“Né veritcale né orizzontale”: alcune note sulla proposta di Rodrigo Nunes

EuroNomade - Monday, November 3, 2025

di GIROLAMO DE MICHELE.

Pubblicato nel 2020, il libro di Rodrigo Nones Né verticale né orizzontale. Una teoria dell’organizzazione politica (Alegre, 2025) esce in traduzione italiana in queste settimane, accompagnato da un giro di presentazioni dello stesso Nunes. In verità, non avendolo potuto pressentare all’uscita, Nunes era poi venuto in Italia nel 2022: ma adesso, con la traduzione a mano – e, cosa non da poco, con la disponibilità dell’autore di presentarlo e discuterlo in italiano – le presentazioni consentono una discussione e un approfondimento dei contenuti (cui si giova il sottoscritto). Aggiungo che sul primo numero di Teiko, dedicato all’enigma dell’organizzazione, lo stesso Nunes ha discusso le sue tesi.

La pubblicazione del 2020 cadeva in un momento in apparenza propizio, venendo dopo un ciclo di mobilitazioni internazionali, che hanno però dovuto fare i conti con il loockdown; la sua traduzione circola oggi in un’Italia attraversata dalle mobilitazioni contro il genocidio di Gaza, sfociate nelle piazze stracolme del 22 settembre e 3 ottobre: per quanto casuale possa sembrare (ma dalla prospettiva ecosistemica di Nunes il “caso” non esiste…), è un’ottima occasione per mettere a verifica la sua teoria.

Prima di entrare nel cuore della proposta di Nunes, esemplificato dal titolo, conviene forse partire dalle ultime pagine, nelle quali è dichiarato l’orizzonte entro il quale va considerato il rapporto fra movimenti e organizzazione: il riscaldamento globale, e l’imprescindibile necessità di invertire il processo clmatico prima che diventi irreversibile. Partire dalla lotta al mutamento climatico, ossia a un evento epocale che prende le mosse dalla rivoluzione industriale, significa avere un approccio ecologico sia sul piano della prassi – allargare la potenza dei movimenti fino all’ampiezza necessaria per combattere questa lotta; sia sul piano teorico – elaborare una strategia ecologica nel metodo, e nell’episteme. In altri termini, l’ecologia diventa una modalità di enunciazione collettiva che tiene insieme le cose da fare e le parole per dirlo: concatenamenti collettivi di enunciazione, insomma.

La proposta di Rodrigo Nunes sembra muoversi fra un assunto di sapore foucaultiano, e una proposta guattariana: si tratta di infatti di cambiare l’ordine del discorso sul rapporto partito-movimento, e di ottenere un effetto terapeutico che liberi i movimenti dalla doppia malinconia, esito delle sconfitte, a fasi alterne, tanto delle esperienze organizzate quanto di quelle spontanee, che porta a rifiutare l’approccio organizzativo in favore dello spontaneismo, e viceversa. Un doppio rifiuto che retroagisce, in un perverso feedback negativo, sulle macerie psichiche lasciate dai movimenti del passato. In realtà bisognerebbe riconoscere in questo doppio rifiuto preconcetto un doppio movimento simultaneo, un doppio vincolo – una schismogenesi simmetrica, afferma Nunes citando Bateson (un autore la cui epistemologia ha un ruolo ancor più importnate di quanto non sia dichiarato). Di fatto, sostiene Nunes, nessun movimento “spontaneo” è davvero privo di una struttura organizzativa; così come la presenza di un momento organizzativo non per necessità comporta l’affermazione di UN unico modello-ombrello sotto il quale forzare ogni ambito della prassi.

Per Nunes la questione dell’organizzazione è imprescindibile nella lotta al riscaldamento globale: non è pensabile che un processo ecosistemico di questa ampiezza possa essere arrestato da una miriade di picocle azioni quotidiane o “locali”. Ma va modificata in modo radicale la grammatica tradizionale della questione organizzativa, che presuppone la domanda su quale sia la forma organizzativa più adatta a svolgere quella funzione-ombrello di cui si è detto. La grammatica ecologica proposta da Nunes parte dal presupposto che, secondo un approccio ecosistemico, non c’è mai una forma ideale, ma ci sono sempre una pluralità di forme a gradi. Non si tratta quindi di cercare una ecologia ottimale o perfetta, ma di chiedersi quale sia la potenzialità insita in una ecologia: non potestas, ma potentia.

Questa nuova grammatica, che segue il ritmo dell’approccio ecologico, porta a orerare una risignificazione di alcuni termini chiave (Deleuze avrebbe forse detto parole-baule). La direzione politica deve funzionare come funzione distribuita: la leadership esiste nella misura in cui esiste una funzione di innovazione, cioè di novità all’interno dell’ecologia, e dura fino a quando questa funzione viene riconosciuta. Così come la funzione di avanguardia non è più quella di marciare avanti ai movimenti, ma diviene un evento contingente e sperimentale: un’iniziativa si muove attraverso le decisioni e le iniziative dei gruppi che compongono l’ecologia, ed chi in quel momento esercita tale funzione è un’avanguardia contingente.

Nunes sostiene che il ruolo delle avanguardie quale si è dato in passato fosse legato a una visione deterministica della storia come processo; in alternativa a questa visione, propone una episteme aggiornata al livello dei sistemi scientifici contemporanei, secondo la quale ogni momento del sistema è già sempre organizzato – ma non in modo eteronomo, dall’esterno, bensì dall’interno.

Questo approccio non comporta però una sorta di effetto-testimone di Geova, ovvero andare casa per casa a citofonare agli “organizzativisti” o agli “spontaneisti” duri e puri per spiegar loro un po’ di teorie scientifiche (sarà il caso di ricordare che, lasciando da parte Lenin e il suo rapporto con Mach, Stalin la meccanica quantistica la conosceva, e non è per accidente che ha stroncato il suo sviluppo nell’URSS). Piuttosto, si tratta di uscire dalle secche mentali che ci fanno categorizzare secondo la falsa opposizione fra spontaneo e organizzato la nostra comprensione del mondo. Un approccio volontaristico, certo: che comporta la necessità di camminere con i piedi nelle scarpe dei movimenti e delle mobilitazioni che si stanno dando, a livello globale, oggi.

Resta, a chi scrive, una perplessità teorica. Nunes legge Spinoza (e una la sua lettura di Spinoza in chiave polemica verso Negri e Hardt, collocati fra gli “spontaneisti”) come portatore di una posizione che non afferma che “tutto dovrebbe essere autorganizzato – meno ancora che lo sarà, data la critica di Spinoza alle cause finali – ma riconoscere che ogni cosa lo è già“: il che, oltre a disincantare la natura come autorganizzazione, riconoscendo che non è “dalla nostra parte”, non essendo né buona né cattiva, porterebbe in luce un errore nello spinozismo negriano, che legge nella moltitudine una finalità immanente. È certo vero che per Spinoza ogni elemento del reale è in sé organizzato: la servitù della mente esprime un livello di potenza e di organizzazione, tanto quanto lo esprime la mente liberata. Ma non si può certo dire che per Spinoza le due condizioni siano equivalenti, né che il pensiero e la prassi della liberazione implicano una causa finale, cioè un teleologismo: è una potentia essendi, e potenza di essere ve ne è sempre. Se la moltitudine è sempre pensabile come all’altezza del compito di liberazione, non è per un qualche nascosto provvidenzialismo, ma per la sua composizione politica in quanto forza lavoro: per le potenzialità insite nel suo essere parte del processo produttivo – come, per fare un esempio, il rider che riesce a riprogramare il telefonino, strumento di asservimento al sistema distributivo just in time, per convocare una chat di rider insubordinati e organizzare uno sciopero per superare uno stato del sistema con uno nel quale i diritti dei lavoratori siano a un più avanzato livello.

Tornando infine a Nunes: il suo è il libro, ossia una proposta, che parla di politica non in astratto, ma “con il soggetto dentro”, pur essendo al tempo stesso privo di soggetto, nella misura in cui non propone un modello ideale da imitare: nondimeno, la prassi cui il libro – e il suo autore stesso – chiamano è quella che assume l’orizzonte politico più ampio, cioè quello della rivoluzione, non come risposta possibile, ma come l’unica risposta che ha la possibilità di affrontare la questione climatica. Un movimento reale, in conclusione, che non può che proporsi come obiettivo la distruzione dello stato di cose esistente: camminando, come s’è detto, con i piedi nelle scarpe dei movimenti

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