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[L'orda d'oro] Good morning, Khabarovsk
Nell'agosto del 1991 Tiziano Terzani sta viaggiando sul fiume Amur in Siberia quando lo raggiunge la notizia del golpe contro Gorbachev. Decide di convergere su Mosca facendo una lunga deviazione in Asia Centrale e Caucaso che lo porterà a essere uno degli unici giornalisti stranieri a osservare lo sviluppo di questi eventi nella periferia orientale dell'Unione Sovietica. Dal questo viaggio nasce quello che è IL memoir di viaggi in Asia Centrale: 'Buonanotte Signor Lenin'. Oggi analizziamo le maniere più infide in cui lo sguardo colonialista italiano fa capolino anche nei lavori di autori benintenzionati. Una puntata che non poteva essere breve. Scaletta musicale: * Jarl Flamar - Medusa * DSL System - Tashkent Groove * Gaia - Vokaliz La sigla è Bitch I'm Akyn di Subsonic Vodoo.
Marcello Galati / Il ritorno della “morte del narratore”
Svariati anni or sono nell’ambito della critica letteraria sorse il concetto di “morte del narratore”. Il dibattito originò dal seminale saggio di Roland Barthes La morte dell’autore (1967) e dalle considerazioni di Michel Foucault nel suo Che cos’è un autore (1969), che misero in questione la centralità dell’autore come fonte di significato. Per alcuni versi era stato preceduto dagli studi portati avanti dalla scuola di critica letteraria nota negli Stati Uniti come New Criticism, e si accese nel ventennio ’70‑’80. In quel torno di tempo la narratologia strutturale di Gérard Genette (che operò la distinzione tra “voce” e “narrazione”) aprì la strada a una più accorta analisi delle funzioni del narratore, e parallelamente la critica post‑strutturalista (il concetto di “spazio vuoto” del lettore proposto da Wolfgang Iser, dove la presenza del narratore può essere ridotta al minimo, il pensiero di Derrida, ecc.) e le teorie della metanarrazione (esempio emblematico alcune opere di Italo Calvino e di Jorge Luis Borges) mostrarono come la voce narrante di un’opera letteraria possa diventare un personaggio consapevole della propria finzione, entità non stabile ma elemento in fluida trasformazione, sino addirittura alla scomparsa. Queste considerazioni riaffioravano mentre leggevo un breve “romanzo” di Marcello Galati, dal titolo ossimorico: Intervalli. L’assenza della presenza. Per più d’un verso appare come uno scritto “fuori epoca”, che si staglia sulla melassa di tante stucchevoli opere narrative odierne, incentrate sulle piccinerie del quotidiano e incapaci di uno sguardo storico, prive della benché minima consapevolezza di una tradizione letteraria. Nel suo richiamarsi (o alludere) al dibattito cui si accennava, il lavoro dell’autore mostra infatti una certa eccentricità, a partire dalla struttura: un apparente monologo, articolato in dodici agili capitoletti, che si rivela un soliloquio segnato, appunto, dall’assenza. Galati porta alle estreme conseguenze il discorso della “morte del narratore”: a mancare non è soltanto quello tradizionale, onnisciente o meno, ma financo l’interlocutore, la cui identità (comunque cangiante e mai determinata) varia in ogni capitolo, della cui presenza è anzi lecito dubitare: le storie e i personaggi solo accennati potrebbero essere quelli di una voce che articola i suoi discorsi in un vuoto, ma tremendamente lucidi nel tratteggiare un mondo di “assenze” e di “intervalli” – il nostro mondo. Un concretissimo simbolo dell’assenza lo si trova nel capitolo VII, con il racconto della singolare sorte di Papa Formoso (siamo sul limitare del IX secolo), soggetto a un processo post mortem in quello che venne chiamato “Sinodo del cadavere”, il cui corpo fu disseppellito per essere processato “in presenza”, con la voce di un diacono a dargli vita – è storia, non invenzione! Così come è storia il ricordo della battaglia di Ypres durante la Prima guerra mondiale (nella quarta sezione), dove l’esercito tedesco impiegò per la prima volta l’iprite, e il successivo impegno di due scalpellini inglesi che avrebbero dovuto scolpire i nomi dei settantamila caduti sull’Arco di Menin, opera mai conclusa per lo scoppio del successivo conflitto mondiale: appunto un “intervallo” tra eventi bellici, che sinistramente richiama i fatti odierni del conflitto russo-ucraino e israelo-palestinese (e di infiniti altri) cui assistiamo con muto orrore senza la volontà di porvi fine. La mutevolezza degli interlocutori fantasmatici che popolano queste righe si specchia in quella degli argomenti trattati. Non v’è dunque una trama univoca, ma una proliferazione di motivi sottilmente uniti da ricorrenze simboliche e da “personaggi” in bozzolo. In particolare, a legare storie, dialoghi e temi intessuti in nodi significativi v’è la figura del paradosso, suggestivamente anche evocata con il racconto erodoteo dell’“intervallo” di potere in epoca persiana risolto col nitrito d’un cavallo. Essa struttura ogni riga, ogni “episodio”, come nei reiterati e assurdi tentativi di suicidio messi in atto da un “amico” del narratore, o quelli di un tale che prepara con meticolosa tigna il proprio funerale nella speranza di unicità e della stima che gli verrà accordata nel ricordo postumo. Paradossali non sono però i temi trattati, che la voce aggredisce con piglio filologico interrogando e mettendo in discussione i significati che conferiamo alle parole: lo sono i loro risvolti – l’impatto che hanno sulle nostre vite –, sempre calati nel quotidiano e nelle esperienze di chi ce li presenta, con quel suo “lasciarsi andare a ricordi”: dalla musica (Jimi Hendrix, la classica e il jazz), affrontata nelle varie declinazioni (concerto e ascolto, esecuzione e sua decodifica) all’antropologia, dall’eccezionalità dell’essere mancini all’Utopia, dallo sfruttamento capitalista della forza lavoro (amaro ed esilarante il capitolo IX in cui si ripercorrono i surreali ma concretissimi passi che portano ad un licenziamento) alla vita familiare (i rapporti filiali e matrimoniali), dalla malattia e dalla morte (e la sua presunta sconfitta, come si declama per le strade) alla religione (o meglio, alla religiosità), dalla filosofia politica alla meteorologia, dal cinema alla televisione, e così via. Brani di discorsi, abbozzi di racconti che, come si diceva, trovano concreto riscontro nella Storia, nel vuoto di valori dei nostri giorni – l’assenza per eccellenza – epitomizzato dalle insensatezze del fittizio universo dei social network. Insomma, una strategia stilistica che privilegia la frammentazione e la polifonia, messa in atto con una voce che, creando una sensazione di instabilità, disorienta, dando in pasto al lettore un testo polisemico per spingerlo ad una disperata ricerca di senso. E così di passo in passo, sino al termine liberatorio, con quel “Ma chi se ne frega” e il richiamo all’importanza della materialità dei corpi e del loro reciproco donarsi – un’allusione al finale dell’ultimo capolavoro kubrickiano, Eyes Wide Shut? –, ideale coronamento di un “viaggio” nelle follie del mondo in cui, malgrado tutto, continuiamo a vivere e a proliferare. L'articolo Marcello Galati / Il ritorno della “morte del narratore” proviene da Pulp Magazine.
Il disfacimento del mondo e il diritto di trattenere la bellezza
-------------------------------------------------------------------------------- Nella Striscia di Gaza c’è chi sa trasformare un tendone in un luogo di accoglienza e di apprendimento. Una foto del progetto “MAKANI” promosso da Vento di terra -------------------------------------------------------------------------------- «Nelle limpide giornate di ottobre, venendo da Radetzystrasse si può vedere (…) un gruppo di alberi nel sole. Il primo albero, che si erge davanti a quei ciliegi rosso cupo che non danno frutti, è così fiammeggiante di colori autunnali, è una macchia d’oro così smisurata da sembrare una fiaccola lasciata cadere da un angelo. E ora che arde, né il vento di autunni, né il gelo riusciranno a spegnerlo. Chi mai vorrà parlarmi di foglie che cadono e di morte bianca di fronte a quest’albero, chi impedirmi di conservare l’immagine negli occhi e di credere che per me continuerà a risplendere per sempre come quest’ora e che su di esso non grava la legge del mondo?» Il frammento tratto da Giovinezza in una città austriaca di Ingeborg Bachmann ci offre un esempio straordinario di come la letteratura possa trasfigurare l’esperienza quotidiana in visione poetica (il racconto è incluso nella raccolta Il trentesimo anno, edito da Adelphi). L’albero che incontra non è più semplicemente un albero: diventa “una fiaccola lasciata cadere da un angelo”, un simbolo di bellezza eterna che sfida le leggi del tempo e della morte. In quel momento, l’autrice non sta più guardando la natura con occhi ordinari, ma sta vedendo attraverso di essa qualcosa di più grande, una verità sulla possibilità della bellezza di resistere alla distruzione. L’immagine fonde il terreno con il celeste, il naturale con il soprannaturale, rivelando la capacità della scrittrice di vedere oltre la superficie delle cose. Il cuore del brano risiede nella tensione tra accettazione e ribellione. L’autrice non nega la realtà del disfacimento – riconosce l’esistenza delle “foglie che cadono” e della “morte bianca” – ma rivendica il diritto di trattenere la bellezza oltre il tempo. Quella domanda retorica finale (“chi impedirmi di conservare l’immagine negli occhi?”) è un atto di sfida poetica contro la “legge del mondo”, quella legge inesorabile che vuole che tutto passi e muoia. Dietro questa ricerca di bellezza e di eternità si nasconde però un’esperienza più profonda e dolorosa. Bachmann, cresciuta durante l’Anschluss e testimone della brutalità nazista, porta sempre con sé la ferita della guerra. Il suo sguardo è reso più sensibile dal dolore: sa riconoscere la bellezza proprio perché ha visto l’orrore, sa quanto sia fragile e preziosa. In questo senso, quella “legge del mondo” contro cui si ribella non è solo la naturale caducità delle cose, ma anche la legge della violenza, della distruzione sistematica di tutto ciò che è bello e innocente. La sua ricerca diventa quindi “tormentata”, non può essere ingenua contemplazione, ma deve sempre fare i conti con la consapevolezza del male. L’intensità con cui Bachmann si aggrappa all’immagine dell’albero fiammeggiante acquista una dimensione quasi disperata se letta in questa luce. È il tentativo di salvare almeno un frammento di mondo dall’oblio e dalla distruzione, di opporre alla logica della guerra una logica della preservazione attraverso la memoria e l’arte. La sua diventa così una poetica della sopravvivenza – non solo personale, ma di tutto ciò che merita di essere salvato dall’orrore della storia. In questo albero che “continuerà a risplendere per sempre” vive la speranza che la bellezza possa resistere alla brutalità, che la parola poetica possa fermare, almeno per un attimo, la corsa verso la distruzione. Dietro la bellezza di quell’albero dorato si nasconde tutta la complessità di un’esistenza segnata dalla storia, ma anche la forza di chi non rinuncia a cercare e a preservare ciò che di luminoso può ancora brillare nel buio del mondo. Forse è quello che dovremmo fare tutti noi. Continuare a guardare in mezzo all’orrore la bellezza che comunque persiste e si manifesta quando meno la cerchiamo, in modo improvviso in tutta la sua grandezza. Ma è il nostro sguardo che non deve smettere di vedere. La bellezza può durare dentro di noi per sempre, un “per sempre” fragile eppure vero. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI ANA CECILIA DINERSTEIN: > Come recuperare il terreno della speranza -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il disfacimento del mondo e il diritto di trattenere la bellezza proviene da Comune-info.
Lydie Salvayre / La vita imprigionata nella scrittura
Lydie Salvayre le definisce “pazze” – sette scrittrici che nei loro modi senza limiti e con tutte le barriere offerte dal mondo, hanno coltivato la propria scrittura dove spesso il gotico della loro mente prendeva il sopravvento, e dove le emozioni s’incaricavano di imprigionare i corpi in torri saracene là dove pochi potevano raggiungerle. L’arte del ritratto è pericolosa, si rischia l’infezione, e Salvayre vi si getta senza edulcorare i termini, anzi spesso rasenta gli spazi della scrittura dove albergano i mostri, e occorre essere lupi per sopravvivere – o capibranco delle lettere come Eliot e Pound, e come lo è stata, in definitiva, e per alcuni tratti di esistenza, Virginia Woolf. Una delle donne a cui l’attenzione della scrittrice francese si rivolge. Anche a lei non basta indagare nelle trame delle opere. Con logica drammatica riavvolge il film di ciascuna vita, e ben presto ci accorgiamo che il più delle volte non di pazzia si tratta ma di una famelica ambizione di vita, di vivacità dei corpi e di scrittura – quella che per Salvayre coincide in pieno con l’esistenza. Essere pazzi di qualcosa non significa essere folli, ma rasentare ogni giorno i confini della decisione, buttarsi a capofitto nella passione. In un ambiente letterario dominato dagli uomini. Mettere alla prova queste scrittrici, per l’epoca in cui sono vissute (al netto di quanto si potrebbe ancora dire tutt’oggi a riguardo), su tale terreno, immerge la loro biografia in qualcosa di equivalente a un terremoto. Basta, qui, rinominarle per capire come non esistesse distanza di sicurezza fra creazione e quotidianità: Emily Brontë, Colette, Virginia Woolf, Ingeborg Bachmann, Djuna Barnes, Sylvia Plath. Salvayre mette sulla pagina uno scandalo secolare, mai del tutto dissolto. Non è un caso che in epoca di crisi ci si rivolga ancora a coloro che rappresentano da sempre un “altro tempo”, si metta alla prova il pensiero attuale con il pensiero diagonale, discorde, controverso, di sette donne che hanno vissuto dando alla letteratura opere che le hanno fatte colare a picco per troppa decisione d’esistere. Stando dentro una contemporaneità spesso riprovevole. Ogni ritratto non attinge a ipotesi erudite, in ogni capitolo si ritrovano dettagli biografici e fascinose scoperte. Ma più di tutto interessano i modi disparati con cui ognuna di queste donne ha potuto dire la sua sulla letteratura, e come fin da giovani hanno inventato linguaggi che ancora oggi contrastano il mercato della pubblicità, dei politicanti, tutto quanto viene definito da Bachmann cattivo linguaggio. Leggere Sette donne significa scoprire l’impegno che nulla giustifica in ogni tempo – il tempo in cui vissero loro e il tempo in cui vive, legge e spiega, Salvayre. Tutti questi tempi sono per noi, che non sia peregrino l’accostarvisi.   L'articolo Lydie Salvayre / La vita imprigionata nella scrittura proviene da Pulp Magazine.
[L'orda d'oro] La lunga estate caldissima
L'orda d'oro va in pausa estiva, ma vi lasciamo i compiti delle vacanze. Ci rivediamo a settembre! Scaletta musicale: * DJ Yalçın Erdilek — Turkish Airlines * Al Nasr feat.Raim — Dala Erligi * Ruhsora Emm, OTSHA — Gaza Bas * Josef Tumari — Yashnobod Resonance * Die Toten Hosen — Azzurro Per approfondire: * Video di sicurezza di Air Astana e Uzbekistan Airways * I film che abbiamo menzionato: Ayka [scheda], Yakshanba [scheda], Il soldato di carta [scheda], Kazakhstan's taxi granny [su Arte], Io sono Tempesta [trailer] * Blog post con foto mosaici di Dushanbe e dell'Istituto del Sole di Parkent * Il sito dello Stihia Festival * I libri che abbiamo menzionato: * Hamid Ismailov - The Railway; i libri di Ismailov stanno venendo editi in italiano da Utopia  * Ljudmila Ulickaja - Medea * Riccardo Pedrini - Libera Baku ora
Scrittori afroitaliani: un contributo al rinnovamento della letteratura
È uscito recentemente, presso la casa editrice AIEP di San Marino il libro Sorella d’inchiostro (pp. 358, €21) che raccoglie ventitre racconti di autori afroitaliani dedicati alla scrittrice Kaha Mohamed Aden, nata a Mogadiscio ma residente in Italia dal 1986 e scomparsa due anni orsono. Il volume non è un’antologia […] L'articolo Scrittori afroitaliani: un contributo al rinnovamento della letteratura su Contropiano.
Oltre il pensiero unico
DON TABACCO, DONNA ZUCCHERA E LA CULTURA COME PROCESSO IN CONTINUO DIVENIRE. LE ORIGINI DEL PENSIERO TRANSCULTURALE -------------------------------------------------------------------------------- Antropologo ed etno musicologo Ferdinando Ortiz Fernández (La Havana,1881 – 1969), candidato al Premio Nobel della pace nel 1955, è stato fra i maggiori innovatori del pensiero antropologico del novecento. Nel dibattito attuale, in cui incombe la minaccia di un pensiero unico che vorrebbe appiattire ogni dissenso e ogni canale di confronto culturale, ci sembra importante e opportuno riproporre l‘opera di Ferdinando Ortiz Contrappunto cubano del tabacco e lo zucchero, le origini del pensiero transculturale (Borla 2025). In essa viene messo a fuoco il concetto di transculturacion, ossia l’attraversamento di culture e la loro reciprocità con la pratica del “toma y daca”, “prendi e dai”. L’o­biettivo del saggio è di esporre mediante una analisi – per contrappunto – la sua teoria sui fenomeni di commistione e contatto di mondi differenti (creolo, castigliano, caraibico etc.) che si influenzano vicendevolmente senza che uno si imponga sull’altro. Il titolo Contrappunto– ponere punctum contra punctum – (segnare nota contro nota)è coniato dal linguaggio musicale per indicare la presenza in una composizione o in una sua parte di linee melodiche indipendenti. Come riferisce l‘antropologo del suono Antonello Coliberti (2016), “il contrappunto si concentra sull’aspetto melodico piuttosto che sull’effetto armonico; la chiave è tutta nell’indipendenza delle diverse voci”. Da questa contrapposizione di note può nascere una polifonia come risultato di elementi diversi e di differente valore. Il contrappunto salta il discorso gerarchico delle note. Ortiz parte da questo linguaggio musicale per introdurre la storia di due prodotti caratteristici dell’isola, tabacco e zucchero, divenuti due “personaggi litigiosi” pur se dialoganti. Nel presentarli ricorre alla metafora musicale per descriverne differenze e contrasti dei rispettivi mondi di appartenenza, e come per le note, senza che l‘una prevalga sull’altra. Dal loro incontro si ricevono e si lasciano codici, senza paura di perdere i propri. Come è noto zucchero e tabacco nella realtà sono due prodotti differenti a livello economico e a livello sociale, ognuno con sue proprietà specifiche. Nella suggestiva raffigurazione dell’autore prendono le sembianze di due personaggi particolari della narrazione cubana: Don tabacco e Donna Zucchera (azúcar in spagnolo è anche femminile). Il tabacco è amaro e possiede un aroma, lo zucchero è dolce e non ha odore, il tabacco è audacia, lo zucchero è prudenza. Il tabacco è maschile, lo zucchero è femminile e innumerevoli altre pittoresche rappresentazioni. L’etnomusicologo Ferdinando Ortiz attinge a queste figure fantasiose, radicate nelle tradizioni dell’isola, per evidenziarne contraddizioni e allo stesso tempo varietà e ricchezza. Non c’è spazio per culture superiori. Né “subalterne”, come direbbe Antonio Gramsci. Le osservazioni metodologiche di Ortiz nascono “sul campo” (secondo gli insegnamenti del suo maestro Malinowski) in una Cuba meticcia degli anni Quaranta, aperta alle correnti di tanti mondi che si intercettavano influenzandosi e contaminandosi reciprocamente. Nel particolare spaccato della società cubana di quel periodo si erano infatti formate le condizioni per una mescolamento di culture, secondo un processo creativo e dinamico frutto delle interazioni fra le popolazioni che pullulavano nell’isola, ognuna con i suoi riti, costumi, lingua. Cuba rappresentava come dice Valerio Riva nella sua nota storica al testo (2025, cit.) la “prefigurazione della futura società universale, di un mondo nuovo dove tutte le “razze” si sarebbero mescolate. Riconoscere a ognuna di esse dignità e singolarità e considerarla sullo stesso piano delle altre rappresentava un duro attacco a ogni forma di etnocentrismo, presente ai suoi tempi e ancora duro morire ai giorni d’oggi, se pur “sotto mentite spoglie”. Il suo metodo risultò rivoluzionario per quel periodo e si diffuse in molti paesi suscitando l’interesse fra gli antropologi: latransculturazione superava concetti come “acculturazione o “differenziazione” fino ad allora adottati nel dibattito scientifico. Attualmente vorremmo sottolineare soprattutto i suoi aspetti dinamici e il potere trasformativo. Infatti con la preposizione trans si vuole mettere in risalto la processualità dell’incontro durante il quale si lasciano e si prendono elementi culturali con un arricchimento reciproco. Nel passaggio attraverso altri modi e mondi di conoscenza si possono modificare atteggiamenti mentali chiusi e rigidi della ricerca, della cura, ed in ogni contesto in cui sono necessari apertura e flessibilità. In tale transito si assiste a “contaminazioni” e adattamenti che ogni tipo di siffatti incontri sollecita e provoca. L’opera dell’antropologo cubano è importante anche perché riconosce alla cultura il suo carattere processuale, di divenire più che di divenuto, lontano dalle sirene di esotismi “etno” molto di moda. Il pensiero transculturale offre una chiave di lettura per un mondo plurale, in continuo movimento, dove categorie “etichettanti” non sono sufficienti all’operatore transculturale del terzo millennio di fronte a fenomeni complessi con cui si trova d interagire. Un diverso approccio nella pratica quotidiana con migranti e i rifugiati lo aiuterebbe a considerarli non solo nei loro aspetti sociali ed economici (oltre che umani) ma anche come rappresentanti di altri mondi con cui rapportarsi “dando e ricevendo” senza rischi per la propria integrità. Il mondo è in continua evoluzione e insieme a esso si trasformano le culture e il modo con cui impattano sulla vita degli individui. Ortiz introdusse una visione innovativa basata su un concetto rivoluzionario rispetto ai metodi tradizionali legati (non solo allora) a una visione culturocentrica, secondo cui ogni cultura si ritiene centrale rispetto alle altre, ”periferiche”. Egli offre una prospettiva transculturale aperta a varie derive: clinica, storica, antropologica, psicologica, di ricerca. Il suo testo fa anche riflettere sull’importanza di costruire un pensiero mobile atto a intercettare più che a difendersi, pronto a un nomadismo di pensiero/azione per varcare le cosiddette “soglie di competenza” che spesso bloccano i processi evolutivi in molti ambiti. Nella società che si va configurando non è sufficiente attenersi a un mandato “neutro”, “istituzionale”, trascurando movimenti interni-esterni che ogni processo culturale richiede e produce. A latere bisogna aggiungere che per molto tempo nell’analizzare la sua opera si è soffermati più sugli aspetti positivisti (nel suo primo periodo era stato molto influenzato dal pensiero del criminologo Cesare Lombroso) che sugli gli aspetti innovativi del suo pensiero. Don Ferdinando – come lo chiamava Malinowski – non era solo un intellettuale immerso nei libri, avulso dalla società, ma un uomo impegnato nella attività politica di Cuba del tempo, tanto da militare come deputato nella sinistra liberale, e combattere contro ogni attacco alla democrazia nella sua isola, a fianco degli studenti nelle loro manifestazioni antifasciste. In seguito soffocato dal clima autoritario e repressivo, creato dal dittatore Machado, il Mussolini dei Caraibi, lasciò per protesta l’incarico di parlamentare e andò in esilio a New York, “traslocando con libri, idoli e tamburi”. Pur ricordando le sue contraddizioni (positivista e rivoluzionario) lo consideriamo un punto di riferimento fondamentale per lo psichiatra, psicologo e psicoterapeuta transculturale che attraversa modi e mondi della sofferenza, senza separarli dai loro contesti culturali e sociali e conseguentemente riesce a mettersi in discussione, sospendendo categorie non sintoniche con le realtà che va a conoscere. Come direbbe Foucault (2023): “Il pensare è il fuori dall’accademia, come il conoscere, ben oltre il comprendere, è prendere posizione”. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Oltre il pensiero unico proviene da Comune-info.
L’insostenibile leggerezza del Salone del libro
Le parole tra noi leggere era il titolo e il tema del Salone del libro di quest’anno. Ma ovviamente la leggerezza non era sempre sostenibile, e non solo in termini ambientali. Seppure forse per la prima volta ci fosse uno stand, peraltro meraviglioso, dove si sono concentrati gli incontri a tema ambientale. Lo stand era “Il bosco degli scrittori”, di Aboca, pieno di verde e profumi, che solo ad entrarci ti sentivi meglio, a dimostrazione di quanto abbiamo bisogno, del verde e della natura. Gli eventi, che fossero presentazioni, dialoghi, panel, tavole rotonde o altro, erano come sempre tantissimi, e per la nota legge di Murphy ce n’erano almeno tre che mi interessavano tantissimo alla stessa ora. Quindi al Salone bisogna scegliere. Alle volte è il Salone stesso che ti fa scegliere, quando per esempio non hai prenotato e stai in coda per ascoltare Paul Murray dalla sua viva voce irlandese e poi ti mandano via perché tutti i prenotati si sono presentati. Of course. Alle volte si sceglie in base a dove si è, a dove c’è meno gente, a dove regna il silenzio. Al Salone, si sa, il silenzio è d’oro o meglio del tutto assente. Così come sono assenti dei punti dove ricaricare i telefoni o gli iPad, onestamente una cosa un po’ disdicevole. Di tutti i disagi del Salone, ovvero le code ai bagni, il guardaroba che alle 11 è già pieno, il caffè che costa 2 euro (come neppure al più caro degli autogrill), l’aria viziata, questo del non poter caricare i device lo trovo il più fastidioso e il più ovviabile. Ma basta lamenti. Vi racconto chi ho visto e sentito. JAN BROKKEN L’Olanda era il paese ospite di questa edizione. E Jan Brokken era l’ospite degli ospiti. Ha fatto diversi eventi, alcuni affollati come non mai, altri più di nicchia. Io sono andata a quello della serie “Lo scrittore invisibile”, in cui gli scrittori affrontano il tema della traduzione. Era quindi presente anche la traduttrice Claudia Cozzi, che con il suo lavoro prezioso e – per l’appunto – invisibile ha permesso a tutti i lettori italiani di godere delle opere di Brokken. Il quale sembra uscito da un quadro fiammingo, e in un francese molto pulito e vagamente esitante racconta che ha cominciato a scrivere a sette anni in un pomeriggio piovoso in cui, non sapendo cosa fare, suo padre gli ha dato un quadernetto blu; che usa sempre dei quaderni per appunti con la copertina blu; che deve la sua abilità di scrittore a un incontro fortuito con Gabriel Garcìa Marquez, da cui ha appreso tutti i segreti dei romanzi; e che da quando abita vicino alla casa in cui ha vissuto Anna Frank è ancora più consapevole di quanto le assenze, le persone che sono state sottratte alla vita con violenza e ingiustizia e perversione, le assenze sono tanto vive e percepibili quanto le presenze. Diventato famoso, almeno in Italia, per Anime baltiche, Brokken conosce molto bene i luoghi dello sterminio, non li dimentica e non ce li fa dimenticare. La scoperta dell’Olanda, sempre pubblicato da Iperborea, era nella cinquina dei finalisti al Premio Strega Europeo (che poi ha vinto Paul Murray con Il giorno dell’ape). IIDA TURPEINEN A proposito di finalisti allo Strega Europeo, a Torino c’erano tutti. Tra questi sono andata a sentire Iida Turpeinen, che insieme a Dente ci svela il triste destino de L’ultima sirena, (romanzo pubblicato da Neri Pozza) ovvero la ritina di Steller, animale marino dichiarato estinto solo 27 anni dopo la sua scoperta, oggetto delle attenzioni di collezionisti senza scrupoli e proto-ambientalisti, in qualche modo simbolo del nostro rapporto con la natura. Quando la domanda delle domande, posta da Dente, è se sia possibile scoprire qualcosa senza fare danni. Iida Turpeinen, con il suo inglese vibrante e solo leggermente straniero, risponde che pensa sia possibile. Anche perché a relazione tra uomo e natura nel corso del tempo è cambiata, e quindi è un fatto culturale, non scientifico o storico; come è cambiata nel passato, così può cambiare di nuovo. Può darsi che tra cento o mille anni qualcuno dirà di noi, che cretini, sapevano tutto del cambiamento climatico e non hanno fatto nulla; però intanto noi possiamo cambiare il nostro modo di essere con la natura. MARCO ALBINO FERRARI CON GIOVANNI COSTANTINI Marco Albino Ferrari e Giovanni Costantini La prima volta, al “Bosco degli scrittori” ci capito quasi per caso e ci trovo anche degli amici. C’è Marco Albino Ferrari (Il canto del Principe, Ponte alle Grazie) con il direttore d’orchestra e violoncellista Giovanni Costantini, e la storia che raccontano insieme è davvero meravigliosa. Un anno prima della tempesta Vaja, un’altra tempesta di vento abbatté l’Avez del Prinzep, l’abete del principe, un abete bianco secolare dell’altopiano di Lavarone. Una volta passato lo stupore e il dolore, una volta accertato che non c’erano morti e feriti, restava cosa fare con il legno. Ci voleva qualcosa che onorasse la vita ultracentenaria di questo abete che spiccava metri sopra gli altri e che richiamava i turisti ad ammirarlo in silenzio. In un’assemblea che raccoglieva tutti gli abitanti dei paesi sparsi per l’altopiano, qualcuno propose di fare degli strumenti ad arco. Era l’idea di Giovanni Costantini: di solito questi strumenti si fanno con l’abete rosso, ma si possono fare anche con quello bianco. E gli strumenti musicali vivono e suonano e regalano gioia per centinaia di anni. Il violoncello di abete bianco, nato dal Prinzep, risuona tra le panche di legno grezzo. E ovviamente nei cuori. CARLA MADEIRA Ed ecco un’altra finalista dello Strega Europeo (ve l’avevo detto che c’erano tutti), l’autrice brasiliana più amata nel suo paese, ma anche in Europa e qui da noi. Al Salone la presenta Chiara Valerio. Ed è una conversazione densa, solida, senza preliminari e senza giri di parole. Del resto in Preludio (Fazi editore) ci sono due figli, due gemelli, che vengono chiamati Caim e Abel dal padre, per fare dispetto alla madre. C’è Vedina che, in quella che sembra una giornata come le altre, fa qualcosa che non pensava di poter fare. C’è l’ambiguità della famiglia e dell’amore, quello che viene tolto e quello che viene dato. E a differenza che nella vita, in cui non riusciamo a trovare il tempo e l’energia per chiederci che cosa ci sia dietro la cattiveria o dietro la disperazione, nei romanzi il tempo per quel che viene prima dell’atto, il tempo per il preludio esiste. Sia Carla Madeira che Chiara Valerio hanno studiato matematica, e concludono sottolineando come tanto i simboli quanto le parole sono modi per esprimere la nostra soggettività, e diventano soggettivi nel momento in cui li si usano. Una bella riflessione da portarsi a casa. JACQUES ATTALI L’avevo cominciato prima del Salone, il saggio Conoscenza o barbarie, Storia e futuro dell’educazione (Fazi editore). Jacques Attali era insieme a Enrico Galiano, e chi meglio di loro due poteva conversare sull’educazione. A partire da quello che serve e servirà davvero, cioè “imparare a imparare”. È probabile che nel futuro non si vivrà facendo un solo mestiere, ma se ne cambieranno molti; anche ora ci sono persone che cambiano mestiere più volte nella vita, ma tra non molto lo dovranno fare tutti. E imparare a imparare presuppone la pazienza, la tenacia. Bisogna resistere al fallimento, che è un inevitabile passaggio nel processo di apprendimento, e bisogna avere la pazienza e la tenacia di continuare, di insistere. Le tecnologie che usiamo non contemplano la pazienza, per questo va insegnata… con pazienza. E poi bisogna avere amore per se stessi, e fiducia nelle proprie possibilità. Perché secondo Attali non ci sono limiti a quello che possiamo studiare. Il nostro mondo è fatto di contraddizioni estreme, l’oscurantismo tecnologico e una enorme massa di conoscenze condivise. Non sarà facile trovare un equilibrio tra queste contraddizioni, ma non è neppure impossibile. Saranno lo spirito critico, che si coltiva soprattutto con la lettura, e la grinta, la forza di voler superare i nostri limiti, a traghettarci nel futuro. GUIDO SARACCO E CLAUDIA PASQUERO Ritorno al “Bosco degli scrittori”, a rinfrescarmi e respirare un’aria che non sia quella viziata del Lingotto. Ora ci sono due professori, e il tema è “Sopravvivere al clima”. Claudia Pasquero (suo un contributo del volume Come sta la terra? Il Castoro) parte da un esempio: nessuno si è preoccupato dei danni della caccia alle balene quando non c’era più bisogno dell’olio di balena, finché un ricercatore aveva quasi per caso intercettato il suono che questi cetacei emettevano sott’acqua, un suono che era un canto e un linguaggio; improvvisamente le balene ci sono diventate vicine, amiche, abbiamo sentito il bisogno di proteggerle. La stessa narrazione deve essere trovata per tutti i problemi legati al cambiamento climatico, commenta Guido Saracco (autore con Maurizio Ferraris di Tecnosofia, Laterza). Se ci mettiamo in relazione con il mondo naturale in un modo diverso da come abbiamo fatto finora, certamente potremo trovare delle soluzioni che neppure immaginavamo. JEAN GIONO Per qualche ragione ignota, Il canto del mondo di Jean Giono non era mai stato pubblicato in Italia. Ci ha pensato ora l’editore Settecolori, che non potendo ovviamente invitare l’autore ha chiamato il traduttore Leopoldo Carra e il giornalista Carlo Grande, che conosce molto bene non solo l’opera di Giono ma anche quella Provenza aspra, montuosa e per niente turistica che il grande scrittore francese racconta. Carlo Grande ha anche incontrato, tempo fa, a Manosque, la moglie e la figlia di Giono. Il canto del mondo è un manifesto ecologista ante litteram, un romanzo sinestesico, un racconto che celebra il sacro presente nella natura. Molti di noi conoscono Jean Giono come l’autore di L’uomo che piantava gli alberi, spesso considerato un libro per ragazzi e utilizzato nelle scuole per comunicare la forza della natura, la tenacia dell’uomo e la possibilità della rinascita. Il canto del mondo è anch’esso un romanzo che ci indica la strada: ci si può salvare solo vivendo in armonia con la natura, obbedendo e rispettando le sue leggi. Il libro uscirà presto in edizione numerata. Posso concludere con la stessa frase che avevo scritto dopo un altro Salone del libro: la cultura, la lettura, i libri sono molto di più e molto di meno di quello che si pensa. Sono esattamente il valore che gli diamo noi. L'articolo L’insostenibile leggerezza del Salone del libro proviene da Pulp Magazine.
Il sogno della terra nel blackout del capitalismo
UN ROMANZO SAGGISTICO DI CRITICA SULLA CATASTROFE CLIMATICA PROVOCATA DAL CAPITALISMO. UN ROMANZO CAPACE DI COMPORRE L’ARCHIVIO DELLE ALTERNATIVE STORICHE ALL’ECOCIDIO. UN ROMANZO CHE SI FA LEGGERE NON PER IL PIGLIO STATAL-RIFORMISTA DELLE PROPOSTE, MA PERCHÉ DISPIEGA LA MAPPA DELLE QUESTIONI ESISTENZIALI NEL LUNGO RACCONTO TECNO-POLITICO DEI POTERI CHE SOFFOCANO IL MONDO. PAOLO VERNAGLIONE BERARDI LEGGE IL MINISTERO DEL FUTURO DELLO SCRITTORE DI FANTASCIENZA KIM STANLEY ROBINSON, PARTENDO DALL’ARTICOLO IL BLACKOUT COME RIVELATORE DI AMADOR FERNÁNDEZ-SAVATER Roma, luglio 2022: il rogo del Parco di Centocelle. Foto di Antonio Citti -------------------------------------------------------------------------------- Cosa ha generato il blackout di fine aprile innescato da un guasto su una linea di trasmissione ad alta tensione tra la Catalogna francese e quella spagnola? Il guasto tecnico, o meglio tecnologico si è raddoppiato nel guasto proficuo delle identità, nel riflusso dei generi, nella produzione di un tempo fluido che per ore ha bloccato l’estrazione di risorse psicofisiche da appropriare, normare, scambiare al nocivo mercato delle solitudini e del disagio quotidiano. In quelle ore di buio sono saltate le ordinarie gerarchie sociali ed affettive rubricate nell’ordine simbolico maschile e, come ha scritto il filosofo Fernández Savater, si è ritrovata la fonte solidale delle parole e degli incontri sconosciuti, dei passi e delle cautele, delle risa e delle sagome impreviste. Il passo che vede, il tatto che ascolta, la vista che riposa e non sovrasta il gusto delle voci. Un’ecografia delle possibilità di conoscenza si è aperta, una breve e intensa lettura della terra respira e invoca grazia, creando un’altra storia possibile, là e adesso. Se l’analogia è lecita, quanto è successo in Spagna e in Portogallo evoca un romanzo pubblicato nel 2022 da Fanucci, Il Ministero per il futuro dell’affermato scrittore di fantascienza Kim Stanley Robinson. Siamo poco prima della metà del XXI secolo, tutto è già residui e rovine del capitalismo nelle sue estremità più deflagranti, cioè le periferie del mondo in cui si consuma la catastrofe climatica. Un’ondata di caldo micidiale uccide in India la popolazione di un intero stato e Frank May, un volontario che opera nell’Uttar Pradesh prova a guidare i sopravvissuti fino al lago già infuocato e inquinato. Il disastro provoca la reazione delle cosiddette istituzioni internazionali e viene creato il Ministero per il futuro, un ente intergovernativo mondiale che dovrebbe provvedere alla difesa dei viventi. Mary Murphy presiede il Ministero mentre la setta ecoterrorista dei Figli di Kali compie attentati che abbattono aerei e affondano navi per protestare contro l’aumento delle emissioni di CO2 . Il romanzo è dedicato a Frederic Jameson, critico fenomenale del capitalismo imperiale e dell’estetica realista neoliberale, da poco scomparso, e in qualche modo ne continua la linea di pensiero, aggiornandola al movimento del capitalismo di guerra e di sterminio di terre e di vite. La forma è quella di un romanzo saggistico imbastito da una scrittura piana che racconta tutto e che si converte di continuo in un saggio romanzato di 550 pagine di scrittura piana in cui è distribuito il tempo del mondo e che racconta tutto della distruzione. I due registri si alternano aprendo la trama a una moltitudine anonima di voci: a parlare è la materia della terra ed è la mente storica di piante, animali, oceani e geografia a stendere uno spazio infinito di lettura dei micidiali fenomeni di devastazione. È un romanzo critico questo, in due sensi entrambi positivi. In primo luogo perché è una critica incessante del mondo rovinato che ricostruisce la storia del presente. In secondo luogo perché è una critica di quell’estetica che separa narrativa e sociologia, saggio e racconto. Il racconto è un intarsio di molte storie, un mille e una notte anti-fantastico perché accorcia la portata del futuro prossimo all’oggi revocandone l’immaginazione. I grandi bacini glaciali artici e antartici contengono ghiaccio che scivola sempre più velocemente verso il mare, e non è cosa della metà di questo secolo ma di ora. Il numero di specie a rischio di estinzione è ai livelli del permiano. Il 99 per cento della fauna è composto da umani e loro animali domestici che soffrono. Il coefficiente di Gini che misura le disparità di reddito nell’era neoliberale è aumentato allineandosi ad altri indici di ineguaglianza. Siccità, uragani, consumo di suolo e aumento esponenziale di CO2 hanno reso inabitabile gran parte dell’ambiente. Nel 1998 in Svizzera la Società a 2000 watt ha calcolato che 2000 watt di energia a testa per tutta la popolazione della terra bastano per una buona vita, per questo «non dovrebbero esistere i miliardari». Dunque, l’idea del Ministero è creare il carboncoin, una criptovaluta che opera in blockchain, cioè un registro pubblico che tiene traccia di tutta la moneta creata e di tutte le transazioni, sostenuta dalle dieci banche centrali più potenti. É una valuta che ricompensa le azioni a sostegno della biosfera. La si combina con l’imposta sulle emissioni: si è tassati se si emette CO2 e si è pagati se la si sequestra. Le banche centrali pubblicano il tasso di rendimento che prevedono di pagare in futuro, incentivando una “posizione lunga” degli investitori a vantaggio delle future generazioni, e impostano la rendita a un valore basso in modo da far percepire la moneta come bene rifugio. Nel romanzo la manovra della moneta post-capitalista riesce e riesce anche l’operazione Antartide: nei trenta ghiacciai più grandi del pianeta, in Antartide e in Groenlandia, pompe a turbina sparano l’acqua di disgelo in superfice affinché ricongeli per aumentare la massa di ghiaccio. In questo modo si sarebbe rallentato lo scivolamento in mare dei ghiacciai. Queste procedure combinate con altre undici misure globali nel corso degli anni avrebbero consentito alla terra di ritessere terre e forme di vita. In elenco: un prezzo per il carbonio. Standard di efficienza per le industrie. Politiche di utilizzo del suolo: regolamentazioni delle emissioni di processi industriali. Politiche nei settori delle energie complementari. Standard per le energie rinnovabili. Regole su standard edilizi ed elettrodomestici. Standard per il risparmio di carburante. Trasporti urbani efficienti. Veicoli elettrici. Sconti sulle imposte per il sequestro di emissioni carboniche. Si tratta di leggi, scrive Robinson, non di procedure rivoluzionarie. Ma il romanzo si fa leggere non per il piglio statal-riformista della proposta, ma perché dispiega la mappa delle questioni esistenziali nel lungo racconto tecno-politico dei poteri. Poteri di dominio della finanza sugli stati; poteri di cattura di risorse rare e rarefazione di risorse abbondanti; poteri di sterminio da parte di interessi sovrani di estrazione e di controllo dell’energia (la vera essenza della guerra); poteri di distruzione da parte della proprietà, dell’impunità, dell’espansione criminale dei territori fino ai confini della galassia. Il romanzo compone l’archivio delle alternative storiche all’ecocidio: A Mondragon nei paesi baschi l’Università politecnica formò ingegneri che riaprirono alcune aziende manifatturiere la cui proprietà era passata agli operai, finanziata da banche e cooperative di credito. Le comunità di permacultura nel Sikkim e nel Kerala, di cui Vandana Shiva è stata una delle artefici, è diventata un modello agroeconomico fiorente. I corridoi ecologici consentono il passaggio libero degli animali tra territori protetti dalla caccia (il primo è stato lo Y2Y, dallo Yukon a Yellowstone). «Con un allevamento di bufali o curando santuari naturalistici si poteva guadagnare più di quanto offriva l’agricoltura». Una piattaforma internet con account non gestiti da mostri privati big-tech; valute locali, microtransazioni, modello danese, reddito di esistenza – tutte queste misure hanno provenienza keynesiana. In due sintetici excursus il romanzo li racconta. Alla conferenza di Bretton Woods (1944), Keynes propose di creare una Unione di Compensazione Internazionale (ICU) per una nuova valuta, il bancor. Lo scopo sarebbe stato permettere ai paesi con deficit commerciali di uscire dai debiti utilizzando un conto scoperto con interessi del 10%. Anche i paesi ricchi che avevano surplus avrebbero pagato il 10% di interesse. In questo modo si sarebbe impedito che i paesi diventassero troppo poveri o troppo ricchi. Dexter Withe, negoziatore statunitense del Dipartimento del Tesoro si oppose e propose un fondo di stabilità che sarebbe diventato la Banca Mondiale. Gli Stati Uniti erano il maggior creditore e proprietario di oro dopo la guerra e il dollaro divenne la valuta globale da supportare con riserve auree. Il secondo episodio keynesiano è la Teoria della Moneta Moderna il cui assioma era che l’economia lavora per gli esseri umani e non il contrario. La finalità della moneta doveva essere il pieno impiego. Per Keynes i governi non sperimentano il debito allo stesso modo degli individui. Introdotta nella catastrofe ambientale contemporanea la TMM raccomanda robusti investimenti sotto forma di quantitative easing del carbonio. Invece la vicenda narrata nel romanzo di come la Grecia nel 2008 è stata asfaltata dalla “troika” fa parte della storia di questo presente in cui si è dato corso al disfacimento della proprietà pubblica delle cose essenziali. Alla fine tuttavia gli sconfitti non sono coloro che non hanno mai smesso di esserlo. «La cosa più importante… fu che la quantità di CO2 nell’atmosfera era davvero calata nei quattro anni precedenti… E nei dieci anni prima si era mantenuta stabile… La maggior parte dell’assorbimento era dovuta alla riforestazione, al carbone biologico, all’agrosilvicoltura, alla crescita di foreste kelp e altre alghe, all’agricoltura rigenerativa, alla riduzione…dell’allevamento e alla cattura diretta di CO2 dall’aria». Proviamo a immaginare la terra vista da un’aeronave: «si stavano creando nuovi laghi salati e paludi pompando acqua dell’Atlantico e del Mediterraneo. Nel Sahel, le tempeste di polvere… erano molto diminuite… il deserto sotto di loro era punteggiato di laghi. Verdi, marroni, azzurro cielo, cobalto. Piccoli villaggi sorgevano sulle loro rive… Campi irrigati formavano cerchi sul terreno, cerchi verdi e gialli, come una trapunta patchwork… Un’alba rossa: sulla sinistra l’altopiano etiope, sulla destra i monti Kenia e Kilimangiaro… Poi arrivarono sul Madagascar…La riforestazione di quella grande isola era continuata per ben più di una generazione e la vita lì era così feconda che i pendii frastagliati delle sue colline sembravano già densamente alberati, scuri e selvatici. In quello sforzo erano aiutati da Indonesia, Brasile e Africa occidentale. Stavano ripristinando la natura laggiù, disse Art…». -------------------------------------------------------------------------------- Paolo Vernaglione Berardi ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura -------------------------------------------------------------------------------- IMMAGINARE E CREARE UN MONDO OLTRE LE CRISI. APPUNTAMENTO: > Transizioni fest -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il sogno della terra nel blackout del capitalismo proviene da Comune-info.
Prompt di Fine Mondo - Romanzo
Disponibile da maggio 2025 il nuovo romanzo di Agnese Trocchi: Prompt di Fine Mondo. Come andarono veramente le cose nell’attentato multiplo del 2 marzo 2027 che vide la distruzione dei principali data center statunitensi? INDICE * Sinossi * Pipeline di produzione * Per ottenere il libro Una gestazione di sei anni, un romanzo di fantascienza ucronica, un viaggio attraverso le capitali d’Europa e del Sud America, vite che si intersecano ad alta quota, un archivio digitale in cui distinguere racconti artefatti da memorie vissute… fino a vedere oltre tutti gli strati. Cosa successe veramente nell’attentato multiplo del 2 marzo 2027 che vide la distruzione dei principali data center statunitensi? Scopritelo leggendo Prompt di Fine Mondo, ma fate attenzione perché è un romanzo ricorsivo! Una spirale mitopoietica! SINOSSI Siamo nel 2046, Stefan, Ela e Giò sono tre validatori delle fonti che indagano sulla ricostruzione del 2M, l’attacco terroristico del 2 marzo 2027 che vide la distruzione dei principali data center statunitensi provocando un’immediata reazione repressiva attuata tramite la militarizzazione di ogni relazione sociale. Coprifuoco relazionale, macchine lampeggianti, vecchie stampanti anteguerra, sono gli strumenti nel laboratorio dei validatori che, a un anno dal ventennale del 2M, mentre ricostruiscono la storia, ricevono un archivio digitale da un certo Arial Antropos... Nell’archivio ci sono le tracce digitali di Alice Faland e Andrea Wronskij, considerati gli esecutori dell'attacco di matrice terroristica. Ripercorriamo con loro i giorni precedenti all'attentato e veniamo a conoscenza delle operazioni dell’AgEnZIA, una misteriosa organizzazione indipendente che, attraverso un approccio conviviale all’identità, addestra agenti in grado di scoppiare le bolle di filtraggio della DeepTV, dispositivo di intrattenimento di massa prodotto dai Bro del Presidente e sempre più diffuso. Prompt di Fine Mondo è un’ucronia speculativa che ci trascina in un 2027 dove sembra ancora possibile scoppiare le bolle di filtraggio create dai Techno Bro allo scopo succhiarci via la risorsa più preziosa di sempre: il tempo. Un 2027 dove sparuti gruppi di Zombiesquatter, creature auto-organizzate, frutto delle pandemie che si sono abbattute sull’umanità, resistono alla profilazione dei Resort Fine Vita dove li vorrebbero rinchiusi i Bro del Presidente. Riuscirà Alice Faland, con l’aiuto di Allie Lamark, a ritrovare Andrea Wronskij disperso in Sud America? Riuscirà Andrea a scrivere la storia del misterioso fondatore dell’AgEnZIA, Ambritch Buchannon, sulle cui tracce è in viaggio? E Arial progetterà il prompt definitivo? Lo scopriremo addentrandoci in un mondo di reti generative, durissimi addestramenti digitali, resistenza alla filter bubble, DeepTV, zombiesquatter e anarco-pasticcoidi. Vite che si intersecano in alta quota, un archivio digitale in cui distinguere tra racconti artefatti, memorie vissute e storie da raccontare… fino a vedere oltre tutti gli strati. PIPELINE DI PRODUZIONE Il libro è stato impaginato usando Octomode . Per saperne di più ci sarà un talk a Hackmeeting 0X1C. PER OTTENERE IL LIBRO Se vuoi una copia di Prompt di Fine Mondo (184 pagine, brossura), scrivi a info@circex.org oppure vieni ad Hackmeeting 0X1C.