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Perché pensare Gaza? Ma come e cosa pensarne?
Ho tradotto l’intervista ad Etienne Balibar su Gaza, e, a margine, preso nota di alcuni spunti di riflessione. Li metto in fila e li offro ad una lettura estranea alla logica di schieramento o tifoseria calcistica prevalente oggi, anche a fronte di un movimento che per fortuna a questo non può essere ridotto. Dunque Balibar pensa a Gaza, come non farlo, e pensa Gaza, che è difficile. Oggi più che mai perché quando si parla di Gaza e di genocidio, un crimine che si dovrebbe potere intendere universalmente, riferendosi a Gaza, che è unica e non traducibile, si cade in una contraddizione “insopportabile”.  Perché questo genocidio, nel suo nome proprio specifico, ha come responsabili le vittime di un altro genocidio, che ha un nome anch’esso: la Shoah.  Ebbene quel nome però non è uno tra altri, non è un nome Comune perché è diventato il simbolo di tutti i genocidi, insieme evento distruttivo e fondativo de “il nome ebraico” (Jean Claude Milner). Lo è diventato in settantacinque anni di storia, e ora quel nome proprio, proprio quel nome, appare compromesso, declassato a singolare senza universale. Che la vittima sia ora il carnefice, oltre a riproporre l’evento in una “disputa”, mai così come ora generalizzata, separa l’evento dal suo rassicurante valore di fondazione. Lo consuma, come se in un processo il giurato fosse screditato, bruciato, annientato. Il non volerlo “mai più” ripetere, come la sacrosanta avversione verso ogni forma di antisemitismo come verso ogni persecuzione etnica, religiosa o razziale, appaiono infondati. Questo naufragio a qualcuno pare coinvolgere in questi mesi anche altri universali e compromettere quello che a Balibar stava a cuore fin dai suoi primi scritti su universale e singolare. Nessuno è più al sicuro in quella contingenza radicale, quella ad esempio che lega non al 7 ottobre ma alla nascita stessa di Israele la persecuzione dei palestinesi. Ma la parabola discendente del sublime arriva oltre fino a svelare che oggi quel valore assoluto della memoria della Shoah sopravvive per giustificare un crimine preventivo e ad oltranza. Un ribaltamento che è ben raccontato in un saggio di Amos Goldberg pubblicato insieme all’intervista a Balibar. In base a questo “dispositivo” Israele ha un sì diritto a sopravvivere e per farlo deve proteggersi dal suo eterno ritorno, commettendo a sua volta un crimine orrendo verso un alter ego palestinese. Sarebbe qui interessante seguire la continuazione di questo schema nella variante dei martiri della causa palestinese; martiri come se avessero scelto consapevolmente di morire sotto le bombe per testimoniare di una verità che li annichilisce. “Mai più” diventa così indiscernibile da “per sempre”. Una perversa ma logica conseguenza che muove gli eredi legittimi della Shoah a divenire i persecutori dei palestinesi a Gaza. Così facendo, oltre a perseguitare i palestinesi, strappano quel che resta della loro cultura ebraica.  Verrebbe da chiudere qui il discorso e sperare che ci sia di meglio per pensare a questa vicenda, nella saggezza delle pratiche e nella variegata folla che in questi giorni ha scelto di non voltarsi dall’altra parte. Ma l’intervista a Balibar è pregevole e non merita di essere risparmiata da critiche. Personalmente credo che le sue parole siano quello che può oggi dire un filosofo onesto che non si imponga il silenzio, a cui pure allude lo stesso Balibar quando in apertura cita l’ultima proposizione del Tractatus di Wittgenstein (Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere).  Quindi riprendo da questo punto, più volte richiamato nell’intervista: perché pensare Gaza? Ma, più in generale, come e cosa pensarne?  In Balibar prevale il tentativo di saggiare comunque ancora il discorso ed esercitare la critica. In questo non rinnega un decostruzionismo saldamente orientato ad una lotta per la verità. Una presa di posizione politica e partitica, che è per questo difficile. Ogni cultura, lo diceva Lenin, è divisa in due, una parte reazionaria ed una rivoluzionaria. La sua eredità è quindi necessariamente bastarda, ad esempio mettendo insieme Adorno ed Heidegger, Primo Levi e Carl Schmitt. Anche i più compromessi con la perpetrazione del genocidio ci sono necessari per pensarlo. Così fece ad esempio la Arendt, che lo lesse alla luce di una importazione dei campi di concentramento e sterminio coloniali adottati dagli europei in America e Africa. Questo spiega anche come i nazisti potessero contestarlo quel modello, ma per proporne uno alternativo euroasiatico, dominato stavolta dalla razza germanica con le popolazioni indigene ridotte in schiavitù. La reazione ad una idea non è la causa materiale di processi storici che la seguono, ma spiega perché si possa percepire come universale e farla durare in un contesto mutato. Va detto che un’ideologia è proprio una tale percezione senza contraddizione, una verità essenziale che si oppone e governa un cambiamento.  Nel nostro caso qualcosa del colonialismo quindi muta, mentre altro resta, seppure nella forma determinata di antisemitismo ieri e genocidio dei palestinesi oggi. In questa argomentazione di fatto Balibar ripiega, non so se sia possibile fare altrimenti con le nostre coordinate culturali post marxiste, e ripropone come linea interpretativa un colonialismo dei coloni al posto di un colonialismo dei nativi: il sionismo ibrida così l’idea di una superiorità europea o occidentale sulla barbarie del medio oriente. Balibar riconosce che questa spiegazione non può essere esaustiva, perché sottovaluta – in nome di un Israele gendarme dell’imperialismo statunitense – come l’Europa abbia “vomitato” gli ebrei rendendoli realmente vittime di un genocidio che ha storicamente giustificato il riconoscimento dello Stato di Israele.  Resta che qui Balibar ancora ci prova a non cancellare il “significato del rapporto di dominio” riducendolo “ad uno schema binario astratto, o di essenzializzarlo”. Ci prova perché sente che anche il suo lo è, al punto da riproporre un internazionalismo arabo buono ma tutto da inventare a sostegno della, futura anch’essa, resistenza palestinese.  Ci riesce? Onestamente direi di no. Anche senza essere grossolano e disinvolto, da filosofo professionista lui non lo è mai, nella parte finale dell’intervista se la cava (in dialetto siciliano “se la vede di lastrico”) con un generico appello ad una resistenza materiale che unifica le lotte presenti e future. Una invocazione e un vocativo senza soggetto. E, a dispetto delle contraddizioni prima esplorate, assegna al “popolo palestinese” il ruolo di protagonista. Sottraendolo alla critica di un uso della violenza mitica e senza giustizia e radicandolo in un fondamento che è il nostro partito preso. Perché è in un attaccamento alla terra di Palestina come terra del popolo palestinese che si fonda la sua intangibilità politica. Potranno uccidere gli abitanti di Gaza, dice espressamente Balibar, ma non distruggere quell’ “attaccamento appassionato” (espressione che mutuo da J. Butler) che supera la contraddizione determinata di memoria e futuro.  Questa debolezza costitutiva del discorso, del suo apparato logico e argomentativo, a mio avviso si ripercuote e riflette nella parte conclusiva dell’intervista, che ai meno benevoli nei suoi confronti apparirà come una condanna fin troppo mite di Hamas. Sarà la storia futura, dice, a decidere se la sua sarà stata una condotta criminale o una scelta, seppure deprecabile per mille ragioni, ma pur sempre una scelta politica. Insomma potrebbe darsi che sia con quell’interlocutore che si dovrà domani realisticamente ancora trattare. Perché Hamas, cito letteralmente un passo dell’intervista, non è il Daesh (che, deduco, per Balibar è oggetto di una squalifica senza appello) e “i rapporti storici tra lotte di emancipazione o resistenza e il “terrorismo” come tattica sono sempre stati (e sono più che mai) complessi, impuri, soggetti a evoluzione.” Io mi fermerei qui nel commento, forse perché è un limite che oggi è nelle cose e non nelle intenzioni di qualcuno. Mi fermo avendo svolto con alterigia il mio compito come monsieur le vivisecteur, perciò senza limitarmi, come modestia avrebbe richiesto, alla lettura e traduzione.  AI OVERVIEW  “MONSIEUR LE VIVISECTEUR” (SIGNOR IL VIVISETTORE) ERA L’ALTER EGO ARTISTICO DI ROBERT MUSIL, UN PERSONAGGIO CHE, ATTRAVERSO L’USO DI UN “BISTURI INTELLETTUALE”, ANALIZZAVA GLI STATI DELLA COSCIENZA UMANA E I RAPPORTI EMOZIONALI. QUESTO TITOLO ERA DESTINATO A UN ROMANZO MAI COMPLETATO DA MUSIL IN GIOVENTÙ, MA L’ESPRESSIONE SI ADATTA PERFETTAMENTE ALLA FIGURA DELLO SCRITTORE, CHE ANALIZZAVA L’ANIMO UMANO CON UNA SORTA DI SINISTRA OBIETTIVITÀ, COME UNA DISSEZIONE INTELLETTUALE. > Intervista a Ètienne Balibar: la soluzione politica dei due stati porrà fine > alla guerra? Michele Ambrogio
Francia 18 settembre sciopero generale oltre un milione di manifestanti
L’intersindicale (CFDT, CGT, FO, CFE-CGC, CFTC, Unsa, FSU e Solidaires) si felicita per il successo della mobilitazione. Un avvertimento molto chiaro al governo che ancora non c’è e innanzitutto a Macron. E’ dagli scioperi generale del 2023 contro la riforma delle pensioni che non si aveva una tale mobilitazione in tutte le città francesi. 588 azioni di blocchi sono stati recensiti dalla polizia insieme a 140 fermi e 75 arresti a metà giornata. Scioperi in tutti i settori e nelle scuole. > Qui immagini della mobilitazione: youtube.com Enorme dispositivo poliziesco che provoca e carica a Parigi, Lyon e Nantes nel corteo parigino sarebbero stati visti 200 black blocks. Pioggia di lacrimogeni dappertutto. Stanchi? Mai. Pessimisti? Assolutamente no! A Montpellier, come altrove, di prima mattina, gli assistenti sociali, che da mesi lottano contro i tagli al bilancio, hanno organizzato un picchetto. Avevano partecipato alla giornata del 10 scorso. Questa intensa stagione di ritorno a scuola prosegue la sua corsa a lunga distanza, iniziata all’inizio del 2025 dopo le minacce di licenziamenti nelle organizzazioni non profit. Offre anche l’occasione perfetta per chiedere una convergenza delle lotte con altri settori. Il picchetto, organizzato di fronte alla Direzione Dipartimentale dell’Occupazione, del Lavoro e della Solidarietà (DDETS), voleva essere “interprofessionale”, invitando i ferrovieri, i lavoratori dei settori sanitario ed energetico e gli studenti a unirsi alle truppe del nuovo “coordinamento sociale”.  Fondato nel 2025, questo coordinamento continua a crescere e riunisce assistenti sociali e medico-sociali che si impegnano per coinvolgere altri, nelle varie strutture del dipartimento. “Il coordinamento dà energia”, descrive Max, assistente sociale del quartiere Mosson, un quartiere prioritario a nord di Montpellier. “Abbiamo organizzato assemblee generali, abbiamo visitato le organizzazioni che hanno iniziato a organizzare lo sciopero. È concreto, la gente sente che stiamo davvero facendo qualcosa”, continua. Max crede fermamente nella convergenza delle lotte. “Lo abbiamo fatto sostenendo i ferrovieri. E oggi sono loro ad unirsi a noi. La prossima settimana dovremmo fare lo stesso con il sistema scolastico nazionale”. E tutto questo dovrebbe essere fatto su scala nazionale! Ci sono molte cose da immaginare, ma per questo dobbiamo strutturare e coordinare il movimento.” Antoine, anche lui assistente sociale, concorda: “Ci si può sentire senza speranza quando si rimane isolati nella mentalità del ‘ognuno per sé’.” “Grazie al coordinamento, negli ultimi sei mesi, abbiamo dimostrato di poterci unire, parlare tra di noi e darci forza a vicenda”, aggiunge questo dipendente dell’associazione Area, che sostiene le persone che vivono nelle baraccopoli di Montpellier.  Appelli a continuare a cascata  Antoine lavora nel settore sociale da vent’anni e non ha mai visto così tanti avvisi di sciopero piovere sul settore. “Prima, c’era un avviso ogni dieci anni. “Ora, ogni due o tre mesi!”, racconta all’assemblea, riunita davanti al DDETS (Dipartimento dei Servizi Sociali). Osserva anche un profondo cambiamento nelle rivendicazioni: “In passato, ci si concentrava sulle condizioni di sostegno alle persone”. “Oggi, interi dipartimenti decidono di discutere le proprie condizioni di lavoro. È una novità assoluta. È un momento estremamente critico e la rabbia sta montando.” Antoine, membro del sindacato Sud Santé, nota anche un’accoglienza molto diversa dei suoi discorsi da parte dei dipendenti. “Prima, quando arrivavo per parlare dello sciopero, mi dicevano: ‘Calmati, Karl Marx, e fatti da parte’. Oggi mi dicono: ‘Vieni a parlare con me, sono interessato’. È qualcosa di molto forte.”  È ancora più forte quando la lotta dà i suoi frutti. L’Associazione Specializzata di Prevenzione dell’Hérault (APS 34), che avrebbe dovuto affrontare licenziamenti a partire da settembre, è riuscita a costringere il dipartimento a fare marcia indietro dopo una lunga lotta. “Organizzavamo raduni ogni settimana, volantinaggio, scioperi e serate di supporto”, racconta Max, dipendente dell’APS e membro del sindacato CGT Azione Sociale. Secondo lui, è stato un raduno davanti al consiglio dipartimentale l’11 luglio a cambiare tutto: “Eravamo diverse centinaia di persone, abbiamo quasi invaso i locali, hanno mandato la polizia antisommossa. Sono andati nel panico, è stata una svolta”. Max ne è convinto: anche i primi appelli a “bloccare tutto” del 10 settembre, emersi subito dopo gli annunci di austerità di François Bayrou a metà luglio, hanno influenzato la decisione del consiglio dipartimentale. “C’era quella data per l’inizio dell’anno scolastico e sempre più organizzazioni in sciopero. Devono essersi resi conto di non potersi permettere un ritorno al lavoro così acceso”. Tuttavia, nulla è certo. “Le chiusure dei servizi annunciate per inizio settembre non sono avvenute, ma sappiamo che le minacce torneranno con il bilancio 2026”, sospira l’assistente sociale. “È insopportabile… Ogni sei mesi, dobbiamo lottare e lottare ancora.” Queste parole riecheggiano il contesto nazionale. Le massicce manifestazioni contro la riforma delle pensioni, poi lo scioglimento e la mobilitazione elettorale contro l’estrema destra danno ad alcuni l’impressione di lottare, invano, contro un potere completamente sordo. “È chiaro che siamo stati manipolati per molto tempo!” commenta Antoine di Sud Santé. “Ma per me, questa opposizione alle nostre lotte mi convince che siamo qui”, conclude, invocando “l’auto-organizzazione e l’autodeterminazione a livello di base”. Anche Max rimane ottimista, anche se percepisce “molta rassegnazione tra la gente”. Prosegue: “Non mi sorprende perché non c’è un piano di battaglia. Siamo qui, ci siamo presi un mese per prepararci al 10 settembre, poi è arrivato il 18… e poi? A livello locale, abbiamo un piano di battaglia, questo è il segreto; ci siamo organizzati quest’anno”. Ma a livello nazionale, è l’intersindacale che può premere il pulsante. È il sindacato che manda in piazza un milione di persone.”  Una scena al picchetto davanti alla direzione del lavoro di Montpellier riassumeva la difficoltà del dialogo tra “la base” e le istituzioni. Sceso a parlare con gli scioperanti, il direttore del DDETS (Dipartimento dell’Occupazione, dell’Occupazione e dei Servizi Sociali) ha ripetutamente ammesso, di fronte alle loro domande concrete e pressanti, la sua impotenza di fronte a decisioni di bilancio che non spettavano a lui. “Siamo d’accordo! Allora potete venire a manifestare con noi!”, ha replicato il pubblico in tono beffardo. “Sono felice di partecipare oggi per denunciare Macron, le sue politiche, il fatto che non ascolti mai la gente”, ha confidato Philippe, un dipendente dell’amministrazione locale, questo pomeriggio a Parigi, marciando sotto lo striscione della CFDT (Confederazione Francese dei Sindacati). In tutta la Francia, la mobilitazione – lanciata per la prima volta dal 2023 su appello dell’intero sindacato – rifletteva la rabbia nel vedere i servizi pubblici smantellati uno a uno, in nome del risparmio sui costi. Sono state registrate quasi 600 azioni e manifestazioni.  “Stop all’austerità, uniti per la giustizia sociale, fiscale e ambientale”, proclamava lo striscione in testa alla manifestazione parigina, partita da Place de la Bastille intorno alle 14:00.  “Oggi inviamo un avvertimento molto chiaro al governo e al Primo Ministro Sébastien Lecornu, che ci ha detto di essere aperto al dialogo”, ha dichiarato la Segretaria Generale della CFDT, Marylise Léon. “È ora che il governo ci dica: ‘OK, abbiamo ricevuto il messaggio, prenderemo decisioni di conseguenza’”, ha insistito.  Sophie Binet, Segretaria Generale della CGT, ha lanciato un elenco eloquente: “Vogliamo sapere se il raddoppio delle franchigie mediche verrà accantonato. Vogliamo sapere se la riforma dell’assicurazione contro la disoccupazione verrà accantonata. Se i tagli alle pensioni e alle prestazioni di previdenza sociale verranno accantonati. Vogliamo sapere se i tagli ai posti di lavoro nella pubblica amministrazione verranno accantonati.”  “Non ho mai visto un tale livello di repressione”, ha affermato Julien, membro del collettivo L’Offensive, subito dopo essere stato espulso dal deposito degli autobus Ilevia a Villeneuve-d’Ascq (Nord), che stava bloccando con un pugno di compagni. “Durante le proteste contro la riforma delle pensioni, abbiamo bloccato l’area per un’ora e mezza presso il consiglio regionale. Le forze dell’ordine hanno seguito un modello tradizionale. Ora arrivano e la bonificano con avvertimenti e gas lacrimogeni.”  Il Ministro dell’Interno uscente Bruno Retailleau a mezzogiorno minimizza “Le azioni sono state meno intense del previsto”. Ma ci sono stati anche alcuni episodi spettacolari, come l’ingresso di un centinaio di membri del sindacato Sud Rail nel cortile del Ministero dell’Economia nel XII arrondissement di Parigi, giunti come vicini della Gare de Lyon, armati di fumogeni.  Un altro elemento comune è l’onnipresenza nella mente delle persone della tassa Zucman, il nuovo totem della sinistra, che mira a tassare i super-ricchi al 2% del loro patrimonio. “Sono morbosamente contrario”, ha detto a Mediapart un caro amico di Emmanuel Macron. “Tassare i ricchi non li danneggerà”, ha ribattuto Sylvain, un imbianchino di 52 anni, durante la parata parigina. “Siamo affamati, finiamo il mese quasi senza niente. Anche se l’idea di togliere due giorni festivi è stata abbandonata, non si fa nulla per aiutarci.” Salvatore Turi Palidda
Blocchiamo tutto: la rivolta esplode in tutta la Francia
10 settembre: un movimento sociale non è mai scritto prima ma gli appelli di luglio e agosto sono stati rispettati (vedi qui alcuni video della rivolta: shorts/Jw8 , hshorts/n8qn, watch?v=0X8p5pcs3wc)_ Il movimento, nato in risposta alle proposte di bilancio dell’ex Primo Ministro François Bayrou, si è già manifestato nella regione di Parigi, a Montpellier, a Clermont-Ferrand, a Grenoble, La Rochelle, a Tolosa, a Rennes, a Strasburgo, a Marsiglia e alle 10 del 10 mattina la gendarmerie nationale ha contato 154 azioni e 4 000 manifestant* (probabilmente dieci volte di più). 105 persone sono state identificate. Sophie Binet, segretaria nazionale della CGT, ha segnalato che 715 scioperi in corso. In Bretagne le mobilitazioni sono considerate le più radicali con un bus in fuoco che blocca la tangenziale di Rennes. A Parigi, la tangenziale e i suoi accessi sono bloccati in più punti. Tanti liceei sono “bloccati”. Sabotaggi nei trasporti e grande raduno alle 11  davanti alla gare du Nord. A Marsiglia, tante azioni simultanee fra cui picchetto davanti un fabbricante di componenti di armamenti accusato di fornire Israele. A Lione, tensioni tra la polizia e manifestant*. La prefettura del Rodana a annunciato di aver disperso i gruppi dei bloccaggi. Una manifestazione partirà alle 12. A Toulouse numerose mobilitazioni bloccano la circolazione dei treni e un incendio bloca la linea Toulosa-Auch. Vicimo a Douai, l’accesso a un deposito Amazon è bloccato. A Caen il viadotto di Cadix è bloccato da quattro ore.  Con un vocabolario marziale, la prefettura del Rodano a annunciato d’aver ripreso uno a uno i blocchi stradali installati dai manifestant*. Student* arano presenti anche nei blocchi stardali in collera di fronte all’aumento dei costi d’iscrizione, in particolare per gli studenti stranieri e contro l’inazione del governo difronte al genocidio in Palestina: Siamo qui anche se Macron non vuole. La nomina di Sébastien Lecornu come nuovo capo del governo suscita ancora più indignazione. Il paese resterà ingovernabile. E’ la debolezza del governo e la collera del popolo. E’ totalmente ridicolo questo nuovo primo ministro. E’ l’apertura delle porte all’estrema destra. Macron non ascolta il popolo, non ascolta nulla. Non vuole mollare. La sinistra aveva vinto e lui rimette la destra al potere. Comunque durerà al massimo tre mesi, come gli altri. Mediapart     Salvatore Turi Palidda
L’impresa sportiva del PSG fa quasi dimenticare l’identità del vero vincitore
Il paradosso di una squadra che infine rappresenta bene i giovani delle banlieues e il loro spirito, ma che è la proprietà dello straricco emiro del Qatar schiavizzatore di immigrati[t.p.]   “Per quattordici anni, da quando i qatarioti hanno acquistato il club, abbiamo aspettato questo momento. Abbiamo sofferto così tanto, abbiamo commesso così tanti errori, eravamo persino lo zimbello del calcio. E ora siamo al vertice dell’Europa, e con stile“, esclama Samy, 35 anni, tifoso del PSG da quasi altrettanti anni. Elenca le delusioni passate sulla scena europea, le eliminazioni umilianti e ricche di colpi di scena, e i nomi scintillanti di stelle del calcio che hanno giocato per il club, come il brasiliano Neymar Jr., l’argentino Lionel Messi e il francese Kylian Mbappé, che non ha mai alzato l’ambito trofeo con il PSG.  “In definitiva, non è stato con i grandi singoli, che ci sono costati centinaia di milioni di euro, che abbiamo vinto.” “Ci ha aiutato in termini di marketing, ma le squadre precedenti non trasudavano nulla. Quest’anno è una vera squadra e un grande collettivo che non cerca di brillare individualmente“, sottolinea Samy,  Per le strade e nelle carrozze della metropolitana affollate, si celebrano i nomi dei principali artefici del successo parigino: Désiré Doué, Ousmane Dembélé e Achraf Hakimi. Ma anche l’allenatore Luis Enrique, spesso denigrato per il suo approccio dogmatico al gioco, che alla fine è riuscito a trovare la giusta formula collettiva. Una squadra che riflette la città, cosmopolita, composta da giocatori di diversa provenienza, tra cui quelli provenienti dall’eccezionale bacino di talenti della regione dell’Île-de-France: le banlieues. Come i neri dei ghetti degli Stati Uniti si emancipavano e si emancipano negli sport e come è successo in parte anche in Italia con i figli delle periferie (o negli sport o nell’illusione spesso tragica del gangsterismo degli anni ’70). il tifoso Franck del PSG è esplicito: “Per noi è incredibilmente simbolico vincere con giocatori che ci assomigliano, che provengono da Parigi e dalla sua periferia e che dimostrano uno spirito combattivo… Ci identifichiamo di più con loro“.  Ed ancora ci dice: “È la prima volta che sono veramente orgoglioso del PSG da quando il club è stato acquistato dal Qatar [nel 2011]”. Issam afferma con entusiasmo che ricorda la vittoria del PSG in Coppa delle Coppe nel 1996, l’ultimo grande successo sportivo per il club che un tempo sosteneva con passione. Ma dal 2011, si era allontanato dal club, in particolare con il Piano Leproux, attuato per tenere lontani dallo stadio i gruppi ultra-tifosi, che ha avuto l’effetto di smorzare l’atmosfera sugli spalti. Questo fenomeno è stato amplificato dall’arrivo di investitori qatarioti, che si sono rivolti a un pubblico facoltoso e internazionale, inevitabilmente più informale, attratto da stelle reclutate a prezzi esorbitanti: “La strategia di abbonamento bloccato e la politica dei prezzi hanno allontanato i vecchi tifosi – spiega Issam, indossando la sua maglia da collezione del club – ma negli ultimi anni, si è ricostituita una base di tifosi ultras più giovane. Anche noi, i vecchi tifosi, ne beneficiamo e siamo felici per i più giovani.”  Dal 2016, consapevoli della necessità di ravvivare l’atmosfera all’interno del Parco dei Principi, i proprietari qatarioti hanno avviato un ritorno degli ultras. Una generazione di tifosi, più in sintonia con il multiculturalismo della regione parigina e con la sociologia dei suoi abitanti, è emersa e ha dato nuova vita al Parco.  Certo, la vittoria del PSG è anche la vittoria del Qatar. L’incredibile entusiasmo popolare generato dall’impresa sportiva del PSG fa quasi dimenticare l’identità del vero vincitore di questo sabato 31 maggio: il Qatar, un piccolo e ricco stato monarchico del Medio Oriente con l’11% delle riserve mondiali di gas naturale. Guidato dalla famiglia Al-Thani, ha riversato miliardi di petrodollari nel club della capitale sin dalla sua acquisizione nel 2011, ingaggiando le più grandi stelle del calcio (Ibrahimović, Neymar, Messi, Mbappé, ecc.) a prezzi esorbitanti, con l’unico e dichiarato obiettivo di vincere la Champions League, la competizione calcistica più prestigiosa. Questo è un modo per affermare definitivamente la sua strategia di soft power nei confronti dell’Occidente e quindi normalizzare la sua assai poco nobile immagine. Accusato di sostenere il terrorismo, l’emirato continua ad applicare la pena di morte, nonostante le promesse contrarie alla comunità internazionale; l’omosessualità è ancora illegale e punibile con sette anni di carcere; e, nonostante i progressi, il diritto civile del Qatar è ancora sfavorevole alle donne. Queste sono questioni che mettono a dura prova le relazioni geopolitiche con il piccolo Paese. Inoltre, un uomo non meno controverso ha ampiamente favorito questa strategia di rafforzamento dell’immagine del Qatar in Francia e in Europa: Nicolas Sarkozy. Fervente sostenitore del PSG, ha svolto un ruolo decisivo durante il suo mandato da capo di Stato nell’acquisizione del club da parte del fondo sovrano dell’emirato. La sua benevolenza nei confronti del Qatar è andata ben oltre, trasformando la Francia in un vero e proprio paradiso fiscale per gli investimenti qatarioti, in particolare nel settore immobiliare – benefici che nel frattempo sono stati eliminati. Ha inoltre concesso loro accesso al capitale di importanti gruppi del CAC 40 come Vinci, Total, Veolia, LVMH e Lagardère. Il problema è che questa ascesa economica del Qatar, raggiunta con la benevolenza del governo francese, è stata macchiata da numerosi sospetti di corruzione. Sia a Bruxelles che in Francia, dove i tribunali stanno ora indagando sulla sospetta assegnazione della Coppa del Mondo 2022 all’emirato, sulla presunta corruzione di un parlamentare e di un giornalista di BFMTV, ma anche sui loschi traffici del PSG, sulla possibile agevolazione fiscale concessa al club dal ministro Gérald Darmanin, per non parlare dell’inchiesta sul lavoro nero che ha coinvolto il boss del PSG, Nasser al-Khelaïfi. Infine, vale la pena mettere in discussione la totale presa del Qatar sul calcio francese. Infatti, oltre a dominare in modo oltraggioso il campionato francese dal 2011 – 11 titoli su 14 possibili – possiede una delle principali emittenti televisive della Ligue 1, beIN Sports. Tuttavia, allo stesso tempo, la salute economica del calcio professionistico francese si è deteriorata significativamente e molti club sono prossimi alla bancarotta, come ne ha già scritto Médiapart (Leggi anche il dossier: Il lato oscuro del Paris Saint-Germain)  È chiaro, quindi, che i benefici economici degli investimenti qatarioti non si stanno riversando sul resto della Ligue 1 come dovrebbero. Peggio ancora, la versione qatariota del PSG non applica le stesse regole economiche degli altri. È anzi sospettato di aver aggirato con noncuranza le regole del fair play finanziario, che impongono ai club di presentare bilanci in pareggio. Una forma di concorrenza sleale. Sono tutti problemi che non possono essere ignorati quando si celebra il successo europeo del PSG. Proprio come la vittoria dell’Olympique Marsiglia di Bernard Tapie nel 1993 fu macchiata da uno scandalo di partite truccate (lo scandalo OM-VA), la vittoria del PSG sarà sempre considerata non solo quella di una squadra o di una città, ma anche quella di uno Stato straniero che ha eluso tutte le regole morali del calcio. Al paradosso del PSG si aggiunge che il Qatar è di fatto presente non solo nel mondo della finanza ma anche nel mondo “religioso-sociale” proprio mentre le destre (che ormai comprendono anche il partito di Macron) rilanciano la crociata contro l’islamismo   (TRADUZIONE DELL’ESTRATTO DALL’ARTICOLO MEDIAPART DI TURI PALIDDA) Redazione Italia