Combattenti per la verità. Anas al-Sharif e i suoi colleghi, una strage avvolta nella menzognadi GIROLAMO DE MICHELE.
Il 10 agosto scorso il giornalista Anas Jamal Mahmoud al-Sharif, uno dei volti
più noti delle corrispondenze giornalistiche da Gaza, è stato assassinato
insieme ad altri cinque operatori dell’informazione.
Al-Sharif sapeva di essere da tempo nel mirino dell’esercito di occupazione
israeliano. Nondimeno, come molti suoi colleghi e colleghe – Anna Politkovskaya,
Giancarlo Siani, Pippo Fava, Mauro De Mauro, Simone Camilli, Maria Grazia
Cutuli, Daphne Caruana Galizia, Veronica Guerin, Peppino Impastato, Ilaria Alpi
e Miran Hrovatin, Mauro Rostagno – ha continuato fino all’ultimo la sua
battaglia per la verità, con le armi di cui disponeva: una telecamera, un
microfono, i suoi occhi e la sua voce.
L’IDF dispone di droni in grado di colpire un singolo bersaglio: la ditta
costruttrice Rafael Advanced Systems ha usato la ripresa di un assassinio mirato
come spot pubblicitario (e Youtube non chiede la verifica della maggiore età per
vederlo). Nondimeno, l’IDF ha scelto di colpire l’intero ufficio stampa di al
Jazeera, situato in una tenda presso un ospedale.
La strage di giornalisti è avvenuta al culmine di una sequenza che è difficile
pensare dettata dal caso.
Dapprima, 28 luglio, l’assassinio a sangue freddo dell’attivista Awdah Athaleen,
che aveva partecipato al documentario vincitore del premio Oscar No Other Land.
Il giorno dopo, il tentativo da parte di un colono armato di impedire il
reportage alla squadra del TG3. Quel giorno Lucia Goracci ha dato una lezione di
giornalismo svolgendo imperterrita il suo lavoro avendo davanti il colono armato
su un pickup a motore accceso (qui, dal minuto 8:25). Ma l’amaro commento che ha
consegnato al suo post – «a me vengono in mente le parole con cui Michele
Santoro commentò la morte di Libero Grassi, che era stato ospite suo a
Samarcanda: “mi ero illuso che illuminare la battaglia di Libero, gli avrebbe
fatto uno scudo intorno”» – lasciava presagire il peggio.
Infine, registrata l’indifferenza dei governi “democratici” e “occidentali”
davanti alle violazioni della libertà di stampa, l’IDF ha svolto il compito
assegnato con la strage di sei operatori dell’informazione.
La mafia, facendo tesoro di un metodo praticato da Italo Balbo, ha più volte
accompagnato esecuzioni “eccellenti” con la diffusione di dicerie, il più delle
volte a sfondo sessuale, sulle vittime. Con pari, se non maggiore, indegnità
morale lo Stato d’Israele ha giustificato la strage del 10 agosto con la pretesa
militanza di al-Sharif nelle file di Hamas.
Questa diceria è stata rigettata dalla BBC – «La BBC non può verificare in modo
indipendente questi documenti e non ha visto prove del coinvolgimento di Sharif
nella guerra attuale o del fatto che rimanga un membro attivo di Hamas» – e da
Newsweek – «Newsweek non è stata in grado di verificare in modo indipendente i
documenti e le fotografie forniti dalle IDF né il loro contenuto» –, oltreché
dall’United Nations Office of the High Commission on Human Rights (OHCHR), dal
Committee to Protect Journalists (CPJ), dalla Foreign Press Association e da
Reporters Sans Frontières. Le accuse israeliane sono state definite baseless,
infondate, e flimsy, inconsistenti.
Peraltro, va tenuto presente che il diritto internazionale in operazioni di
guerra divide la popolazione civile in due categorie: i combattenti impegnati in
operazioni militari, e i non combattenti; solo i primi sono bersagli legittimi,
non i secondi, men che meno i giornalisti impegnati nel lavoro di informazione.
Quale che fosse il suo status, al-Sharif, in base alle norme di diritto
internazionale non era un bersaglio lecito. La dichiarazione dell’IDF «Una
tessera stampa non è uno scudo per terroristi» è una cinica dichiarazione di
guerra al diritto internazionale e alla libertà di informazione. Ce la meniamo
tanto con «l’unica democrazia in Medio Oriente»: ebbene, per essere una
democrazia non basta mettersi il grembiulino del bravo cittadino e andare a
depositare una scheda nell’urna ogni tot anni. Una democrazia rispetta il
diritto internazionale, e se non lo rispetta non lo è. Le due cose non sono
compatibili.
Potrebbe bastare. Nondimeno, un fact-checking sull’assassinio di al-Sharif è
istruttivo. Non tanto per “riabilitare” un combattente per la libertà della sua
terra con le armi dell’informazione, quanto per mostrare le strategie della
menzogna istituzionalizzata del governo e dell’esercito israeliani. E anche per
sfatare qualcuna delle bufale che si generano da sé per disattenzione o
distrazione. Non servirà a convincere i negazionisti – che probabilmente non
sono arrivati fino a questo punto nel leggere, e sono già a commentare sui loro
social–, ma aiuterà a forgiare nuove armi per una battaglia che sarà di lunga
durata.
DUE PREMESSE E UNA BIOGRAFIA (ANZI, SEI)
In primo luogo, le fonti.
Per questa inchiesta mi sono servito dei fact-checking di Snopes, il più noto
sito del settore; inoltre, di articoli di fact-checking della BBC [1 – 2], di
Newsweek, di Reporters Sans Frontières, e soprattutto del giornale israeliano
+972 Magazine, che sta svolgendo, spesso in collegamento col quotidiano
israeliano Haaretz, un formidabile lavoro di inchiesta sui crimini commessi
dall’esercito israeliano.
Una di queste inchieste di +972 – «”Legitimization Cell”: Israeli unit tasked
with linking Gaza journalists to Hamas» – ha portato alla luce ciò che in molti
pensavamo dovesse esistere: la creazione di una unità speciale dell’esercito
incaricata di trovare collegamenti fra i giornalisti di Gaza e Hamas, costi quel
che costi, anche attraverso «questionable claims» [affermazioni discutibili],
per poter legittimare l’assassinio dei giornalisti. «L’obiettivo era
semplicemente trovare il maggior numero possibile di materiali per sostenere
l’impegno nell’hasbara», scrive +972. Hasbara significa «spiegazione»: nell’uso
che stiamo esaminando, il termine è risemantizzato in «propaganda».
Un esempio di queste affermazioni sospette è l’esplosione all’ospedale al-Ahli
il 23 ottobre 2023, che ha causato centinaia di vittime. L’IDF l’ha attribuita
al malfunzionamento di un razzo di Hamas, che avrebbe usato l’ospedale come base
di lancio. Una successiva inchiesta indipendente del febbraio 2024 ha stabilito
che l’esplosione filmata pochi secondi prima era stata causata dallo stesso
Drone Interceptor che riprendeva la scena.
Un secondo caso è l’assassinio del giornalista di al-Jazeera Hamza Al-Dahdouh,
assieme all’operatore video Mustafa Thuraya a Khan Younis nel gennaio 2024.
L’accusa di star effettuando riprese con un drone – cosa che a dire dell’IDF
giustificava la loro esecuzione – è stata confutata da una successiva inchiesta
del Washington Post.
E ancora, la falsa accusa di essere un operativo di Hamas rivolta al giornalista
Ismail al- Ghouls, uno dei più stretti collaboratori di al-Sharif, decapitato da
un proiettile scagliato da un drone nel giugno 2024 – ma di questo parlerò più
avanti.
Vediamo adesso chi era Anas al-Sharif.
Al contrario di ciò che si è letto, non era uno sconosciuto inopinatamente
ingaggiato da al-Jazeera subito dopo il 7 ottobre 2023. Al-Sharif il mestiere di
giornalista lo aveva nel sangue: aveva una laurea in comunicazione
all’Università di al-Aqsa, e una specializzazione in radio e televisione. Dopo
un apprendistato all’Al-Shamal Media Network, era stato assunto da al-Jazeera.
Quest’ultima, sia detto una volta per tutte, è un’emittente televisiva
internazionale, la cui professionalità non può essere misurata sulla base dei
pizzini letti dai generali dell’IDF o dal governo israeliano. È un’emittente
araba, dunque… Una critica del genere ha lo stesso valore dei titoli del
Vernacoliere sui pisani – salvo che al Vernacoliere sanno di fare satira, non
antropologia criminale della toscanità.
Al tempo stesso, Al-Sharif era entrato a far parte della squadra dell’agenzia
Reuters, partecipando alla copertura della guerra con la quale la Reuters ha
vinto il Premio Pulitzer 2024 nella categoria Breaking News Photography.
La sua notorietà era costata la vita a suo padre Jamal, assassinato nel
bombardamento della casa di al-Sharif nel campo profughi di Jabalia il 6
dicembre 2023, nel corso di una vasta offensiva dell’IDF contro le abitazioni
delle famiglie dei giornalisti gazawi, fra il novembre e il dicembre 2023.
Al-Sharif aveva una moglie e due figli. La sua visione politica coincideva col
suo mestiere; in ogni caso, aveva più volte espresso critiche ad Hamas,
definendo il lancio di missili «un comportamento sconsiderato sia sul piano
morale che su quello dell’interesse nazionale» (3 aprile 2025), e chiedendo ad
Hamas di accettare il cessate il fuoco anche al prezzo della liberazione di
tutti gli ostaggi: nel dicembre 2024, con un vocale, e nel luglio 2025.
Ultimo dettaglio: come testimoniato dal post del giornalista e anchorman Amit
Segal, uno dei più importanti nomi della televisione israeliana, al-Sharif era
stato arrestato durante il primo assedio e bombardamento dello Shifa Hospital,
il 15 novembre 2023, interrogato, e poi rilasciato. Teniamo a mente questo
evento.
Piccola digressione: l’ospedale al-Shifa fu attaccato con la motivazione che nei
suoi sotterranei ci sarebbe stato un centro di comando di Hamas. L’accusa di un
uso improprio dell’ospedale, compresi i tunnel sottostanti – alcuni dei quali di
costruzione israeliana – è stata smentita da Amnesty International, che operava
ad al-Shifa dal 2015:
> «Amnesty International non ha prove che indichino che l’ospedale al-Shifa sia
> stato utilizzato per scopi diversi dal trattamento dei pazienti durante
> l’attuale conflitto del 2023. Amnesty International non ha finora visto alcuna
> prova credibile a sostegno dell’affermazione di Israele secondo cui al-Shifa
> ospita un centro di comando militare; al tempo stesso, Israele ha
> ripetutamente fallito nel produrre qualsiasi prova a sostegno di questa
> affermazione, che ha messo in circolazione almeno dai tempi dell’Operazione
> Piombo Fuso 2008-2009».
Ulteriori smentite dalla stampa internazionale, uno per tutti il Guardian:
> «Israele ha ripetutamene affermato che Hamas operava da un comando e centro di
> controllo all’interno di tunnel vicini all’ospedale e sotto di esso, benché
> gli elementi forniti sinora siano lungi dal provarlo».
Ma ricordiamo anche gli altri cinque operatori dell’informazione uccisi il 10
agosto.
Mohammed Qreiqeh, 33 anni e padre di due figli, copriva le operazioni militari
nel nord. Sua madre era stata uccisa nel secondo bombardamento dell’ospedale di
al-Shifa nel marzo 2024, suo fratello nel bombardamento di Gaza City nel marzo
2025.
Il cameraman Ibrahim Zaher, 25 anni, veniva anche lui, come al-Sharif, dal campo
profughi di Jabilia. Oltre che come giornalista, svolgeva attività di
volontariato nei servizi sanitari.
Anche Mohammed Noufal veniva da Jabilia. Aveva perso nei bombardamenti dei primi
giorni la madre e un fratello.
Il cameraman freelance Moamen Aliwa, laureato in ingegneria, svolgeva la sua
attività di giornalista attraverso Instagram, come pure il freelance Mohammed
al-Khaldi. Il suo ultimo video, una settimana prima del suo assassinio, mostrava
una bambina di otto anni in pericolo di vita per l’inedia.
Non esiste, neanche inventata, alcuna evidenza di un collegamento di questi
giornalisti con Hamas. Come non ne esistevano per il giornalista Yasser Murtaja,
assassinato da un cecchino dell’IDF il 6 aprile 2018. Il suo legame operativo
con Hamas risultò essere il suo arresto e la sua detenzione nelle carceri di
Gaza! L’inchiesta aperta dall’IDF sul caso è rimasta a lettera morta, come
sempre accade.
QUALI PROVE ESISTONO DI UNA RELAZIONE FRA AL-SHARIF E IL BRACCIO MILITARE DI
HAMAS?
L’IDF, tramite il suo account su X e il suo portavoce Avichai Adraee, ha
sostenuto l’esistenza di documenti comprovanti la militanza operativa di
al-Sharif nel braccio armato di Hamas. Adraee possiamo ignorarlo: il suo post ha
come prova un suo post precedente nel quale, nell’ottobre 2024, lanciava le
stesse accuse senza fornire prove del fatto che al-Sharif intendesse «fare
carriera dentro Hamas» con la sua attività giornalistica. Ci si chiede come,
invece, si faccia carriera dentro l’IDF – ma che te lo dico a fare?
Le “prove” fornite, o fatte circolare, dall’IDF si dividono in tre
sottocategorie: tre documenti provenienti «da un computer di Hamas nella
striscia di Gaza»; un post di al-Sharif su Telegram del 7 ottobre 2023; alcune
foto provenienti dal canale Telegram di al-Sharif. Andiamo per ordine.
I TRE DOCUMENTI
L’IDF non ha mai consentito ad alcuna verifica indipendente su questi pretesi
documenti, non li ha mai mostrati in originale alla stampa, ha risposto
negativamente a qualsivoglia richiesta di chiarimenti, non ha mai fornito
indicazioni su questo preteso computer nel quale erano archiviati documenti
concernenti gli affettivi di Hamas. Sempre in nome di quell’essere «l’unica
democrazia del Medio Oriente».
In democrazia vige la presunzione di non colpevolezza, è l’accusa a dover
fornire le prove di eventuali crimini. «È così perché lo dico io» può valere
nella Fattoria degli animali (ma Napoleon aveva più classe), non in una
democrazia.
Aggiungo che l’IDF avrebbe avuto tutto l’interesse a dimostrare l’autenticità di
questi “documenti”: come minimo, avrebbe messo due testate informative
importanti come al-Jazeera e Reuters in condizione di dover sospendere il loro
rapporto con al-Sharif.
Reporters sans Frontières ha interpellato due studiosi, esperti di storia di
Hamas, come consulenti, su questi screenshot spacciati come prove: «Per quanto
riguarda l’autenticità del documento, uno degli esperti ha dichiarato di non
aver mai visto un elenco simile nella storia della sua ricerca su Hamas.»
Andiamo però a vedere cosa dicono questi tre fogli.
Il primo, datato 2023, è una lista di combattenti «suspended» e «unassigned»,
nel quale al-Sharif risulta essere stato ferito in un’esplosione, e per effetto
delle ferite invalidanti sofferente di «udito estremamente debole nell’orecchio
sinistro, vista debole, e costanti emicranie e mal di testa».
Il secondo lo descrive come «group leader», e riporta la data del suo 17esimo
compleanno come giorno del suo arruolamento (dal 2013 al 2017).
Il terzo lo dichiara membro dell’unità Nukhba, la punta di diamante delle
Brigate al-Qassam (una specie di Battaglione San Marco di Hamas).
Ebbene, queste informazioni si contraddicono e sono incoerenti: il reclutamento
in Hamas avviene non prima del conseguimento della maggiore età (18 anni) e due
anni più tardi nel corpo d’elite Nukhba (come testimoniano gli esperti militari
interpellati da RSF), e solo dopo anni di addestramento operativo, che al-Sharif
non poteva avere, essendo stato – stando alle “fonti” – messo in disarmo per
un’invalidità acquisita nel 2017.
È un caso isolato? No: le stesse fonti registravano l’ingresso nell’unità Nukhba
di Ismail al-Ghouls, giornalista amico di al-Sharif, nel 2010, quando al-Ghouls
aveva 10 anni; salvo, in un altro documento, fornire la data del 2017 per il suo
reclutamento in Hamas – contraddittoria con la prima, e comunque al di sotto dei
18 anni. Peraltro, nel marzo 2024 al-Ghouls era stato arrestato e interrogato:
se esistevano prove della sua militanza in Hamas, perché era stato rilasciato?
La stessa domanda, com’è ovvio, vale per al-Sharif.
Resta che al-Sharif è stato un giornalista a tempo pieno. Lo diciamo con le
parole del veterano della stampa statunitense Ryan Grim:
> «L’idea che qualcuno si spacci per giornalista facendo reportage in diretta
> tutto il giorno, tutti i giorni, per due anni di fila – ma in realtà sia
> segretamente un terrorista (in quali momenti??) – è così stupida che dimostra
> quanto potere Israele crede di avere. Il pretesto per assassinare un
> giornalista noto a livello mondiale non deve nemmeno avere senso. Non importa
> quel che dicono: possono uccidere con impunità e lo sanno».
IL MESSAGGIO SU TELEGRAM
Alla morte di al-Sharif è comparso un messaggio dal suo canale Telegram, nel
quale il giornalista, alle 14.49 del 7 ottobre, avrebbe esultato per ed elogiato
«gli eroi» che dopo nove ore – ma in realtà sono otto… – stavano ancora
«scorrazzando e catturando» israeliani.
Questo messaggio, di per sé, non dimostrerebbe alcunché rispetto alle attività
di al-Sharif: al più, è l’espressione di uno stato d’animo, criticabile o meno.
Ma il messaggio è stato messo in forte sospetto, perché non figura nella
cronologia, e perché è incoerente con la sequenza dei messaggi che al-Sharif
lanciava dalla sua pagina social.
David Puente ha rintracciato nella Wayback Machine un salvataggio di questo
messaggio datato 27 novembre 2023. Attenzione: Puente non ha dimostrato che il
messaggio è autentico, cioè proveniente dal dispositivo di al-Sharif: ha
dimostrato che questo messaggio è stato salvato cinquanta giorni dopo.
La precisazione è importante, perché, come si è scoperto con il caso del
software spia Graphite di produzione israeliana installato – ancora non sappiamo
ad opera di chi – nei telefonini degli esponenti di Mediterranea Luca Casarini,
Beppe Caccia, don Mattia Ferrari e del giornalista di Fanpage Francesco
Cancellato, l’esercito israeliano possiede un software in grado di introdursi
nel sistema operativo e agire in proprio, inviando messaggi dalle pagine social
degli utenti a loro insaputa, oltre che di attivare la telecamera.
Va aggiunto che due settimane prima di quel salvataggio del 27 novembre
al-Sharif e il suo telefonino erano in mano militare israeliana, come abbiamo
visto.
Per di più, quando al-Sharif avrebbe messaggiato, quel che si sapeva
dell’attacco del 7 ottobre non sembrava motivo di eccessivo entusiasmo. In quel
momento – si veda la prima pagina di Le Monde alle ore 15 – le notizie parlavano
di 70 vittime israeliane, e già 198 palestinesi per la rappresaglia immediata, e
di rapimenti ancora non si aveva notizia.
Ma facciamo un esperimento mentale: ipotizziamo che il messaggio sia autentico,
che sia stato davvero lanciato da al-Sharif, e che questi lo abbia poi
maldestramente cancellato. Dico maldestramente, perché non è vero che nulla si
cancella dalla rete: se uno sa come fare – e al-Sharif aveva una laurea e una
specializzazione nell’uso dei media – un file scompare per davvero. Provate a
cercare in rete il famoso “file dblab” contenente i nomi degli atleti partecipi
alla “cura Conconi”, che pure per qualche tempo è stato presente in rete…
Abbiamo dunque un militante entusiasta e parecchio preveggente, che però attende
ben 8 ore – ma sbaglia a leggere l’ora e ne dichiara 9 – prima di lanciare un
unico messaggio, che a quanto pare nessuno si fila, a dispetto di una certa
notorietà come mediattivista del suo autore. A metà novembre, poi, al-Sharif è
fermato e interrogato, ma i suoi inquisitori non si accorgono di questo
messaggio – che però, il 27 novembre 2023, viene rilanciato su una pagina web,
ed è per questo che il Web Archive lo “cattura”.
Nei 17 mesi successivi al-Sharif diventa sempre più popolare, ma il suo
messaggio viene rilanciato solo altre due volte: lo screenshot di David Puente
mostra infatti che al 6 aprile 2025 ci sono solo tre salvataggi. Fate voi…
I SELFIE CON SINWAR
Nella pagina Telegram di al-Sharif ci sono alcune sue foto del 2021 con
dirigenti di Hamas, fra i quali Yahya Sinwar.
Almeno due di queste foto sono come minimo sospette, ma non mi impelagherò in
questa discussione: diciamo che sono tutte autentiche. Il fatto è che farsi un
selfie con un dirigente di Hamas, soprattutto con il suo dirigente Sinwar, era
cosa tutt’altro che rara. Molti giornalisti più noti e importanti di al-Sharif
lo hanno fatto. Ne cito una: la cronista di guerra freelance Francesca Borri,
che alla morte di Sinwar ha scritto un post rielaborando la sua intervista al
dirigente di Hamas del 2018, corredando il testo con la sua foto accanto al capo
di Hamas – senza che, com’è giusto peraltro, alcuno abbia eccepito alcunché su
questa foto.
Le ragioni sono banali, a conoscere il contesto. In primo luogo, Sinwar è oggi
il feroce pianificatore del pogrom del 7 ottobre, incarnazione del Male Assoluto
o giù di lì, ma nel 2021 era il dirigente di Hamas col quale Israele credeva di
aver più o meno raggiunto una sorta di tacito accordo di non belligeranza
reciproca.
In secondo luogo, a Gaza, dove prima del 7 ottobre il tasso di disoccupazione
sfiorava il 50%, con una punta del 70% fra i giovani laureati, l’informazione
era una delle poche merci che potevano essere prodotte e avevano un mercato
internazionale, e quella di reporter forse l’unica strada professionale
percorribile. Al-Sharif, lo abbiamo visto, era arrivato prima dei trent’anni
alla Reuters, altri all’Associated Press o ad altre grandi agenzie. Il che
implicava una forte concorrenza e la necessità di garantire la veridicità del
prodotto, fosse un’intervista o un reportage. Il selfie alla fine dell’evento
era una sorta di certificazione di autenticità, e non a caso tutte le foto in
questione sono scattate in luoghi pubblici.
LA FOTO DEL SOLDATO MORTO
C’è un post del 26 ottobre 2023 in cui, sotto la foto di un soldato israeliano
morto – non «un israeliano»: un soldato israeliano – al-Sharif ha o avrebbe
scritto: «Ogni volta che ti senti giù di morale, ricordati che li abbiamo
colpiti in testa nei loro siti militari».
Sempre ricordando che un mese dopo il telefonino del giornalista era nelle mani
dell’IDF – posto che l’IDF abbia avuto bisogno del device per entrare nella sua
pagina Telegram –, anche in questo caso assumiamo il post come autentico. Cosa
ci racconta questo testo combinato con questa foto? Che, mentre l’aviazione
israeliana martellava Gaza e l’esercito preparava l’invasione, al-Sharif, con un
linguaggio crudo, diceva a se stesso e ai suoi lettori che i nemici non sono
invincibili.
La durezza del messaggio può disgustare i delicati stomaci europeo-occidentali?
Probabile: ma l’economia morale dei sottomessi e degli sfruttati non si misura
con le categorie morali degli sfruttatori e degli oppressori. Resta che,
accettabile o meno questo sfogo di rabbia, foss’anche di odio, esso attesta
null’altro che questo: che qualcuno ha provato un sentimento di rabbia e di
odio, motivato soggettivamente da una storia di oppressione, sfruttamento,
miseria, colonizzazione. Un sentimento, o un’emozione. Non un fatto, un evento,
un’azione.
Se ogni singolo post dei vostri social fosse convertito in prova di un’azione
delittuosa, dove andremmo a finire? L’omofobo che si augurava che l’ISIS
colpisse gli intellettuali omosessuali europei dovrebbe per questo essere
inquisito come membro della rete di fiancheggiamento del terrorismo islamico?
Gli stronzi che fecero battute all’indomani della strage in discoteca a
Corinaldo, sulla giusta punizione capitata a chi ascolta la musica trap
dovrebbero essere indagati come possibile complici dell’evasione di uno dei
membri della banda del peperoncino responsabile del panico che causò la strage?
Uno dei più noti giornalisti uccisi dalla mafia aveva militato in gioventù nella
X Mas. Ci fossero stati i telefonini, avremmo forse trovato qualche suo
discutibile post commemorativo del 28 aprile, e di sicuro Luciano Liggio ci
avrebbe sguazzato. Giusto per capire a quale livello ci si colloca quando si
identifica un post con una vita e un essere umano, e si emettono sentenze.
POSTILLA LOCALE (ANZI, NO): AL-SHARIF, BASSANI E I FUCILATI DEL 15 NOVEMBRE 1943
È successa, a Ferrara, una tempesta in un bicchier d’acqua. Alla morte di
al-Sharif, alcuni membri di un collettivo, palestinesi e italiani, ragazze e
ragazzi, hanno apposto la foto del giornalista accanto alle lapidi che
commemorano le vittime delle fucilazioni del 15 novembre 1943, immortalate dai
testi di Giorgio Bassani e Piero Calamandrei, e dal film di Florestano Vancini
La lunga notte del ’43.
Il film di Vancini sull’eccidio del Castello di Ferrara, tratto dal racconto di
Bassani Una notte del ’43, è su Raiplay.
Apriti cielo! Leso antifascismo, lesa bassanianità. Calamandrei non pervenuto,
pazienza. I giovani in questione si erano già fatti notare per alcune azioni
“eclatanti” (siamo in provincia, ci si emoziona per un nonnulla): una
contestazione in consiglio comunale, un manichino raffigurante Netanyahu
impiccato (come Eichmann: genocida per genocida) e un paio di fumogeni accesi
durante le manifestazioni.
Insomma, non è volato un sasso, non è stato infranto un vetro, non s’è fatto
male nessuno, tranne il sottoscritto, che è riuscito a scottarsi la mano con la
cera in una fiaccolata, ma vabbé. Però al bon ton di tanti questi gesti paiono
eccessivi: alcuni, fieramente colonialisti nella propria prigione mentale,
pretendono di insegnare l’educazione occidentale ai barbari del sud del
Mediterraneo; altri, afflitti dalla sindrome del colonnello Buendía, dall’alto
delle loro 32 rivoluzioni perdute ritengono di dover spiegare ai palestinesi
come si deve comportare un palestinese.
Nel frattempo gli studiosi di Bassani tacciono, impegnati in ben altre contese:
divisi in due schiere fieramente avverse, stanno da anni disputando se il
capolavoro di Bassani sia Il giardino dei Finzi Contini o Dietro la porta. Roba
seria, nella città in cui gli eredi del fascista Carlo Aretusi detto «Sciagura»
sono al governo.
Non è mio costume dire ad altri quel che è giusto fare o non fare, mi limito a
due osservazioni bassaniane.
■ Nelle Cinque storie ferraresi, oltre alla narrazione della notte del ’43, c’è
la storia di un rompicoglioni, Geo Jotz, tornato a Ferrara dai lager, unico
sopravvissuto, che si aggira per la città con fare molesto, disturbando con la
sua condotta, il suo abbigliamento, il suo dire una città che vorrebbe
finalmente trovare pace e, magari, dimenticare. Nel suo piccolo, un velato
omaggio a La peste di Camus, così come Una notte del ’43 è un omaggio a La
fucilazione del 3 maggio 1808 di Goya. Ecco: quelle ragazze e ragazzi che
rompono i coglioni e disturbano la quiete pubblica fanno proprio ciò che faceva
Geo Jotz.
■ Nel racconto sulle fucilazioni del 15 novembre 1943 non ci sono solo i
fucilati. C’è il già citato fascista Aretusi, personaggio tutt’altro che
immaginario, che non ha le spalle al muro, ma che il muro dei fucilati lo guarda
di fronte; e c’è il farmacista Pino Barilari, che guarda la scena dall’alto
della sua finestra senza intervenire, per viltà.
Alcuni di quei fucilati – e in senso lato tutti – si battevano contro un governo
illegittimo, fascista e colonialista. Proprio come Anas al-Sharif, che ha
combattuto con le armi della verità contro un governo illegittimo, colonialista
e fascista. Lo avevano già detto Primo Levi, Hannah Arendt, Albert Einstein che
Menahem Begin, le sue pratiche e il partito che alla fine fondò, il Likud, erano
fascisti, come fascista era il suo maestro Ze’ev Jabotinski e, oggi, il suo
allievo Netanyahu.
Dunque l’effigie di Anas al-Sharif sta bene con le spalle al muro e lo sguardo
rivolto a chi passa dal corso.
C’è da chiedersi, piuttosto, chi sia oggi al posto di Carlo Aretusi, e chi di
Pino Barilari.
questo testo è stato pubblicato su Giap il 20 agosto 2025
L'articolo Combattenti per la verità. Anas al-Sharif e i suoi colleghi, una
strage avvolta nella menzogna proviene da EuroNomade.