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Inventare il comune - Sovvertire il presente

Trump alla restaurazione di san Kirk, genealogia di una vendetta
di MARCO BASCETTA. Di Charles Kirk sentiremo parlare ancora a lungo. Non tanto per le circostanze della sua morte incastonate nella variegata storia della violenza politica in America con i suoi molteplici risvolti razziali, ideologici, identitari, messianici. Ma piuttosto per l’uso politico, immediato e diretto, che Trump e il suo seguito di infervorati seguaci ne hanno fatto e ne faranno. Alcuni hanno azzardato un paragone con l’incendio del Reichstag nel febbraio del 1933, l’attentato attribuito a un giovane comunista olandese da cui Hitler trasse il pretesto e lo slancio per smantellare in men che non si dica la Costituzione di Weimar e inaugurare il regime nazionalsocialista. L’analogia storica, presa più distesamente in esame su queste pagine da Mario Ricciardi, trova un senso solo nel fatto che l’assassinio di Kirk ben si presta, nelle intenzioni del presidente Usa e dell’estrema destra americana, al progetto di asfissiare attraverso leggi e decreti “fascistissimi” il dissenso e l’opposizione democratica negli Stati uniti, per non parlare della critica sociale antiliberista, con l’improbabile accusa di avere alimentato ideologicamente la violenza politica e armato, indirettamente, la mano dell’attentatore. Il clima minaccioso e aggressivo che si respira in questi giorni negli Usa, con le sue miserabili imitazioni europee, si inserisce perfettamente nel disegno ormai evidente tracciato da Donald Trump e dal suo Maga. Quello di identificare ed enfatizzare un nemico interno dai contorni piuttosto indefiniti (la sinistra) per combattere il quale sarebbe necessario forzare l’architettura politico-istituzionale degli Stati uniti al fine di trasformare radicalmente forme e tendenze della vita sociale americana. Bersaglio del Maga è appunto il sistema democratico statunitense, le forme di socialità che ha generato e l’apertura culturale che ne ha accompagnato lo sviluppo. Rispetto a questa missione tutti i passi finora compiuti dal presidente sono stati assolutamente logici e coerenti: il relativo disimpegno sui fronti internazionali e l’elusione di ogni attrito politico eccessivo con le potenze maggiori sullo scacchiere globale, la caccia allo straniero e le deportazioni, l’invio di truppe nelle metropoli americane governate dai democratici per fronteggiare fantomatiche emergenze, le epurazioni, la crociata contro le istituzioni accademiche e le voci critiche dei mezzi di comunicazione. La vendetta contro gli avversari politici, rei se non proprio di aver ispirato la violenza anche solo di non aver voluto rendere omaggio alla santificazione di Kirk, è l’ultimo tassello che si inserisce alla perfezione in questa road map della destra trumpiana che trasferisce in patria il fronte della guerra. Il tutto spacciato non come una forzatura di parte ma come una grande opera di cancellazione del cattivo nuovo che avrebbe corrotto la purezza della Costituzione del 1787. E naturalmente delle sacre scritture. Nel riferirsi alla destra, o anche all’estrema destra, negli Usa come in Europa, si usa correntemente il termine di conservazione. Così, anche di Charles Kirk si dice essere stato un campione del pensiero conservatore. C’è nella scelta di questa definizione fuorviante un errore non privo di conseguenze. Oggi non ci troviamo affatto di fronte alla conservazione di valori del passato minacciati da un progresso fuori controllo, o da una accelerazione foriera di angoscia e disorientamento, ma a dover fronteggiare una aggressiva politica di “restaurazione”, ovverosia il ripristino di dottrine, precetti, obblighi e gerarchie che lo sviluppo democratico e le lotte sociali avevano già superato o quantomeno messo seriamente in discussione. Se si passano in rassegna le convinzioni di Kirk, che il suo assassinio non rende certo meno detestabili, queste mostreranno nitidamente la loro appartenenza al repertorio della restaurazione, a partire dal pilastro su cui poggia ogni altra restaurazione che è poi quello del patriarcato nella pienezza delle sue prerogative e delle sue credenziali teologiche. Mentre la “conservazione”, che tra le destre attuali non ha quasi cittadinanza, presenta un elemento di prudenza, di freno, di attaccamento a convincimenti consolidati, la restaurazione è invece segnata da una natura aggressiva, bellicosa, da spirito di vendetta e volontà di distruzione. Deve combattere un nemico, sconfiggere, per così dire, un usurpatore. I tecno-oligarchi come Musk e Thiele non avrebbero mai potuto essere conservatori. Prudenze, timori e preoccupazioni per chi resta indietro, non potevano che frenare il corso dell’innovazione che trascina le loro fantasie e i loro profitti. La “restaurazione” assume invece la maschera del nuovo, della rottura con una stagione trascorsa, di un ritorno che può attuarsi con ogni mezzo, anche il più avveniristico, e ricostruire nelle forme più arbitrarie e feroci i miti dell’autenticità. È insomma un ambiente carico di violenza reazionaria. Della conservazione sopravvive qualcosa a sinistra, tra gli ecologisti e tra i teorici della cosiddetta “modernità riflessiva” nella resistenza al progressivo smantellamento di conquiste sociali, diritti acquisiti ed equilibri ambientali. Qualcosa che non può certo bastare a fermare l’avversario per riprendere l’iniziativa. La restaurazione va contrastata con la stessa grinta con cui pretende di imporsi. Un opposto estremismo? Perché no. questo articolo è stato pubblicato sul manifesto il 18 settembre 2025 L'articolo Trump alla restaurazione di san Kirk, genealogia di una vendetta proviene da EuroNomade.
L’educazione all’ombra del potere
di JUDITH REVEL*. Ogni epoca ha le sue tensioni e le sue fragilità. Per renderne visibile il tracciato sotterraneo, spesso occorre un rivelatore. Tra i sottili indicatori dello spirito del tempo, il rapporto con l’educazione – e più generalmente con tutta la serie di figure e temi che la questione immediatamente evoca: l’infanzia, la pedagogia, l’autorità, la disciplina, i valori, il metodo, il livello, la valutazione, le classifiche – è senza dubbio uno dei più efficaci. Oggi, nel mondo incerto in cui viviamo, è proprio sulla questione dell’educazione che sembrano cristallizzarsi molte delle angosce che costituiscono il nostro quotidiano. Da un lato, il fantasma di bambini sempre più distanti, indifferenti o forse solo diversi, essenzializzati in base alla loro data di nascita (“Millennials”, “Gen Z”…), percepiti a seconda dei casi come immaturi, demotivati, apatici, egoisti, psicologicamente fragili, violenti; dall’altro, adulti tanto più tesi quanto ossessionati dalla genitorialità perfetta, e che investono sui propri figli come se si trattasse di far fruttare fin dalla prima infanzia il capitale che ogni bambino rappresenta. Lezioni private, corsi di lingua, tutor privati, accompagnamento personalizzato, coaching, calcolo del potenziale intellettuale: oggi esiste un intero mercato che accompagna questa strana ricerca della performance genitoriale, condizione primaria della performance infantile a cui è assolutamente necessario aspirare. E poi ci sono i luoghi – e le persone – dediti professionalmente all’insegnamento. Il sistema educativo, al contrario di tutto questo, è costantemente ridotto a tre ossessioni negative: la scuola fallisce in tutte le sue missioni e costa troppo; il livello sta calando; l’autorità non esiste più. Se è necessario ricordarlo, è perché questo fenomeno, che si accentua di anno in anno, dice in realtà due cose. La prima è che il nostro mondo è in crisi e che non lo comprendiamo più. Esigiamo quindi dai nostri figli che siano ciò che crediamo, noi, di non essere abbastanza (o ciò che ci viene chiesto sempre di più): competitivi, agguerriti, concorrenziali, in nome di un individualismo che fa dell’affermazione economica personale il mantra di ogni vita riuscita. La seconda è che ci stiamo allontanando molto rapidamente da tutto quello che la riflessione sull’educazione aveva portato con sé, in particolare in due momenti fondamentali della storia della nostra cultura occidentale: da un lato, la tematizzazione della paideia nel pensiero greco (e le riprese umanistiche che ne avrebbe ricevuto molto più tardi) e, dall’altro, la riflessione moderna sui legami intimi tra educazione ed emancipazione. Due semplici esempi, tra i tanti possibili, separati da quasi venticinque secoli: Le leggi di Platone e Il maestro ignorante di Jacques Rancière. Se lo scopo di ogni legislazione è la virtù nella sua interezza, ci ricorda Platone, allora l’apprendimento della temperanza ne è la condizione fondamentale. Il libro VII delle Leggi ne descrive in dettaglio i principi. Ma ciò che Platone chiama la realizzazione di “tutta la bellezza e tutta l’eccellenza possibili” (788c) non è concepito a partire dall’obbligo della performance. È pensata invece a partire dall’idea, così estranea al nostro mondo e agli attuali discorsi nostalgici di una certa autorità perduta, dell’armonia, cioè della misura e del ritmo, sia per il corpo che per l’anima. Gli esercizi ginnici, come quelli ispirati dalle Muse, diventano quindi contemporaneamente mezzi e fini politici, perché si tratta di imparare “ad odiare ciò che bisogna odiare e ad amare ciò che bisogna amare” (653c). Ora, il ritmo e l’armonia sono direttamente – e non solo metaforicamente – le condizioni di possibilità non solo della crescita dell’individuo, ma dell’insieme corale che egli costituirà con gli altri: un coro che non richiede uniformità ma l’armonizzazione e la complementarità delle differenze. Impariamo quindi da Platone: l’educazione è, fin dalla più tenera età, formazione del cittadino; ma, proprio perché si tratta della polis, non può essere ridotta a una prospettiva individualista. Si tratta di contribuire alla città giusta, al bene comune. Costruire se stessi significa costruirsi con gli altri: la paideia diventa qui Bildung, il modo di soggettivazione non attribuisce ruoli né impone uniformità, ma lascia per così dire “aperta” la possibilità di scambi, la forma delle relazioni e l’incrocio delle voci. All’inizio del XIX secolo, Joseph Jacotot, al quale Rancière dedicherà il bellissimo Le maître ignorant (Il maestro ignorante), stabilisce precisamente un metodo educativo che rifiuti per principio l’assegnazione dei ruoli, a cominciare da quelli dell’insegnante (colui che sa) e dell’allievo (colui che apprende). Il progetto universale di emancipazione delle intelligenze del “metodo Jacotot”, costruito interamente contro il mito pedagogico secondo cui è sempre necessario un maestro che sappia, cerca invece di mettere in pratica un assioma radicale di uguaglianza nel rapporto di insegnamento. Relazione: anche in questo caso occorre essere più di uno per crescere, ma questo incrocio di voci non significa necessariamente una loro gerarchizzazione. Elogio del comune che si costituisce insieme. Nel 1975 Foucault pubblica Sorvegliare e punire. Una frase farà molto discutere. Scrive Foucault: “L’Illuminismo, che ha scoperto le libertà, ha anche inventato le discipline”. Il paradosso, che è alla base della nascita della prigione così come la conosciamo ancora oggi, è anche – almeno secondo l’ipotesi di Foucault – alla base della reinvenzione moderna di altre istituzioni. Tra queste, insieme all’ospedale, alla caserma, alla fabbrica: la scuola. La scuola: luogo di affermazione del progetto emancipatorio dell’Illuminismo, ma anche luogo di imposizione delle discipline, quello strano falso amico concettuale a cui Foucault dà una definizione molto precisa, e più che mai attuale: “un metodo che permette il controllo minuzioso delle operazioni del corpo, che assicura il costante assoggettamento delle sue forze e impone loro un rapporto di docilità-utilità”. Le discipline creano l’individuo produttore. Chiediamoci dunque: cosa abbiamo fatto dell’altro volto dell’Illuminismo, quando lo abbiamo dimenticato a favore del culto delle prestazioni produttive? *Questo testo è un’anticipazione dell’intervento che Judith Revel terrà a Sassuolo sabato 20 settembre nell’ambito de Festival Filosofia dedicata quest’anno al concetto di “Paideia”. È stato pubblicato sul manifesto il 18 settembre 2025 L'articolo L’educazione all’ombra del potere proviene da EuroNomade.
Sumud, ora e sempre
di AUGUSTO ILLUMINATI. Sumud, resilienza un cazzo, resistenza piuttosto, sforzo di perseverare o, come si diceva quando una lingua comune dell’Occidente esprimeva l’impulso rivoluzionario marrano, conatus, per cui ogni cosa in suo esse perseverare conatur, fa valere la sua essenza attuale. La lenta e un po’ scompigliata partenza della Global Sumud Flotilla e il suo avvicinamento contrastato a Gaza segnano un salto di qualità nell’impegno solidale di un movimento internazionale e anticoloniale. Un balzo di scala non solo rispetto alla passività complice dei governi occidentali, in primo luogo di quello italiano, ma anche rispetto a precedenti manifestazioni di piazza, raccolta di aiuti e boicottaggio dei movimenti e dello stesso movimento italiano che solo a luglio aveva raggiunto livelli paragonabili con quelli europei, superando anteriori divisioni e incertezze. Naturalmente la spinta è venuta dal precipitare della situazione sul fronte di Gaza e della Cisgiordania, essendo la politica israeliana sempre più determinata dal ricatto parlamentare delle formazioni più estremiste e dalla spinta sociale dei coloni e delle bande dei “ragazzi delle colline”, feroci e disadattati che fanno da braccio armato sussidiario e provocatorio ai coloni inquadrati nell’esercito e nella polizia di Ben Gvir. La degenerazione profonda di Israele rispetto alle fasi precedenti del colonialismo sionista risulta dalla compattezza del voto parlamentare nel rigetto della soluzione “due popoli due Stati”, che cancella formalmente gli accordi di Oslo e di cui il permanente sostegno elettorale a una maggioranza di estrema destra è soltanto il coronamento. Inoltre, questa maggioranza parlamentare non fa che implementare il passaggio, sancito con atto costituzionale, di Israele da Stato ebraico e democratico (1948) a Stato ebraico (2018). A oggi i processi di radicalizzazione si intensificano, grazie anche allo sfacciato sostegno trumpiano, e si ha l’impressione che, nonostante il succedersi di importanti manifestazioni della società civile israeliana (che peraltro solo in forma minoritaria investono la condizione dei gazawi), tale deriva sia nel breve e medio periodo irreversibile e che si prospetti più una lenta emigrazione degli scontenti che uno scontro aperto fra tendenze. L’immediato futuro è fatto di finte trattative e stragi raddoppiate a Gaza, espropri e annessioni in Cisgiordania, stillicidio di attentati fai-da-te e rappresaglie in Israele, omicidi mirati all’interno e all’estero. PERCHÉ È UN PASSO DECISO IN AVANTI L’iniziativa della Sumud Flotilla allude per la prima volta, in questa fase, a un’interposizione o comunque a un coinvolgimento internazionale che sarebbe legittimo in caso di attacco piratesco israeliano in mare aperto ma anche lungo le coste di Gaza, che non è superficie acquatica israeliana de iure malgrado l’occupazione illegale de facto. Di ben altro che di tutela diplomatica o consolare si tratterebbe, qualora, come già è cominciato con il drone a Sidi Bou Said, le Idf tramutassero in azioni offensive le minacce di Ben Gvir contro i “terroristi” della Flotilla. La stessa Commissione Ue critica l’iniziativa umanitaria come escalation proprio perché teme di doversi far carico delle spropositate reazioni israeliane che smaschererebbero tutta la politica pilatesca di alcuni Stati e della Commissione del suo complesso. Adesso all’ordine del giorno è una tutela militare della libertà di navigazione nel Mediterraneo da parte degli Stati sovrani rivieraschi e di quelli cui appartengono gli equipaggi. Ma un compito primario spetta al c.d. “equipaggio di terra”, cioè alle forze che sostengono la Flotilla in mare e che hanno già minacciato (come i camalli di Genova) il blocco dei porti in caso di operazioni terroristiche di Israele – ciò vale tanto più per l’Italia, il cui governo, a differenza dalla Spagna, non ha preso nessuna iniziativa di boicottaggio o sanzione e dove quindi si è aperto un problema di supplenza dal basso. > Avremo anche noi nei prossimi giorni un bloquons tout! come in Francia, se la > situazione dovesse precipitare – e tutto lo lascia pensare. LE REAZIONI MEDIATICHE Il disastro di immagine di Israele è stato colto perfino dal suo complice-in-chief Donald Trump e viene ogni giorno amplificato su alcune fogne a cielo aperto della stampa italiana – “Il Foglio”, “Libero” “Il Tempo”, ”Il Riformista” – mentre sempre più circospette sono diventate le Tv nazionali e le pagine molinariane di “Repubblica” (per non parlare dei pensosi silenzi di Paolo Mieli e dei tormenti interiori di Adriano Sofri). La corporazione dei giornalisti ha sentito sulla schiena il brivido dei troppi reporter assassinati e quelli che si finanziano con le vendite e la pubblicità qualche conto se lo saranno pur fatto, visto l’orientamento dell’opinione pubblica. Una bella frotta di ipocriti e di umanisti a scoppio ritardato cerca di issarsi (a parole) sulle navi della Flotilla, ma siano i benvenuti, come ogni omaggio che il vizio concede alla virtù – meglio tardi che mai e ci siamo pure divertiti a vedere quanti, esitando a saltare, sono scivolati in acqua dalla sdrucciolevole banchina… In tenace obbrobrio sopravvive la Sinistra per Israele che abbraccia le ragioni imperscrutabili del colonialismo sionista deplorando al massimo gli eccessi di Netanyahu e Ben Gvir. Perfino in un’area un tempo sovversiva abbiamo anche noi, diciamolo di sfuggita, i nostri “ragazzi delle colline”, invero più miei coetanei che non ragazzi. Poveri coglioni da social che d’inverno scherzavano sul “gelicidio” a Gaza e d’estate invocano gli dei degli uragani per affondare i “croceristi” della Flotilla, ma anche più sofisticati ideologhi che si lanciano in prolisse disquisizioni sulla perfetta composizione di classe dei movimenti sovversivi – la sempiterna tentazione di insegnare ai gatti ad arrampicarsi. Oppure c’è chi contesta per impotente populismo la stessa indignazione spontanea per i misfatti degli oppressori, come Luca Sofri sul “Il Post”, che se la prende con il movimento pur così significativo e mondiale scaturito dall’opuscolo Indignez-vous del remoto 2011, insensibile perfino al fatto che il suo estensore, il 93-enne pubblicista ebreo Stéphane Hessel, fosse il figlio reale della coppia resa mitica come Jules e Catherine nel film di Truffaut Jules et Jim… FLUTTUAZIONI PERIODICHE Una volta spiegati i motivi razionali per cui è cresciuta in tutto il mondo l’indignazione e la protesta attiva di massa contro il genocidio israeliano (e perché il termine stesso di “genocidio” sia stato sdoganato, lasciando a combattere nella giungla il solo Galli della Loggia), una volta riconosciuto l’immenso lavoro da formichine che tutte e tutti noi abbiamo fatto – scrivendo, dibattendo sino alla sfinimento con ogni tendenza italiana e palestinese, documentando i soprusi e le uccisioni “sproporzionate”, i massacri e le pratiche di apartheid e pulizia etnica, gestendo le faticose e frustranti manifestazioni che, a differenza delle grandi capitali estere, si allargavano dalle mille alle 10.000 persone (e facevano festa) –, messo in conto l’effetto amplificatore dell’arroganza sionista e dei filo-sionisti, il sostegno controproducente di Trump con la grottesca operazione Riviera di Gaza e la sostituzione stragista e inefficiente della Gaza Humanitarian Foundation alle espulse agenzie Onu, scontato tutto questo e il consenso alla causa palestinese alimentato nel mondo cattolico dai gesti profetici di papa Bergoglio, non ritrattati dal suo successore, resta una domanda: perché proprio ora, quasi tutto d’un colpo, è diventato arduo sul piano morale e mediatico non dirsi pro-Pal e non agitare la bandiera rosso-verde-nera? Con tutti gli opportunisti e gli istrioni al seguito, grazie comunque e ancora. > Una risposta del tutto razionale non c’è, però altre volte ho visto fenomeni > simili, ondate internazionali più o meno estese, più o meno legate a momenti > di crisi sociale ed espressive di interessi di classe. È successo nel 1960 simultaneamente in Italia, Turchia, Giappone e Corea del sud, si è ripetuto su scala planetaria nel 1966 nei campus statunitensi e subito dopo in tutta Europa e in Cina, con lunghi strascichi e rimbalzi negli anni ’70. Abbiamo poi (solo in Italia) il movimento chiamato della Pantera (1989-1990), l’ondata mondiale no global di fine millennio, con gli episodi salienti di Seattle e Genova, e, dopo la dura repressione, ancora una stagione di lotte fra il 2008 e il 2011, che si salda alla fine con gli Indignados, Occupy Wall Street e primavere arabe, e confluisce con una seconda stagione del movimento femminista. Un andamento carsico, di volta in volta con motivazioni precise, con innovazioni strumentali decisive (il ciclostile – angeli inclusi -, le radio libere, il fax, il primo embrionale uso di Internet, Indymedia, i social), successi e sconfitte, e tuttavia resta una zona d’ombra nel capire il quando e il perché, il rapporto fra esplosione e durata, fra cause spesso limitate ed effetti strepitosi, eterogeneità di motivazioni e legame molto fluido con la composizione di classe che risultava invece evidente fra il 1960 e il 1978. Di qui le farneticazioni sulla deriva woke e il rimpianto della limpida struttura classista delle insorgenze novecentesche. Mais où sont les neiges d’antan, ovvero ginocchia, fiato e ormoni di allora? L’unica spiegazione plausibile è un periodico ricambio di generazioni, che riaccendono le lotte cambiandone composizione di genere, aspirazioni e pratiche e smaltendone come scorie nostalgia e reducismo. Tuttavia la carsicità e l’incertezza sulle cause scatenanti non tolgono il fatto essenziale. Che queste fratture tumultuarie periodiche sono “occasioni” che vanno colte al volo e, per quanto possibile, gestite, sedimentate in soggettività temporanee. Il movimento non può suscitare a piacere le rotture congiunturali, ma si costituisce nella misura in cui riesce ad afferrarle e organizzarle, garantendone tenuta ed efficacia. Ebbene, l’ondata pro-Pal si presenta con questi caratteri di sorpresa e irruenza, accompagnandosi ad altre tematiche conflittuali non direttamente connesse con la lotta anti-imperialistica e anti-coloniale. Basti vedere l’ampiezza che ha preso la difesa dei centri sociali dopo la provocazione milanese sul Leoncavallo. E non dubito che altri episodi ci saranno, con l’imminente riapertura delle scuole e la crisi economica che scuote l’Europa e su cui al momento galleggia la nostra stagnazione. Tira un buon vento e disporre bene le vele è affar nostro! questo articoo è stato pubblicato su Dinamo Press il 10 settembre 2025 L'articolo Sumud, ora e sempre proviene da EuroNomade.
Masaniello, Spinoza e Negri: il divenire rivoluzionario del desiderio
di FRANCESCO FESTA. Philos Mettere insieme Masaniello, Spinoza e Negri significa dar vita a una genealogia politica coerentemente inscritta nella storia del materialismo moderno e contemporaneo. Tre figure lontane nel tempo e nello spazio, ma accomunate da una medesima tensione. Il pescatore che nel luglio 1647 guidò la rivolta popolare – forse fra le più significative dell’età moderna; il filosofo ebreo olandese del Seicento che fece del desiderio e dell’immanenza il cuore della sua filosofia; e il filosofo marxista del Novecento che, attraversando il ’68, il ’77 e i movimenti globali, vide in Spinoza – insieme a Machiavelli e Marx – un perno per ripensare il materialismo dei suoi giorni e il comunismo a venire. Eppure, se si segue il filo che li lega, ci si accorge che Masaniello, Spinoza e Negri sono momenti di un’unica costellazione rivoluzionaria. Masaniello incarna il corpo plebeo della moltitudine che insorge; Spinoza ne restituisce la forza in termini filosofici, fondando una teoria del desiderio come potenza costituente; Negri ne raccoglie l’eredità per leggere i movimenti di classe del Novecento e del nuovo millennio. Il punto di contatto decisivo è un aneddoto che, lungi dall’essere marginale, diventa cifra filosofica: Spinoza che si autoritrae nei panni di Masaniello. Johannes Colerus, il suo biografo, racconta di aver visto un disegno raffigurante un pescatore con la rete sulla spalla, simile al rivoluzionario napoletano. Van der Spijk, presso cui Spinoza alloggiava, confermò che si trattava di un autoritratto. Il filosofo perseguitato trovava così una maschera adeguata: il corpo plebeo e ribelle di Masaniello, il vinto che continua a vivere come simbolo. In quel travestimento si rivela il legame profondo fra pensiero e azione: la filosofia non si limita a descrivere la libertà, ma la incarna nel volto di chi ha osato guidare i lazzari contro un impero. Perché Masaniello? Masaniello è stato ripreso anche da Gilles Deleuze e Félix Guattari nell’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1972) quando parlano della “macchina desiderante”, ossia, quando il desiderio si sottrae ai dispositivi di controllo capitalistici – Stato, famiglia e capitale – e diviene produzione sociale di alterità, ossia, “potere costituente” – come ha scritto vent’anni dopo Negri in un saggio essenziale che porta lo stesso titolo, Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno. “Il vivente veggente – scrivono Deleuze e Guattari – è Spinoza vestito da rivoluzionario”. Bene: perché Masaniello? La biografia di Masaniello ci restituisce, innanzitutto, una figura profondamente radicata nello spazio europeo, assai distante dalla ricostruzione di una rivolta antispagnola dai caratteri locali. La ribellione del 17 luglio 1647, guidata dal pescivendolo alla testa di un esercito di 150 mila lazzari, fu la prima insurrezione dell’età moderna con un’eco europea. Carrettieri, facchini, marinai, pescatori, tessitori, poveri e lazzaroni della seconda o terza città europea misero in scacco il Viceregno di Spagna, in protesta contro una gabella sul pane. Per comprendere l’entità di questa rivolta, durata nove giorni e poi repressa nel sangue, basti leggere un passo de I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di un’utopia libertaria (2004) di Peter Linebaugh e Marcus Rediker: “I rivoltosi misero il mondo a soqquadro: i rematori di galee divennero capitani, gli studenti ricevettero i libri, le prigioni si aprirono, i registri delle imposte vennero bruciati. Fu proibito ai nobili di portare abiti sfarzosi, mentre i loro palazzi furono devastati e gli arredi dati alle fiamme nelle strade. Uno degli insorti gridava: ‘questi beni sono usciti dal sangue del nostro cuore; e mentre bruciano, nel fuoco dell’inferno dovrebbero bruciare anche le anime e i corpi di quelle sanguisughe che li possiedono’. I ribelli decretarono che chi fosse stato sorpreso a saccheggiare poteva essere giustiziato perché ‘tutto il mondo sappia che non abbiamo intrapreso questa faccenda per arricchirci ma per rivendicare libertà comune’. Il prezzo del pane scese a livelli consoni a un’economia morale. Questa era l’essenza della rivolta.” Questa vicenda ebbe una risonanza enorme nei centri della marineria europea, come l’Inghilterra e l’Olanda. I mercanti inglesi, che avevano da poco eclissato i concorrenti italiani nei commerci con l’oriente, inviavano fino a 120 navi e 3 mila marinai a Napoli ogni anno. Furono proprio i marinai una delle principali fonti di informazioni sulla rivolta. Da qui la coniazione di medaglie ad Amsterdam, i drammi messi in scena clandestinamente a Londra e le prime narrazioni tradotte e diffuse: lo scopo era immedesimarsi e riconoscersi nella rivolta napoletana. Un esempio emblematico è la pièce The Rebellion of Naples del 1649: essa combinava eventi di Napoli e di Londra, mostrando la circolazione dell’esperienza insurrezionale e suggerendo l’unità del conflitto di classe nella diversità dei contesti. Il popolo aveva scoperto la propria forza: era un’insurrezione autonoma, fonte di timore per l’emergente Stato borghese e, al tempo stesso, esempio di speranza per i proletari in cerca di giustizia. In questo contesto, in uno dei suoi quaderni del 1649, Spinoza si rappresenta nelle vesti del pescivendolo Masaniello. Lo stesso Deleuze, nella “Prefazione” a L’anomalia selvaggia. Saggio su potere e potenza in Baruch Spinoza (1982) di Negri, sottolinea che “ciò che Negri aveva fatto incisivamente per Marx a proposito dei Grundrisse [si riferisce Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse del 1979] lo fa ora per Spinoza: la totale rivalutazione del posto che il Breve Trattato e il Trattato teologico-politico occupano nell’opera di Spinoza. In questo senso Negri propone un’evoluzione di Spinoza: da un’utopia progressista a un materialismo rivoluzionario. Egli è probabilmente il primo a conferire pieno senso filosofico all’aneddoto secondo il quale Spinoza si era disegnato nel rivoluzionario napoletano Masaniello”. Spinoza e l’istituzione rivoluzionaria È proprio a partire dal gesto spinoziano di immedesimarsi nelle vesti di Masianello che Negri ha offerto alcune delle sue interpretazioni più radicali. Egli ne parla in due saggi fondamentali, entrambi reperibili in rete. Il primo è Starting from Masaniello… Deleuze and Spinoza, a political becoming (in A. Negri, Spinoza: then and now, a cura di Ed Emery, per i tipi di Polity press nel 2017), in cui Negri scrive che rientra nel “periodo intorno al 1968 (e fino ad oggi), quando la riscoperta del pensiero di Spinoza ha permesso di ristabilire l’idea di democrazia e di bene comune”. E il secondo Deleuze/Spinoza. Un devenir-politique, (pubblicato sulla rivista “Archives de philosophie”, 84/3, 2021, 51-63). Scrive Negri: “questo articolo si interroga sul significato del parallelo tra Spinoza e Masaniello tracciato da Gilles Deleuze e Félix Guattari in L’anti-Edipo. La sfida è quella di concepire una potenza rivoluzionaria irriducibile al modo in cui la rivoluzione era concepita dai partiti o dai gruppuscoli di estrema sinistra al tempo del Maggio ’68”. Dunque, Masaniello e il ’68. Ma, in realtà, Masaniello funge da architrave per il nesso tra rivoluzione e istituzione, desiderio e politica. L’aneddoto è la cifra del divenire rivoluzionario del pensiero: una metafora del modo in cui filosofia e vita si intrecciano. Non a caso, scrive Negri che “il vero problema della rivoluzione, una rivoluzione senza burocrazia, è quello di inventare nuovi rapporti sociali in cui entrano in gioco singolarità e minoranze attive, in uno spazio nomade senza proprietà né recinto”. Qui si apre la possibilità di pensare la rivoluzione non solo come insurrezione, ma come costruzione di istituzioni rivoluzionarie. Spinoza – secondo Negri – offre proprio questo concetto: l’idea di una “istituzione rivoluzionaria” che permetta di organizzare insieme insurrezione e trasformazione, connettendo il desiderio alla vita comune. È questa la “macchina astratta” che Deleuze e Guattari avevano colto e che, con Spinoza, diventa strumento teorico e politico dei movimenti del ’68. L’anti-Edipo si colloca così dentro il grande “rizoma” costruito a partire dal ‘68: un dispositivo che organizza il desiderio e ne fa una forza produttiva, non più subordinata alla logica della mancanza. Spinoza diventa l’autore di una vera “officina del desiderio” che trasforma la teoria delle passioni in linea d’azione. Dal che la formula “Spinoza in veste di rivoluzionario napoletano” non è caricatura, ma segno della sua capacità di incarnare il desiderio come potenza costituente, come istituzione di nuove forme di vita. È una filosofia che si oppone alla riduzione del desiderio a bisogno e alla sua appropriazione capitalistica, restituendolo invece come produzione reale, capace di resistere e trasformare. Spinoza occupa una posizione di comando nello sviluppo dell’anti-Edipo. Prima di tutto, nella lotta contro la mistificazione che Edipo impone – la situazione in cui la produttività del desiderio viene chiusa all’interno di un dispositivo che lo declassa a “bisogno dovuto alla mancanza” e lo considera dominato da una forza miracolosa, che ne espropria la creatività. Come direbbe Spinoza, è il “rifugio dell’ignoranza”: il capitale, infatti, è il corpo senza organi del capitalista, o meglio dell’essere capitalista. Questo corpo senza organi ricade sulla produzione-desiderio, la attrae e se ne appropria, riducendola a una fabbrica di fantasmi. È il trionfo del principio idealista che definisce il desiderio come mancanza, e non come produzione. Ma il desiderio resiste, e continua a produrre realtà. Le pagine dell’anti-Edipo che circondano la frase su “Spinoza in veste di rivoluzionario napoletano” rappresentano una sintesi dei libri III e IV dell’Etica, dove l’apparizione di un atto di repressione sociale non interrompe l’espressione del desiderio, ma ne stimola al contrario la produttività. Ciò che viene proposto è un vero processo di costituzione ontologica: le macchine desideranti si organizzano come macchine sociali e tecniche; la produzione desiderante si trasforma in produzione sociale; in breve, le macchine desideranti sono sia tecniche che sociali. È qui che si trova il loro principio e l’inizio della loro “istituzione del divenire”, perché esse non sono solo scintille isolate del divenire, ma anche tendenze, continuità del loro stesso farsi. Tornando a Masaniello Al decennio della rivolta seguì l’inverno della restaurazione. Masaniello venne sepolto – ucciso. Eppure la macchina astratta resta. E la virtualità del desiderio di rivoluzione è sempre lì. Del “virtuale” non si dirà che è “possibile”, ma che “è”. “Una vita è immanenza assoluta: potenza completa, beatitudine completa” osserva Deleuze nel suo ultimo scritto del 1995. Spinoza e Deleuze elevano questa virtualità come una sfida: Masaniello non scompare mai. Forse ritorna meno grossolano e meno violento. Ma è ancora lì. Come macchina inconscia e insurrezionale del desiderio che si erge sempre contro il padre, il bene e il potere. In questa genealogia, Masaniello, Spinoza e Negri si intrecciano come figure scandalose ed eccedenti. Masaniello, assassinato e vilipeso; Spinoza, scomunicato e perseguitato; Negri, imprigionato e osteggiato. Tutti e tre, in modi diversi, furono percepiti come pericolosi. Ma nessuno di loro è mai stato davvero sconfitto. Il fil rouge attraversa secoli. Dal Mercato di Napoli del 1647 all’Amsterdam spinoziana, fino alle piazze del ‘77 e ai movimenti globali. Sempre ritorna la stessa dinamica: la moltitudine che scopre la propria forza, resiste al dominio, istituisce nuove forme di vita. Le futur antérieur Masaniello–Spinoza–Negri prende forma dentro i conflitti sociali, riflettendo le tensioni di classe che li attraversano. Questo filo suggerisce che la sconfitta non è mai cancellazione: la repressione può soffocare una rivolta, imprigionare i militanti, perseguitare i filosofi, ma ciò che resta è la sedimentazione storica delle esperienze di resistenza, dei concetti prodotti dal conflitto, delle istituzioni nate nella lotta, che riemergono altrove, in altri tempi e in altre forme. Non si tratta di mitizzare né di attribuire ruoli, ma di riconoscere nelle vicende storiche e nelle biografie l’irruzione della materialità delle forze produttive e delle condizioni di vita, e al contempo la brutalità del dominio e del potere che cerca di inseguire e recuperare il passo dello sviluppo dell’intelligenza collettiva tramite la violenza di Stato nel tentativo di ripristinare l’ordine costituito. Ciò che resta, tuttavia, è un’eredità politica composta modi di vita, comunità, giustizia ed emancipazione, che attraversano epoche e territori, depositandosi come memoria di classe. Allo stesso modo, Spinoza e Negri sono attrezzi teorici capaci di svelare la continuità dei rapporti di potere: un intreccio microfisico di comando e resistenza, in cui ogni dispositivo di dominio ha anche e soprattutto le sue linee di fuga. Il potere è un rapporto: chi lo detiene incontra sempre la resistenza di chi lo subisce. E viceversa. È dentro questa tensione materiale che si giocano le possibilità di trasformazione. La rivoluzione, così, è pratica storica concreta, radicata nelle condizioni reali di oppressione e nell’organizzazione delle donne e degli uomini, dei corpi e dei desideri, nella sottrazione che crea nuove istituzioni. È la lotta di classe ed è l’irrompere di nuove forme di vita che spezzano l’ordine costituito. Questo è il materialismo storico all’altezza dei nostri tempi. Il futuro anteriore di una genealogia che interpella il presente. L'articolo Masaniello, Spinoza e Negri: il divenire rivoluzionario del desiderio proviene da EuroNomade.
Combattenti per la verità. Anas al-Sharif e i suoi colleghi, una strage avvolta nella menzogna
di GIROLAMO DE MICHELE. Il 10 agosto scorso il giornalista Anas Jamal Mahmoud al-Sharif, uno dei volti più noti delle corrispondenze giornalistiche da Gaza, è stato assassinato insieme ad altri cinque operatori dell’informazione. Al-Sharif sapeva di essere da tempo nel mirino dell’esercito di occupazione israeliano. Nondimeno, come molti suoi colleghi e colleghe – Anna Politkovskaya, Giancarlo Siani, Pippo Fava, Mauro De Mauro, Simone Camilli, Maria Grazia Cutuli, Daphne Caruana Galizia, Veronica Guerin, Peppino Impastato, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, Mauro Rostagno – ha continuato fino all’ultimo la sua battaglia per la verità, con le armi di cui disponeva: una telecamera, un microfono, i suoi occhi e la sua voce. L’IDF dispone di droni in grado di colpire un singolo bersaglio: la ditta costruttrice Rafael Advanced Systems ha usato la ripresa di un assassinio mirato come spot pubblicitario (e Youtube non chiede la verifica della maggiore età per vederlo). Nondimeno, l’IDF ha scelto di colpire l’intero ufficio stampa di al Jazeera, situato in una tenda presso un ospedale. La strage di giornalisti è avvenuta al culmine di una sequenza che è difficile pensare dettata dal caso. Dapprima, 28 luglio, l’assassinio a sangue freddo dell’attivista Awdah Athaleen, che aveva partecipato al documentario vincitore del premio Oscar No Other Land. Il giorno dopo, il tentativo da parte di un colono armato di impedire il reportage alla squadra del TG3. Quel giorno Lucia Goracci ha dato una lezione di giornalismo svolgendo imperterrita il suo lavoro avendo davanti il colono armato su un pickup a motore accceso (qui, dal minuto 8:25). Ma l’amaro commento che ha consegnato al suo post – «a me vengono in mente le parole con cui Michele Santoro commentò la morte di Libero Grassi, che era stato ospite suo a Samarcanda: “mi ero illuso che illuminare la battaglia di Libero, gli avrebbe fatto uno scudo intorno”» – lasciava presagire il peggio. Infine, registrata l’indifferenza dei governi “democratici” e “occidentali” davanti alle violazioni della libertà di stampa, l’IDF ha svolto il compito assegnato con la strage di sei operatori dell’informazione. La mafia, facendo tesoro di un metodo praticato da Italo Balbo, ha più volte accompagnato esecuzioni “eccellenti” con la diffusione di dicerie, il più delle volte a sfondo sessuale, sulle vittime. Con pari, se non maggiore, indegnità morale lo Stato d’Israele ha giustificato la strage del 10 agosto con la pretesa militanza di al-Sharif nelle file di Hamas. Questa diceria è stata rigettata dalla BBC – «La BBC non può verificare in modo indipendente questi documenti e non ha visto prove del coinvolgimento di Sharif nella guerra attuale o del fatto che rimanga un membro attivo di Hamas» – e da Newsweek – «Newsweek non è stata in grado di verificare in modo indipendente i documenti e le fotografie forniti dalle IDF né il loro contenuto» –, oltreché dall’United Nations Office of the High Commission on Human Rights (OHCHR), dal Committee to Protect Journalists (CPJ), dalla Foreign Press Association e da Reporters Sans Frontières. Le accuse israeliane sono state definite baseless, infondate, e flimsy, inconsistenti. Peraltro, va tenuto presente che il diritto internazionale in operazioni di guerra divide la popolazione civile in due categorie: i combattenti impegnati in operazioni militari, e i non combattenti; solo i primi sono bersagli legittimi, non i secondi, men che meno i giornalisti impegnati nel lavoro di informazione. Quale che fosse il suo status, al-Sharif, in base alle norme di diritto internazionale non era un bersaglio lecito. La dichiarazione dell’IDF «Una tessera stampa non è uno scudo per terroristi» è una cinica dichiarazione di guerra al diritto internazionale e alla libertà di informazione. Ce la meniamo tanto con «l’unica democrazia in Medio Oriente»: ebbene, per essere una democrazia non basta mettersi il grembiulino del bravo cittadino e andare a depositare una scheda nell’urna ogni tot anni. Una democrazia rispetta il diritto internazionale, e se non lo rispetta non lo è. Le due cose non sono compatibili. Potrebbe bastare. Nondimeno, un fact-checking sull’assassinio di al-Sharif è istruttivo. Non tanto per “riabilitare” un combattente per la libertà della sua terra con le armi dell’informazione, quanto per mostrare le strategie della menzogna istituzionalizzata del governo e dell’esercito israeliani. E anche per sfatare qualcuna delle bufale che si generano da sé per disattenzione o distrazione. Non servirà a convincere i negazionisti – che probabilmente non sono arrivati fino a questo punto nel leggere, e sono già a commentare sui loro social–, ma aiuterà a forgiare nuove armi per una battaglia che sarà di lunga durata. DUE PREMESSE E UNA BIOGRAFIA (ANZI, SEI) In primo luogo, le fonti. Per questa inchiesta mi sono servito dei fact-checking di Snopes, il più noto sito del settore; inoltre, di articoli di fact-checking della BBC [1 – 2], di Newsweek, di Reporters Sans Frontières, e soprattutto del giornale israeliano +972 Magazine, che sta svolgendo, spesso in collegamento col quotidiano israeliano Haaretz, un formidabile lavoro di inchiesta sui crimini commessi dall’esercito israeliano. Una di queste inchieste di +972 – «”Legitimization Cell”: Israeli unit tasked with linking Gaza journalists to Hamas» – ha portato alla luce ciò che in molti pensavamo dovesse esistere: la creazione di una unità speciale dell’esercito incaricata di trovare collegamenti fra i giornalisti di Gaza e Hamas, costi quel che costi, anche attraverso «questionable claims» [affermazioni discutibili], per poter legittimare l’assassinio dei giornalisti. «L’obiettivo era semplicemente trovare il maggior numero possibile di materiali per sostenere l’impegno nell’hasbara», scrive +972. Hasbara significa «spiegazione»: nell’uso che stiamo esaminando, il termine è risemantizzato in «propaganda». Un esempio di queste affermazioni sospette è l’esplosione all’ospedale al-Ahli il 23 ottobre 2023, che ha causato centinaia di vittime. L’IDF l’ha attribuita al malfunzionamento di un razzo di Hamas, che avrebbe usato l’ospedale come base di lancio. Una successiva inchiesta indipendente del febbraio 2024 ha stabilito che l’esplosione filmata pochi secondi prima era stata causata dallo stesso Drone Interceptor che riprendeva la scena. Un secondo caso è l’assassinio del giornalista di al-Jazeera Hamza Al-Dahdouh, assieme all’operatore video Mustafa Thuraya a Khan Younis nel gennaio 2024. L’accusa di star effettuando riprese con un drone – cosa che a dire dell’IDF giustificava la loro esecuzione – è stata confutata da una successiva inchiesta del Washington Post. E ancora, la falsa accusa di essere un operativo di Hamas rivolta al giornalista Ismail al- Ghouls, uno dei più stretti collaboratori di al-Sharif, decapitato da un proiettile scagliato da un drone nel giugno 2024 – ma di questo parlerò più avanti. Vediamo adesso chi era Anas al-Sharif. Al contrario di ciò che si è letto, non era uno sconosciuto inopinatamente ingaggiato da al-Jazeera subito dopo il 7 ottobre 2023. Al-Sharif il mestiere di giornalista lo aveva nel sangue: aveva una laurea in comunicazione all’Università di al-Aqsa, e una specializzazione in radio e televisione. Dopo un apprendistato all’Al-Shamal Media Network, era stato assunto da al-Jazeera. Quest’ultima, sia detto una volta per tutte, è un’emittente televisiva internazionale, la cui professionalità non può essere misurata sulla base dei pizzini letti dai generali dell’IDF o dal governo israeliano. È un’emittente araba, dunque… Una critica del genere ha lo stesso valore dei titoli del Vernacoliere sui pisani – salvo che al Vernacoliere sanno di fare satira, non antropologia criminale della toscanità. Al tempo stesso, Al-Sharif era entrato a far parte della squadra dell’agenzia Reuters, partecipando alla copertura della guerra con la quale la Reuters ha vinto il Premio Pulitzer 2024 nella categoria Breaking News Photography. La sua notorietà era costata la vita a suo padre Jamal, assassinato nel bombardamento della casa di al-Sharif nel campo profughi di Jabalia il 6 dicembre 2023, nel corso di una vasta offensiva dell’IDF contro le abitazioni delle famiglie dei giornalisti gazawi, fra il novembre e il dicembre 2023. Al-Sharif aveva una moglie e due figli. La sua visione politica coincideva col suo mestiere; in ogni caso, aveva più volte espresso critiche ad Hamas, definendo il lancio di missili «un comportamento sconsiderato sia sul piano morale che su quello dell’interesse nazionale» (3 aprile 2025), e chiedendo ad Hamas di accettare il cessate il fuoco anche al prezzo della liberazione di tutti gli ostaggi: nel dicembre 2024, con un vocale, e nel luglio 2025. Ultimo dettaglio: come testimoniato dal post del giornalista e anchorman Amit Segal, uno dei più importanti nomi della televisione israeliana, al-Sharif era stato arrestato durante il primo assedio e bombardamento dello Shifa Hospital, il 15 novembre 2023, interrogato, e poi rilasciato. Teniamo a mente questo evento. Piccola digressione: l’ospedale al-Shifa fu attaccato con la motivazione che nei suoi sotterranei ci sarebbe stato un centro di comando di Hamas. L’accusa di un uso improprio dell’ospedale, compresi i tunnel sottostanti – alcuni dei quali di costruzione israeliana – è stata smentita da Amnesty International, che operava ad al-Shifa dal 2015: > «Amnesty International non ha prove che indichino che l’ospedale al-Shifa sia > stato utilizzato per scopi diversi dal trattamento dei pazienti durante > l’attuale conflitto del 2023. Amnesty International non ha finora visto alcuna > prova credibile a sostegno dell’affermazione di Israele secondo cui al-Shifa > ospita un centro di comando militare; al tempo stesso, Israele ha > ripetutamente fallito nel produrre qualsiasi prova a sostegno di questa > affermazione, che ha messo in circolazione almeno dai tempi dell’Operazione > Piombo Fuso 2008-2009». Ulteriori smentite dalla stampa internazionale, uno per tutti il Guardian: > «Israele ha ripetutamene affermato che Hamas operava da un comando e centro di > controllo all’interno di tunnel vicini all’ospedale e sotto di esso, benché > gli elementi forniti sinora siano lungi dal provarlo». Ma ricordiamo anche gli altri cinque operatori dell’informazione uccisi il 10 agosto. Mohammed Qreiqeh, 33 anni e padre di due figli, copriva le operazioni militari nel nord. Sua madre era stata uccisa nel secondo bombardamento dell’ospedale di al-Shifa nel marzo 2024, suo fratello nel bombardamento di Gaza City nel marzo 2025. Il cameraman Ibrahim Zaher, 25 anni, veniva anche lui, come al-Sharif, dal campo profughi di Jabilia. Oltre che come giornalista, svolgeva attività di volontariato nei servizi sanitari. Anche Mohammed Noufal veniva da Jabilia. Aveva perso nei bombardamenti dei primi giorni la madre e un fratello. Il cameraman freelance Moamen Aliwa, laureato in ingegneria, svolgeva la sua attività di giornalista attraverso Instagram, come pure il freelance Mohammed al-Khaldi. Il suo ultimo video, una settimana prima del suo assassinio, mostrava una bambina di otto anni in pericolo di vita per l’inedia. Non esiste, neanche inventata, alcuna evidenza di un collegamento di questi giornalisti con Hamas. Come non ne esistevano per il giornalista Yasser Murtaja, assassinato da un cecchino dell’IDF il 6 aprile 2018. Il suo legame operativo con Hamas risultò essere il suo arresto e la sua detenzione nelle carceri di Gaza! L’inchiesta aperta dall’IDF sul caso è rimasta a lettera morta, come sempre accade. QUALI PROVE ESISTONO DI UNA RELAZIONE FRA AL-SHARIF E IL BRACCIO MILITARE DI HAMAS? L’IDF, tramite il suo account su X e il suo portavoce Avichai Adraee, ha sostenuto l’esistenza di documenti comprovanti la militanza operativa di al-Sharif nel braccio armato di Hamas. Adraee possiamo ignorarlo: il suo post ha come prova un suo post precedente nel quale, nell’ottobre 2024, lanciava le stesse accuse senza fornire prove del fatto che al-Sharif intendesse «fare carriera dentro Hamas» con la sua attività giornalistica. Ci si chiede come, invece, si faccia carriera dentro l’IDF – ma che te lo dico a fare? Le “prove” fornite, o fatte circolare, dall’IDF si dividono in tre sottocategorie: tre documenti provenienti «da un computer di Hamas nella striscia di Gaza»; un post di al-Sharif su Telegram del 7 ottobre 2023; alcune foto provenienti dal canale Telegram di al-Sharif. Andiamo per ordine. I TRE DOCUMENTI L’IDF non ha mai consentito ad alcuna verifica indipendente su questi pretesi documenti, non li ha mai mostrati in originale alla stampa, ha risposto negativamente a qualsivoglia richiesta di chiarimenti, non ha mai fornito indicazioni su questo preteso computer nel quale erano archiviati documenti concernenti gli affettivi di Hamas. Sempre in nome di quell’essere «l’unica democrazia del Medio Oriente». In democrazia vige la presunzione di non colpevolezza, è l’accusa a dover fornire le prove di eventuali crimini. «È così perché lo dico io» può valere nella Fattoria degli animali (ma Napoleon aveva più classe), non in una democrazia. Aggiungo che l’IDF avrebbe avuto tutto l’interesse a dimostrare l’autenticità di questi “documenti”: come minimo, avrebbe messo due testate informative importanti come al-Jazeera e Reuters in condizione di dover sospendere il loro rapporto con al-Sharif. Reporters sans Frontières ha interpellato due studiosi, esperti di storia di Hamas, come consulenti, su questi screenshot spacciati come prove: «Per quanto riguarda l’autenticità del documento, uno degli esperti ha dichiarato di non aver mai visto un elenco simile nella storia della sua ricerca su Hamas.» Andiamo però a vedere cosa dicono questi tre fogli. Il primo, datato 2023, è una lista di combattenti «suspended» e «unassigned», nel quale al-Sharif risulta essere stato ferito in un’esplosione, e per effetto delle ferite invalidanti sofferente di «udito estremamente debole nell’orecchio sinistro, vista debole, e costanti emicranie e mal di testa». Il secondo lo descrive come «group leader», e riporta la data del suo 17esimo compleanno come giorno del suo arruolamento (dal 2013 al 2017). Il terzo lo dichiara membro dell’unità Nukhba, la punta di diamante delle Brigate al-Qassam (una specie di Battaglione San Marco di Hamas). Ebbene, queste informazioni si contraddicono e sono incoerenti: il reclutamento in Hamas avviene non prima del conseguimento della maggiore età (18 anni) e due anni più tardi nel corpo d’elite Nukhba (come testimoniano gli esperti militari interpellati da RSF), e solo dopo anni di addestramento operativo, che al-Sharif non poteva avere, essendo stato – stando alle “fonti” – messo in disarmo per un’invalidità acquisita nel 2017. È un caso isolato? No: le stesse fonti registravano l’ingresso nell’unità Nukhba di Ismail al-Ghouls, giornalista amico di al-Sharif, nel 2010, quando al-Ghouls aveva 10 anni; salvo, in un altro documento, fornire la data del 2017 per il suo reclutamento in Hamas – contraddittoria con la prima, e comunque al di sotto dei 18 anni. Peraltro, nel marzo 2024 al-Ghouls era stato arrestato e interrogato: se esistevano prove della sua militanza in Hamas, perché era stato rilasciato? La stessa domanda, com’è ovvio, vale per al-Sharif. Resta che al-Sharif è stato un giornalista a tempo pieno. Lo diciamo con le parole del veterano della stampa statunitense Ryan Grim: > «L’idea che qualcuno si spacci per giornalista facendo reportage in diretta > tutto il giorno, tutti i giorni, per due anni di fila – ma in realtà sia > segretamente un terrorista (in quali momenti??) – è così stupida che dimostra > quanto potere Israele crede di avere. Il pretesto per assassinare un > giornalista noto a livello mondiale non deve nemmeno avere senso. Non importa > quel che dicono: possono uccidere con impunità e lo sanno». IL MESSAGGIO SU TELEGRAM Alla morte di al-Sharif è comparso un messaggio dal suo canale Telegram, nel quale il giornalista, alle 14.49 del 7 ottobre, avrebbe esultato per ed elogiato «gli eroi» che dopo nove ore – ma in realtà sono otto… – stavano ancora «scorrazzando e catturando» israeliani. Questo messaggio, di per sé, non dimostrerebbe alcunché rispetto alle attività di al-Sharif: al più, è l’espressione di uno stato d’animo, criticabile o meno. Ma il messaggio è stato messo in forte sospetto, perché non figura nella cronologia, e perché è incoerente con la sequenza dei messaggi che al-Sharif lanciava dalla sua pagina social. David Puente ha rintracciato nella Wayback Machine un salvataggio di questo messaggio datato 27 novembre 2023. Attenzione: Puente non ha dimostrato che il messaggio è autentico, cioè proveniente dal dispositivo di al-Sharif: ha dimostrato che questo messaggio è stato salvato cinquanta giorni dopo. La precisazione è importante, perché, come si è scoperto con il caso del software spia Graphite di produzione israeliana installato – ancora non sappiamo ad opera di chi – nei telefonini degli esponenti di Mediterranea Luca Casarini, Beppe Caccia, don Mattia Ferrari e del giornalista di Fanpage Francesco Cancellato, l’esercito israeliano possiede un software in grado di introdursi nel sistema operativo e agire in proprio, inviando messaggi dalle pagine social degli utenti a loro insaputa, oltre che di attivare la telecamera. Va aggiunto che due settimane prima di quel salvataggio del 27 novembre al-Sharif e il suo telefonino erano in mano militare israeliana, come abbiamo visto. Per di più, quando al-Sharif avrebbe messaggiato, quel che si sapeva dell’attacco del 7 ottobre non sembrava motivo di eccessivo entusiasmo. In quel momento – si veda la prima pagina di Le Monde alle ore 15 – le notizie parlavano di 70 vittime israeliane, e già 198 palestinesi per la rappresaglia immediata, e di rapimenti ancora non si aveva notizia. Ma facciamo un esperimento mentale: ipotizziamo che il messaggio sia autentico, che sia stato davvero lanciato da al-Sharif, e che questi lo abbia poi maldestramente cancellato. Dico maldestramente, perché non è vero che nulla si cancella dalla rete: se uno sa come fare – e al-Sharif aveva una laurea e una specializzazione nell’uso dei media – un file scompare per davvero. Provate a cercare in rete il famoso “file dblab” contenente i nomi degli atleti partecipi alla “cura Conconi”, che pure per qualche tempo è stato presente in rete… Abbiamo dunque un militante entusiasta e parecchio preveggente, che però attende ben 8 ore – ma sbaglia a leggere l’ora e ne dichiara 9 – prima di lanciare un unico messaggio, che a quanto pare nessuno si fila, a dispetto di una certa notorietà come mediattivista del suo autore. A metà novembre, poi, al-Sharif è fermato e interrogato, ma i suoi inquisitori non si accorgono di questo messaggio – che però, il 27 novembre 2023, viene rilanciato su una pagina web, ed è per questo che il Web Archive lo “cattura”. Nei 17 mesi successivi al-Sharif diventa sempre più popolare, ma il suo messaggio viene rilanciato solo altre due volte: lo screenshot di David Puente mostra infatti che al 6 aprile 2025 ci sono solo tre salvataggi. Fate voi… I SELFIE CON SINWAR Nella pagina Telegram di al-Sharif ci sono alcune sue foto del 2021 con dirigenti di Hamas, fra i quali Yahya Sinwar. Almeno due di queste foto sono come minimo sospette, ma non mi impelagherò in questa discussione: diciamo che sono tutte autentiche. Il fatto è che farsi un selfie con un dirigente di Hamas, soprattutto con il suo dirigente Sinwar, era cosa tutt’altro che rara. Molti giornalisti più noti e importanti di al-Sharif lo hanno fatto. Ne cito una: la cronista di guerra freelance Francesca Borri, che alla morte di Sinwar ha scritto un post rielaborando la sua intervista al dirigente di Hamas del 2018, corredando il testo con la sua foto accanto al capo di Hamas – senza che, com’è giusto peraltro, alcuno abbia eccepito alcunché su questa foto. Le ragioni sono banali, a conoscere il contesto. In primo luogo, Sinwar è oggi il feroce pianificatore del pogrom del 7 ottobre, incarnazione del Male Assoluto o giù di lì, ma nel 2021 era il dirigente di Hamas col quale Israele credeva di aver più o meno raggiunto una sorta di tacito accordo di non belligeranza reciproca. In secondo luogo, a Gaza, dove prima del 7 ottobre il tasso di disoccupazione sfiorava il 50%, con una punta del 70% fra i giovani laureati, l’informazione era una delle poche merci che potevano essere prodotte e avevano un mercato internazionale, e quella di reporter forse l’unica strada professionale percorribile. Al-Sharif, lo abbiamo visto, era arrivato prima dei trent’anni alla Reuters, altri all’Associated Press o ad altre grandi agenzie. Il che implicava una forte concorrenza e la necessità di garantire la veridicità del prodotto, fosse un’intervista o un reportage. Il selfie alla fine dell’evento era una sorta di certificazione di autenticità, e non a caso tutte le foto in questione sono scattate in luoghi pubblici. LA FOTO DEL SOLDATO MORTO C’è un post del 26 ottobre 2023 in cui, sotto la foto di un soldato israeliano morto – non «un israeliano»: un soldato israeliano – al-Sharif ha o avrebbe scritto: «Ogni volta che ti senti giù di morale, ricordati che li abbiamo colpiti in testa nei loro siti militari». Sempre ricordando che un mese dopo il telefonino del giornalista era nelle mani dell’IDF – posto che l’IDF abbia avuto bisogno del device per entrare nella sua pagina Telegram –, anche in questo caso assumiamo il post come autentico. Cosa ci racconta questo testo combinato con questa foto? Che, mentre l’aviazione israeliana martellava Gaza e l’esercito preparava l’invasione, al-Sharif, con un linguaggio crudo, diceva a se stesso e ai suoi lettori che i nemici non sono invincibili. La durezza del messaggio può disgustare i delicati stomaci europeo-occidentali? Probabile: ma l’economia morale dei sottomessi e degli sfruttati non si misura con le categorie morali degli sfruttatori e degli oppressori. Resta che, accettabile o meno questo sfogo di rabbia, foss’anche di odio, esso attesta null’altro che questo: che qualcuno ha provato un sentimento di rabbia e di odio, motivato soggettivamente da una storia di oppressione, sfruttamento, miseria, colonizzazione. Un sentimento, o un’emozione. Non un fatto, un evento, un’azione. Se ogni singolo post dei vostri social fosse convertito in prova di un’azione delittuosa, dove andremmo a finire? L’omofobo che si augurava che l’ISIS colpisse gli intellettuali omosessuali europei dovrebbe per questo essere inquisito come membro della rete di fiancheggiamento del terrorismo islamico? Gli stronzi che fecero battute all’indomani della strage in discoteca a Corinaldo, sulla giusta punizione capitata a chi ascolta la musica trap dovrebbero essere indagati come possibile complici dell’evasione di uno dei membri della banda del peperoncino responsabile del panico che causò la strage? Uno dei più noti giornalisti uccisi dalla mafia aveva militato in gioventù nella X Mas. Ci fossero stati i telefonini, avremmo forse trovato qualche suo discutibile post commemorativo del 28 aprile, e di sicuro Luciano Liggio ci avrebbe sguazzato. Giusto per capire a quale livello ci si colloca quando si identifica un post con una vita e un essere umano, e si emettono sentenze. POSTILLA LOCALE (ANZI, NO): AL-SHARIF, BASSANI E I FUCILATI DEL 15 NOVEMBRE 1943 È successa, a Ferrara, una tempesta in un bicchier d’acqua. Alla morte di al-Sharif, alcuni membri di un collettivo, palestinesi e italiani, ragazze e ragazzi, hanno apposto la foto del giornalista accanto alle lapidi che commemorano le vittime delle fucilazioni del 15 novembre 1943, immortalate dai testi di Giorgio Bassani e Piero Calamandrei, e dal film di Florestano Vancini La lunga notte del ’43. Il film di Vancini sull’eccidio del Castello di Ferrara, tratto dal racconto di Bassani Una notte del ’43, è su Raiplay. Apriti cielo! Leso antifascismo, lesa bassanianità. Calamandrei non pervenuto, pazienza. I giovani in questione si erano già fatti notare per alcune azioni “eclatanti” (siamo in provincia, ci si emoziona per un nonnulla): una contestazione in consiglio comunale, un manichino raffigurante Netanyahu impiccato (come Eichmann: genocida per genocida) e un paio di fumogeni accesi durante le manifestazioni. Insomma, non è volato un sasso, non è stato infranto un vetro, non s’è fatto male nessuno, tranne il sottoscritto, che è riuscito a scottarsi la mano con la cera in una fiaccolata, ma vabbé. Però al bon ton di tanti questi gesti paiono eccessivi: alcuni, fieramente colonialisti nella propria prigione mentale, pretendono di insegnare l’educazione occidentale ai barbari del sud del Mediterraneo; altri, afflitti dalla sindrome del colonnello Buendía, dall’alto delle loro 32 rivoluzioni perdute ritengono di dover spiegare ai palestinesi come si deve comportare un palestinese. Nel frattempo gli studiosi di Bassani tacciono, impegnati in ben altre contese: divisi in due schiere fieramente avverse, stanno da anni disputando se il capolavoro di Bassani sia Il giardino dei Finzi Contini o Dietro la porta. Roba seria, nella città in cui gli eredi del fascista Carlo Aretusi detto «Sciagura» sono al governo. Non è mio costume dire ad altri quel che è giusto fare o non fare, mi limito a due osservazioni bassaniane. ■ Nelle Cinque storie ferraresi, oltre alla narrazione della notte del ’43, c’è la storia di un rompicoglioni, Geo Jotz, tornato a Ferrara dai lager, unico sopravvissuto, che si aggira per la città con fare molesto, disturbando con la sua condotta, il suo abbigliamento, il suo dire una città che vorrebbe finalmente trovare pace e, magari, dimenticare. Nel suo piccolo, un velato omaggio a La peste di Camus, così come Una notte del ’43 è un omaggio a La fucilazione del 3 maggio 1808 di Goya. Ecco: quelle ragazze e ragazzi che rompono i coglioni e disturbano la quiete pubblica fanno proprio ciò che faceva Geo Jotz. ■ Nel racconto sulle fucilazioni del 15 novembre 1943 non ci sono solo i fucilati. C’è il già citato fascista Aretusi, personaggio tutt’altro che immaginario, che non ha le spalle al muro, ma che il muro dei fucilati lo guarda di fronte; e c’è il farmacista Pino Barilari, che guarda la scena dall’alto della sua finestra senza intervenire, per viltà. Alcuni di quei fucilati – e in senso lato tutti – si battevano contro un governo illegittimo, fascista e colonialista. Proprio come Anas al-Sharif, che ha combattuto con le armi della verità contro un governo illegittimo, colonialista e fascista. Lo avevano già detto Primo Levi, Hannah Arendt, Albert Einstein che Menahem Begin, le sue pratiche e il partito che alla fine fondò, il Likud, erano fascisti, come fascista era il suo maestro Ze’ev Jabotinski e, oggi, il suo allievo Netanyahu. Dunque l’effigie di Anas al-Sharif sta bene con le spalle al muro e lo sguardo rivolto a chi passa dal corso. C’è da chiedersi, piuttosto, chi sia oggi al posto di Carlo Aretusi, e chi di Pino Barilari. questo testo è stato pubblicato su Giap il 20 agosto 2025 L'articolo Combattenti per la verità. Anas al-Sharif e i suoi colleghi, una strage avvolta nella menzogna proviene da EuroNomade.
Trump e noi. Resistere ad autoritarismo e regime di guerra
di SANDRO MEZZADRA. Muoversi all’interno delle rovine di un sistema non è agevole. Il fatto è che oggi in rovina non è soltanto il sistema internazionale, l’ordine che si presentava come “basato sulle regole”. Al contrario, si può assumere quella rovina come vertice prospettico per analizzare il disfacimento di una molteplicità di sistemi, che certo non dovevano essere particolarmente in salute. All’ombra del genocidio di Gaza, una regione cruciale per gli equilibri mondiali, il Medio Oriente, sembra aver perso ogni principio di ordine. Staccata dagli Stati Uniti, se non per la camicia di forza della NATO, l’Europa appare consegnata all’irrilevanza sotto il profilo della politica mondiale, irrigidita al suo interno dalla paura del declino e della stagnazione economica e amputata del suo “modello sociale”. L’ambizione europea a essere “forza di pace” si sgretola di fronte all’opzione per il riarmo e per la militarizzazione dell’economia, della politica e della società. Nel tempo di Trump, poi, la stessa democrazia liberale – ancora contrapposta all’“autocrazia” all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina – impallidisce e si svuota di determinazioni materiali. Lo spettacolo della forza sembra essere dominante – si tratti di dazi, sottomarini nucleari, o rambo mascherati a caccia di migranti per le strade di Los Angeles. Anche dall’Alaska, poi, la logica che viene proiettata sul mondo è quella imperiale della politica di potenza come criterio dominante nelle relazioni internazionali. Proprio i dazi, del resto, ci mostrano che la situazione è ben lungi dall’essere stabile – che al contrario l’uso ricattatorio di questo strumento ha l’obiettivo di produrre una serie di shock successivi che puntano a ridefinire le geografie e il regime di accumulazione del capitalismo statunitense e globale. Basti pensare all’“accordo” con l’Unione europea, che ha come corollario l’impegno a investimenti europei, in particolare in campo energetico, che, come ha dimostrato ad esempio Paul Krugman, sono da diversi punti di vista non solo irrealistici, ma impossibili. Quando una clausola di questo genere viene inserita in un “accordo”, è evidente che si prepara il terreno per ulteriori forzature e ricatti. Instabili e provvisori appaiono molti degli accordi sui dazi siglati nelle ultime settimane, senza contare che è continuamente necessario adeguarli al fatto che le importazioni non riguardano solo beni di consumo ma anche le catene di fornitura di componentistica vitale per il residuo settore manifatturiero negli Stati Uniti. È bene resistere alla tentazione di leggere nei dazi e nelle guerre commerciali l’ennesima fine della “globalizzazione” e guardare piuttosto a questa costitutiva instabilità delle politiche dell’amministrazione Trump come allo strumento attraverso cui si mira a scuotere i rapporti commerciali all’interno del mercato mondiale per ritagliare condizioni più favorevoli per il capitale statunitense. È comunque una trasformazione radicale rispetto agli ultimi decenni, in primo luogo perché le politiche di Trump – puntando a drenare risorse da tutto il mondo per affrontare l’insostenibile debito degli Stati Uniti e dunque rallentarne la crisi egemonica – determinano una accentuata nazionalizzazione del capitale statunitense, che corre parallela ai processi di concentrazione accelerati negli anni della pandemia da Covid-19. E se queste stesse politiche determinano un indebolimento del dollaro, minacciando quello che è stato in questi anni il principale strumento di gestione del debito, il Genius Act (la legge sulle criptovalute e sulle stablecoin) ha esattamente la funzione di controbilanciare quell’indebolimento. La politica dei dazi di Trump si innesta all’interno di un quadro mondiale da tempo percorso da tendenze protezionistiche e da accentuata competizione in particolare nel settore delle tecnologie digitali e dei minerali più o meno “critici” necessari per il loro sviluppo. E tuttavia, all’interno di questo quadro quella politica introduce un tasso di nazionalismo “economico” senza precedenti negli ultimi anni, secondo una logica che non può che essere al tempo stesso di nazionalismo politico. Oggettivamente, la combinazione di concentrazione di capitali e territorializzazione (per quanto ovviamente in parte solo retorica, ma questo significa “nazionalizzazione” del capitale statunitense) ripropone un elemento centrale analizzato dai teorici dell’imperialismo all’inizio del Novecento. E mentre il nazionalismo si diffonde ulteriormente, ben al di là degli Stati Uniti, la congiuntura che stiamo vivendo appare destinata a facilitare un’ulteriore proliferazione di guerre e regimi di guerra. La “militarizzazione di Silicon Valley” di cui ha parlato il New York Times qualche giorno fa (4 agosto), ovvero la torsione in chiave bellica dello sviluppo di tecnologie digitali, piattaforme e Intelligenza artificiale, è al tempo stesso un sintomo e un acceleratore di questa tendenza. Si tratta di un primo tentativo di analisi, necessariamente provvisorio e consapevole del fatto che la situazione è in costante mutamento. Quello che molti cominciano a chiamare il Trump shock, in analogia con il Volcker shock del 1979 (il violento rialzo dei tassi di interesse da parte del Presidente della Federal Reserve che per molti versi diede avvio all’epoca neoliberale), è in ogni caso destinato a ridisegnare violentemente le geografie e le logiche del capitalismo mondiale, e in particolare i rapporti tra capitale e lavoro. Mi sembra quindi necessario, sulla base di questi primi elementi di analisi, insistere su alcuni dei limiti fondamentali che la politica di Trump incontra e indicare alcune delle sfide politiche più rilevanti di fronte a cui ci troviamo nella nuova congiuntura. Sotto il profilo dei rapporti globali, è evidente che il limite fondamentale è rappresentato dalla Cina, non solo per la forza economica (e in prospettiva politica) di quest’ultima ma anche per la persistente interdipendenza tra l’economia statunitense e quella cinese. Se si prendono i due Paesi che Trump ha sanzionato con dazi “politici” – il Brasile (per l’incriminazione di Bolsonaro) e l’India (per l’acquisto di petrolio russo) – si può immaginare un asse con la Cina (certo più facile con il Brasile che con l’India) nella cornice dei BRICS e di una organizzazione internazionale come la SCO (“Shanghai Cooperation Organization”). Non si tratta qui di riproporre un’immagine edulcorata del “Sud globale” come “polo” o “blocco” alternativo all’Occidente, ma piuttosto di richiamare un quadro realistico dei cambiamenti profondi che si sono ormai determinati nella distribuzione della ricchezza e del potere a livello mondiale. E da questo punto di vista, per riprendere un punto menzionato in precedenza, i processi e i progetti di de-dollarizzazione sono senz’altro cruciali. Anche all’interno degli Stati Uniti, del resto, la politica di Trump sta già incontrando dei limiti. Come sul piano internazionale lo spettacolo dei dazi (si pensi al “Liberation day”) ha contribuito a ingigantire l’impressione della forza statunitense, anche sul piano interno lo spettacolo della forza (le deportazioni, l’ICE, Alligator Alcatraz, la guardia nazionale a Los Angeles e Washington) ha prodotto un analogo effetto. Ma la resistenza è cresciuta in queste settimane, e resta da capire come saprà collegarsi ai processi di impoverimento di massa annunciati dalla “Big Beautiful Bill” in materia fiscale e di spesa. Difficilmente la re-industrializzazione del Paese, che Trump immagina comunque collegata a un attacco radicale alle pratiche di libertà innervate all’interno dei territori metropolitani, potrà offrire la prospettiva di un futuro per cui valga la pena vivere e lottare. È anzi la rappresentazione più evidente della miseria che caratterizza oggi l’“orizzonte di aspettativa” di nazionalismo e autoritarismo – non certo solo nella terra di Trump. Non è forse così importante, almeno qui, definire la peculiarità di questa forma di nazionalismo e di autoritarismo, intervenendo nel vivace dibattito internazionale attorno a categorie come fascismo e neoliberalismo. Certo, l’orizzonte “promissorio” di quest’ultimo appare definitivamente esaurito (con poche eccezioni, come ad esempio l’Argentina di Milei). Dinamiche di “fascistizzazione” sono comunque in atto in molte parti del mondo, e si combinano in vari modi (da analizzare nei diversi contesti) con la persistenza di politiche neoliberali. I processi di concentrazione del capitale su base nazionale che si sono descritti a proposito degli Stati Uniti – e che si irradiano secondo una geometria variabile – costituiscono la base materiale di queste forme di ibridazione. E diffondono nel pianeta una “violenza atmosferica”, per riprendere un’immagine di Fanon, presaga di guerra. Lottare contro autoritarismo e nazionalismo non può che essere oggi anche per noi una priorità. E questa lotta non può che essere contro la guerra, contro la proliferazione di regimi di guerra che dell’autoritarismo e del nazionalismo costituiscono la cifra d’insieme. Trump mostra bene come il regime di guerra si indirizzi contro i movimenti femministi, nella prospettiva di un violento riallineamento patriarcale dei rapporti tra i generi; contro i movimenti ecologisti, considerato che le energie fossili sono al centro della macchina militare statunitense che i Paesi europei sono chiamati ad alimentare; contro i migranti, sfruttati o deportati nei modi più violenti; contro i poveri, espulsi dai centri urbani. Si potrebbe continuare: ed è evidente come tutto questo abbia precise corrispondenze in Italia, in un Paese governato da un Trump in sedicesimo. Qui, come negli Stati Uniti, su ciascuno di questi terreni (e su molti altri), ci sono resistenze e lotte di fondamentale importanza. Ma la mobilitazione contro la guerra – e per fermare il genocidio a Gaza – può e deve essere un’occasione di convergenza, per moltiplicare la forza di queste resistenze e di queste lotte e per intervenire su una congiuntura mondiale che è già asfissiante per tutte e tutti noi. Si tratta di organizzare questa mobilitazione, con il necessario senso di urgenza. L'articolo Trump e noi. Resistere ad autoritarismo e regime di guerra proviene da EuroNomade.
Milano: architettura e urbanistica nella crisi della democrazia
di MARCO ASSENNATO. Il caso Milano potrebbe essere occasione preziosa per aprire un dibattito sull’avvenire delle grandi aree metropolitane e, più in generale, potrebbe funzionare come esperimento mentale per immaginare innovative configurazioni del nesso tra sviluppo tecnologico, saperi specialistici e strategie politiche. Perché ciò accada, come è stato ampiamente notato, pare fondamentale tuttavia sgomberare il campo da falsi dibattiti, primo fra tutti quello che oppone gli alfieri del garantismo agli appassionati del tintinnar di manette. Sappiamo già, del resto, che il ginepraio polemico attorno alle scelte della Procura verrà ridimensionato da condanne certe per il conflitto di interessi e i vergognosi passaggi di danaro (diretti o indiretti) che coinvolgono alcuni protagonisti di questa vicenda; mentre ridotte saranno le responsabilità di chi si presenta come tecnico latore di consigli informati, poiché – giusto o sbagliato che sia – la familiarità, la commistione e la frequentazione tra esperti, amministratori e operatori economici non configura, di per sé, reato perseguibile dalla legge. E neppure lo è la scelta, tutta politica, di permettere il mancato pagamento di quote importanti degli oneri di urbanizzazione. Come sappiamo benissimo, altresì, che quanto avanza del discorso pubblico sulla cosiddetta cementificazione, sulla opportunità (o meno) delle torri e dei grattacieli, o su scelte stilistiche (alla moda o tradizionali), verrà presto rubricato, come merita, nella sezione “specchietti per le allodole” (o per gli allocchi) della memoria collettiva. A me pare che vi siano invece due livelli di fondamentale importanza in questa vicenda. Il primo, sul quale hanno già scritto – e benissimo – Ida Dominijanni, Rossella Marchini (su Dinamopress1 ), Alessandro Coppola (su Jacobin2 ) e Roberto D’Agostino (su il manifesto3 ), Elena Granata (su archphoto) ed al quale Effimera dedica un copioso dossier4 , riguarda la crisi dell’urbanistica. Il secondo, più raro nei commenti, concerne direttamente le pratiche architettoniche. Entrambe queste crisi, si badi bene, sono perfettamente generalizzabili a tutte le grandi aree metropolitane del globo e incrociano questioni decisive di ordine politico e democratico. Crisi dell’urbanistica Com’è ovvio lo spazio urbano, la metropoli, la città possono essere studiati, analizzati, compresi da diversi punti di vista e diverse possono essere le discipline implicate nella gestione e nella trasformazione dell’abitare umano associato. L’urbanistica è una disciplina specifica – una tra le tante – che ha una sua storia, peraltro assai recente, che non va confusa nel calderone indistinto e à la page, degli urban studies. Insomma non tutte le politiche urbane, né tutti i discorsi sulla città, sono (o richiedono) urbanistica. Credo valga ancora, a questo proposito, la lezione di Manfredo Tafuri5, secondo il quale l’urbanistica è, essenzialmente, una tecnica per la regolazione (e la limitazione) della speculazione edilizia e fondiaria. Non a caso essa nasce insieme alle teorie liberali conseguenti allo sviluppo capitalistico europeo di fine ottocento, successivo alla grande crisi del 1870 e all’avvio dell’industrializzazione tedesca. Sviluppo industriale e organizzazione produttiva della città necessitavano di liberare i terreni da vincoli feudali, da posizioni di rendita o vantaggi speculativi che potevano agire da freno allo sviluppo o minacciavano di deformarne le dinamiche. In tal senso la storia della cultura urbanistica moderna segue (e spesso anticipa e promuove) ideologicamente i grandi principi liberali delle teorie del libero mercato perfetto (dei suoli), si riconfigura dentro i grandi squilibri di inizio del novecento e trova poi la sua forma matura, come pianificazione urbana e territoriale già prima della grande crisi del ’29 e delle teorie anticicliche di Lord Keynes. La posta in gioco della città pianificata – liberale e socialdemocratica, in Europa e USA, o comunista negli esperimenti sovietici del post ’17 – è tutta interna allo sviluppo della modernizzazione capitalistica, seppure essa vi si muove a differenti gradienti di critica. Dacché sarebbe stata una modernizzazione impossibile se non integrava stato e mercato, mettendo in equilibrio (ovvero facendo funzionare insieme) conflitti sociali e interessi privati. Hanno ragione, in tal senso, Dominijanni, Marchini, Coppola, Granata e D’Agostino, nel sottolineare il carattere generalmente “progressista” della cultura urbanistica, che può senza tema di smentita essere definita, come scriveva Giulio Carlo Argan in un testo seminale di fine degli anni ’50, «un capitolo della cultura riformistica europea»6 . Ora il caso Milano mostra all’attenzione pubblica ciò che sappiamo da almeno mezzo secolo: ovvero il completo smarrimento dell’urbanistica di fronte a dinamiche del capitale che di riformista non hanno più nulla e che si configurano, oggettivamente, come contraddittorie rispetto a qualsiasi forma di partecipazione, conflitto e decisione democratica. Qui dovremmo aprire il dibattito e chiederci con spirito del tutto disincantato: quale politica possiede la forza per sottrarre al connubio patologico tra amministrazione pubblica, fondi finanziari speculativi, attori immobiliari e expertise tecnocratica, la trasformazione delle grandi aree metropolitane e dei nostri territori? Basta, come ha suggerito Cristina Tajani sul Corriere del 31 luglio, far ricorso a strumenti di due diligence che permettano a Comuni e Municipi di scegliere attori finanziari «non fortemente speculativi» e disponibili ad agire su «prospettive meno redditizie a breve termine ma di lunga durata»7 ? O, ancora, sono sufficienti le pur ragionevoli e necessarie modifiche delle scelte sulla fiscalità, la sospensione dei regimi d’eccezione post-Expo su cui in molti ragionano, a proposito di Milano? A me pare che per evitare qui un dibattito altrettanto sterile che quelli oggi prevalenti sulla stampa italiana, occorra domandarsi quale soggettività politica, quale livello istituzionale, insomma chi può (chi ha sufficientemente forza per) «rallentare, selezionare e diversificare» (come invita a fare Alessandro Coppola) «la mobilità del capitale» e la sua riproduzione urbana? Possiamo limitarci a redarguire i gestori degli enti locali – il Comune e i suoi Municipi – per la loro mancanza di coraggio e ricordare agli amministratori il loro dovere di difesa dei pubblici diritti contro i privati interessi? O non è forse necessario chiedersi perché mai ciò non accada praticamente più? Ed avviare una ricerca, difficile, rigorosa ma possibile attorno a contropoteri efficaci e realistici rispetto alla delirante dinamica del capitale contemporaneo e delle sue politiche. La questione urbana, come ci hanno insegnato Henri Lefebvre, Manuel Castells e David Harvey, si dipana dentro alla generale contesa sulle forme della produzione, della circolazione e del consumo. Essa insomma intreccia le dinamiche della riproduzione sociale (il diritto all’abitare, alla salute, all’ambiente, al consumo etc.) e della funzione produttiva dello spazio. Quando diciamo crisi dell’urbanistica allora dobbiamo leggere: crisi del diritto, crisi della politica. Ma non basta fare appello a un generico Rechtswollen, e neppure temo sia sufficiente individuare, come è stato già egregiamente fatto, i gruppi sociali vincenti (finanza, ceti proprietari alti, ceti medi patrimonializzati) e chi perde (precariato cognitivo e migrante) nella città della rendita, e delle «tecnologie finanziarie avanzate», per uscire dalla miseria8 . Occorre piuttosto individuare i livelli istituzionali corretti (con tutta probabilità multiscalari), interrogare i movimenti di soggettivazione, i conflitti esistenti, pensare la politica oltre il privato e il pubblico, per costruire un progetto comune contro la metropoli dei Reit (Real Estate Investment Trust) e dei loro servitori. Parafrasando il titolo del bellissimo padiglione Austria della (per il resto assai volgare) Biennale di Architettura di Venezia 2025, occorre immaginare una nuova Agency for Better Living: uno spazio di negoziazione collettiva tra attivisti, movimenti per la casa, conflitti urbani diffusi, forme di sindacalizzazione delle grandi reti logistiche, amministrazioni pubbliche, architetti e urbanisti capace di darsi una strategia politica. In altri termini, mi pare che nessuna politica pubblica illuminata, top-down, nessuna nuova pianificazione, nessun appello riformistico, può reggere le sfide contemporanee, senza incontrare e lasciarsi attraversare dal corpo vivo delle moltitudini precarie, del lavoro cognitivo e migrante, dall’accumulo di esperienze bottom-up dei tanti spazi occupati, delle pratiche di riuso e solidarietà collettiva, di biodiversità urbana, di lotta antirazzista, che pure sono necessarie alla vita della metropoli biopolitica contemporanea. Ma ciò non può avvenire irenicamente. Voglio dire che non si tratta qui di un generico appello ad attivare forme di democrazia locale9 . La partecipazione civica, si sa, è sempre attraversata da segmenti di classe, frontiere proprietarie, enclosures e dispositivi di bando. Si tratta di fare irrompere la potenza democratica, la mésentente come la chiama Jacques Rancière10 , nel dibattito, di piegare e iscrivere la riflessione urbanistica all’interno dei conflitti che attraversano gli spazi metropolitani: così riscrivere la tecnica urbanistica con la politica e attrezzare il discorso politico di tecniche adeguate. Crisi dell’architettura? Qui, sono d’accordo con D’Agostino, incontriamo il secondo aspetto fondamentale della questione Milano: accanto alla crisi dell’urbanistica, la trasformazione neoliberale del fare architettura. Questo aspetto è praticamente escluso dalla discussione, se si fa eccezione per alcune considerazioni preziose di Emanuele Piccardo e Paolo Brescia. Eppure non è questione da specialisti quello dell’implicazione degli architetti, del loro argomentare oltre che del loro concretissimo operare, in questa brutta vicenda. E non è neppure una variabile, esterna al nostro discorso e tutto sommato marginale, quella dell’architettura. Questo è quanto non solo gli architetti implicati nell’affaire meneghino ma la grande maggioranza dei grandi nomi del mercato architettonico internazionale, vorrebbe far credere : c’è la politica; c’è una urbanistica sguarnita, di fronte ai veri stakeholders metropolitani, che sono i grandi asset finanziari; e poi c’è l’architetto che prova, come può e in questo contesto, a fare il suo mestiere. Politica, urbanistica, architettura: ciò è falsa coscienza. Sporca, stupida, incolta falsa coscienza. La serie logica corretta, in atti, per capire quanto accade sotto ai nostri occhi, non è : politica, urbanistica e architettura. Ma quest’altra : politica, architettura, urbanistica. L’architettura sta nel mezzo, come sapere, tecnica capace di tradurre in progetto, scelte politiche dentro allo spazio pubblico. Almeno ciò vale per tutta l’architettura seria, diciamo a partire dalla seconda rivoluzione industriale e di lì in avanti – insomma per tutta l’architettura cosiddetta contemporanea. La grande differenza tra architettura moderna (diciamo dal Rinascimento in avanti, per circa quattro secoli) e contemporanea sta tutta qui. La prima è disegno e costruzione di oggetti, che possono anche avere efficacia su scala urbana ma esistono tutto sommato in contraddizione con il costruito preesistente. Così nella Firenze del ‘400 il classico mangia la città gotica, poi le deformazioni manieriste dei comuni del centro Italia e il teatro barocco della Roma dei Papi, spiazzano il rigore classico prima di diffondersi nel nord Europa dando forma, indirettamente, alle nostre città storiche. Mentre la seconda, l’architettura contemporanea, è indissociabile dal tessuto metropolitano: l’architetto (almeno se fa buona architettura) non è un disegnatore di oggetti, ma un progettista il cui lavoro serve a tradurre materialmente l’organizzazione dello spazio urbano, le forme della produzione edilizia e le sue necessarie funzioni. Perciò la storia dell’architettura contemporanea non può in alcun modo essere dissociata da quella, sopra appena tratteggiata, dell’urbanistica. Che poi i grandi progetti del novecento avessero anche qualità plastiche o estetiche va letto come conseguenza e non come obiettivo primo della ricerca architettonica.  Intendiamoci: è vero che già Leon Battista Alberti pensava la città come una casa e la casa come una città. Ma la necessità di limitare o combattere gli effetti nefasti della rendita e della speculazione, la ricerca della migliore qualità per l’abitare di grandi masse, la riflessione sulla necessità di liberare suolo, garantire un equilibrio tra verde pubblico e ambiente costruito, la lotta contro la densità e la congestione urbana, la ricerca paziente, di tipo tecnico-costruttivo per innovare la produzione edilizia a grande scala sono tutte interne alla grande cultura architettonica contemporanea, a partire dai primi decenni del novecento . La innervano e ne costituiscono la ragion d’essere profonda. Come anche le latenze e le inesorabili contraddizioni tra progetto e grandi linee dei conflitti di classe.  Non a caso, persino quando si dice composizione o progettazione, è impossibile evitare di ragionare di tipologia, produzione in serie e distribuzione, usi e riorganizzazione civile alle diverse scale – come si diceva: dal cucchiaio all’insieme antropogeografico. Senza questa premessa non si capisce nulla di architettura contemporanea! Ciò vale anche a dispetto di quanto vanno blaterando a destra e a manca alcuni professionisti che possono vantare, a loro merito, una buona affermazione sul mercato della costruzione. L’argomento potrebbe anche dimostrarsi per paradosso. Cos’è stata la sbornia postmoderna, con il suo pagliaccesco correlato corteo di archi-star, se non un ripiegamento disperato della cultura architettonica nel disegno di oggetti, come risposta impotente al declino dell’urbanistica avviatosi a partire dalla metà degli anni ’70, ovvero in piena crisi dello Stato-Piano? L’architettura sta in mezzo, presa, strozzata, tra politica e urbanistica, non fuori da questa tenaglia. Altrimenti essa è inutile, quando non osceno, maquillage: alberelli appesi su balconi per 26 piani; contorsioni biomorfe per balbettare incestuosamente con l’algoritmo; muscolosi cavi d’acciaio per nascondere l’abisso di analfabetismo tecnico e costruttivo in cui sta precipitando una antica disciplina, sconvolta da una rivoluzione digitale della quale non riesce manco a cogliere la direzione di massima. Neppure migliorano le cose, quando l’architettura si chiude in sterili formalismi o quando si riduce ad Arcadia: l’autoreferenzialità va a braccetto con moralistici ritorni a passati immaginari, autarchie localistiche, identitari appelli al genius loci da svendere sul mercato al miglior offerente. Ma architettura non è nulla di tutto ciò! Pensiero della tecnica, sapere civile, servizio pubblico – da tradursi in forma, certo! Ma forma funzionale a una costruzione intelligente, ad una colta e rispettosa trasformazione dell’ambiente umano. Perciò l’architettura contemporanea nasce e si sviluppa, come l’urbanistica, contro la speculazione, la rendita, l’abuso del territorio comune. Non esiste nessun serio progetto di architettura la cui forma sia indifferente o autonoma dalla sua estensione civica e civile di massa. In altri termini: nessun architetto contemporaneo può pensare il progetto accanto o indipendentemente dal contesto politico e urbano (e quindi dai soggetti cui esso e rivolto, nella loro concreta composizione di classe), come fosse un orpello eventualmente disponibile, un surplus di qualità che qualche finanziatore illuminato o qualche amministratore amico, possono, indifferentemente, scegliere di far costruire o meno. Ha ragione Paolo Brescia, quando afferma che, nella vicenda milanese, «l’errore di fondo sta nel misurare il rapporto tra interesse privato e interesse pubblico in termini quantitativi (…). Se, invece, impostassimo il ragionamento in termini qualitativi, la vera domanda sarebbe: come una data operazione immobiliare contribuisce al “fare città”? Posta in questi termini, la discussione tra architetti, costruttori e amministratori si sposta sul campo dell’architettura urbana, invertendo il rapporto tra figura e sfondo, dove la figura che sta davanti è l’urbanità e lo sfondo che sta dietro è l’edificio»11 . Il grappolo di sgraziati oggetti che hanno rigenerato (sic.) settori importanti di Milano, dall’Expo in avanti, e il grumo di demenziali progetti che si apprestano a continuare il mercimonio del territorio comune della metropoli meneghina sono in fondo anch’essi espressione diretta, esatta e corretta di una politica. Proprio nella misura in cui incarnano la totale assenza (o la definitiva crisi) della cultura urbanistica e architettonica. I personaggi che li hanno firmati o ne portano la responsabilità, in tal senso, fanno bene a rivendicare il loro operato. Solo dovrebbero sapere che si tratta di una cattiva politica e di una pessima architettura, tanto impotente quanto roboante. Mentre sarebbe urgente che i settori più avanzati (ci sono e anche in Italia) della professione, dell’accademia e delle università, come anche le studentesse e gli studenti che affollano le aule delle tante facoltà di architettura tornassero a spezzare le matite (o chiudere i computer), per dare avvio a una nuova stagione di lotte, ripensare il fare progetto per la metropoli di domani. Di questo, la crisi milanese, può diventare una occasione importante. Non partiamo da zero. Una lunga storia preme alle nostre spalle e chiede di essere riscattata12 . Cade quest’anno il ventennale della scomparsa di Giancarlo De Carlo. Sarebbe forse utile rileggere i suoi scritti, meditare le sue parole. In un celebre libro-intervista egli affermava : «Noi credevamo nell’eteronomia dell’architettura, nella sua necessaria dipendenza dalle circostanze che la producono, nel suo intrinseco bisogno di essere in sintonia con la storia, con le vicende e le aspettative degli individui e dei gruppi sociali, coi ritmi arcani della natura. Negavamo che lo scopo dell’architettura fosse di produrre oggetti e sostenevamo che il suo compito fondamentale fosse di accendere processi di trasformazione dell’ambiente fisico, capaci di contribuire al miglioramento della condizione umana»13 . Reliquia desiderantur. * Questo testo è stato pubblicato su archphoto. La foto è di Gregory Smirnov su Unsplash Note 1. https://www.dinamopress.it/news/milano-un-sistema-di-governo/ 2.  https://jacobinitalia.it/il-modello-milano-oltre-le-inchieste/ 3.  https://ilmanifesto.it/milano-e-le-altre-la-deriva-dellurbanistica 4.  https://effimera.org/ 5. Si veda in tal senso M. Tafuri, Progetto e Utopia, Laterza, Roma, 1974, ma poi anche tutte le pubblicazioni sulla pianificazione socialdemocratica, liberale e sovietica elaborate a IUAV tra anni Settanta e primi anni Ottanta. 6.  Cf. G. C. Argan, Progetto e Destino, Il Saggiatore, Milano, 1965. 7. Su questi aspetti concordo con quanto afferma Elena Granata, cf. https://www.archphoto.it/emanuele-piccardo-intervista-a-elena-granata/ 8.  Si veda ancora Coppola in https://jacobinitalia.it/il-modello-milano-oltre-le-inchieste/ e anche https://www.sciencespo.fr/ecole-urbaine/sites/sciencespo.fr.ecole-urbaine/files/Rapporthousinghopofin.pdf 9.Ha ragione, su questo, Alessandro Coppola quando, su Jacobin avverte che nella metropoli neoliberale «la democrazia locale è sempre più una democrazia proprietaria, che di fatto esclude centinaia di migliaia di abitanti, perché non residenti o irregolari». 10. Cf. J. Rancière, La Mésentente. Politique et démocratie, Paris, Galilée, 1996. 11. Emanuele Piccardo. Intervista a Paolo Brescia, https://www.archphoto.it/emanuele-piccardo-intervista-a-paolo-brescia-obr/ 12. Si veda, per restare a Milano, quanto scrive Emanuele Piccardo: «Eppure Milano entra di diritto nella modernità con i maestri italiani del razionalismo che orientano il dibattito architettonico su Casabella e Domus. Il geniale Giò Ponti, grande intellettuale poliedrico dall’editoria all’architettura e al design, una figura unica nel panorama italiano a cui molti si sono ispirati ma senza un minimo avvicinamento culturale. Troppo distante, troppo bravo nel progettare grattacieli e case popolari, troppo bravo a innescare la vivacità nei giovani Carlo Pagani e Lina Bo dalle pagine di Lo Stile e tra i primi a occuparsi di architettura radicale. Anche altri come BBPR, Marco Zanuso, Ignazio Gardella, Luigi Figini e Gino Pollini, Franco Albini, Vico Magistretti contribuirono a rendere Milano moderna, seguiti da una serie di professionisti di alto livello come Roberto Menghi, Arrigo Arrighetti, Asnago e Vender, Luigi Caccia Dominioni, Angelo Mangiarotti». https://www.archphoto.it/emanuele-piccardo-milano-e-larchitettura-che-non-ce/ 13. Cf. F. Bunčuga, Conversazioni con Giancarlo De Carlo. Architettura e libertà, elèuthera, Milano, 2000 L'articolo Milano: architettura e urbanistica nella crisi della democrazia proviene da EuroNomade.
Organizzarsi nella crisi: i workshop su istituzioni europee, svolta autoritaria, congiuntura di guerra
Pubblichiamo le sintesi dei tre workshop tematici interni al seminario di Euronomade ORGANIZZARSI NELLA CRISI (Padova, 9-11 maggio 2025 Workshop 1: Infosfera, piattaforme digitali, comunicazione Il workshop ha approfondito la complessità del ruolo delle piattaforme digitali come luogo centrale dello scontro di classe contemporaneo. La discussione ha evidenziato come queste piattaforme siano autentiche architetture materiali e politiche che rimodellano profondamente ogni aspetto della vita quotidiana, ridefinendo la territorialità e ristrutturando le relazioni sociali e produttive. A partire dagli anni ’80 e ’90, l’informatizzazione ha generato una trasformazione radicale degli spazi e dei tempi, creando un intreccio caotico tra dimensione urbana e globale. Le piattaforme digitali hanno profondamente trasformato lo spazio digitale rendendolo sempre più simile allo spazio urbano reale, dominato da logiche di privatizzazione e frammentazione. Strumenti ampiamente utilizzati come Airbnb, Amazon e Google Maps non modificano soltanto le abitudini di consumo o gli stili di vita delle persone, ma intervengono concretamente sulla struttura delle città. Questo intervento genera contemporaneamente due effetti opposti: da un lato un’omogeneizzazione, ovvero una standardizzazione e uniformità degli spazi e delle esperienze urbane; dall’altro una frammentazione, ossia la divisione delle città in aree sempre più diseguali e separate tra loro. Queste dinamiche intensificano le tensioni sociali e amplificano nuove forme di conflitto urbano, riflettendo chiaramente le divisioni e le contrapposizioni delle classi sociali nella società contemporanea. Questa piattaformatizzazione si è rapidamente estesa al mondo del lavoro, configurandosi come un salto qualitativo nello sfruttamento e contribuendo a ridisegnare geografie globali della produzione e del consumo. Dai rider precari nelle metropoli occidentali alle click farm del Sud-Est asiatico, fino alla catena estrattiva del litio che unisce Congo e Cile, emerge chiaramente un sistema integrato che collega lavoro manuale e cognitivo, estrazione di risorse naturali e produzione di dati, rendendo la forza lavoro globale sempre più interconnessa e precaria. Dopo la crisi finanziaria del 2007-2008, il capitalismo delle piattaforme si è imposto con forza egemonica, trasformando profondamente non solo le modalità di organizzazione del lavoro, ma anche la struttura sociale complessiva. Questo processo ha prodotto nuove soggettività che hanno ridefinito radicalmente il panorama politico contemporaneo, facilitando il ritorno prepotente delle destre. Alcune piattaforme hanno infatti alimentato una concezione specifica della libertà come autodifesa armata contro i cambiamenti sociali, sfruttando e amplificando la paura del disordine e proponendo il ritorno a un “naturale” rassicurante come risposta conservativa alle trasformazioni sociali. La pandemia, seguendo l’analisi critica fatta di recente da Veronica Gago, è stata definita come una grande occasione mancata: essa ha reso visibili le contraddizioni profonde del sistema, evidenziando l’importanza essenziale della riproduzione sociale e delle lotte per la casa, la logistica e la distribuzione. Tuttavia, le destre hanno saputo capitalizzare questa crisi meglio delle forze cosiddette progressiste, imprimendo alla piattaformatizzazione un’accelerazione inedita e facendo delle piattaforme un luogo di polarizzazione, accumulazione capitalistica e manipolazione cognitiva. In questo scenario, la governance algoritmica diventa un dispositivo di potere capace di sorvegliare e controllare, ma soprattutto di prevedere e orientare i comportamenti sociali, influenzando in modo capillare desideri, affetti e immaginari. In particolare, gli algoritmi di Intelligenza Artificiale operano attraverso un processo di riconoscimento e amplificazione di pattern già presenti nei dati storici, spesso intrisi di pregiudizi sociali, culturali e politici. Questo fenomeno genera una sorta di riproduzione automatica e invisibile delle dinamiche oppressive esistenti, aggravandole e rendendole sempre più pervasive. La governance algoritmica, dunque, oltre a rafforzare strutture sociali esistenti si configura come uno strumento di controllo sociale sofisticato, penetrante e difficilmente contestabile. Tale dinamica assume particolare rilevanza all’interno del cosiddetto “regime di guerra automatizzata”, che trasforma radicalmente la natura della guerra stessa, cancellando la tradizionale distinzione tra tempi di pace e tempi di conflitto. Gli esempi emblematici dell’ucraina e – soprattutto – della Palestina illustrano chiaramente come le piattaforme digitali e gli algoritmi siano ormai strumenti bellici a tutti gli effetti, impiegati per la sorveglianza, il controllo delle popolazioni e l’attuazione di attacchi militari precisi e automatizzati. L’utilizzo di droni dotati di intelligenza artificiale, sistemi automatizzati per la creazione di liste di bersagli (kill lists), e piattaforme per la sorveglianza satellitare evidenziano un mutamento profondo e inquietante nella modalità di gestione della guerra. In questo contesto, il conflitto diventa simultaneamente visibile e invisibile, omnipervasivo e costantemente presente nella vita quotidiana, rappresentando una forma di controllo e di violenza diffusa e permanente. Il seminario ha posto inoltre l’accento sulla natura di queste piattaforme come strumenti di egemonia culturale e accumulazione di capitale che, come descritto anche da Srnicek, Zuboff, Jager e Terranova, alimentano deliberatamente la polarizzazione sociale e mediatica. Questa polarizzazione è parte integrante della strategia del regime di guerra globale contemporaneo: essa infatti tende a neutralizzare il conflitto reale trasformandolo in un incessante flusso comunicativo vuoto, in una continua produzione simbolica che esaurisce ogni potenzialità trasformativa. La discussione si è interrogata quindi sulla possibilità di immaginare e costruire nuove forme di organizzazione politica che vadano oltre il modello classico della fabbrica o del centro sociale e oltre lo stesso modello reticolare. È emersa l’esigenza di sviluppare “contro-infrastrutture” autonome, capaci di tanto di resistere alla logica estrattiva delle piattaforme quanto di creare ecologie comunicative nuove e autonome. Si è infatti sottolineata l’importanza di sabotare direttamente l’infrastruttura della polarizzazione algoritmica, rompendo il legame tra economia dell’attenzione, estrazione di valore e governo algoritmico. In conclusione, la discussione ha evidenziato il valore strategico della diserzione e del sabotaggio come pratiche di resistenza attiva e concreta contro le piattaforme dominanti. La proposta è quella di creare e sostenere pratiche di autoformazione, gestione autonoma di infrastrutture digitali, e forme comunicative autonome capaci di produrre spazi reali di relazione e confronto. L’attivismo mediatico emerge così come cruciale non solo per diffondere contenuti alternativi, ma per costruire contro-spazi di enunciazione e relazione, essenziali per quella nuova ecologia della comunicazione che sappia rilanciare, dentro e contro le piattaforme, una rinnovata e articolata lotta di classe contemporanea. Workshop 2: Crisi dello spazio europeo Nel secondo workshop di sabato, si è parlato di crisi dello spazio europeo, di come attraversarla e navigarla. Nella corrente fase di transizione, in cui poteri e forze produttive – i si riorganizzano, lo spazio europeo è messo in crisi. Sono stati messi in luce tre aspetti fondamentali della crisi dello spazio europeo: la crisi delle istituzioni europee, definita crisi di Maastricht e Shengen; la crisi dell’idea stessa di Europa, messa in discussione da riflessioni antirazziste e decoloniali; ed infine la crisi, ma anche l’apertura di possibilità, dello spazio minimo di movimento europeo. La crisi e fase di trasformazione attraversata dalle istituzioni europee, cosiddetta crisi di Maastricht e Shengen, si manifesta a più livelli: geopolitici, economici e valoriali. Il ritorno del protagonismo degli Stati, la difficoltà ad affermarsi come reale interlocutore economico In questo contesto, il piano per il riarmo, inizialmente Re-arm Europe e poi ribattezzato Readiness 2030, appare come tentativo da parte della governance europea di ristabilire l’ordine, proponendosi, o imponendosi, come depositaria legittima di valori universali, cercando di arginare la tendenza al ritorno del protagonismo degli Stati. è inoltre importante notare come il piano di riarmo non sia una vera ricerca di autonomia da altri attori internazionali, in quanto questo rafforzerà la dipendenza ad esempio dalla fornitura di armi statunitensi. Il riarmo, l’affermazione un’Europa guerriera, sono quindi sintomi della perdita di centralità e di profonda crisi dell’Occidente in uno scenario di guerra globale. A questa tendenza l’Europa risponde con la militarizzazione, appaiata a tagli al welfare e austerity da una parte, e rilassamento delle regole sul debito dall’altra, inedito per paesi come la Germania; con l’irrigidimento e l’ulteriore esternalizzazione dei confini, come esemplificato dal patto sulla migrazione e l’asilo e il sostegno della governance europea per il patto Italia-Albania. Questi aspetti esprimono un nazionalismo regionale, o regionalismo, che si autoafferma definendo con sempre più rigidità e violenza l’altro da sé, alimentando narrazioni genealogiche di se stessa e della propria storia che rievocano l’idea della bianchezza come dispositivo identitario, ignorando completamente l’eredità coloniale europea. La riflessione sul riarmo ci porta perciò a svelare come esso non sia solo sintomo della volontà di mantenimento dello status quo dettata dall’impreparazione europea agli imprevisti scenari globali, ma che la guerra, il riarmo, la militarizzazione siano i dispositivi che la governance europea mette in campo per rispondere a uno stato di emergenza, crisi e guerra globale e affermare con violenza la propria identità. la concezione del rapporto con le politiche internazionali che, se prima l’Europa mirava a cambiarle per renderle vicine alla politica domestica, adesso si adegua ad esse, ad esempio l’incapacità di opporsi ai dazi di Trump. Un altro asse centrale è quello della crisi dell’idea stessa di Europa, messo in luce in modo particolare dall’incapacità di intervenire contro il genocidio in Palestina, come riflesso delle fallimentari politiche della memoria tedesche, sostenendo lo Stato sionista nella sua guerra genocida, che ogni giorno forza i limiti del diritto internazionale. Per comprendere il rinnovato impulso bellico da parte della governance europea, che va a costituire un’idea di europa guerriera è stato proposto il concetto di “pace bianca”. Infatti, l’Europa ha avuto la tendenza di autoconcepirsi come spazio civile collettivo, la cui integrazione era guidata dalla volontà di mantenere la pace. ovvero della pace solo all’interno dello spazio europeo, che. In realtà, sin dalla sua nascita, il progetto di pace europeo riguardava soltanto al suo interno, e, anzi, non ha mai esitato a ricorrere all’uso delle armi, purchè al di fuori dei suoi confini, anche nell’ottica di mantenere uno status quo interno. In questo, la guerra in Ucraina ha senz’altro sconvolto gli equilibri, ma ha anche contribuito ad una definizione più chiara dei confini europei, con l’Ucraina dentro e la Russia fuori. Si può definire quindi il riarmo contro la Russia, non tanto una rottura dalla concezione di Europa come progetto di pace, ma come un ritorno agli equilibri della Guerra Fredda e di diffusione dei conflitti. Quello che sta cambiando sono le definizioni di chi appartiene a questo spazio e chi no, alimentando i processi di polarizzazione iniziati all’inizio degli anni 2000 e che si sono intensificati con il tempo. Emerge quindi la necessità di superare la concezione di Europa bianca come unico attore politico. Anche per un’idea più ampia di Europa, il processo di militarizzazione è specchio dell’identità europea, che in questo scenario si svela nella sua ambivalenza tra realtà e mito: se il mito è quello di un’Europa fondata su una storia lineare ed omogenea che l’ha resa civilizzata e quindi civilizzatrice, depositaria di valori universali e uno spazio di pace e dello stato di diritto, la realtà si manifesta molto diversamente. La mancata decostruzione coloniale delle istituzioni europee, la crisi dei rifugiati degli ultimi dieci anni e, non ultimi, i centri di detenzione amministrativa italiani in Albania, sono manifestazioni diverse dello stesso problema identitario europeo che vuole tornare, se ha mai smesso, ad applicare il dispositivo della bianchezza come collante. Lo spazio europeo, infatti, viene negato a chi non fa parte dell’idea di bianchezza attraverso l’applicazione di norme fallaci dell’arbitrarietà della loro applicazione. necessità di guardare all’Europa in ottica decoloniale e antirazzista, partendo dal presupposto che l’Europa è fondata sulla sua stessa eredità coloniale: il razzismo sistemico è insito nelle sue radici. Anche in questo caso, la crisi si materializza come crisi della bianchezza coloniale costitutiva dell’idea di Europa, e nella fine dell’egemonia occidentale a livello globale. La costruzione materiale di un’Europa diversa deve necessariamente partire da queste riflessioni, assumendo la complessità e la molteplicità delle stesse critiche decoloniali, dove decolonialità significa continuare il processo già in corso di decostruzione delle colonie materiali e ideologiche europee. Alla luce di queste considerazioni, è fondamentale interrogare la nozione di Europa come spazio minimo di movimento. Si è evidenziato come questa situazione apra nuovi spazi di agentività. assunto sulla non riformabilità delle istituzioni europee, esperienza Blockupy. Quindi, come stare all’interno di questo spazio di transizione senza soccombere alla paura della stessa? Ridefinendo lo spazio di azione politica e la creazione di alleanze transnazionali, sottolineando l’importanza di guardare all’Europa nell’ottica di mettere le basi per una pratica di movimento internazionalista, che sappia imparare dalle recenti esperienze di mobilitazione, dalla Francia, alla Serbia, alla Germania e oltre. Ad esempio, i movimenti in solidarietà con la popolazione e la resistenza palestinese della gioventù europea degli ultimi mesi hanno immaginato dei nuovi spazi di decostruzione europea: un movimento che non incarna soltanto le grammatiche dell’internazionalismo, criticando quindi la colonialità europea nei confronti dell’altro da sé nel Medio Oriente, ma contro la colonialità che l’Europa esprime anche al suo interno. Interrogare lo spazio minimo europeo, quindi, significa instaurare legami transnazionali dentro e fuori di esso, anche con i paesi che subiscono le politiche migratorie europee, agendo in supporto alle persone migranti e/o razzializzate auto organizzate. Significa guardare alle politiche di riarmo come spazio di possibilità di costruzione di un movimento internazionale contro la guerra, che sia in grado di mettere insieme le diverse anime e riflessioni provenienti. È stata proposta, in continuità con la discussione del workshop precedente, la creazione di una piattaforma, tuttora inesistente, di organizzazione europea, che potrebbe diventare un piano di trattazione in ottica transnazionale. Workshop 3: Organizzazione Il terzo workshop è stato interamente dedicato al problema dell’organizzazione politica e della sua specifica declinazione nella contemporaneità. Gli interventi introduttivi hanno dunque tentato di fornire una panoramica dei nodi teorici e pratici che oggi non possono essere aggirati da chiunque voglia porsi tale questione con la radicalità che un’ottica di trasformazione dell’esistente necessariamente impone. Tra di essi è stata anzitutto individuata la crisi delle forme organizzative “novecentesche”, ovvero di quei corpi intermedi – principalmente partiti e sindacati – che fungevano da cinghia di trasmissione tra la totalità del sociale e le istituzioni della democrazia rappresentativa. Una crisi strutturale già lentamente in atto da decenni, alla quale il regime di guerra ha impresso una brusca e probabilmente irreversibile accelerazione. Al tempo stesso, e solo apparentemente in contraddizione con il punto precedente, un altro dato ineludibile ai fini della discussione è stato individuato nell’elevato tasso di politicizzazione e mobilitazione che caratterizza la fase attuale: da più di un decennio si riscontra un proliferare di grandi manifestazioni di piazza (transfemministe, climatiche, antirazziste, per la Palestina), vertenze, scioperi, blocchi stradali e altre forme di contestazione, che pur mobilitando nel complesso centinaia di migliaia di persone faticano, prima ancora che ad incidere materialmente, a sedimentare processi di soggettivazione duraturi, a costruire reti, alleanze e pratiche che permangano e preparino il terreno per i cicli di lotte successivi. Si è persa la capacità, in altre parole, di tenere assieme “guerra di posizione e guerra di movimento”, di connettere di volta in volta le grandi ondate di mobilitazione con quei processi di lotta caratterizzati invece da temporalità differenti, da un andamento non-lineare e dalla necessità di procedere per conquiste ed avanzamenti graduali. La sensazione è infatti di dover ogni volta ripartire da zero, nella frammentazione e nell’isolamento: in assenza di un orizzonte condiviso, di una capacità di costruire convergenze reali, i soggetti di volta in volta in mobilitazione tendono a ricadere in forme organizzative già note e tendenzialmente autoreferenziali. Il problema di cosa voglia dire fare militanza politica oggi, per chi e soprattutto in vista di che cosa – si è detto – deve necessariamente essere posto su questo terreno, che implica evidentemente una certa dose di autocritica e autoriflessione. A partire da queste considerazioni è emerso come ulteriore elemento decisivo il tema dell’identità, o meglio delle identità, in qualche modo interpretabile come croce e delizia di molte delle lotte che animano e hanno animato questa fase. Se infatti l’identificazione in determinate comunità o soggetti politici rappresenta evidentemente un potente vettore di soggettivazione e attivazione politica delle singole persone, essa esaurisce ben presto la sua spinta trasformativa proprio perché di per sé priva degli strumenti utili a costruire relazioni durature e concrete con soggetti altri, originando la circolarità viziosa precedentemente delineata. La mobilitazione delle identità, anche quando si presenta come plurale e inclusiva, rischia sempre di tradursi in una mera somma di parti eterogenee che non riescono, o addirittura si rifiutano, di ibridarsi per dare vita e respiro ad un orizzonte di lotta comune. Com’è possibile, allora, tenere insieme l’eterogeneità dei soggetti in lotta da un lato, senza pretendere di ridurla ad unità, e dall’altro la necessità di costruire alleanze e reti che non siano semplicemente addizioni di sigle, che rischiano di puntare in ultima analisi alla pura auto-affermazione? A questo riguardo, sin dall’apertura del workshop la riproduzione sociale è emersa nettamente come il terreno a cui guardare per cercare di uscire da questa impasse. Ancora in fase introduttiva si è infatti evidenziato come essa sia l’ambito che più duramente verrà colpito e trasformato dal regime di guerra, sia in termini di (ulteriore) definanziamento, che di disciplinamento sociale e inasprimento del controllo e delle gerarchie. Proprio per questo, tuttavia, la riproduzione sociale viene ad essere il terreno prediletto per pensare e praticare tanto un allargamento quanto un più profondo radicamento della mobilitazione, in nome di un’opposizione trasversale al regime di guerra e alla sua evidente insostenibilità rispetto ai bisogni materiali dell’enorme maggioranza della popolazione. La riproduzione sociale si presenta dunque come il luogo in cui la convergenza si dà materialmente, ma deve essere politicamente organizzata: una comune condizione di precarietà esistenziale legata alla distruzione del welfare, della sanità, dell’istruzione, ad un generale peggioramento della qualità della vita fuori e dentro il luogo di lavoro, alla gestione sempre più violenta e securitaria della marginalità e del disagio, è ciò che attraversa l’eterogeneità del sociale scavalcando ogni possibile identitarismo. A questa comune condizione e a questa eterogeneità la militanza di oggi deve imparare a guardare teoricamente e a rivolgersi praticamente. Per questo è stato sottolineato come le innumerevoli esperienze di mutualismo, solidarietà e cura da sempre ed in misura crescente negli ultimi anni attive sui territori – scuole di italiano, spazi di doposcuola, sportelli legali, ambulatori, cucine e palestre popolari – vengano ad occupare una posizione particolarmente privilegiata per dare vita a processi inediti di soggettivazione e costruzione di alleanze. Si tratta infatti di luoghi evidentemente distanti dalla sfera tradizionale della militanza politica e che tuttavia, in una fase di evidente attacco alle infrastrutture della riproduzione sociale, rispondono a dei bisogni materiali che li portano ad incontrare proprio quell’eterogeneità sociale che la militanza tradizionalmente intesa faticherebbe ad intercettare. A riprova della bontà di questa intuizione, i contributi di esponenti del mondo sindacale hanno a loro volta evidenziato come la loro attività oggi giunga inevitabilmente ad interfacciarsi con problematiche non immediatamente riconducibili a quelle tradizionalmente appartenenti alla sfera delle lotte sul luogo di lavoro. Il modo in cui il collettivo di fabbrica GKN ha saputo riportare in primo piano la connessione strutturale tra lotta climatica e lotta operaia è in questo senso un esempio particolarmente noto e virtuoso, ma senz’altro non l’unico: nei territori, si è detto, l’attività sindacale si trova continuamente a dover fare i conti con i problemi della casa, dell’educazione, del razzismo, del patriarcato. La necessità di assumere questa ottica complessiva e di fare i conti con una crescente eterogeneità di questioni e soggetti interessati, del resto, non è altro che il sintomo di un mutamento radicale nella composizione di classe, determinato a sua volta dalle profonde trasformazioni dei meccanismi di estrazione di valore verificatesi negli ultimi decenni. Se in passato il primo passo da fare per disarticolare il comando e l’organizzazione capitalista del lavoro era individuare la figura specifica di volta in volta posta al centro dei processi di sfruttamento (operaio massa, operaio sociale, ecc.), tale gesto sembra oggi irripetibile poiché l’estrazione di valore si è estesa ben oltre i luoghi e i tempi di lavoro – di per sé già estremamente precarizzati e frammentati dopo decenni di attacco neoliberale –, proiettandosi altresì su ogni ambito della vita attraverso l’onnipresenza dei dispositivi digitali e delle relative piattaforme. Ogni tentativo di ricostruire un’organizzazione di classe all’altezza dei tempi deve dunque riuscire ad interpretare e riconnettere questa molteplicità frammentata di soggetti apparentemente diversi ma di fatto sottoposti ad un comune regime di lavoro povero, precarietà esistenziale e continua estrazione di valore. Il tema dell’identità è a questo punto tornato al centro della discussione, per essere esaminato nella sua connessione con i rapporti di produzione da un lato e con il discorso reazionario sulle guerre culturali dall’altro. Non è infatti più possibile ignorare l’efficacia e la pervasività con cui l’estrema destra ha saputo riqualificare il discorso sulle identità, trasformando queste ultime in vere e proprie armi con cui definire e rafforzare i blocchi contrapposti nel regime di guerra globale: nel discorso reazionario, le identità di genere, razza e classe vengono ipostatizzate come dati immediatamente naturali, privi di qualsivoglia rapporto con la sfera dei rapporti di produzione. La guerra delle identità così concepite satura lo spazio di ogni possibile conflitto, cancellando la possibilità stessa di praticare quello sociale e venendo a rappresentare, evidentemente, un enorme ostacolo teorico e pratico per ogni tentativo di articolare una ricomposizione di classe nell’ottica precedentemente descritto. Al tempo stesso, si è messo in luce un pericoloso equivoco in cui si potrebbe incorrere nel cercare di aggirare questo dispositivo retorico reazionario. Se è infatti imprescindibile, ai fini della ricostruzione di un’organizzazione materialista e di classe, tornare a gettare luce sui rapporti di produzione invisibilizzati, bisogna tuttavia guardarsi dal fare della classe un ulteriore feticcio identitario, da contrapporre gerarchicamente alle altre come identità più originaria e fondante. Questa tentazione “rossobruna” non coglie infatti il punto fondamentale di come la classe stessa sia internamente intersecata e attraversata dai processi di produzione delle identità, e rischia di tornare a concepirla come un insieme in sé omogeneo, finendo così per ricadere nel gioco di contrapposizioni identitarie su cui l’estrema destra costruisce la propria egemonia. La soluzione, allora, sta nell’adottare un’analisi intersezionale dei rapporti di produzione attuali che sappia mantenere bene in vista il loro nesso con la produzione delle identità. Che significa anche, si è detto, abolire ogni subordinazione gerarchica tra produzione e riproduzione sociale (o, si potrebbe forse dire, tra contraddizioni primarie e secondarie) ad ulteriore conferma dell’importanza cruciale che quest’ultima riveste nelle trasformazioni che caratterizzano la fase attuale. Infine, si è ricordato come ogni teoria materialista dell’organizzazione abbia dovuto storicamente fare i conti con il mutevole ruolo di volta in volta assunto dallo Stato nelle varie congiunture. Non potendoci esimere dal fare altrettanto oggi, si è cercato di delineare i mutamenti complessivi che stanno ridefinendo fisionomia e prerogative dell’istituzione statale soprattutto in rapporto ai processi di accumulazione di capitale. Se infatti da una parte assistiamo all’avanzata di retoriche nazionaliste e securitarie che fanno leva sul potere repressivo e disciplinante dello Stato, dall’altro appare evidente come l’autorità di quest’ultimo risulti fortemente limitata per quanto riguarda il governo dei flussi di capitale e della complessiva riconfigurazione degli equilibri economici e finanziari globali. La vicenda dei dazi voluti da Trump è forse l’esempio più significativo di questa tendenza: persino il presidente di uno dei maggiori attori economici mondiali, oltre che il massimo rappresentante dell’autoritarismo di destra oggi alla ribalta, ha dovuto rivedere le proprie draconiane misure protezionistiche e scendere a patti con i limiti oggettivi ed invalicabili imposti dalle catene di approvigionamento del commercio globale e dai relativi flussi finanziari. È anche e soprattutto dentro lo spazio europeo – si è quindi precisato, anche in riferimento al workshop svoltosi in mattinata – che bisogna mantenere lo sguardo su questo epocale riassestamento dei processi di accumulazione. L’Europa è infatti in primis uno spazio monetario continentale pienamente inserito in queste dinamiche di riorganizzazione globale, sulle quali essa ha, nonostante la sua conclamata crisi, un margine d’azione senz’altro maggiore rispetto ai singoli stati membri. Ogni prospettiva di mobilitazione tanto dentro questi ultimi, quanto nell’Europa come spazio complessivo, deve necessariamente confrontarsi anche con questa dimensione. Ulteriore condizione imprescindibile per comprendere il ruolo dello Stato oggi, infine, è rappresentata dalle grandi piattaforme digitali, in quanto oligarchie dotate di un crescente potere non solo economico ed infrastrutturale, ma sempre più scopertamente politico – il sodalizio di Musk con Trump, per quanto concluso, resta in questo senso paradigmatico. È infatti imperativo chiedersi che effetti abbia sul potere statale, e sul rapporto di quest’ultimo con le piattaforme stesse, il totale monopolio detenuto da queste ultime di gran parte delle infrastrutture divenute fondamentali per il sociale: servers, satelliti, data center e via dicendo. Se la conoscenza del territorio e della popolazione sono stati i perni su cui si è costruita e consolidata l’attività di governo dello Stato nell’epoca moderna, a che trasformazioni va incontro quest’ultimo nel momento in cui un tale sapere non è più prerogativa sua, ma di attori privati dotati di impareggiabili risorse economiche e tecnologiche? Da tutte queste considerazioni – si è concluso – non bisogna inferire che lo Stato sia scomparso o ridotto all’impotenza; conserva ancora, evidentemente, delle funzioni e degli ambiti di autonomia. Tuttavia, questi ultimi possono essere individuati e compresi solo mantenendo lo sguardo sulla dimensione globale ed epocale dei processi in atto, e sulla varietà di attori che li determinano – con evidenti conseguenze per quanto riguarda l’elaborazione teorica dei movimenti in merito alle loro prospettive organizzative e ai loro obiettivi. L'articolo Organizzarsi nella crisi: i workshop su istituzioni europee, svolta autoritaria, congiuntura di guerra proviene da EuroNomade.
Pratiche internazionaliste per un (nuovo) diritto globale
di GISO AMENDOLA. Il diritto internazionale è sempre stato una terra ambigua, non a caso s’è sempre portato dietro una discussione secolare sulla sua stessa esistenza. Predica l’eguaglianza strutturale e formale degli stati e poi ne legittima in mille modi la gerarchia tra tati egemoni e canaglie. Mira alla repubblica mondiale contro la sovranità statale e intanto incorona lo stato sovrano come unico soggetto sulla scena, riducendo tutte le soggettività non-sovrane a “pirateria” o giù di lì. Reclama come propria fondazione l’universalismo e si costituisce esattamente come specchio del colonialismo, e resta sempre attraversato dalla colonia come suo momento costitutivo. Carl Schmitt, che con il suo Nomos della Terra elevò un ideologico inno al diritto internazionale moderno, celebrandolo addirittura come una sorta di monumento inimitabile di tutta la razionalità occidentale, paradossalmente fu anche uno dei più grandi e chiari disvelatori del nesso costitutivo tra la creazione giuridica occidentale e la colonia: il mondo degli stati ha prodotto l’idea di un ordinamento fondato sull’uguaglianza formale tra loro, proprio nel momento in cui proclamava il resto del mondo terra di conquista, fuori da ogni regola giuridica che non fosse quella dell’appropriazione. Più che di promesse non mantenute, o di tradimenti, si dovrebbe quindi parlare di una tensione originaria che anima il diritto internazionale, e che non farà che approfondirsi, riproducendosi continuamente. Da un lato, il diritto internazionale è irrimediabilmente legato ai rapporti di forza, che sacralizza e riproduce in nome del principio di effettività, parola magica da sempre per l’ordine internazionale: è l’obbedienza che si ottiene nei fatti, a decidere, in ultima analisi, ogni questione. Dall’altro lato, contiene lo slancio progettuale a dare una regola anche agli stati, ad affermare l’inesistenza di poteri assoluti, a rompere con lo stesso principio di sovranità per affermare una regola al di là dei rapporti di pura forza. Indistricabilmente diviso tra apologia (dell’esistente) e utopia (del progetto), come nel titolo di uno dei libri di un maestro degli studi critici sul diritto internazionale, Martti Koskenniemi. Questa tensione costitutiva ha prodotto una critica del diritto internazionale altrettanto ambivalente. La prima faccia della critica è quella dei cinici: l’umanità è una menzogna, e la forza è l’unica ultima istanza, l’unica legge delle relazioni internazionali. Oggi vediamo questa critica completamente dispiegata: al ritiro dalle istituzioni sovranazionali, Trump fa seguire l’irrisione delle regole globali, neanche più il finto ossequio. Israele da anni oscilla tra l’ostinata ignoranza del diritto internazionale, e tentativi di utilizzarlo per legittimare l’azione criminale, evocando il diritto a una difesa sempre più preventiva e infrangendo ogni misura di proporzionalità. Dei due lati del diritto internazionale, qui è decisamente quello apologetico che ormai occupa tutto il campo. Dall’altro lato, però, c’è una critica opposta, che guarda alle tensioni del diritto internazionale per aprire una breccia nella logica strettamente “realistica” dell’efficacia e della sovranità. È la critica che decostruisce il nucleo coloniale, e con esso la logica di potenza che attraversa le istituzioni internazionali, per ritrovare l’ingiunzione a rompere la logica degli stati (e oggi diremmo ancor più dei blocchi), per risvegliare la tensione verso l’oltre dello stato sovrano, che è il lato “utopico” del diritto internazionale. Jacques Derrida, nell’ultima parte della sua opera (da Spettri di Marx a Cosmopoliti di tutti i paesi, ancora uno sforzo!), ha affermato questo lato non cinico, tutt’altro che semplicemente “realistico”, della critica alle istituzioni internazionali: con grande forza, Derrida insisteva sul fatto che l’esercizio decostruttivo della critica avrebbe incontrato il nucleo “indecostruibile” di una promessa, di una lotta per la giustizia globale oltre la logica dei blocchi, della violenza degli stati come unica e ultima ratio. Oggi, non è difficile scorgere nell’azione di Francesca Albanese il segno di questo nucleo indecostruibile, che, proprio mentre la crisi delle istituzioni internazionali si fa, dal lato della loro efficacia, irrimediabile, ne rilancia la funzione ora non solo di orizzonte etico, ma anche di arma politica. Così Albanese si muove sempre in una tensione aperta tra la radicalità nel denunciare la matrice coloniale dell’oppressione e nel decifrare la logica sistemica del genocidio, e un’uguale radicalità nel richiamare sempre la funzione giuridica dei suoi atti, nel rivendicare il ruolo delle istituzioni sovranazionali e i loro doveri di intervento. Non è un caso che, nella vergognosa campagna mediale che hanno tentato di orchestrare contro di lei, i servi delle amministrazioni israeliane e statunitensi insistono continuamente sui toni “ambigui” dei suoi rapporti, che sarebbero oscillanti tra il dovere della “neutralità” scientifica del diritto, e la militanza postcoloniale o decoloniale. Non sanno, questi sciacalli, che in realtà centrano esattamente quella relazione tra critica al portato coloniale e uso del diritto internazionale, che sta tracciando la strada per un ruolo del tutto inedito della giustizia internazionale. Nel grande sostegno popolare a Francesca Albanese, in questo momento, risuona anche questo suo essersi collocata con coraggio – da militante e, in tensione mai risolvibile, da giurista – esattamente nel punto in cui la solidarietà alla lotta palestinese e la denuncia del genocidio si saldano alla spinta internazionalistica per una giustizia globale e per nuove istituzioni transnazionali per la pace e i diritti, oltre ogni sguardo cinico sulla crisi del diritto internazionale. È lo stesso nuovo uso decoloniale della giustizia internazionale che ha animato, per esempio, il ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia del Sudafrica sulla natura genocidiaria dell’azione israeliana. Nella stessa direzione vanno nuovi esperimenti di coalizione internazionale come il “gruppo dell’Aja”, che qualche giorno fa si è riunito a Bogotà, con la presenza e l’intervento significativo della stessa Albanese: una coalizione che dà voce a quel “resto” del mondo che proprio la matrice coloniale del diritto internazionale vorrebbe ridurre al silenzio, e che invece ha scelto anche le istituzioni internazionali come terreno di lotta, pur dentro la crisi dell’ordine globale. È evidentemente una strada durissima, nel regime di guerra feroce che attraversa il mondo: ma si intravede la possibilità di un’alleanza tra i movimenti sociali, come quello di solidarietà con la Palestina, e istituzioni internazionali, vecchie e nuove, che, fallite nella loro storia di “apologete” dell’ordine occidentale, trovano oggi una nuova possibilità politica come strumenti di chi, attraversando i confini, vuole costruire una nuova stagione di lotte internazionaliste per la pace e la giustizia globale. questo testo, versione ampliata di un post pubblicato sul profilo Facebook dell’autore, è stato pubblicato sul sito del Centro per la Riforma dello Stato (CRS) L'articolo Pratiche internazionaliste per un (nuovo) diritto globale proviene da EuroNomade.
Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio
di GIROLAMO DE MICHELE. A proposito di: Francesca Albanese, FROM ECONOMY OF OCCUPATION TO ECONOMY OF GENOCIDE. Report of the Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967 [scaricabile qui ] Where’s your Daddy? è un videogioco nel quale un bambino cerca di uccidersi in casa recuperando uno fra le decine di oggetti potenzialmente letali – il flaccone di candeggina, una posata da infilare nella presa elettrica –, e un padre cerca di impedirglielo. Citando un bravo comico, una specie intelligente capace di concepire un prodotto del genere merita l’estinzione. Ma c’è di peggio: un programmatore ha scelto questo nome per un sistema di intelligenza artificiale che insegna ai droni israeliani a individuare ed eliminare esseri umani che, dopo il bombardamento di un luogo abitato, escono dal rifugio per cercare i superstiti. Where’s your Daddy? interviene in seconda battuta dopo Gospel, un sistema di intelligenza artificiale che stima il numero di vittime collaterali nel colpire un target in cui è ritenuto essere un potenziale obiettivo: un militare riceve l’informazione, e dà l’ok al drone, sapendo quante vittime civili saranno colpite. Con le parole di uno di questi [qui]: > Niente succede per caso. Quando una bimba di tre anni viene uccisa in una casa > a Gaza, è perché qualcuno nell’esercito ha deciso che la sua morte non è un > dramma – che è un prezzo accettabile da pagare per poter colpire un obiettivo. > Non siamo Hamas. Non lanciamo razzi a caso. Tutto è intenzionale. Sappiamo > esattamente quanti danni collaterali ci sono in ogni casa. Lo sviluppo di sistema di intelligenza artificiale in israele è reso possibile dalla partnership con Palantir Technologies [proprio così, Palantír: leggere Tolkien da piccolo non necessariamente farà di te un essere umano capace di distinguere il bene dal male], azienda statunitense specializzata nell’analisi dei Big Data; e dall’accesso alle proprie tecnologie cloud e di intelligenza artificiale concesso al governo israeliano da Microsoft, Alphabet [cioè Google] e Amazon. Come per Shylock, il sangue umano vale nella misura in cui può essere trasfigurato in una merce messa a valore; e infatti crescono i profitti di queste aziende, e crescono gli investitori dei propri capitali in questo settore: Blackrock è il secondo maggiore investitore istituzionale in Palantir (8,6%), Microsoft (7,8%), Amazon (6,6%), Alphabet (6,6%) e IBM (8,6%), e il terzo maggiore in Lockheed Martin (7,2%) e Caterpillar (7,5%). Blackrock ricorda qualcosa? È la società di investimenti dalla quale proviene Friedrich Merz, il cancelliere tedesco che ha di recente dichiarato che “Israele sta facendo il lavoro sporco per noi tutti”. Credo possa bastare per dare un’idea del contenuto dell’ultimo rapporto redatto da Francesca Albanese in qualità di Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, From economy of occupation to economy of genocide: quanto ho sintetizzato proviene dai paragrafi 41, 42, 75, solo tre dei 99 complessivi. Di questo Rapporto, scaricabile qui, ne ha fatto un’ottima sintesi Chris Hedges, già Premio Pulitzer, per molti anni inviato del New York Times sugli scenari di guerra, in particolare in Medio Oriente, che sulla sua newsletter segue da tempo il genocidio in corso a Gaza, e ha dato alle stampe un libro, Un genocidio annunciato, al tempo stesso imprescindibile e già superato dalla tragicità degli eventi. Francesca Albanese ha costruito un database che cataloga oltre 1000 aziende o entità economiche che, a diverso titolo, collaborano all’attuazione del genocidio in corso a Gaza; nel rapporto ne sono nominate 48, fra cui Palantir Technologies Inc., Lockheed Martin, Alphabet Inc., Amazon, International Business Machine Corporation (IBM), Caterpillar Inc., Microsoft Corporation e Massachusetts Institue of Technology (MIT), insieme a banche e società finanziarie come Blackrock e Vanguard. Ma anche l’italiana Leonardo, Hyundai, Volvo, HP, Booking Holding Inc., Airbnb Inc., Allianz, Axa, Paribas, Barclay, BNP. Un esempio del ruolo di banche e assicurazioni nel par. 74: > In quanto principale fonte di finanziamento del bilancio dello Stato > israeliano, i titoli del Tesoro hanno svolto un ruolo cruciale nel finanziare > l’attacco in corso a Gaza. Dal 2022 al 2024, il bilancio militare israeliano > è cresciuto dal 4,2% all’8,3% del PIL, portando il bilancio pubblico a un > deficit del 6,8%. Israele ha finanziato questo bilancio in forte espansione > aumentando le proprie emissioni obbligazionarie, tra cui 8 miliardi di dollari > a marzo 2024 e 5 miliardi di dollari a febbraio 2025, insieme alle emissioni > sul mercato interno del nuovo shekel. Alcune delle più grandi banche del > mondo, tra cui BNP Paribas e Barclays sono intervenute per rafforzare la > fiducia del mercato sottoscrivendo questi titoli del Tesoro nazionali e > internazionali, consentendo a Israele di contenere il premio sul tasso di > interesse, nonostante un declassamento del merito creditizio. Le società di > gestione patrimoniale, tra cui Blackrock (68 milioni di dollari), Vanguard > (546 milioni di dollari) e la sussidiaria di gestione patrimoniale di Allianz, > PIMCO (960 milioni di dollari), erano tra gli almeno 400 investitori > provenienti da 36 paesi che li hanno acquistati. Nel frattempo, la Development > Corporation for Israel (ovvero Israel Bonds) fornisce un servizio di > sollecitazione di obbligazioni per il governo di Israele per privati cittadini > stranieri e altri investitori. La Development Corporation for Israel ha > triplicato le sue vendite annuali di obbligazioni per convogliare quasi 5 > miliardi di dollari in Israele da ottobre 2023, offrendo al contempo agli > investitori la possibilità di inviare il rendimento degli investimenti > obbligazionari a organizzazioni di beneficenza che sostengono l’esercito > israeliano e le colonie. Mentre le principali piattaforme di viaggio online traggono profitto dall’occupazione vendendo un turismo che sostiene le colonie, esclude i palestinesi, promuove le narrazioni dei coloni e legittima l’annessione, attraverso la pubblicazione di proprietà e camere d’albergo nelle colonie israeliane, comprese le proprietà israeliane di Gerusalemme est (parr. 69-70). Lo scopo del Rapporto Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio è molteplice. In primo luogo, con una dotta appendice giuridica che si richiama alla legislazione internazionale esistente sui crimini internazioniali e il genocidio, sostenere che la compartecipazione economica consapevole da parte di queste aziende e società viola lo jus cogens e le norme internazionali, e dovrebbe quindi essere sanzionata per la sua complicità giuridica con i crimini in atto (par. 18). Ma soprattutto, Francesca Albanese interviene sulla rimozione linguistica e politica del ruolo della finanza internazionale, cioè del capitale, nella guerra in atto: ruolo che viene nascosto, rimosso – per chi ha passioni o vezzi lacaniane si può senz’altro parlare di forclusione – dalle narrazioni che, facendo iniziare il conflitto dalle “atrocità commesse dall’ottobre 2023” (par. 18), e giustificandolo come una guerra fra religioni – quando non fra “razze” – ignorano l’ombra lunga del capitale che si estende da anni sull’intera regione compresa fra il Giordano e il Mediterraneo: il “monopolio di Israele sul 61% della Cisgiordania ricca di risorse (Area C)” fa sì che l’economia israeliana sottragga a quella palestinese “almeno il 35% del suo PIL” (par. 24), e consenta di convogliare sui territori facenti parte dello Stato israeliano, o da questi controllati con l’occupazione militare e coloniale, gli interessi di alcuni fra quei “conglomerati aziendali [che] superano il prodotto interno lordo (PIL) di interi Stati sovrani”, “talvolta esercitando più potere – politico, economico e discorsivo – degli Stati stessi” (par. 12). Come ha detto Albanese in una intervista a Chris Hedges [l’integrale in coda al testo], > Il genocidio a Gaza non si è fermato perché è redditizio, è redditizio per > troppe persone. È un business. Ci sono entità aziendali, anche di stati > amici della Palestina, che per decenni hanno fatto affari e tratto profitti > dall’economia dell’occupazione. Israele ha sempre sfruttato la terra, le > risorse e la vita dei palestinesi. I profitti sono continuati e persino > aumentati mentre l’economia dell’occupazione si trasformava in un’economia di > genocidio. Inoltre, ha detto Albanese, i palestinesi hanno fornito “campi di addestramento sconfinati per testare le tecnologie, le armi e le tecniche di sorveglianza che ora vengono utilizzate contro le persone ovunque, dal Sud al Nord del mondo”: basta citare lo spyware Pegasus prodotto dalla società israeliana NSO, progettato per operazioni segrete e sorveglianza degli smartphone, che “è stato utilizzata contro gli attivisti palestinesi e autorizzata a livello globale per prendere di mira leader, giornalisti e difensori dei diritti umani” (par. 37). Una “diplomazia dello spyware” cara ai governanti italiani, a partire dal governo Conte-Salvini (quando fu avviata, per candida ammissione di Giuseppe Conte, la sorveglianza illegale delle comunicazioni di Luca Casarini) per estendersi in seguito (aspettiamo di sapere ad opera di chi) ad altri militanti di Mediterranea, giornalisti “impiccioni”, e chissà quanti altri. Fuori dall’Italia, Pegasus aveva già fatto il suo lavoro sul telefonino della moglie del giornalista saudita Jamal Khashoggi, assassinato nel consolato saudita di Istambul il 2 ottobre 2018. Ma c’è un salto qualitativo evidente nel passaggio dallo Stato-laboratorio di tecnologie militari, e dell’intersezione di queste con l’analitica dei big data, quale fino a ieri poteva essere considerato Israele, e la messa a profitto della guerra all’interno di un vero e proprio ecosistema finanziarizzato senza il quale il processo genocidiario in atto non sarebbe stato possibile: la manifestazione evidente di un regime di guerra permanente, nella quale la macchina bellico-finanziaria sperimenta tecniche di valorizzazione e profitto, e al tempo stesso di redifinizione del ruolo dello Stato attraverso un disegno globale di ridimensionamento degli organismi politici e giuridici sovranazionali, e in definitiva di cancellazione dei limiti segnati dal diritto internazionale umanitario. Il Rapporto Albanese, ancor più dei precedenti, va quindi preso a modello per elaborare strategie di opposizione al genocidio: a partire, in attesa della pubblicazione dell’intero database, dalle 48 aziende elencate, per le quali vanno attuate pratiche di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzione. L'articolo Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio proviene da EuroNomade.
Teiko, numero Zero
Presentiamo Teiko, una rivista nata nell’orbita dei seminari di EuroNomade. Il numero Zero è consultabile qui. «Una bussola per orientarsi nel caos sistemico del presente: questa è l’ambizione di Teiko, che fin dal nome (un sostantivo giapponese traducibile con resistenza, uguale sia al femminile che al maschile) dichiara la propria intenzione di pensare nuove militanze. Connettere voci e prospettive, dall’Italia ma guardando fin dall’inizio al mondo; costruire una cartografia del dominio e delle lotte e interpretarla politicamente; rilanciare lo sguardo dell’operaismo rivoluzionario coniugandolo e contaminandolo con altre tradizioni: sono queste alcune delle linee di ricerca che Teiko, con cadenza semestrale, cercherà di seguire.» L'articolo Teiko, numero Zero proviene da EuroNomade.
Netanyahu il leone
Di Collettivo EuroNomade L’operazione “Rising Lion”: è un nome perfetto per quello che sta succedendo, e descrive bene l’intero senso della strategia di Netanyahu: sentitosi smascherato davanti al mondo, si solleva da questa verità, ormai sotto gli occhi di tutt-, alzando il livello del conflitto, da vero sovranista, come il leone è il re della savana. La tensione con l’Iran è cosa di lunga data, certo, ma l’attacco missilistico israeliano è partito nel momento in cui la solidarietà globale per la Palestina ha messo all’angolo Netanyahu e la sua politica genocidaria.  È la denuncia della sua violenza che l’ha fatto tremare, è alla potenza della solidarietà che sta rispondendo, è al terrore della verità che sta emergendo da Gaza che deve ribattere, e sceglie di farlo distogliendo l’attenzione, alzando il livello del conflitto, e optando ancora una volta per la violenza – la solita vecchia via di uscita. È tutta una questione di reputazione, la sua e quella dello stato israeliano, e per queste rappresentazioni è disposto a giocarsi il tutto per tutto. Una mossa da leone stanco, ma ancora pericolosissimo, che scarica tutta l’aggressività di cui è in grado, con una zampata che cerca di imporre nuovamente dominio e autorità, giustificandosi a posteriori su potenziali attacchi nucleari iraniani, sovvertendo l’ordine della narrazione, facendo gaslighting, come i peggiori narcisisti.  A farne le spese è, come sempre, la popolazione civile, su entrambi i fronti della guerra. L’aggressione dell’Iran viene raccontata come un attacco preventivo e come un’azione di difesa, una narrazione, questa, che ricorda molti altri conflitti che hanno segnato la storia contemporanea dai primi anni duemila. Come ci ricorda il collettivo Roja, non è questione di prendere le parti dello stato della repubblica islamica, quanto piuttosto essere sempre a fianco delle lotte popolari e  femministe che si danno nel territorio iraniano. Un’indicazione analoga viene dal PJAK: contro ogni uso strumentale di “Jin, Jiyan, Azadi”, quelle parole sono il rinnovato fulcro di una fase rivoluzionaria che, rompendo la logica del regime di guerra, rifiuti tanto gli attacchi israeliani quanto il governo iraniano, mettendo al centro l’autogoverno, la solidarietà e la lotta delle donne. Questo vuol dire riconoscere che, davanti alle pratiche mortifere degli stati, la parte da sostenere e con la quale allearsi è sempre e comunque quella dei movimenti contro la guerra e per la libertà, fuori dalla narrazione dell’esportazione della democrazia occidentale, dalla logica dei blocchi e dalla altrettanto ideologica narrazione del “campismo”. Sullo sfondo, il disegno di un nuovo ordine regionale, a partire dal controllo dell’area su cui dovrebbe passare l’India-Middle East-Europe Economic Corridor (IMEC) attraverso l’imposizione di un regime di guerra permanente, con Trump che definisce l’attacco israeliano all’Iran come “eccellente”, avvertendo che l’offensiva continuerà, e che le risorse militari israeliane, di fabbricazione statunitense, sono ben più potenti di quelle a disposizione dell’esercito iraniano, fornendo così a Netanyahu una sponda nel distogliere l’attenzione da Gaza per ri-focalizzarla sugli accordi sul nucleare. Ancora una volta, però, non dice una parola su quanto sta succedendo in Palestina, mentre, nel frattempo, Putin si propone come mediatore. In Europa, Macron si dice pronto a difendere Israele, e nulla ha detto dell’eurodeputata Rima Hassan de La France Insoumise, catturata in acque internazionali da Israele mentre era a bordo con Greta Thunberg e Thiago Avila (tra gli altri), né tantomeno si è pronunciato su i tre membri dell’equipaggio, Pascal Maurieras e Yanis Mhamdi (Francia) e Marco van Rennes (Paesi Bassi), ancora detenuti nelle carceri israeliane, Sempre in  Francia, però, sabato 14 giugno, è stata una giornata di mobilitazione contro la guerra e contro il genocidio a Gaza, indetta da La France Insoumise e da CGT, CFDT, Solidaires, UNSA e FSU. Da queste altezze, fondate sulla morte, sulla miseria e sulla violenza, non possiamo che augurarci che cada. Non succederà presto, in questo regime di guerra, non sarà facile, e chissà dopo quanti morti, dopo quanta distruzione, ma prima o poi accadrà. Immagine creata con ChatGPT. L'articolo Netanyahu il leone proviene da EuroNomade.