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Un cadavere in cucina, di De Cataldo
L’ex giudice istruttore,  Giancarlo De Cataldo, oggi affermato scrittore, ci porta al sesto caso che vede al centro Manrico Spinori, il PM romano detto “il contino” con una passione per la lirica. Un Manrico Spinori che affronta le indagini con … Leggi tutto L'articolo Un cadavere in cucina, di De Cataldo sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Il Comunismo shanzhai di Byung-Chul Han
Non è l’ennesima offesa eruttata dalla Meloni. E’ il metamorfico (non c’entra Lacan), il tratto anti-essenzialistico del processo mentale cinese, che tende ad ibridarsi a shanzhaizzarsi (vedi poi) anche in ambito politico, secondo il principio che nulla ha un’identità fissa … Leggi tutto L'articolo Il Comunismo shanzhai di Byung-Chul Han sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Qualche appunto su “Gandhi ad Auschwitz”
Il libro di Antonio Minaldi (uno dei leader storici del Movimento studentesco a Palermo egli anni Settanta) è, com’egli stesso dice. il frutto di un percorso che l’ha portato dall’idea che la violenza fosse accettabile ad un suo rifiuto. La sua ‘trasformazione’ mi pare bella, coraggiosa, onesta, totalmente apprezzabile. Vorrei evidenziarne alcuni passaggi che condivido e poi anche altri che mi risultano problematici.   Passaggi notevoli  Nel libro trovo alcuni principi-cardini della nonviolenza. Innanzitutto trovo molto opportuno inserire la trattazione della nonviolenza quale modalità di relazione fra gli esseri umani nel quadro più complessivo delle «quattro forme di dominio, dell’umanità sulla natura e sugli animali, e poi all’interno stesso del consesso umano, dell’uomo sulla donna e sull’uomo stesso» [25]. Altrettanto opportuni i chiarimenti tendenti ad evitare delle rappresentazioni parossistiche se non caricaturali della nonviolenza: «credo che anche il militante nonviolento non possa non accettare (per esempio) il principio del diritto alla “legittima difesa” [29-30]». O sulla stessa tematica: «Quando ogni ragionevole limite di sicurezza e di integrità personale e collettiva viene messo in discussione, la scelta non può che riferirsi a se stessi o al proprio gruppo di appartenenza, ma non può costituire motivo di giudizio negativo nei confronti di quanti dovessero adottare, nell’esercizio del legittimo diritto di resistenza, modalità di lotta e di difesa che prevedono un qualche esercizio della forza (anche armata), purché quest’ultimo sia messo in atto in comprovate  condizioni di stretta necessità e secondo un criterio di minimizzazione del danno» [30-31]).   Tasselli mancanti Sarei stato altrettanto lieto di trovare altre precisazioni che, se non mi sono sfuggite, mancano. Innanzitutto non mi è chiaro in cosa, secondo lui, consista, concretamente, la nonviolenza. Se non sbaglio, non ne viene data una definizione. Indicativo mi sembra il fatto che non si faccia mai riferimento a pratiche concrete di nonviolenza: oltre al caso ipotetico di un Gandhi «che si stende sui binari per fermare i treni che portano gli ebrei verso il campo di sterminio» [20], e su cui sono spese parole di nuovo per me condivisibili – cioè «Gandhi (o chi per lui, posto che abbia la stessa visibilità), che si immola di fronte alla barbarie nazista, sarebbe diventato un monito etico dal valore universale e caratterizzato da una estrema potenza evocativa da consegnare come fulgido esempio ai tempi futuri e alle future generazioni» [28] – viene citato solo, e una sola volta, il «paradigma della disubbidienza civile, come “arma disarmata”, che diviene il dato che materializza ogni lotta di resistenza e di opposizione e che prende il posto di qualunque tentazione violenta o armata»).  Effettivamente, se ci si ferma a questo, se la teoria (e la pratica) della nonviolenza fosse tutta qui – nessun riferimento alla ‘curvatura’ dell’ahimsa, che è astensione dall’offendere, nella direzione del satyagraha, che è la “forza della verità” (verità intesa come volta all’ascolto e riguardosa anche della parte con cui si confligge), l’impressione di restare ancora troppo alla superficie, al piano generale che tende a diventare generico, sarebbe davvero invincibile. Ci si potrebbe chiedere – naturalmente con tutto il sincero rispetto possibile e immaginabile nei confronti dell’autore, di cui è preziosa la testimonianza di entusiasmo per la scoperta della nonviolenza – se il libro non avrebbe guadagnato in chiarezza e condivisibilità se fosse stato edito dopo un più lungo e meditato periodo di maturazione.   Un caso cruciale: Israele vs. Palestina L’impostazione data da Minaldi alla più volte richiamata questione, tragica e attuale, “Israele-Palestina” rispetto a quella ‘normalmente’ filopalestinese tout court, costituisce forse una buona cartina di tornasole per vedere quanto essa si distingua dal pensiero non-nonviolento. Sostanzialmente, mi pare, le sue pagine obiettano a chi approva il ricorso alle armi da parte di Hamas che la nonviolenza ‘conviene’: «d’altra parte va considerato che l’altra sola possibile via che porta alla sconfitta dell’aggressore è quella di tipo militare. Una possibilità che si presenta comunque fattualmente difficile, visto che in genere l’oppressore e dominante è anche colui che è militarmente più forte. Ma poi soprattutto perché la sconfitta della violenza armata attraverso le armi, per la sua stessa intrinseca contraddittorietà, quasi mai produce in termini di pace, i frutti sperati» (p. 43). È una obiezione non di poco rilievo, ma avrebbe bisogno di una indispensabile esplicitazione delle possibili dinamiche concrete dell’alternativa alla reazione militare.  Se tali esplicitazioni non si offrono, mi pare che si presti il fianco a un’obiezione che circola insistentemente: “Concretamente, alla luce della nonviolenza, cosa possono fare i palestinesi?”. Per non risultare anch’io elusivo mi corre l’obbligo di accennare – sia pur rapidamente – alla risposta che darei alla citata domanda: i palestinesi possono rendere chiaro all’avversario il fatto di voler essere disarmati (senza combattere neanche con le pietre). E rendere chiaro ciò significa impegnarsi nel mostrare senza possibilità di equivoco che si ha fermo rispetto e anzi, meglio, riguardo per lui; che la propria rinuncia all’uso della violenza è dettata non da paura o da impotenza o da tattica dovuta alla situazione di inferiorità in cui ci si trova, bensì da precisa scelta, dunque dal coraggio di non volere fargli alcun male, né sul piano fisico né su quello verbale né su quello psicologico, e di ricercare il suo ascolto e il dialogo con lui, e di essere fermamente disposti a soffrire anche unilateralmente per questo. È qui che l’ahimsa si fa satyagraha. E questo, anche tra i palestinesi, a livello di massa, non è stato quasi mai attuato: piuttosto, tra loro, è stata realizzata una tendenziale assenza di violenza per inferiorità di forze o una violenza ‘a bassa intensità’ del tutto inefficace sul piano concreto nella prima intifada che aveva solo valore simbolico di (dignitosissimo) coraggio (nel senso ordinario del termine) e di non accettazione dell’oppressione, ma non di coraggio nonviolento. È stata purtroppo attuata anche una violenza (quella che chiamiamo terroristica) contro i civili, uguale e contraria ancorché di proporzioni moltissimo differenti, a quella di Israele (che va chiamata un terrorismo allo stesso modo terroristica, ancorché si tratti – e questa è un’aggravante – di terrorismo di Stato). Invece, è la comunicazione, in parole, comportamenti e atteggiamenti, della scelta che rassicura l’avversario che non ha, né avrà, alcun motivo di ricorrere alla violenza, a disarmarlo per sua stessa persuasione (e a ottenere il favore di tutta l’opinione pubblica internazionale). La nonviolenza è una teoria della comunicazione, è un’arte della buona comunicazione, del creare comunità – anche quando confligge. È solo a questo punto, e in quest’ottica, che, nel caso che l’avversario intendesse ricorrere alla violenza – ormai non più per difendersi dal contrattacco (violento) dei palestinesi (che a loro volta si stanno difendendo) ma per imporre il suo dominio (occupazione, imposizione di leggi etc.) – che entra in azione la disobbedienza civile e, ancor prima, la noncollaborazione ed altre forme di lotta, sempre rispettose, riguardose, coraggiose, che la storia della nonviolenza fa conoscere (per es., ma non solo, ad opera di Gene Sharp) e che la creatività permette di incrementare ulteriormente. Senza queste esemplificazioni concrete il discorso di Minaldi rischia di restare tutto interno al paradigma “dicotomico” (troppo incidentalmente problematizzato qua e là nel testo). Mi limito ad una citazione, in cui peraltro è utilizzato pienamente il linguaggio bellico (che metto in corsivo): «Se dunque io voglio formulare giudizi che riguardino il presente e non solo fatti passati in giudicato dalla storia, in modo che il mio dire abbia valore non solo valutativo, ma anche performativo, io devo necessariamente trascendere la flemma dello storico e prendere partito. Per tornare ai nostri esempi, se “Il nazismo è stato sconfitto”, si dà invece il caso che “Israele deve essere sconfitto”. Questa circostanza mi impone il dovere di schierarmi, secondo quello che mi detta la mia coscienza e l’insieme delle opinioni che ho maturato rispetto alla vicenda in corso. Un dovere che si presenta come non facile (ma che è comunque necessario), per chi ha fatto della nonviolenza una scelta etica ed esistenziale, specialmente in una situazione in cui vi è un confronto tra forze armate. Uno scontro tra l’uso illegittimo della forza perpetrato da parte dell’aggressore, portatore di morte e di distruzione, e l’uso della forza da parte di chi reagisce ad un atto di imperio, che, come abbiamo visto, deve essere considerato legittimo anche da parte di chi è schierato, in senso etico e in linea di principio, contro l’uso della violenza. Una necessaria presa d’atto della possibilità di usare la forza lasciata alla scelta di chi subisce, in nome della legittima difesa e del diritto di resistenza. In queste circostanze di confronto estremo non si può eludere la questione dei mezzi necessari (purché pur sempre leciti) per giungere, in nome del bene e della giustizia, ad una conclusione positiva, a cui si può pervenire solo con la sconfitta chiara e definitiva dell’aggressore» [41-42]. Ho riportato con ampiezza le parole di Minaldi per evidenziare come, a mio parere, resti forte una visione dicotomica del mondo e orientata non alla soluzione quanto più possibile condivisa del conflitto ma alla sconfitta dell’Altro: una parte ha ragione e deve vincere, l’altra ha torto e deve perdere; l’alternativa presupposta è tra «la flemma dello storico» (= equidistanza) e il «prendere partito», senza che sembri possibile altra strada: l’equivicinanza – categoria pratica particolarmente appropriata alle Terze parti (quali noi, non palestinesi e non abitanti in Palestina, siamo) – è ignorata.   La vicenda del Sudafrica Dei processi attuati dal Sudafrica di Mandela (e Tutu), nella transizione dall’apartheid alla vita successiva, l’autore offre una rappresentazione che non mi sembra condivisibile. Infatti non mi risulta che la “Commissione per la verità e la riconciliazione£ (che Minaldi non nomina neppure) avesse come scopo il «biasimo collettivo» [45] come colpa da espiare: questo sarebbe un concetto (socialmente) penale e non riparativo. La Commissione mirava, piuttosto, alla narrazione delle “verità” (=dei punti di vista, delle interpretazioni) dei carnefici e soprattutto delle vittime, per le vittime: il riconoscimento e l’assunzione di responsabilità dei crimini commessi – dall’una e dall’altra parte in conflitto. Sono stati questi fattori a permettere la riconciliazione.   La gestione dei sentimenti A proposito di ciò che si prova nei confronti dell’avversario – e del linguaggio conseguente che si adotta, spesso di odio – l’autore scrive: «Un sentimento si prova e basta. Chiedersi se sia giusto o lecito provarlo non ha alcun senso. Chiedersi poi se sia ammissibile manifestarlo pubblicamente è cosa che mette in gioco un numero talmente alto di variabili che non credo sia possibile, e forse neppure utile, arrivare a stabilire delle regole generali» [48]. Mi chiedo se sia costretti a scegliere fra due sole possibilità: giudicare i sentimenti (dunque stabilire se sia giusto o meno provarli) oppure lasciarli manifestare pubblicamente, quali che siano (cioè anche se sono di carattere distruttivo). Non esiste forse una terza possibilità, che è la via della nonviolenza, consistente nel prendere atto dei propri sentimenti ed educarsi incanalarli in direzione costruttiva? Che io avverta “aggressività” nei confronti di un essere che minacci me o persone o oggetti a me cari è fisiologico, inevitabile, funzionale alla mia sopravvivenza: trasformare questa “aggressività” psicologica in aggressione, in violenza o in opposizione ferma e coraggiosa, riguardosa, nonviolenta, questo invece appartiene alla sfera delle opzioni culturali.   La nonviolenza è una “scienza” Mi auguro, in conclusione, che questo libro-testimonianza segni l’inizio – e non la conclusione – di un percorso. La nonviolenza è una scienza (sociale), su cui ormai esistono molti libri di studiosi che ne hanno analizzato le pratiche e organizzato la teoria. Una delle più apprezzate esponenti di questa prospettiva è Pat Patfoort che non a caso, nel suo Costruire la nonviolenza (La Meridiana,  Molfetta 1992, 47),  ha messo bene in luce un atteggiamento, purtroppo, diffuso: le persone possono tranquillamente dire una frase come «non ho mai studiato il greco o l’informatica, perciò non so niente di greco e di informatica; non ho mai studiato la nonviolenza ma credo di essere nonviolento». ANDREA COZZO Redazione Palermo
Francesca Albanese: Quando il mondo dorme
Di rapporto in rapporto, mettere in evidenza la politica sistematica, deliberata di genocidio portata avanti dall’entità sionista che occupa da decenni la Palestina, è quanto sta facendo Francesca Albanese. Francesca Albanese, relatrice speciale ONU per i territori palestinesi occupati, è … Leggi tutto L'articolo Francesca Albanese: Quando il mondo dorme sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
La salute mentale è politica
 ““Tirare su” un bambino equivale in pratica a buttare giù una persona” scriveva nel libro “La morte della famiglia” (1972) l’antipsichiatra David Cooper. Quando si arriva all’adolescenza si può dire che il lavoro di distruzione è pressochè compiuto (per l’educazione … Leggi tutto L'articolo La salute mentale è politica sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Sulla traccia delle parole di luce e di calore
Una vibrante massa di fuoco sulla copertina dell’agile libro Lingue di fuoco. Parole dal cratere del mondo (Gabrielli editori, 2025) è un buon indizio riguardo al viaggio intrapreso dalle autrici, l’etnografa Maria Livia Alga e la teologa Lucia Vantini. Si tratta infatti di un particolare della mappa del pianeta Terra tratta dal Mundus subterraneus (1665) dell’enciclopedico scienziato gesuita Athanasius Kircher, dove si illustra il nucleo incandescente terrestre, da cui si diramano reticoli sotterranei nel quali confluiscono vortici oceanici e dai quali risalgono lava e acqua. Non importa quanto le teorie di Kircher siano scientificamente veritiere alla luce delle scoperte successive, conta la sua visione del nostro pianeta come un grande organismo nel quale tutto è interconnesso, visione per molti versi affine al modello più recente degli ecosistemi alla luce dell’epistemologia cibernetica, un modo di pensare in termini di relazioni, interazioni, connessioni e contesto. Dall’ Introduzione si apprende che l’approdo al volume Lingue di fuoco giunge da un percorso inaugurato a Camaldoli nel 2023 durante un seminario del Coordinamento Teologhe Italiane intorno alla cura del mondo alla prova della crisi, al quale assistettero le editrici Cecilia e Lucia Gabrielli interessate all’intreccio spiritualità-ecologia-femminismi, e proseguito nello stesso anno a Verona con l’intervento delle autrici, dal titolo Tutto deve passare dal fuoco. Per una poetica della luce, al Grande Seminario della comunità filosofica femminile Diotima centrato sulle trame invisibili nella realtà contemporanea. L’intento finale ruota intorno alla scommessa di enucleare la potenza terapeutica e rigeneratrice di lingue di fuoco reperendole «nei crateri del mondo, dove pulsa la vita che anela alla luce ma anche dove si annida l’orrore che consuma ogni forma di resistenza costruttiva» (p. 10).   Consapevoli dell’ambivalenza del fuoco, al fine di svelarne i molteplici aspetti e di affinare in chi legge il discernimento delle fiamme che trasformano dalle fiamme che annientano, Lucia Vantini in Lingue di fuoco, verso l’aurora e Maria Livia Alga in Qualcosa si è acceso dispiegano esperienze proprie e altrui, saperi, competenze in una ricerca variegata che asseconda i moti stessi di questa forza primigenia – dalla minuscola favilla ai guizzi delle vampe, dalla rapida propagazione alla lenta combustione, dai crepitanti falò all’ardente cenere che cova vita. Una impresa abbastanza complessa, giacché esige il rigore di non frammischiare  i molteplici piani di una indagine che tiene conto del fuoco materiale così come del fuoco vissuto, quindi del mosaico di immagini e figure che questo archetipo così potente custodisce e proietta.   Le lingue di fuoco sono proposte come un farmaco sulla via della guarigione da una cultura necrofila e come un sostegno nella saldezza dell’abbracciare «la prospettiva solidale e biofila del vita tua vita mea» (p. 30), scrive Lucia Vantini: infatti, «le parole, come il fuoco, possono salvare e distruggere, possono trasformare le cose in una storia da raccontare, possono tenere insieme la materia e lo spirito, rendere visibile l’invisibile, possono sfumare i confini e generare speranza» (p. 24). Si tratta di uscire dalla condizione di sordità e cecità nei confronti delle esistenze che pulsano nelle zone in ombra del mondo e di acquisire una lingua che faccia spazio alle differenze, al dono del nome proprio nel quale risiede il mistero di «un segreto legato alla generazione di una vita ma anche di una trama di legami e di una nuova narrazione di eventi in un intreccio inscindibile che richiede continua cura e attenzione per non scadere nella banalità della burocrazia o dell’abuso» (p.39). In definitiva una lingua che abbia cura delle dinamiche relazionali tenendo conto dei diversi piani dell’essere, senza cadere nell’idolatria della parola. Lucia Vantini ci guida nel viaggio che va dall’inizio della Bibbia all’Apocalisse, dalla Pentecoste al roveto ardente, in parallelo alla vita che scorre tra due fuochi; invita a soffermarci all’incrocio fra la convivenza umana con il fuoco, e più in generale con le risorse naturali da gestire in modo sostenibile, e il mito di Prometeo, ladro per amore, non districabile dalla sapienza della vita; ricupera la fenomenologia dell’immaginazione del filosofo Gaston Bachelard e in particolare la figura della Fenice, «l’essere della doppia favola: si infiamma con il proprio fuoco; rinasce dalle proprie ceneri […] una somma di valori poetici, un gioco di svariate corrispondenze: fuoco, balsamo, canto, vita, nascita, morte» (p. 23). Lungo la rotta rimbalza il monito di Adrienne Rich a noi donne volto a perseverare nello scambio anche facendo uso di una lingua addomesticata, perché se essa «è così potente da incenerire una vita, deve esserlo anche per riaccendere la speranza» (p.29). Ci si inoltra quindi nella via che raccorda la liberazione dall’angelo del focolare proclamata da Virginia Woolf al «fuoco divino che riconcilia con il mondo, di Simone Weil», fino a comprendere «il focolare come spazio di pensiero e di luce nei Diari di Etty Hillesum; la fiamma dell’aurora in Maria Zambrano» (p. 52).                                                           Sono immagini che scalfiscono la lingua dura, anaffettiva, burocratica che umilia, affama, mortifica, disintegra, devasta; esse aprono passaggi a parole di convivialità, amore, ospitalità, speranza, condivisione che nutrono e  alimentano una lingua in definitiva ispirata che scorge in ogni essere vivente l’aspettativa di bene; parole aurorali che vivono di libertà e di desiderio, come proclama la poeta Chandra Livia Candiani nel suo anelare a:  «parole disobbedienti ma anche candide. Parole capriole e parole solletico, parole lampi, fulmini e tuoni, parole aghi che cuciono e parole che strappano la stoffa del discorso. Parole silenziosissime che non svegliano i bambini della notte. Parole che conoscono i ring e non sferrano mai colpi bassi. Ma toccano. Rintoccano. Fanno percepire la pelle e vibrare le ossa. Le ferite si acquietano sotto le parole di fuoco, si riconoscono della stessa natura» (p. 72).  La conclusione di Lingue di fuoco, verso l’aurora di Lucia Vantini è affidata all’immagine della poeta russa Ol’ga A. Sedakova che racchiude una potente verità: «solo nel fuoco si semina il fuoco», un’immagine che sospinge in modo inarrestabile a «dislocarsi dai campi di battaglia e sottrarsi alla logica dello schieramento»  (pp. 72-73), giacché occorre aver attraversato il fuoco per risanare se stessi, occorre custodire nel proprio intimo granelli di luce, scintille di fuoco per travasare nel mondo infuocato dal delirio di onnipotenza semi di calore vitale che risanino le proprie ferite e quelle altrui e ricreino un mondo nuovo in questo mondo.                                                    Maria Livia Alga, autrice dello scritto che occupa la seconda parte del volumetto, si situa nell’oggi, nel mondo che a suo sentire sta bruciando dentro e fuori, il mondo nel quale qualcosa si è acceso. Il lessico incendiario delle proteste transfemministe ne è una chiara illustrazione: «Il fuoco è la metafora agente per incoraggiare la combustione di dinamiche patriarcali che si riproducono nella società ma anche nei collettivi antiegemonici […]. “Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto” ha chiesto Elena Cecchettin alle migliaia di persone che hanno riempito le piazze dopo l’omicidio della sorella» (pp. 81-82). Segue un’osservazione acuta sulla percezione che l’autrice avverte partecipando a Verona alla manifestazione in nome di Giulia: riferisce di «una grande tensione tra le parole di fuoco incitanti alla rivolta, al furore e alla rabbia, e i modi del corteo che, composto e lento, si rivelava un modo per elaborare collettivamente il lutto, radicare una memoria collettiva, fondare una lotta quotidiana» (p. 82, corsivo mio). È uno scenario che rimanda a una sete di  cambiamento radicale, e nello stesso tempo a «una funzione protettiva di ciò che è irrinunciabile all’essere umano per dirsi tale» (p. 84).  Non è semplice orientarsi in un mondo con molteplici fuochi di rivolta in cui sono coinvolti masse di giovani maschi delle banlieues metropolitane e delle capitali di diversi paesi dell’Africa, sarebbe necessaria una mappa delle voci della contemporaneità, che tuttavia non posso abbracciare in toto. Nondimeno la parte dello scritto che più interroga e sollecita alla riflessione nasce dall’esplorazione dei gesti della rivolta, del No, della negazione nell’ambito di un laboratorio permanente di autoformazione in pedagogia del corpo nel quale Maria Livia Alga è impegnata da due anni e che è frequentato da universitari e operatrici del settore educativo. Ne emerge uno stato d’animo diffuso, consistente in una paralisi dal di dentro, che viene letta alla luce della crisi della presenza di Ernesto De Martino:  «Il rischio radicale della presenza è inteso dall’antropologo come l’esito di un aggravarsi della crisi che “restringe sempre più il margine della possibile iniziativa, finché in un supremo conato di rinuncia a sé e al mondo la volontà entra in un blocco spasmodico, restando come sospesa […]”. Più precisamente, alla base della crisi della presenza è la condizione di chi non può o sente di non riuscire ad adattarsi all’ambiente in cui vive, trovandosi minacciata/o  nella sua propria esistenza. Non si tratta del senso del “non essere”, ma del non esserci, specifica l’antropologo» (p. 91). È una condizione intollerabile di perdita che si può attraversare e mentre la si attraversa si può a mio avviso riacquisire o acquisire il senso del nostro essere materia sensibile (Simone Weil) sottoposta allo sgretolamento nelle interazioni con il tempo in un ciclo continuo che disfa e rifà ogni cosa vivente; un punto di vista non lontano dall’elaborazione del  filosofo nigeriano Bayo Akomolafe che tiene insieme cultura yoruba, poststrutturalismo francese e materialismo femminista statunitense: «… nel fare i conti con la materia sempre soggetta alle interazioni con il tempo, l’essere umano può farne esperienza, attraversarla, gioirne e soffrirne, smettendo di sentirsi separato dal resto del vivente» (p.94). Nella condizione contemporanea di perdita e angoscia, scrive Maria Livia Alga, si può attingere dal pensiero e dalle pratiche delle donne: ad esempio da Carla Lonzi apprendiamo a liberarci dei canoni simbolici previsti e prevedibili, a privilegiare le relazioni in presenza, a risvegliare il fuoco generativo di stupore, meraviglia, speranza, a ritrovare il «contatto rivitalizzante e metamorfico degli opposti in connessione» ((p. 97). Si può rilanciare il pensiero di Luisa Muraro che suggerisce la possibilità soggettiva di sottrarre credito alle leggi e alle autorità costituite, di combattere senza odiare, di disfare senza distruggere,  di «puntare sulla indipendenza simbolica nei confronti dei mezzi e delle mediazioni del potere e soprattutto riprendersi l’intera disponibilità di sé e della propria forza, senza usarla in posizione rivendicativa, senza usarla cioè “contro” ma “per”» (p. 99).  L’assillo di dare uno sbocco al come affrontare il rischio di una trasformazione radicale sospinge Maria Livia Alga a cercare tracce antiche di un sapere sulla simbologia del fuoco in sponde lontane – per esempio, nel poema Il verbo degli uccelli del mistico persiano Farīd ad-Dīn ‘Attār del XII secolo, letto con la lente di James Hillman, o nelle pratiche delle tribù native della California  – e in sponde vicine – gli usi rituali del fuoco in Sicilia e nel Mediterraneo, le narrazioni mitologiche intorno a Estia, la dea greca del focolare – luogo di passaggio, luogo di circolazione tra i diversi livelli cosmici, luogo dello scambio con le potenze ctonie e celesti – o intorno a Tapati/Tabiti, la Vesta sciita secondo Erodoto.  Il libro Lingue di fuoco si chiude con una celebre storia africana che ruota intorno a un incendio nella giungla e a un colibrì, che compie un piccolo gesto che richiama a sua volta tanti piccoli gesti da parte di altri cuccioli di diverse specie. L’insieme di questi piccoli gesti innesca un processo dall’esito positivo anche se non scontato, che può provocare lo shock del risveglio dando vigore a una fiamma che riscalda e rin-salda, a pratiche e parole di luce e di calore, a un’autentica passione per la vita. Redazione Italia
Le guerre degli uomini. Conflitti contemporanei, patriarcato, lavoro vivo
Riprendiamo la recensione al libro di S-Connessioni precarie, “saggio – come scrive Morini – estremamente interessante e composito”, in cui si parla esplicitamente “del nostro essere alla presenza di una Terza guerra mondiale”. Nella nota a piè di pagina, redatta dal collettivo Effimera che ha pubblicato il contributo, viene segnalano che il volume recensito è stato curato da “un’area politica, attiva in diverse realtà italiane, che assume come motivo centrale del proprio intervento la condizione globale e differenziata del lavoro contemporaneo, l’intreccio tra patriarcato, sfruttamento e razzismo e il rifiuto della guerra in tutte le sue forme”_ Con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, il 24 febbraio 2022, la guerra ha conquistato il tempo presente, diventando cardine della politica, dell’economia e del diritto. La contesa armata, i sistemi di riarmo, la necessità di difesa, le opportunità di attacco, la logica della vendetta, la paura del nemico, la giustificazione della distruzione, con la ricomparsa di parole come genocidio ed ecocidio, si sono imposte alla nostra quotidianità. Il caso più clamoroso, in questa fase, è quello della Palestina, una contesa pluridecennale riesplosa in tutta la forza e tutto l’arbitrio delle armi, con Israele che ha fondato i propri progetti di rivalsa contro la violenza di Hamas sul martirio pubblico della popolazione civile, protetto dall’appoggio degli Stati Uniti e dell’Europa. Il femminismo ricorda però un aspetto importante: la guerra è stata sempre parte della storia dell’umanità, essa non ha mai smesso di esistere, agìta sempre dalla componente maschile della società: “Combattere è sempre stata un’abitudine – dell’uomo, non della donna […] anche la maggior parte degli uccelli e degli animali li avete sempre uccisi voi, non noi […] È chiaro che dal combattimento voi traete un’esaltazione, la soddisfazione di un bisogno che a noi sono sempre rimaste estranee”[1], rimarca, tra il 1937 e il 1938, Virginia Woolf nelle prime pagine de Le tre ghinee. Donne desiderose di potere e perciò impazienti di assecondare il maschile sotteso al medesimo, come Ursula von der Leyer o Giorgia Meloni le quali ripetono l’identica frase sulla necessità di prepararsi alla guerra, non contraddicono ma rafforzano la sentenza con cui Woolf conclude questo suo primo ragionamento: “A causa di queste differenza tra noi, è impossibile capirci […] non siamo in grado di capire né gli impulsi, né le motivazioni, né l’etica che vi spingono a fare la guerra”[2]. Possiamo aggiungere che la dipendenza dall’alleanza con gli Stati Uniti aveva fatto scrivere ad Alba de Céspedes, nel 1994, in una postfazione al suo romanzo Dalla parte di lei (uscito nel 1949), che “la lotta, la prigione e per tanti la morte non erano servite che a fare dell’Italia un protettorato nordamericano”. Ebbene, tale amara considerazione si ritrova ampiamente confermata nel presente, all’interno di una complessità che ha escluso da tempo spartizioni dicotomiche di sfere di influenza sui mondi, il blocco dell’ex Impero sovietico e quello dell’Occidente, eppure ha di fatto aggravato il problema della perdita di autonomia e di autodeterminazione dell’Italia e insieme dell’intero continente europeo, ridotte dagli Stati Uniti a essere qualcosa di simile alla “filiale di un supermercato”[3]. Infine, la guerra non ha mai taciuto non solo lontano e altrove ma proprio nel cuore dell’Occidente anche se abbiamo provato a distrarci e far finta di non vederla: “Nei commenti sulla guerra in Ucraina mi ha colpito l’insistita ripetizione sul ritorno della guerra in Europa dopo più di settant’anni” scrive Maria Luisa Boccia, ricordando che sui territori europei lo scontro armato a guida Nato si era avuto già dopo il 1989: “Penso in particolare ai conflitti nell’ex Jugoslavia che hanno coinvolto anche l’Italia”[4]. Cosicché, le guerre degli uomini sono una realtà persistente e pervasiva, fondate su sistemi di alleanze e di dipendenze, che affliggono decine di Paesi in tutto il mondo. Anche dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale, si è avuta una proliferazione di conflitti interstatali che, pur non essendo formalmente guerre tra nazioni, sono “internazionalizzati” dalla partecipazione di potenze esterne, attori non statali e da interessi economici globali. Questa “cronicizzazione” della violenza è alimentata da una combinazione di fattori che rendono la guerra una realtà quasi permanente in molte regioni del mondo. Possiamo perciò arrivare a parlare di una “guerra infinita”, di una guerra “modulare” e modulata, di una guerra che si esplicita e si impone, però, con schemi e intensità diversi tra loro. Tale lunga premessa mi serve per introdurre alcune considerazioni sul saggio, estremamente interessante e composito, di S-Connessioni precarie Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per le lotte del presente, uscito da poco per DeriveApprodi editore. In esso si sostiene che si può esplicitamente parlare del nostro essere alla presenza di una Terza guerra mondiale, “perché partiamo dalla considerazione che, come le due precedenti essa non consiste solamente e nemmeno prioritariamente in uno scontro tra Stati, nella loro ricerca di egemonia su scala globale. Nelle guerre definite mondiali la posta in gioco non è stata solo la lotta tra gli Stati per il predominio, ma in maniera altrettanto, se non più, rilevante il modo di esercitare il comando sul lavoro vivo. Le guerre sono diventate mondiali quando esso è diventato globalmente un fattore allo stesso tempo costitutivo e antagonistico per la società capitalistica. Le guerre mondiali non sono guerre tra Stati alla ricerca di una protezione più o meno imperiali, ma sono guerre che investono e ridefiniscono la società capitalista su scala globale”[5]. Si deve chiarire subito, letta questa affermazione, che la guerra contemporanea non è un fenomeno globalmente omogeneo, ma si manifesta, invece, con modalità, intensità e violenze profondamente diverse a seconda dei luoghi e degli attori coinvolti. I conflitti in Ucraina e Palestina, pur essendo tra i più visibili, rappresentano solo due specifici modelli di guerra contemporanea, già differenti tra loro, che coesistono con dinamiche molto diverse presenti in altre parti del mondo. Ma mentre il conflitto in Ucraina e a Gaza attira un’attenzione internazionale significativa, le dinamiche di guerra in luoghi come il Sudan, il Myanmar o il Messico si svolgono con meno clamore benché le conseguenze siano altrettanto, se non più, devastanti per le popolazioni civili. Ci verrebbe da dire, insomma, che la violenza globale della guerra è un fenomeno multiforme e localizzato. E che la definizione di Terza guerra mondiale, per quanto se ne voglia fare “un uso politico”[6], appare piuttosto azzardata poiché non esiste un unico conflitto combattuto su tutti i continenti e perfino i maggiori scontri (Ucraina, Medio Oriente) rimangono conflitti locali, per quanto interconnessi. Dunque, non siamo in presenza di una Terza guerra mondiale se lo intendiamo nel senso tradizionale di uno scontro militare tra due fronti ben definiti. Per tale ragione, semmai, sembrerebbe più appropriato utilizzare la definizione coniata da Papa Francesco che ha parlato di “terza guerra mondiale combattuta a pezzi” per descrivere lo scenario internazionale contemporaneo, che vede spesso il coinvolgimento, anche indiretto o tramite proxy war (guerre per procura), delle maggiori potenze, mantenendo così una dimensione di tensione globale e di una costante mobilitazione industriale bellica. La precisazione non vuole essere importuna o pignola ma mi sembra che porre, come fanno gli autori e le autrici, “il problema della fine [della Terza guerra mondiale] senza pretendere di descrivere tutto ciò che sta accadendo”[7] possa risultare poco realistico, così come, specularmente, può sembrarlo l’affermazione che “la fine della guerra esige la produzione di uno spazio per il lavoro vivo che attraversa i fronti e i confini e dunque un salto organizzativo che faccia i conti con il transnazionale”[8]. Il contesto contemporaneo, che possiamo definire una sorta di “economia di guerra”, registra la diffusione e lo sviluppo di un modello di accumulazione e valorizzazione capitalistica che muove dalla sussunzione della riproduzione sociale e dalla mercificazione del vivente a fini di accumulazione per tradursi sempre più direttamente in produzione di morte e distruzione dell’ambiente e delle condizioni di vita. Risaputamente, la contraddizione tra gli interessi del capitale e quelli della forza-lavoro è la contraddizione principale del sistema capitalistico e se più profondamente scavassimo fino all’origine della pulsione di morte connessa alla guerra troveremmo l’eterno impianto degli assetti patriarcali che verranno ereditati dal capitale: i sentimenti negativi, l’odio non domato nell’uomo delle origini trovano “libertà di espressione” cosicché uccidere il nemico sia facile: “La storia è dunque una lunga serie di ammazzamenti sui quali cade un ‘oscuro senso di colpa’ che origina dall’uccisione del Padre primordiale, la faccia violenta e scabrosa dell’Edipo”[9]. S-Connessioni precarie su questo aspetto scrive, infatti: “Il militarismo come ideologia legittima il diritto del più forte non soltanto nel rapporto tra eserciti, ma anche nelle relazioni sociali e nelle istituzioni. Evidentemente, essa non è la causa della crescente e persistente violenza maschile sulle donne, nonostante in guerra lo stupro sia da sempre utilizzato per svilire simbolicamente il nemico e affermare il dominio sul territorio attraverso il dominio sul corpo delle donne. L’ideologia militarista attiva la stessa ‘pedagogia della crudeltà’ (Segato 2023), stabilendo che la violenza è una strategia d’ordine sempre praticabile e perfino necessaria per punire la pretesa di libertà di chi non vuole essere oppressa”[10]. Detto ciò, il militarismo rappresenta, appunto, anche la forma assunta dal capitalismo nella crisi globale attuale e i vari focolai di guerra sono visti non come incidenti, ma come la forma violenta con cui il capitale globale cerca di governare e superare le proprie crisi strutturali. La crisi salariale diffusa, l’aumento delle disuguaglianze e l’erosione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici su scala mondiale, soprattutto nel Sud del mondo, vanno interpretati come l’espressione di una “guerra di classe” unilaterale, in cui il capitale avanza senza sosta per massimizzare i profitti e mantenere la propria egemonia. Ma è davvero possibile parlare di un capitale omogeneo cui si contrappone un lavoro vivo altrettanto omogeneo in grado di originare una lotta di classe transnazionale? Come si può declinare questa astrazione (pure affascinante) in pratiche veramente capaci di tenere in considerazione da un lato le diverse forme di rappresentazione del lavoro vivo oggi, sempre più eterogenee e diversificate, dall’altro l’attuale fase di ridefinizione intracapitalista degli assetti capitalistici e geoeconomici? Mi domando, insomma, in che senso sia possibile parlare di processi di accumulazione e del lavoro vivo come di un unicum senza precisarne le articolazioni. Esse, credo, vanno considerate come conseguenza del processo di cambiamento in atto verso una realtà multipolare, ancora in divenire ma ineluttabile, che non può essere ristretta e sminuita a visione “regionalistica” degli assetti del mondo contemporaneo[11]. Evidentemente, vorrei qui aggiungere, il processo di globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia hanno portato a una poderosa concentrazione della proprietà e del controllo in capo a pochi attori che operano a livello transnazionale (per utilizzare ancora il termine che attraversa il saggio) ma che pure accumulano ricchezze separatamente, solo in alcune aree “protette” del Nord del globo. Questo acuisce il conflitto, perché la logica del capitale finanziario e della rendita domina sempre più le attività economiche, a scapito della remunerazione del lavoro, di area in area, di nazione in nazione, di colore della pelle in colore della pelle, a seconda del genere, a seconda dell’età anagrafica. La divisione del lavoro di smithiana memoria non ha smesso di esistere, si è trasformata e ingloba anche una divisione cognitiva e biopolitica del lavoro che non possono essere ignorate. La divisione del lavoro si estende a come le diverse capacità vitali e aspetti dell’esistenza (il benessere, la cura di sé, la salute psicologica, la formazione continua) vengono mobilitate, segmentate e valorizzate. Inoltre, il potere regola la ripartizione del lavoro basandosi su parametri biologici, demografici o sociali (età, genere, salute, etnia, come notavo sopra). La capacità di produrre valore e di essere “inclusi” nel circuito produttivo diventa questione dirimente che separa la vita produttiva e sana da quella considerata “improduttiva” o “a rischio”. I profughi, i migranti che sono risultato della guerra, non si ritrovano più solamente limitati nell’attraversamento dei confini e destinati a diventare il bersaglio di uno “sciovinismo del welfare” che esclude precisamente alcuni[12]. L’esperimento di Gaza ci sta mostrando qualcosa di estremamente più terribile e più agghiacciante. L’attuale incremento vertiginoso della spesa militare negli Usa, in Europa, in Cina va visto non come una risposta a reali minacce geopolitiche, ma come un elemento propulsivo dell’economia capitalistica di quei contesti e non di altri, con differenziazioni che si riverberano sul piano della crisi del lavoro vivo e degli effetti della stagnazione economica proprio mentre si generano profitti enormi per l’industria degli armamenti. La guerra, insomma, anche quella combattuta “a pezzi”, funge da meccanismo per ristrutturare le catene del valore e le gerarchie di potere, forzando le singole nazioni a riallinearsi e a ridefinire ciascuna i propri mercati. Stiamo vedendo come la guerra in Palestina e in Medioriente sia perno di processi di neocolonialismo, con nette divergenze tra centri di potere che ne beneficiano, anche dislocati diversamente dal passato (per esempio l’Egitto o il Qatar). In sintesi, pur tra alcune contraddizioni che ho cercato di illuminare ai fini di continuare un confronto sul tema della guerra con l’area di S-Connessioni precarie che è stato estremamente utile, per me, per noi, in questi anni di guerra, l’espressione “Terza guerra mondiale” può essere utilizzata metaforicamente per descrivere lo scontro di sistema a livello globale, un conflitto che si manifesta con violenza economica e sociale in tutto il mondo, ma tra differenze estremamente marcate, “come occasione di irreggimentare il suo comando sul lavoro vivo e di impedire che la guerra possa saldarsi alle lotte per il salario e per il reddito, la libertà sessuale e quella di movimento”[13]. Le mie perplessità su talune definizioni e termini vogliono rappresentare, dunque, il possibile prosieguo di un dibattito. Di conseguenza, colgo l’aspetto simbolico rilevante rappresentato dall’appello politico a organizzare, collettivamente, scioperi globali e a praticare un rifiuto transnazionale della guerra: “Nessuno è ora fuori dalla guerra e sarebbe illusorio voler tornare a una situazione in cui, in quanto europei, siamo in pace fintantoché la guerra si fa da un’altra parte del mondo”[14]. Non trovano pace i nuovi dannati della terra, nonostante le nuove false promesse “degli stregoni e dei feticci”[15]. Resta forte l’anelito, la spinta ideale, ma restano anche straordinari problemi che per essere risolti vanno bene discussi e chiariti. Bisogna prestare attenzione ai meccanismi, non sconfortarci di fronte alle incomprensioni e proseguire. Chi più delle donne può capire e osare? L’energia liberatrice nasce sempre all’interno dello stesso sistema totalitario che pretende di annullarla. Lo sappiamo da millenni. NOTE [1] VIRGINIA WOOLF, LE TRE GHINEE, LA FELTRINELLI, MILANO 1992 P. 25 [2] IVI, P. 29-30 [3] ALBA DE CÉSPEDES, DALLA PARTE DI LEI, MONDADORI, MILANO 2021 PP. 527 E 530 [4] MARIA LUISA BOCCIA, TEMPI DI GUERRA. RIFLESSIONI DI UNA FEMMINISTA, MANIFESTOLIBRI, ROMA 2023, P. 7 [5] SCONNESSIONI PRECARIE, NELLA TERZA GUERRA MONDIALE. UN LESSICO POLITICO PER LE LOTTE DEL PRESENTE, DERIVEAPPRODI, BOLOGNA 2025, P. 12 [6] IVI, P.12 [7] IVI, P. 14 [8] IVI, P. 22 [9] CRISTIANA CIMINO, TRA LA VITA E LA MORTE. LA PSICOANALISI SCOMODA, MANIFESTOLIBRI, ROMA 2020, P. 18 [10] SCONNESSIONI PRECARIE, NELLA TERZA GUERRA MONDIALE, CIT., P. 48 [11] IVI, P. 31 [12] IVI, P. 59 [13] IVI, P. 49 [14] IVI, P. 103 [15] JEAN-PAUL SARTRE, PREFAZIONE A FRANZ FANON, I NUOVI DANNATI DELLA TERRA, EINAUDI, TORINO 2007, P. LXVI S-CONNESSIONI PRECARIE, NELLA TERZA GUERRA MONDIALE. UN LESSICO POLITICO PER IL PRESENTE, DERIVEAPPRODI, BOLOGNA 2025, PP.116, EURO 15,00 Redazione Italia