Perché pensare Gaza? Ma come e cosa pensarne?

Pressenza - Monday, October 13, 2025

Ho tradotto l’intervista ad Etienne Balibar su Gaza, e, a margine, preso nota di alcuni spunti di riflessione. Li metto in fila e li offro ad una lettura estranea alla logica di schieramento o tifoseria calcistica prevalente oggi, anche a fronte di un movimento che per fortuna a questo non può essere ridotto. Dunque Balibar pensa a Gaza, come non farlo, e pensa Gaza, che è difficile. Oggi più che mai perché quando si parla di Gaza e di genocidio, un crimine che si dovrebbe potere intendere universalmente, riferendosi a Gaza, che è unica e non traducibile, si cade in una contraddizione “insopportabile”. 

Perché questo genocidio, nel suo nome proprio specifico, ha come responsabili le vittime di un altro genocidio, che ha un nome anch’esso: la Shoah. 

Ebbene quel nome però non è uno tra altri, non è un nome Comune perché è diventato il simbolo di tutti i genocidi, insieme evento distruttivo e fondativo de “il nome ebraico” (Jean Claude Milner). Lo è diventato in settantacinque anni di storia, e ora quel nome proprio, proprio quel nome, appare compromesso, declassato a singolare senza universale. Che la vittima sia ora il carnefice, oltre a riproporre l’evento in una “disputa”, mai così come ora generalizzata, separa l’evento dal suo rassicurante valore di fondazione. Lo consuma, come se in un processo il giurato fosse screditato, bruciato, annientato. Il non volerlo “mai più” ripetere, come la sacrosanta avversione verso ogni forma di antisemitismo come verso ogni persecuzione etnica, religiosa o razziale, appaiono infondati. Questo naufragio a qualcuno pare coinvolgere in questi mesi anche altri universali e compromettere quello che a Balibar stava a cuore fin dai suoi primi scritti su universale e singolare. Nessuno è più al sicuro in quella contingenza radicale, quella ad esempio che lega non al 7 ottobre ma alla nascita stessa di Israele la persecuzione dei palestinesi.

Ma la parabola discendente del sublime arriva oltre fino a svelare che oggi quel valore assoluto della memoria della Shoah sopravvive per giustificare un crimine preventivo e ad oltranza. Un ribaltamento che è ben raccontato in un saggio di Amos Goldberg pubblicato insieme all’intervista a Balibar. In base a questo “dispositivo” Israele ha un sì diritto a sopravvivere e per farlo deve proteggersi dal suo eterno ritorno, commettendo a sua volta un crimine orrendo verso un alter ego palestinese. Sarebbe qui interessante seguire la continuazione di questo schema nella variante dei martiri della causa palestinese; martiri come se avessero scelto consapevolmente di morire sotto le bombe per testimoniare di una verità che li annichilisce. “Mai più” diventa così indiscernibile da “per sempre”. Una perversa ma logica conseguenza che muove gli eredi legittimi della Shoah a divenire i persecutori dei palestinesi a Gaza. Così facendo, oltre a perseguitare i palestinesi, strappano quel che resta della loro cultura ebraica. 

Verrebbe da chiudere qui il discorso e sperare che ci sia di meglio per pensare a questa vicenda, nella saggezza delle pratiche e nella variegata folla che in questi giorni ha scelto di non voltarsi dall’altra parte. Ma l’intervista a Balibar è pregevole e non merita di essere risparmiata da critiche. Personalmente credo che le sue parole siano quello che può oggi dire un filosofo onesto che non si imponga il silenzio, a cui pure allude lo stesso Balibar quando in apertura cita l’ultima proposizione del Tractatus di Wittgenstein (Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere). 

Quindi riprendo da questo punto, più volte richiamato nell’intervista: perché pensare Gaza? Ma, più in generale, come e cosa pensarne? 

In Balibar prevale il tentativo di saggiare comunque ancora il discorso ed esercitare la critica. In questo non rinnega un decostruzionismo saldamente orientato ad una lotta per la verità. Una presa di posizione politica e partitica, che è per questo difficile.

Ogni cultura, lo diceva Lenin, è divisa in due, una parte reazionaria ed una rivoluzionaria. La sua eredità è quindi necessariamente bastarda, ad esempio mettendo insieme Adorno ed Heidegger, Primo Levi e Carl Schmitt. Anche i più compromessi con la perpetrazione del genocidio ci sono necessari per pensarlo. Così fece ad esempio la Arendt, che lo lesse alla luce di una importazione dei campi di concentramento e sterminio coloniali adottati dagli europei in America e Africa. Questo spiega anche come i nazisti potessero contestarlo quel modello, ma per proporne uno alternativo euroasiatico, dominato stavolta dalla razza germanica con le popolazioni indigene ridotte in schiavitù. La reazione ad una idea non è la causa materiale di processi storici che la seguono, ma spiega perché si possa percepire come universale e farla durare in un contesto mutato. Va detto che un’ideologia è proprio una tale percezione senza contraddizione, una verità essenziale che si oppone e governa un cambiamento. 

Nel nostro caso qualcosa del colonialismo quindi muta, mentre altro resta, seppure nella forma determinata di antisemitismo ieri e genocidio dei palestinesi oggi. In questa argomentazione di fatto Balibar ripiega, non so se sia possibile fare altrimenti con le nostre coordinate culturali post marxiste, e ripropone come linea interpretativa un colonialismo dei coloni al posto di un colonialismo dei nativi: il sionismo ibrida così l’idea di una superiorità europea o occidentale sulla barbarie del medio oriente. Balibar riconosce che questa spiegazione non può essere esaustiva, perché sottovaluta – in nome di un Israele gendarme dell’imperialismo statunitense – come l’Europa abbia “vomitato” gli ebrei rendendoli realmente vittime di un genocidio che ha storicamente giustificato il riconoscimento dello Stato di Israele. 

Resta che qui Balibar ancora ci prova a non cancellare il “significato del rapporto di dominio” riducendolo “ad uno schema binario astratto, o di essenzializzarlo”. Ci prova perché sente che anche il suo lo è, al punto da riproporre un internazionalismo arabo buono ma tutto da inventare a sostegno della, futura anch’essa, resistenza palestinese. 

Ci riesce? Onestamente direi di no. Anche senza essere grossolano e disinvolto, da filosofo professionista lui non lo è mai, nella parte finale dell’intervista se la cava (in dialetto siciliano “se la vede di lastrico”) con un generico appello ad una resistenza materiale che unifica le lotte presenti e future. Una invocazione e un vocativo senza soggetto. E, a dispetto delle contraddizioni prima esplorate, assegna al “popolo palestinese” il ruolo di protagonista. Sottraendolo alla critica di un uso della violenza mitica e senza giustizia e radicandolo in un fondamento che è il nostro partito preso. Perché è in un attaccamento alla terra di Palestina come terra del popolo palestinese che si fonda la sua intangibilità politica. Potranno uccidere gli abitanti di Gaza, dice espressamente Balibar, ma non distruggere quell’ “attaccamento appassionato” (espressione che mutuo da J. Butler) che supera la contraddizione determinata di memoria e futuro. 

Questa debolezza costitutiva del discorso, del suo apparato logico e argomentativo, a mio avviso si ripercuote e riflette nella parte conclusiva dell’intervista, che ai meno benevoli nei suoi confronti apparirà come una condanna fin troppo mite di Hamas. Sarà la storia futura, dice, a decidere se la sua sarà stata una condotta criminale o una scelta, seppure deprecabile per mille ragioni, ma pur sempre una scelta politica. Insomma potrebbe darsi che sia con quell’interlocutore che si dovrà domani realisticamente ancora trattare. Perché Hamas, cito letteralmente un passo dell’intervista, non è il Daesh (che, deduco, per Balibar è oggetto di una squalifica senza appello) e “i rapporti storici tra lotte di emancipazione o resistenza e il “terrorismo” come tattica sono sempre stati (e sono più che mai) complessi, impuri, soggetti a evoluzione.”

Io mi fermerei qui nel commento, forse perché è un limite che oggi è nelle cose e non nelle intenzioni di qualcuno. Mi fermo avendo svolto con alterigia il mio compito come monsieur le vivisecteur, perciò senza limitarmi, come modestia avrebbe richiesto, alla lettura e traduzione. 

AI Overview 
“Monsieur le vivisecteur” (Signor il vivisettore) era l’alter ego artistico di Robert Musil, un personaggio che, attraverso l’uso di un “bisturi intellettuale”, analizzava gli stati della coscienza umana e i rapporti emozionali. Questo titolo era destinato a un romanzo mai completato da Musil in gioventù, ma l’espressione si adatta perfettamente alla figura dello scrittore, che analizzava l’animo umano con una sorta di sinistra obiettività, come una dissezione intellettuale.

Intervista a Ètienne Balibar: la soluzione politica dei due stati porrà fine alla guerra?

Michele Ambrogio