – distrugge ogni possibilità di vita e di sua riproduzione. Ora la città, in cui la rimozione delle macerie richiederà anni, sarà apparentemente controllata dal ciclo del capitale e dai capitalisti stessi, travestiti da una coalizione globale di ricostruzione. In questo modo l’occupazione militare si trasforma in occupazione tecnocratica. Progetti come la “Pace di Trump” o le iniziative denominate “Stabilità regionale” sono, in realtà, nuove configurazioni della stessa macchina di controllo: tentativi di consolidare il dominio mediante strumenti più morbidi. Israele, Trump (e forse i paesi del Golfo come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti), dopo la distruzione fisica di Gaza, cercano di imporre nella fase della ricostruzione una forma di pace tutelare, basata sul controllo delle rotte commerciali, energetiche e umanitarie — una pace fondata sull’obbedienza e sulla dipendenza, non sulla liberazione e l’uguaglianza. In questo nuovo ordine, l’esercito viene sostituito dalle banche, e le armi ritornano sotto forma di capitale, di aiuti umanitari e di contratti di ricostruzione. Ma il gesto fondamentale resta lo stesso: il controllo dei flussi vitali, dei movimenti dei corpi, delle merci e della temporalità della vita quotidiana. In questa logica, la pace stessa diventa una forma di guerra: una guerra senza dichiarazione, che si perpetua attraverso i meccanismi economici, finanziari e tecnologici. Gaza, in questo quadro, diviene un laboratorio di governo attraverso la crisi – un luogo dove la sopravvivenza non è il risultato della potenza collettiva di creare vita, ma un privilegio condizionato all’obbedienza. Gli Stati occidentali e le istituzioni finanziarie, sotto la maschera della ricostruzione e dell’aiuto, generano in realtà una nuova rete di controllo che riproduce Israele come centro di comando di un ordine economico e securitario. Se consideriamo lo stato di guerra e i suoi regimi, la distruzione di un territorio – il ridurlo a terra bruciata – lo riporta, in senso storico, a una forma di primitività totale, cancellando le condizioni stesse della vita: alimentazione, ambiente, casa. Ci troviamo oggi in una condizione in cui il nome di questo processo è capitalismo, i cui regimi si muovono entro guerre infinite per promuovere la ricostruzione economica e il commercio. Così, trasformare la città bruciata di Gaza in un’impresa commerciale e in un corridoio di valorizzazione diventa uno dei processi tipici dei regimi di guerra e delle alleanze tra Stato e capitale nel mondo contemporaneo. Per questo la pace attuale non ha alcun significato in termini di autodeterminazione per i palestinesi: serve soltanto al saccheggio, alla valorizzazione e a nuove forme di controllo. Di conseguenza, di fronte a questa pace imposta, bisogna parlare di un’altra pace: una pace come fuga. Una pace che non stabilizza il controllo, ma apre possibilità di vita comune e di movimento libero; una pace che nasce dai corpi distrutti, dalla memoria della morte e dal desiderio di creare nuovi spazi e nuovi tempi. Così come le carovane autonome e le solidarietà di frontiera hanno saputo generare momenti di rivolta e di fuga dal controllo, la pace autentica può emergere solo da una rottura con l’ordine esistente – non dalla sua ricostruzione da parte dei predatori dell’ordine capitalistico. In un mondo in cui la governamentalità è divenuta gestione della crisi, la pace non può significare il ritorno all’ordine controllato del capitale, ma deve essere una rottura rispetto ad esso: una frattura rispetto ai circuiti del controllo, ai tecnocrati del sistema capitalistico, ai regimi di guerra e alla temporalità governata dagli Stati. La pace, in questo senso, non è la promessa della gestione, ma la possibilità di creare spazi e tempi che ancora non sono stati catturati dal controllo – spazi per una vita comune e per un nuovo inizio al di là dei confini, in connessione con le lotte che si svolgono ai margini delle frontiere. L'articolo La pace nella condizione dei regimi di guerra e della politica del controllo proviene da EuroNomade.
Un genocidio
di FEDERICO RAHOLA. Succede che alcune parole si carichino di un valore assoluto, quasi sublime. E che in questo modo chiudano ogni discorso – period si dice ora in inglese. Forse è successo anche con la Shoah, l’olocausto,  i 6 milioni e più di ebrei (e i milioni di rom, slavi, omosessuali, comunisti, disabili), cancellati nel piano di sterminio nazifascista. Ma la storia non è finita ad Auschwitz. E anche affermarne l’unicità corre il rischio di perdere di vista qualcosa. Per esempio la sua singolarità, e cioè la sua collocazione (anche estrema) all’interno di una storia (anche di genocidi), e non al di fuori di essa: la razionalità di un piano di sterminio che ha chiamato in causa l’intera modernità occidentale (qualcuno direbbe civiltà, ma rispediamo al mittente), e quindi un’idea di stato e la sua organizzazione razionale, industriale e burocratica applicandola alla morte, all’annientamento di tutto ciò che ne ostacolava la “salute”. Proprio in nome di questa razionalità, che non assolve e ancora chiama in causa, è consigliabile tenersi lontano da toni eccezionalisti, da ogni aura o iperbole.  E forse anche abbandonare un singolare assoluto che come sempre abbaglia. Ad esempio, si può provare a ricorrere all’articolo indeterminato, oppure al plurale. Non si tratta qui di relativizzare nulla, nemmeno di optare per un politeismo dei valori. Piuttosto, di compiere una serie di esercizi per collocare e venire a capo di questa singolarità, ampliando lo sguardo. E cioè di dire “un genocidio” anziché il genocidio, e anche parlare al plurale di genocidi lasciando ad altri il compito di stabilire unicità e gerarchie, forse necessarie, e limitandosi a suggerire direzioni, trame. Dire che la Shoah è stata un genocidio non ne sminuisce il significato o scalfisce l’entità, e forse aiuta a capirne la singolarità: a ripercorrere una scia che parte dalla dominazione coloniale, comprende lo sterminio degli Herero in Namibia e, importando tecnologie già testate, arriva a lambire Auschwitz, se non altro come possibilità, come possibile, pensato, compiuto, e nei piani genocidari anche immediatamente cancellato. Perché, lo suggeriva Hannah Arendt, l’oblio dell’Olocausto fa parte dell’Olocausto. Anche la negazione del genocidio fa parte di un genocidio. Oggi assistiamo a un genocidio negato, come già accaduto nella storia recente, del secolo breve e della sua lunghissima coda, in Turchia, Cambogia, Ruanda, Bosnia, Birmania e Bangladesh, o anche in mare, nell’Oceano nero della tratta ieri, nel Mediterraneo attraversato da una moltitudine senza génos oggi. Ma qui la negazione non parte solo dagli autori, e ricade dappertutto. Nonostante sia stato riconosciuto dalle Nazioni unite, il genocidio in corso a Gaza, “un genocidio”, viene sistematicamente confutato, non detto, rimosso.  Su chiunque si azzardi a pronunciare quella parola e quell’articolo indeterminato, cade un’accusa “period”: antisemitismo. E si dovrebbe parlare dell’irricevibilità e dell’infamia di quell’accusa, oltre che della sua infondatezza. Si dovrebbe anche avere il coraggio, abbandonando iperboli e assoluti, di dire che il 7 ottobre 2023 è stato compiuto un massacro, un crimine atroce che però non è piovuto dal cielo né risulta incollocabile o incomprensibile. Enzo Traverso si è spinto a ricordare la rivolta nel ghetto di Varsavia; Micheal Hardt ha rintracciato la stessa disperata ferocia di una rivolta carceraria;  altre e altri, poi, suggerivano come, nei raid contro i coloni, i nativi nordamericani non si limitassero a uccidere ma razziassero e prendessero ostaggi più che fantomatici scalpi. Questo non vuol dire assolvere, non dovrebbe nemmeno essere necessario dirlo, ma provare a capire, a collocare. In tutti i casi citati, inoltre, è difficile recuperare qualcosa che possa richiamare una persecuzione, una matrice razziale. Ciò vale anche per quel raid, risposta estrema e mimetica a un rave organizzato in tragica buona fede a pochi chilometri di distanza da un confine di ferro e fuoco, e a pochi mesi di distanza da una marcia di protesta soppressa in un mare di sangue. L’antisemitismo non è chiave per capire e nemmeno leggere il 7 ottobre. Forse invece se ne possono rintracciare la matrice o il fantasma nel modo in cui Ben Gvir, Smotrich e Netanyahu pronunciano il significante Palestina e il nome dei suoi abitanti, human animals (e non è scrupolo antispecista) di un popolo senza stato, allo stato brado, come gli ebrei della diaspora ma concentrati in bantustan. Oppure nella sproporzione deliberata e negata di un massacro che si legge sterminio e viene riscritto come operazione di sicurezza, risposta “ponderata” all’entità di un atto di terrore comunque circoscritto e collocabile: proporzioni, misure, sicurezza.  La sicurezza di uno stato diventa spesso elemento di sproporzione: era così in Germania, nel 1933, quando per ragioni di sicurezza venne decretata la Schutzhaft, la sospensione a tempo indeterminato dell’ordinamento, permettendo un olocausto. Oggi rivediamo qualcosa di simile, la distruzione e le macerie, un genocidio in nome della sicurezza e della vendetta, dell’espansione coloniale e della difesa preventiva di uno stato e del suo “spazio vitale”. Qualcuno ha provato a toccare quel genocidio, per arrestarlo, interporsi, portare soccorso. Altri, sempre di più, si stanno mobilitando a distanza, anche contro la pax imperiale che si imporrà su quel deserto di macerie e contro il quadro politico internazionale che la asseconda e incentiva cancellando un genocidio. Perché il deserto che già celebrano come “pace”, nato sulle macerie di un genocidio negato, non può che prefigurare altre occupazioni, altri genocidi. Del resto è sempre stato così, si costruirà sulle macerie e anche con le macerie, anche quando contengono i resti di un genocidio negato e di vite cancellate. Le nostre esistenze intransigenti, boicottando e bloccando tutto, sono la forma di resistenza da offrire alla Palestina e alla sua (r)esistenza, anche senza proiettarci le proprie e sovrascriverci sopra. L'articolo Un genocidio proviene da EuroNomade.
I Settanta sovversivi o il futuro anteriore del nostro presente
di FRANCESCO FESTA. C’è un tempo che ritma il passo della lettura del libro di Michael Hardt, I Settanta sovversivi. La globalizzazione delle lotte (Derive Approdi, 2025, pp. 309), ed è quello del futuro anteriore, o come ebbe a dire Ernest Bloch, del «ricordo del futuro». L’idea che il passato non sia mai compiuto, ma contenga potenzialità ancora vive in attesa di essere realizzate. Walter Benjamin parla dell’«affiorare di una potenzialità che attende ancora di essere realizzata»: ciò che è accaduto non si esaurisce nel fatto storico, ma continua a vibrare nei corpi e nei movimenti sociali. Bloch aggiunge che «ciò che è accaduto è sempre accaduto solo a metà»: ogni evento storico è incompiuto, ogni rivoluzione conserva parte della propria energia utopica, pronta a riemergere in altri tempi e luoghi. Il passato, in questa prospettiva, si presenta come un archivio sempre aperto. E il libro restituisce proprio l’idea di una memoria viva che connette passato e presente, e viceversa, in un rinvio continuo dove la ripetizione aggiunge nuovi elementi o una nuova composizione spostando rapporti sociali in un campo di forze mai definito. Gli anni Settanta diventano così anticipazione del presente. E appaiono come uno spartiacque fra un prima, legato al lungo dopoguerra – “l’età dell’oro” del capitalismo, dal 1943 al 1973: piena occupazione, welfare state, operaio massa, fordismo e keynesismo – e un dopo, con la frammentazione dei cicli produttivi, la riconfigurazione dei rapporti di produzione e della composizione sociale – l’emergere di nuove soggettività sociali, l’operaio sociale, la fabbrica diffusa e il post-fordismo. Proprio in tale iato affiorano elementi che troveranno materializzazione nei decenni a venire. Sono anni che anticipano anche e soprattutto le pratiche dei movimenti sociali, icasticamente raffigurati nell’ultima pagina del libro nell’immagine della «staffetta» e del «testimone» (p. 273) fra gli anni Settanta e noi. Certo, i Settanta sono stati anche gli anni della nascita del neoliberismo, con le dittature dei Chicago boys e gli esperimenti di “neoliberismo autoritario”; ma Hardt di tutto ciò fa qualche cenno, poiché la sua attenzione è verso la storia dei «movimenti progressisti e rivoluzionari», osservati con metodi assolutamente innovativi. Fin dalle prime pagine, il libro produce un senso di sprovincializzazione o di straniamento sottraendo l’attenzione a letture storiche cui siamo assuefatti che relegano, ad esempio, gli anni Settanta al seguito del Sessantotto italiano; mentre apre a una prospettiva globale, dove le lotte di diversi continenti si connettono in una trama transnazionale di esperienze globali. Il sottotitolo, La globalizzazione delle lotte è precipuo nell’enucleare lo spirito internazionalista del libro, infatti, uno dei metodi di osservazione dei movimenti è quello della «connessione internazionale, genealogica e trasversale» – di cui parleremo più avanti. Un altro approccio molto convincente nella lettura dei movimenti è l’aver archiviato le letture propriamente storiciste: per cui la storia venga misurata in base alle vittorie o alle sconfitte. Hardt piuttosto si interroga su quali visioni, pratiche e teorie innovativi siano emersi nelle situazioni di lotta. Un esempio fra i tanti è il racconto del movimento autogestionario in Portogallo nel 1975, dopo la Rivoluzione dei Garofani, con centinaia di fabbriche e gestite dai lavoratori (circa 895), case e terre occupate. Il coordinamento di questo movimento era la “Comune di Lisbona”, in cui riecheggiava lo spirito della Comune di Parigi. Hardt osserva come il valore di quella rivoluzione risieda non tanto nel successo o nel fallimento ma nella capacità di immaginare una democrazia e una proprietà diverse dal socialismo di Stato, una democrazia del comune. «Il processo rivoluzionario – scrive Hardt – può anche essere valutato non in base alla sua vittoria finale, ma alla forza delle sue innovazioni principali, che possono essere riassunte nel fatto che ha dato origine a un percorso rivoluzionario alternativo per due aspetti, rispetto alla democrazia e alla proprietà, entrambi in contrasto con i principi consolidati del socialismo di Stato esistenti» (p. 92). Sono le potenzialità trasformative, più che i loro esiti, cui vale la pena di guardare, il che è anche un invito prezioso a valutare le scelte nelle situazioni di lotta: il fallimento è la deflagrazione di una scelta, la sconfitta invece è un passo intermedio, un insegnamento. Così le esperienze autogestionarie portoghesi si connettono ad altre situazioni autogestionarie, come l’esempio del 1974 – citato nel libro – dell’esperienza della Lip, la fabbrica di orologi nella regione francese del Jura; e va da sé, il collegarle alle fábricas recuperadas argentine degli anni Duemila o all’esperienza italiana della Gkn di Campi Bisenzio. L’uso del metodo genealogico, trasversale e internazionale intreccia, invece, le vicende dei movimenti in diversi continenti con echi e rimandi continui: è come una trama complessiva e invisibile che riconnette i movimenti oltre il tempo e lo spazio, restituendo una visione d’insieme delle connessioni e delle risonanze. «Indagare queste connessioni internazionali, trasversali e genealogiche – osserva Hardt – è un metodo potente per lo studio dei movimenti sociali e politici. Ogni singola lotta offre una prospettiva leggermente diversa da cui osservare le aspirazioni comuni […] I molteplici punti di vista e le connessioni tra i movimenti mettono a fuoco concetti che risuonano con le problematiche della nostra situazione politica contemporanea» (p. 264). Emerge così una lettura multipiano e trasversale, in cui si intrecciano protagonisti differenti e movimenti internazionali tra loro eterogenei. L’«altro movimento operaio» in America ed Europa; le lotte anticoloniali che attraversano l’Africa — dal Mozambico all’Angola, fino alla Guinea-Bissau —; i movimenti per la democrazia radicale e il potere popolare in Portogallo, Corea del Sud e Giappone; le lotte del movimento di liberazione omosessuale tra Nord America ed Europa; la teologia della liberazione di ispirazione cristiana dell’America Latina; l’esperienza dei rivoluzionari marxisti-sciiti in Iran; gli operai cileni che rivendicano l’autonomia dal processo di statalizzazione della produzione nel Cile di Allende; i movimenti dell’autonomia dal comando del capitale sul lavoro vivo; le lotte di donne e migranti contro le strutture patriarcali e razziali del capitalismo; i primi movimenti ecologisti e antimilitaristi sorti in opposizione alla minaccia nucleare. Questa molteplicità è accomunata dal carattere “sovversivo”, che si manifesta nel tentativo di «smantellare e rovesciare le strutture sociali di dominio» costruendo, allo stesso tempo, «le basi per la liberazione» (p. 6). Sovversione e liberazione, secondo Hardt, procedono di pari passo. Pars destruens e pars costruens, due variabili comunicanti. La critica diviene tanto decostruzione negativa quanto costruzione affermativa di mondi alternativi e confliggenti rispetto all’esistente. E questa azione sottrattiva e costruttiva è riconoscibile in tanti movimenti degli anni Settanta e successivamente. A tal proposito, vien da ricordare l’esperienza dei movimenti dei disoccupati e dei precari a Napoli, dopo il colera del 1973 e nei decenni a seguire. La rivendicazione di quei movimenti si traduceva, da una parte, in sottrazione dal potere delle clientele e dei partiti, e altresì in sottrazione dal recupero delle logiche del collocamento sotto il controllo dei sindacati; e dall’altra parte, nell’affermazione dell’accesso al lavoro e al reddito attraverso le “liste di lotta”; dunque era la partecipazione diretta, nella lotta e non delegata alle strutture dello Stato-piano, che poteva garantire il diritto al lavoro e al reddito. Negli anni Ottanta, la rivendicazione si differenziò in «né con lo Stato, né con la camorra», ma con le liste di lotta per l’accesso al reddito. Hardt inoltre smonta alcuni miti ormai inconfutabili nel dibattito pubblico ed entrati a pieno titolo nei libri di storia. Fra questi vi è la dialettica tra Sessanta e Settanta. Il Sessantotto è l’anno da ammirare, cui rinviare la riflessione quando si evoca la rivoluzione; mentre il Settantasette è l’anno da dimenticare e bandire. L’uno, il decennio dei sogni, l’altro della polvere (da sparo). In realtà, per Hardt, gli anni Settanta sono il tentativo di concretizzare le teorie solamente ipotizzate nel decennio precedente. Purtroppo l’attenzione psicopatologica alla lotta armata, ogni qualvolta si parli di quel decennio, oscura la ricchezza di esperienze collettive, sociali e culturali che hanno animato quegli anni. Gli anni Settanta sono stati veramente un laboratorio di sperimentazioni sociali. E del resto la storiografia del “Secolo breve” ha consumato pagine e pagine per fissare la contrapposizione fra comunismo versus capitalismo, dove il comunismo ha avuto una e solo una applicazione: quella di Stato. Invece I Settanta sovversivi ci mostra come siano esistite forme alternative tanto al capitalismo quanto al comunismo di Stato: forme di democrazia rivoluzionaria in cui la partecipazione diretta si è tradotta concretamente nel governo della proprietà. Un altro mito del Novecento smontato nel libro è il mito della crisi economica degli anni Settanta (crisi petrolifera, finanziaria e economico-sociale). In realtà la crisi è stata la risposta del capitale all’insubordinazione operaia e all’autonomia dal comando del capitale sul lavoro vivo. Da quella ristrutturazione della fabbrica e dell’accumulazione fordista sono emersi una pluralità di soggetti che hanno segnato il passaggio dalla classe unitaria all’eterogeneità. In questa eterogeneità viene individuata la chiave per leggere i mutamenti della composizione di classe e così della politica contemporanea: non più un unico soggetto rivoluzionario, ma una molteplicità di istanze che si articolano e si rafforzano reciprocamente. Le lotte antirazziste si intrecciano con quelle femministe, queer ed ecologiste; le battaglie anticapitaliste con i diritti civili. È la pratica dell’intersezione delle lotte che costruisce un terreno comune senza annullare le differenze. Questa pratica emerge e si diffonde grazie alle lotte dei movimenti femministi e alle pratiche emancipative dei movimenti omosessuali. Fra le tante conseguenze dell’esplosione della classe nell’eterogeneità vi è la fine dell’unità della sinistra, e da quel momento in poi la ricerca della sua ricomposizione, senza soluzione di continuità. Al contrario Hardt non ne parla negativamente o come una fine, anzi, vi intravede una ricchezza: gli esiti sono le possibilità di articolazione delle molteplici istanze che vanno emergendo dall’eterogeneità di classe, il che è un metodo organizzativo proposto nelle ultime pagine del libro. All’altezza dell’eterogeneità sociale Hardt avanza l’ipotesi dell’uso dell’«articolazione strategica della molteplicità»: la sfida è di organizzare l’eterogeneità senza cercare un’unità artificiale, ma tenendo insieme e potenziando le differenti istanze, dove l’una non predomina sull’altra, o meglio l’una trae forza articolandosi con le altre. Per spiegare questa forma organizzativa nel libro si individuano quattro concetti chiave: autonomia, molteplicità, democrazia rivoluzionaria e liberazione. L’autonomia è l’indipendenza dei movimenti da partiti e Stato; la molteplicità è la nuova soggettività collettiva, orizzontale e composita; la democrazia rivoluzionaria è la capacità di inventare nuove istituzioni e forme di cooperazione; la liberazione è un processo quotidiano di trasformazione dei rapporti sociali e personali. Da qui discendono alcune riflessioni, come una sorta di assiomi. Il primo è che i movimenti sono sempre eccedenti rispetto alla democrazia rappresentativa, alle istituzioni borghesi e alle formule elettorali. Costretti in contenitori elettorali, i movimenti perdono la propria potenza, e in realtà non corrispondono alla potenza che invece esprimono nelle mobilitazioni. Due esempi su tutti. Nell’anno 2001 ci sono state manifestazioni moltitudinarie del movimento no global, ciò nondimeno in Italia siamo transitati dal governo D’Alema, nelle giornate di marzo a Napoli, al governo Berlusconi, nel luglio genovese. Così come le mobilitazioni contro il genocidio a Gaza delle ultime settimane non trovano spazio nelle forme di rappresentanza, né tantomeno nei partiti di sinistra. Un altro assioma è che i movimenti depotenziano i partiti che vogliano investire su di essi o mettersi alla testa degli stessi per altri scopi, mentre quei partiti possono fungere da cinghie di trasmissione fra le istituzioni e le parti sociali, in virtù della fruibilità delle risorse, degli strumenti e delle informazioni. Un ultimo assioma è che il conflitto e il consenso sono le variabili e gli strumenti di misurazione dell’intelligenza collettiva dei movimenti, tanto le pratiche incontrano il consenso nella società civile, tanto moltiplicano la partecipazione, articolano le istanze delle parti in lotta e perseguono gli obiettivi dell’eterogeneità sociale. Hardt non fa mistero di un obiettivo de I Settanta sovversivi: discutere alcune questioni per riaprire un’opzione di pensiero e pratica potenzialmente rivoluzionari, i cui semi sono stati gettati proprio negli anni Settanta. Anche se il rompicapo è sempre lo stesso: l’organizzazione. Un rompicapo introdotto da due domande. C’è la domanda che ci portiamo dietro dai Settanta: qual è la nostra parte? E a questa Hardt risponde proponendo di arricchire la molteplicità tramite il metodo dell’articolazione strategica. In effetti le lotte contro il genocidio a Gaza dovrebbero giocoforza connettersi a quelle in difesa dei diritti sociali, lavorativi, di genere, ecc. così come, le lotte contro lo stato di guerra articolarsi con le lotte sul welfare, il salario, ecc. E non in ultimo, l’altra domanda è relativa a un dato tangibile nelle ultime settimane: i movimenti sono in grado di costruire “egemonia” – in termini gramsciani – nella società, ma come possono mantenere aperte opzioni costituenti, costruendo istituzioni del comune, dentro e contro la democrazia rappresentazione e liberale? L'articolo I Settanta sovversivi o il futuro anteriore del nostro presente proviene da EuroNomade.
ESONDARE
di SANDRO MEZZADRA Esondazione, rottura degli argini: queste espressioni, che nel loro significato letterale annunciano distruzione, ben si prestano a catturare quello che abbiamo vissuto nelle quattro memorabili giornate di mobilitazione permanente dal momento in cui la Global Sumud Flotilla è stata bloccata in acque internazionali dalla marina militare di uno Stato genocida. Gioia e rabbia si sono combinate in proporzioni variabili in tutto il Paese, mentre una nuova composizione sociale prendeva le strade, bloccava porti, stazioni, autostrade. Una soglia è stata varcata, mentre l’Italia è tornata a dettare il ritmo della mobilitazione in Europa – da Berlino ad Amsterdam, da Madrid a Lisbona. “Volevamo liberare la Palestina”, si è letto su un cartello a Roma, “la Palestina ha liberato noi”. È certo che in questi giorni una moltitudine di ragazzi e ragazze, di donne e uomini ha visto nel genocidio di Gaza l’immagine riflessa dell’ingiustizia che in modi diversi domina il mondo in cui viviamo – e nella liberazione della Palestina il nuovo orizzonte di una lotta più generale, da articolare in ogni luogo in cui si vive, si lavora e si soffre. È una prima indicazione su come proseguire nei prossimi giorni la mobilitazione: occorre dare una prospettiva di distensione temporale al movimento di questi giorni, e questo è possibile soltanto coniugando la solidarietà con Gaza con un più generale radicamento nel quotidiano dell’iniziativa politica. E però non dimentichiamo che Gaza e la Palestina, pur nel loro potente farsi “globali”, continuano a essere luoghi ben precisi, in cui il genocidio non si ferma e la devastazione supera in intensità quella determinata da qualsiasi fiume sia mai esondato nella storia. Si calcola che, se ogni giorno uscissero da Gaza cento camion, le macerie non verrebbero sgombrate prima del 2050: tale è la violenza dell’urbicidio, della distruzione sistematica non solo delle vite ma anche delle condizioni che rendono possibile la riproduzione della vita. Chi parla di “pace”, riferendosi al “piano Trump”, ha forse in mente le parole di Tacito: hanno fatto il deserto e lo chiamano pace. Nel momento in cui Hamas accetta lo scambio di ostaggi e prigionieri e pare che si riaprano i negoziati, è bene comunque chiarire che cosa è il “piano Trump”. L’indeterminatezza lo caratterizza a pieno vantaggio di Israele, su punti cruciali come il ritiro dell’esercito e il “disarmo di Hamas”. Le operazioni militari delle IDF possono riprendere in ogni momento (e infatti, subito dopo l’invito di Trump a sospenderle, sono continuati i bombardamenti aerei e di artiglieria e almeno undici palestinesi sono stati uccisi al momento in cui scrivo). Nulla si dice poi, nel piano, sulla Cisgiordania, dove la penetrazione dei coloni ha da tempo spezzato l’unità del territorio spingendo la popolazione palestinese in aree accerchiate che prefigurano veri e propri bantustan secondo la logica dell’apartheid. L’autodeterminazione palestinese viene così efficacemente cancellata dal novero delle possibilità. L’impronta coloniale del “piano Trump” è del resto cristallina, con la riproposizione della logica del “mandato” che istituì nel 1920 il controllo britannico sulla Palestina. Riproposizione, sì, ma anche aggiornamento: il “comitato tecnocratico e apolitico palestinese” a cui si intende assegnare “la gestione quotidiana dei servizi pubblici e delle municipalità per il popolo di Gaza” dovrebbe operare sotto “la vigilanza e la supervisione” di un Board of Peace, presieduto dallo stesso Trump e con il coordinamento esecutivo di Tony Blair. Di quest’ultimo ricordiamo le certificate menzogne per giustificare la guerra in Iraq, ma anche l’attivismo degli ultimi anni come consulente di diversi governi del Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti). Ed è proprio il modello del Golfo che il “piano Trump” sembra prospettare per Gaza, una “zona economica speciale” con copiosi investimenti di capitali provenienti da quell’area e non solo. Non mancano gli ostacoli a questo piano (che prevederebbe tra l’altro la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita). Qui mi limito a mettere in evidenza la pretesa di “risolvere” il conflitto israelo-palestinese con una logica puramente di business, attraverso la semplice negazione dell’esistenza di una “questione palestinese” e la proposta per i gazawi – fatta eccezione per i pochi “tecnocrati” – dell’alternativa tra condizione servile ed esilio. Intervistato da Al Jazeera, Norman Finkelstein ha ricordato che fin dai tempi di Jimmy Carter quasi ogni Presidente statunitense ha presentato un piano per “la pace in Medio Oriente”: quello di Trump è il primo che non cita nessuna risoluzione delle Nazioni Unite, nessun accordo internazionale, muovendosi appunto in modo esclusivo sul piano del business – del movimento e della valorizzazione del capitale. Si può vedere in questo un momento della più generale congiuntura di guerra in cui stiamo vivendo, dove la riorganizzazione degli spazi economici è una posta in gioco cruciale. Ma per quel che riguarda il movimento che ha dato vita alle quattro memorabili giornate appena trascorse, i compiti dovrebbero essere piuttosto chiari, anche se tutt’altro che facili da tradurre in pratica: la lotta contro il genocidio, per la Palestina libera, deve approfondirsi e andare al di là delle grandi manifestazioni che restano comunque necessarie. Mentre il cessate il fuoco è un obiettivo che deve essere perseguito con ogni mezzo necessario, sabotare il “piano Trump” e aprire una prospettiva di vera pace significa denunciare e boicottare le mille forme di complicità con la macchina di morte di Israele che esistono in Italia e in Europa. È un appello all’intelligenza collettiva, al lavoro di inchiesta e alla capacità di intervenire in modi efficaci. Pur travolti dall’esondazione del movimento la scorsa settimana, siamo consapevoli della disparità delle forze in campo, tanto a livello interno quanto a livello internazionale; conosciamo le difficoltà che sempre si incontrano quando l’esplosione di un movimento di massa deve essere tradotta in una forza politica capace di durare nel tempo; e sappiamo bene soprattutto che la partita non si gioca certo soltanto sul piano italiano. Ma quel che è successo qui – tra l’altro, due scioperi generali politici in dieci giorni – può certo funzionare come indicazione generale, in Europa come altrove. Se il movimento continuerà a esondare, uscendo dai confini nazionali, anche la disparità delle forze comincerà a essere messa in discussione. L'articolo ESONDARE proviene da EuroNomade.