
Un genocidio
EuroNomade - Wednesday, October 15, 2025di FEDERICO RAHOLA.
Succede che alcune parole si carichino di un valore assoluto, quasi sublime. E che in questo modo chiudano ogni discorso – period si dice ora in inglese. Forse è successo anche con la Shoah, l’olocausto, i 6 milioni e più di ebrei (e i milioni di rom, slavi, omosessuali, comunisti, disabili), cancellati nel piano di sterminio nazifascista. Ma la storia non è finita ad Auschwitz. E anche affermarne l’unicità corre il rischio di perdere di vista qualcosa. Per esempio la sua singolarità, e cioè la sua collocazione (anche estrema) all’interno di una storia (anche di genocidi), e non al di fuori di essa: la razionalità di un piano di sterminio che ha chiamato in causa l’intera modernità occidentale (qualcuno direbbe civiltà, ma rispediamo al mittente), e quindi un’idea di stato e la sua organizzazione razionale, industriale e burocratica applicandola alla morte, all’annientamento di tutto ciò che ne ostacolava la “salute”. Proprio in nome di questa razionalità, che non assolve e ancora chiama in causa, è consigliabile tenersi lontano da toni eccezionalisti, da ogni aura o iperbole. E forse anche abbandonare un singolare assoluto che come sempre abbaglia. Ad esempio, si può provare a ricorrere all’articolo indeterminato, oppure al plurale. Non si tratta qui di relativizzare nulla, nemmeno di optare per un politeismo dei valori. Piuttosto, di compiere una serie di esercizi per collocare e venire a capo di questa singolarità, ampliando lo sguardo. E cioè di dire “un genocidio” anziché il genocidio, e anche parlare al plurale di genocidi lasciando ad altri il compito di stabilire unicità e gerarchie, forse necessarie, e limitandosi a suggerire direzioni, trame. Dire che la Shoah è stata un genocidio non ne sminuisce il significato o scalfisce l’entità, e forse aiuta a capirne la singolarità: a ripercorrere una scia che parte dalla dominazione coloniale, comprende lo sterminio degli Herero in Namibia e, importando tecnologie già testate, arriva a lambire Auschwitz, se non altro come possibilità, come possibile, pensato, compiuto, e nei piani genocidari anche immediatamente cancellato. Perché, lo suggeriva Hannah Arendt, l’oblio dell’Olocausto fa parte dell’Olocausto.
Anche la negazione del genocidio fa parte di un genocidio. Oggi assistiamo a un genocidio negato, come già accaduto nella storia recente, del secolo breve e della sua lunghissima coda, in Turchia, Cambogia, Ruanda, Bosnia, Birmania e Bangladesh, o anche in mare, nell’Oceano nero della tratta ieri, nel Mediterraneo attraversato da una moltitudine senza génos oggi. Ma qui la negazione non parte solo dagli autori, e ricade dappertutto.
Nonostante sia stato riconosciuto dalle Nazioni unite, il genocidio in corso a Gaza, “un genocidio”, viene sistematicamente confutato, non detto, rimosso. Su chiunque si azzardi a pronunciare quella parola e quell’articolo indeterminato, cade un’accusa “period”: antisemitismo. E si dovrebbe parlare dell’irricevibilità e dell’infamia di quell’accusa, oltre che della sua infondatezza. Si dovrebbe anche avere il coraggio, abbandonando iperboli e assoluti, di dire che il 7 ottobre 2023 è stato compiuto un massacro, un crimine atroce che però non è piovuto dal cielo né risulta incollocabile o incomprensibile. Enzo Traverso si è spinto a ricordare la rivolta nel ghetto di Varsavia; Micheal Hardt ha rintracciato la stessa disperata ferocia di una rivolta carceraria; altre e altri, poi, suggerivano come, nei raid contro i coloni, i nativi nordamericani non si limitassero a uccidere ma razziassero e prendessero ostaggi più che fantomatici scalpi. Questo non vuol dire assolvere, non dovrebbe nemmeno essere necessario dirlo, ma provare a capire, a collocare.
In tutti i casi citati, inoltre, è difficile recuperare qualcosa che possa richiamare una persecuzione, una matrice razziale. Ciò vale anche per quel raid, risposta estrema e mimetica a un rave organizzato in tragica buona fede a pochi chilometri di distanza da un confine di ferro e fuoco, e a pochi mesi di distanza da una marcia di protesta soppressa in un mare di sangue. L’antisemitismo non è chiave per capire e nemmeno leggere il 7 ottobre. Forse invece se ne possono rintracciare la matrice o il fantasma nel modo in cui Ben Gvir, Smotrich e Netanyahu pronunciano il significante Palestina e il nome dei suoi abitanti, human animals (e non è scrupolo antispecista) di un popolo senza stato, allo stato brado, come gli ebrei della diaspora ma concentrati in bantustan. Oppure nella sproporzione deliberata e negata di un massacro che si legge sterminio e viene riscritto come operazione di sicurezza, risposta “ponderata” all’entità di un atto di terrore comunque circoscritto e collocabile: proporzioni, misure, sicurezza. La sicurezza di uno stato diventa spesso elemento di sproporzione: era così in Germania, nel 1933, quando per ragioni di sicurezza venne decretata la Schutzhaft, la sospensione a tempo indeterminato dell’ordinamento, permettendo un olocausto.
Oggi rivediamo qualcosa di simile, la distruzione e le macerie, un genocidio in nome della sicurezza e della vendetta, dell’espansione coloniale e della difesa preventiva di uno stato e del suo “spazio vitale”. Qualcuno ha provato a toccare quel genocidio, per arrestarlo, interporsi, portare soccorso. Altri, sempre di più, si stanno mobilitando a distanza, anche contro la pax imperiale che si imporrà su quel deserto di macerie e contro il quadro politico internazionale che la asseconda e incentiva cancellando un genocidio. Perché il deserto che già celebrano come “pace”, nato sulle macerie di un genocidio negato, non può che prefigurare altre occupazioni, altri genocidi. Del resto è sempre stato così, si costruirà sulle macerie e anche con le macerie, anche quando contengono i resti di un genocidio negato e di vite cancellate. Le nostre esistenze intransigenti, boicottando e bloccando tutto, sono la forma di resistenza da offrire alla Palestina e alla sua (r)esistenza, anche senza proiettarci le proprie e sovrascriverci sopra.
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