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Piccola arringa in difesa della letteratura
UN GRUPPO DI GIOVANI UNIVERSITARI NAZISTI NEL MAGGIO 1933 SACCHEGGIA UNA LIBRERIA. PORTANO IL CAMION SULLA STRADA: VI BUTTANO DENTRO I LIBRI DECLAMANDONE I TITOLI ALLA FOLLA CON ARIA DI SCHERNO. UNO DI QUESTI SI CHIAMA NIE WIEDER KRIEG. MAI PIÙ GUERRA. È LA FOTOGRAFIA DEL MOMENTO ESATTO IN CUI IL NAZISMO SI IMPONE. OGGI SIAMO TORNATI SU QUEL MARCIAPIEDE DI BERLINO, PIÙ O MENO NELLO STESSO INCROCIO DELLA STORIA: L’INTELLIGENZA SI È DISSOCIATA DALLA COSCIENZA E LA COSCIENZA SEMBRA DISINTEGRATA. “MA È QUESTA LA RAGION D’ESSERE DELLA LETTERATURA E DELL’ARTE – DICE FABIO STASSI – IMPEDIRE LA DISINTEGRAZIONE DELLA COSCIENZA, SCRIVEVA ELSA MORANTE… NON SONO I LIBRI A ESSERE PERICOLOSI, SONO I LETTORI. PERCHÉ RAGIONANO CON LA LORO TESTA… È IL LETTORE IL VERO DETECTIVE E IL VERO PROTAGONISTA DELLA LETTERATURA. NON ERA FORSE UN LETTORE DON CHISCIOTTE?… QUEST’ESTATE HO VISTO UNA FOTOGRAFIA: UN GRUPPO DI CURDI, NEL NORD DELLA SIRIA, AVEVANO ACCETTATO LA FINE DELLA LOTTA ARMATA E STAVANO GETTANDO DELLE ARMI IN DEI GRANDI BRACIERI. BRUCIARE LE ARMI, NON I LIBRI. ABBANDONARE L’IDEA DEGLI STATI NAZIONALI. APPARTENERE SOLTANTO ALLA LETTERATURA…” Firenze, quartiere Le Piagge: biblioteca comunitaria “Ridare la parola” (pag. fb) -------------------------------------------------------------------------------- Gentili giurate e giurati, gentilissima corte, non pronuncerò in quest’aula di tribunale un’arringa a sostegno di un libro, ma vorrei sviluppare con voi un breve discorso in difesa della letteratura stessa. Ho una domanda da cui partire: a quale letteratura appartengo, a quale letteratura apparteniamo? È una domanda contundente, esplosa per me durante quel grande rogo esistenziale, storico e politico che è stato la pandemia e che in gran parte la società e i mezzi di informazione hanno cercato di rimuovere. Ma quel rogo ha determinato il presente che stiamo vivendo. In quel periodo, molte cose sono andate a fuoco nella mia vita, e nella vita di tutti. Ho perso alcuni affetti, una certa idea di realtà, un’idea di letteratura. Ho capito che non avrei più potuto scrivere con lo stesso inchiostro di prima. Né leggere, né ricordare. Ma, soprattutto, è andata a fuoco la parola pace, la parola su cui questa parte di mondo, l’Occidente, aveva costruito, a parte la tragedia delle guerre Jugoslave, rimosse anche loro dalla coscienza collettiva, la nostra convivenza per oltre settant’anni. In quei giorni di Berlino del 1933 in cui si bruciavano i libri, a poche ore dal rogo della notte del 10 maggio a Bebelplatz, un gruppo di giovani universitari nazisti saccheggiò la libreria di un piccolo editore liberalpacifista. Portarono il camion sulla strada. Vi buttarono dentro i libri declamandone i titoli alla folla con aria di scherno. Uno di questi si chiamava Nie wieder Krieg. Mai più guerra. Lo tennero con due dita, come un rettile, poi lo gettarono nel mucchio, ridendo forte proprio mentre transitava dall’altro lato del marciapiede una signora ben vestita. La passante si fermò a guardare e alla fine si mise a ridere con loro e a ripetere: mai più guerra, che assurdità! È la fotografia del momento esatto in cui il nazismo si impose. Prima di bruciare quel libro, avevano già bruciato l’idea che conteneva, contagiato a tutti l’assuefazione alla parola guerra e convinto quella signora che passava lì per caso che un mondo costruito sulla pace fosse un’assurdità. Incenerendo anche il libro, volevano cancellarla per sempre, quell’idea: che a nessun altro venisse in mente, leggendolo, una follia del genere. Che nessuno potesse più contestare l’uso dei gas o delle mine antiuomo, delle bombe a grappolo, dei campi di concentramento, dei bombardamenti dall’alto e sui civili, delle bombe atomiche. È un episodio che non riesco a dimenticare. Ora che siamo nuovamente circondati da uomini fatti di carattere e non di libri, come auspicava Goebbels, a Bebelplatz, nell’ora degli inquisitori e delle streghe; ora che altri atti forti e simbolici vengono comunicati al mondo per mostrare le proprie intenzioni; ora che comprendiamo meglio l’affermazione di Alberto Moravia per cui il vero vincitore della Seconda guerra mondiale era stato Adolf Hitler perché la sua idea della soluzione finale si è affermata persino nella mentalità delle sue vittime; ora siamo tornati su quel marciapiede di Berlino, nello stesso incrocio della storia. E come esseri umani, come cittadini, come lettrici e lettori siamo chiamati a una responsabilità. Sta a noi, adesso, prendere posizione. Opporci all’“invasione dell’irrealtà” e provare a restituire l’integrità del reale. Perché forse mai, nella storia dell’umanità, l’uomo ha vissuto in un tempo più irreale e virtuale di quello in cui viviamo noi, un tempo senza più testimoni, in cui l’intelligenza si è dissociata dalla coscienza, e la coscienza si è disintegrata, si è disintegrato il diritto, si è disintegrata la realtà. Ma è questa la ragion d’essere della letteratura e dell’arte. Impedire la disintegrazione della coscienza, scriveva Elsa Morante. Ed è questa la letteratura degenerata, marchiata da un marchio di infamia, a cui appartengo. È la letteratura che ci ha trasmesso l’elogio della libertà, della gioia, della risata, dell’amore, dell’amicizia; il cosmopolitismo mediterraneo e l’utopia di una Costituzione Mondiale; l’anticolonialismo, l’antimperialismo e l’antimilitarismo; l’antifascismo radicale; il rifiuto del patriarcato che sta alla base di tutte le dittature. C’è un filo che ci lega ai libri che abbiamo letto. E che li lega tra loro. La letteratura è un’alleanza, una confederazione, una consegna. Ma perché non si spezzi, questo filo, non bisogna stancarsi di riannodarlo, di ritrascrivere la sua lista nera, nome per nome, idea per idea, libro per libro, di ripopolare la biblioteca devastata e poi murata di don Chisciotte. Così, accanto ai nomi degli messi al bando dai nazisti e dai fascisti (Pietro Aretino, Emilio Salgari, Giuseppe Antonio Borgese, Ignazio Silone e Maria Volpi) vorrei aggiungerne altri più recenti, anche se sono soltanto una piccola e incompleta lista: Giuseppe Ungaretti, Emilio Lussu, Primo e Carlo Levi, Elio Vittorini, Alba de Céspedes, Italo Calvino, Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia, Luciano Bianciardi, Gianni Rodari, Carlo Cassola, che fondò la Lega per il disarmo unilaterale dell’Italia, e Aldo Capitini, Danilo Dolci, Goffredo Fofi, Tiziano Terzani, Antonio Tabucchi… Bebelplatz è ormai un luogo simbolico, che si rinnova ogni volta che sono messi a tacere e censurati gli uomini fatti di libri – come noi, in quest’aula -, e altre scrittrici, scrittori, poeti, questi esseri inermi sempre incarcerati nella storia, torturati, fucilati. Per i poeti, la letteratura è “l’unica forma di assicurazione morale di cui la società può disporre”, “l’antidoto permanente alla legge della giungla”. Abita dal lato della devianza e della diversità. Non ammette nessun vincolo con il potere, con nessun potere. È la protesta più intransigente all’ordine omicida del mondo e a ogni forma di nazionalismo e di conformismo. Per questo è sempre stata perseguitata. Così diceva duemila anni fa il portavoce dell’imperatore cinese: chiunque usi la storia – e intendeva la memoria, la fantasia, l’immaginazione – per criticare il presente sarà giustiziato insieme alla sua famiglia. Chissà se avessero letto di più i nostri governanti, se davvero il mondo sarebbe stato un luogo migliore. Non so se si tratta di un’illusione, ma ora che intorno a noi sono tornate a risuonare le stesse parole d’ordine del passato recente e remoto dobbiamo ricordarci che la lettura è un diritto e va difeso e che leggere è un atto politico, un esercizio di responsabilità oltre che di amore. Ma è un diritto che non è garantito dovunque. In molte parti del mondo, in Medio Oriente come in qualche stato d’America, entrare in una biblioteca può essere pericoloso. Ci sono polizie politiche che controllano il registro dei prestiti. Che perquisiscono le case. In alcune circostanze, bisogna disfarsi dei propri libri, ed è come amputarsi una parte del corpo. In definitiva, non sono i libri a essere pericolosi, sono i lettori. Perché ragionano con la loro testa. Perché usano il pensiero critico. Perché aprono sempre un’inchiesta intima e collettiva quando leggono un libro o un romanzo. È il lettore il vero detective e il vero protagonista della letteratura. Non era forse un lettore Don Chisciotte? Non legge forse un libro Amleto, la prima scena in cui appare? La letteratura, come diceva Antonio Tabucchi, ha gli stessi nemici di sempre, gli stessi sicari. Ma nessuno è mai riuscito a zittirla. In Kenya, la polizia ha emesso un mandato di cattura contro un personaggio di romanzo, credendolo una persona in carne e ossa, per l’entusiasmo con cui i contadini si raccontavano oralmente le sue avventure. Ma un personaggio di romanzo non lo si potrà mai catturare. E se anche incenerissero tutti i libri e i nuovi Re dei Tarli – ogni epoca ne incorona qualcuno – divorassero tutte le Biblioteche della terra, ci sarà sempre un’altra scrittrice o scrittore a riprendere la voce e a difendere la libertà di espressione e di parola. Per tutto questo continuo a credere nell’utopia di una letteratura che abbia ancora al centro il personaggio-uomo, e che sia libera e cosmopolita, sguardo molteplice e senza gerarchie, senza confini, senza frontiere. A trattenere l’idea di un socialismo liberale e internazionalista, di un umanesimo mediterraneo, di una identità multipla. Ad avere fiducia nelle biblioteche come luoghi extraterritoriali, simili alle ambasciate, alle chiese, luoghi che danno ricovero a chi è o si sente in esilio, dove non serve nessun permesso di soggiorno. Quest’estate ho visto una fotografia: un gruppo di attivisti curdi, nel nord della Siria, avevano accettato la fine della lotta armata e stavano gettando delle armi in dei grandi bracieri. Bruciare le armi, non i libri. Abbandonare l’idea degli Stati nazionali. Appartenere soltanto alla letteratura. Ecco, forse la lettura e la letteratura non sono altro che questo: prendere in consegna il lumicino della ragione da chi ci ha preceduto, evitare che cada nelle mani di chi lo vuole estinguere, e farlo durare. È l’ultima candela che ci è rimasta. La stessa con cui leggeva Mastro Geppetto nel ventre della balena o Don Chisciotte nella sua stanza dei libri. Di questo parlano i romanzi, dell’inadeguatezza dell’incantesimo in un mondo senza incantesimo. Ed è con un ultimo deliberato atto di ottimismo che vorrei salutarvi: soltanto attraverso la letteratura, la musica, il teatro, il cinema, la danza, l’arte tutta, potremo continuare a custodire la speranza in un mondo senza speranza. -------------------------------------------------------------------------------- Tra gli ultimi libri di Fabio Stassi Bebelplatz. La notte dei libri bruciati e Notturno francese, entrambi editi da Sellerio. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI JOHN HOLLOWAY: > Imparare a pensare la speranza -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI EMILIA DE RIENZO: > La cultura non basta -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Piccola arringa in difesa della letteratura proviene da Comune-info.
Israele non è Netanyahu. Ricordare Yehoshua
ISRAELE, COSÌ COME QUALSIASI PAESE, NON È IL SUO GOVERNO. LA SOCIETÀ È SEMPRE PIÙ COMPLESSA DELLA POLITICA ISTITUZIONALE. ANCHE DENTRO LA STORIA RECENTE DI ISRAELE CI SONO DONNE E UOMINI CHE, IN TANTI MODI DIVERSI, HANNO PERCORSO STRADE DIVERSE, OPPONENDOSI AL NAZIONALISMO, ALLA LOGICA DELLA VIOLENZA, ALLA CHIUSURA IDENTITARIA. ABRAHAM YEHOSHUA, AD ESEMPIO, CON I SUOI ROMANZI E SAGGI È STATO TRA I PRIMI A DENUNCIARE L’USO ODIOSO DELL’ANTISEMITISMO PER GIUSTIFICARE L’OPPRESSIONE DI UN ALTRO POPOLO E A FARE DELLA SCRITTURA UN LUOGO NEL QUALE LA STORIA SI FA INTERROGAZIONE ETICA Roma. Foto di Nilde Guiducci -------------------------------------------------------------------------------- La politica devastante e il carattere apertamente genocidario dell’attuale governo israeliano ci impediscono, spesso, di distinguere tra Israele e Netanyahu. Ma Israele non è — o non è solo — il suo governo. Dentro la sua storia recente ci sono stati uomini e donne che hanno percorso strade diverse, opponendosi al nazionalismo cieco, alla logica della forza, alla chiusura identitaria. Persone che hanno cercato, attraverso la parola e il pensiero, di costruire un’idea di convivenza possibile. Non dobbiamo dimenticarli. Non saranno la maggioranza, ma proprio per questo la loro voce va ricordata, fatta risuonare, restituita alla memoria collettiva come segno di un’altra possibilità. Tra quelle voci c’è quella limpida, razionale e insieme appassionata di Abraham Yehoshua, che ha saputo interrogare l’identità israeliana e la relazione con il popolo palestinese senza mai rinunciare alla speranza di una coesistenza giusta, fondata su responsabilità reciproca e su un umanesimo concreto. Antisemitismo e sionismo. Rileggere Yehoshua in tempi di guerra Vent’anni fa, in un’Europa ancora segnata dal trauma della Shoah ma non ancora travolta dalle guerre di oggi, Yehoshua pronunciava una conferenza destinata a restare attuale: Antisemitismo e sionismo. In poche pagine, lo scrittore israeliano formulava una tesi tanto scomoda quanto necessaria: l’identità ebraica contemporanea rischia di restare prigioniera del proprio passato di vittima, e il sionismo, nato per liberarla, si è trasformato in un sistema che perpetua quella dipendenza. Oggi, mentre Gaza brucia e la parola “antisemitismo” torna a essere brandita come un’arma, rileggere Yehoshua non è un esercizio di memoria: è un atto politico e morale. Il sogno etico del sionismo e la sua corruzione politica Il sionismo nacque come progetto di emancipazione. Voleva restituire agli ebrei una normalità storica e politica: un territorio, un lavoro produttivo, una lingua, una cittadinanza. Non una superiorità, ma una uguaglianza rispetto agli altri popoli. Yehoshua, e con lui la generazione dei sionisti laici, vedeva in questo un gesto di liberazione: uscire dal destino dell’ebreo errante, senza patria e senza potere. Ma la storia ha preso un’altra direzione. Israele è diventata una nazione potente, tecnologicamente avanzata, armata, eppure sempre più chiusa in una logica di eccezionalità. La legge sullo “Stato-nazione del popolo ebraico” del 2018 — che riconosce il diritto all’autodeterminazione solo agli ebrei — ha sancito una deriva teocratica e discriminatoria. Il sionismo, nato per normalizzare, si è fatto ideologia di separazione. Per Yehoshua, questo era il segno di un fallimento morale: la libertà conquistata si è trasformata in dominio, e la promessa di un popolo che cercava casa è diventata l’esclusione di un altro popolo dalla propria. Uso e abuso dell’antisemitismo Yehoshua sapeva che l’antisemitismo è un male reale, antico, mai davvero sconfitto. Ma denunciava anche il suo uso politico: la tendenza, sempre più diffusa, a equiparare la critica a Israele con l’odio contro gli ebrei. Oggi questa confusione è sistematica. Ogni denuncia delle violenze a Gaza viene accusata di antisemitismo; ogni richiesta di giustizia per i palestinesi è vista come negazione della Shoah. Così la parola “antisemitismo” perde la sua forza morale e diventa una corazza ideologica. In nome della protezione dell’ebreo, si giustifica l’oppressione di un altro popolo. In nome della memoria della vittima, si smarrisce la responsabilità del presente. Yehoshua invitava a un rovesciamento: ricordare la Shoah non per chiudersi, ma per aprirsi alla sofferenza altrui. La memoria deve rendere più umani, non più ciechi. È un pensiero che oggi suona quasi eretico, ma è forse l’unico modo per salvare la dignità della memoria ebraica. Un pensiero radicato nella narrazione Nei suoi romanzi — da Il signor Mani a Viaggio alla fine del millennio, da La sposa liberata a Fuoco amico (in Italia editi da Einaudi) — Yehoshua ha esplorato la complessità dell’identità ebraica e israeliana con la stessa lucidità che troviamo nei suoi saggi. Ogni storia diventa per lui una metafora della scissione tra appartenenza e libertà, tra memoria e presente. In Il signor Mani, la voce plurale delle generazioni rivela un’identità in continuo esilio da se stessa; in Fuoco amico, l’angoscia della guerra e la perdita della misura morale diventano un dramma familiare e collettivo. La narrativa, in Yehoshua, non è evasione: è il luogo in cui la storia si fa interrogazione etica. Leggere oggi quelle pagine significa assistere, con dolore, a ciò che lui aveva intuito: che Israele rischiava di perdere non solo la sua innocenza, ma la sua anima. Sotto le maceria di Gaza Rileggere Antisemitismo e sionismo (Einaudi) oggi non è un gesto di fiducia, ma di lutto. L’Israele che Yehoshua aveva immaginato — laico, giusto, capace di riconoscere l’altro — sembra dissolto sotto le macerie di Gaza e della propria coscienza morale. La violenza ha divorato il linguaggio, e la memoria della Shoah, anziché educare alla compassione, viene usata per giustificare l’ingiustificabile. Yehoshua avrebbe guardato a tutto questo con dolore, come chi vede crollare la casa che ha amato e costruito. Non avrebbe rinnegato Israele, ma gli avrebbe chiesto conto della sua perdita di umanità. Forse la morte lo ha risparmiato da questa devastazione — non solo delle città, ma delle coscienze. Resta però la sua domanda, più spoglia e urgente che mai: che ne è del popolo che voleva essere libero, se la sua libertà dipende dalla distruzione di un altro? -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI FRANCO BERARDI BIFO: > L’assassinio di Abele, per sempre sulla fronte di Caino -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Israele non è Netanyahu. Ricordare Yehoshua proviene da Comune-info.
Aprire sentieri con la poesia, anche quando tutto sembra perduto
-------------------------------------------------------------------------------- Perugia-Assisi 2025. Foto di Carovana dei pacifici -------------------------------------------------------------------------------- Ci sono poeti che camminano nello spazio delle parole come se aprissero sentieri dentro la vita. Così John Berger parla di Nazim Hikmet: le sue poesie, dice, contenevano più spazio di tutta la poesia che aveva letto fino ad allora. Non lo descrivevano: lo attraversavano, scavalcavano le montagne. Lo spazio, in Hikmet, non è un luogo da abitare ma da varcare. La poesia non osserva da lontano: agisce, si muove, accompagna la vita. Anche quando parla di lutto o di solitudine, non resta immobile nel dolore: i sentimenti seguono l’azione invece di prenderne il posto. È una poesia che fa, che apre, che resiste. Eppure Hikmet scrive in prigione. Dieci anni nel carcere che i turchi chiamavano “l’aeroplano di pietra” per via della sua forma irregolare. Un luogo sospeso tra Europa e Asia, pensato per seppellire le persone nella dimenticanza. Ma la sua poesia non accetta di essere sepolta: supera continuamente i limiti della reclusione. Non sogna la fuga, non evade, colloca la prigione come un punto minuscolo sulla mappa del mondo e da lì traccia cerchi sempre più ampi, che abbracciano la terra, gli uomini, l’amore, la speranza. Scrivere, per lui, è un modo di restare vivi. La libertà non è un luogo, ma un respiro: un gesto che si rinnova ogni volta che la parola apre lo spazio del possibile. In questo, Hikmet incontra Mahmoud Darwish, poeta palestinese dell’esilio. Anche lui scrive da una condizione di chiusura, eppure la sua voce non si lascia imprigionare. “Sopravviveremo. E la bellezza ci salverà”, dice in un verso che sembra una risposta fraterna a Hikmet. Come lui, Darwish conosce l’ingiustizia e la perdita, ma continua a credere che la poesia sia un atto di resistenza e di fiducia, il modo umano di tenere aperto il mondo. John Berger, che di Hikmet ha scritto parole luminose, riconosce in questa tensione una verità profonda: la poesia è azione. È un modo di attraversare la realtà, non di fuggirla. È un camminare nella libertà anche quando il corpo è chiuso, anche quando tutto sembra perduto. E così arriviamo ai versi più noti di Hikmet, che sono forse la sua dichiarazione più alta di speranza: Il più bello dei mari è quello che non navigammo. Il più bello dei nostri figli non è ancora cresciuto. I più belli dei nostri giorni non li abbiamo ancora vissuti. E quello che vorrei dirti di più bello non te l’ho ancora detto. Sono parole che guardano avanti, non indietro. Non celebrano ciò che è stato, ma ciò che ancora può essere. Dentro di esse la speranza non è illusione, ma promessa: la fiducia che il futuro, nonostante tutto, esiste. Nessuna prigione, nessun confine, nessuna occupazione può impedire questa libertà interiore. La poesia — per Hikmet, per Darwish, per Berger — è la forma più umana del camminare: continua anche quando il mondo si chiude, e traccia con il respiro una geografia invisibile di resistenza e amore. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Aprire sentieri con la poesia, anche quando tutto sembra perduto proviene da Comune-info.
Odissea americana
“Arrivammo a Denver con l’indicatore del carburante quasi vuoto e l’Hudson che tossiva polvere da mille miglia di deserto. Era quel periodo selvaggio, sacro e folle in cui Dean e io eravamo inseparabili…” La notizia è rimbalzata dall’America, ma non ha prodotto un grande clamore letterario. All’inizio si era parlato […] L'articolo Odissea americana su Contropiano.
Ripensando alla speranza con Kafka
CI SONO SCRITTORI CHE RESTANO NECESSARI. KAFKA, AD ESEMPIO, CI PARLA OGGI PERCHÉ RESTITUISCE SPESSORE AL DESIDERIO SENZA RIDURLO A CONSUMO O SODDISFAZIONE, IL DESIDERIO APPARE COME LA SPINTA VITALE CHE CONTINUA A BUSSARE CONTRO IL MURO DEL REALE. NEI SUOI RACCONTI CI SONO UNA SPERANZA E UN DESIDERIO CHE NON PROMETTONO UN LIETO FINE MA CHE RESISTONO DENTRO IL BUIO, COME UNA BRACE CHE NON SI SPEGNE. “IL DESIDERIO, IN FONDO, NON SERVE A OTTENERE. SERVE A RICORDARCI CHE QUALCOSA MANCA, CHE POTREMMO ESSERE ALTRO, CHE IL MONDO COSÌ COM’È NON BASTA – SCRIVE EMILIA DE RIENZO – KAFKA CI OBBLIGA A RESTARE IN QUELLA MANCANZA, A NON VOLTARE LO SGUARDO. È LÌ CHE SI APRE UNO SPAZIO FRAGILE, MA REALE, IN CUI LA DISPERAZIONE E LA SPERANZA NON SI ESCLUDONO, MA SI ACCOMPAGNANO: UNA DÀ FORMA ALL’ALTRA, LA TIENE VIVA, LA IMPEDISCE DI DIVENTARE ILLUSIONE…” Caserta -------------------------------------------------------------------------------- In un tempo in cui tutto sembra potersi ottenere – informazioni, immagini, risposte immediate – Franz Kafka resta uno scrittore necessario. Ci ricorda che esiste un desiderio che non si appaga, una speranza che non coincide con il successo, un’inquietudine che non si lascia zittire. Nel mondo della trasparenza e dell’efficienza, i suoi personaggi continuano a cercare ciò che non si trova: un senso, una giustizia, un riconoscimento. Eppure, nel loro fallimento, custodiscono qualcosa che noi rischiamo di perdere: la consapevolezza del limite, la dignità del domandare, la forza di non smettere di cercare. Kafka ci parla oggi perché restituisce spessore al desiderio: non lo riduce a consumo o soddisfazione, ma lo riconosce come ferita, come tensione, come segno di una mancanza che è il cuore dell’umano. Kafka mette in scena esseri umani che cercano disperatamente un ordine, una legge, un riconoscimento, ma si trovano invece di fronte a un potere invisibile, impersonale, spesso assurdo. E tuttavia, in Kafka, il desiderio non scompare mai. Anche se irrealizzabile, rimane come spinta vitale che continua a bussare contro il muro del reale. Ne La metamorfosi, Gregor Samsa si trasforma in insetto, ma dentro quella condizione disumana resta un desiderio umano di amore, di comprensione. Il desiderio rivela il vuoto del mondo così com’è. In questo senso Kafka non è un nichilista: mostra la mancanza di senso come una ferita che chiede risposta. Il desiderio non crea: urta, si infrange, si consuma contro ciò che non si lascia trasformare. I personaggi di Kafka sono figure dell’attesa e della distanza. Josef K. non saprà mai di che cosa è accusato; l’agrimensore K. non entrerà mai nel Castello. Eppure entrambi continuano a cercare, a interrogare, a bussare. Non si arrendono, ma la loro ostinazione non produce salvezza: solo consapevolezza. In Kafka la realtà è un muro, e il desiderio è la mano che continua a battervi contro, pur sapendo che non si aprirà. Non è un gesto inutile: in quel battere, in quella tensione senza sbocco, si rivela la condizione umana. L’uomo desidera ciò che non può ottenere, cerca un ordine che non trova, un senso che si nasconde. Ma proprio questo fallimento lo definisce: lo costringe a vedere la propria nudità, la propria fragilità, la sproporzione tra sé e il mondo. C’è in Kafka una speranza paradossale. Non quella che promette un lieto fine, ma una speranza che resiste dentro il buio, come una brace che non si spegne. «C’è una quantità infinita di speranza, ma non per noi», scrive. È una frase terribile eppure consolante: significa che la speranza esiste, anche se non la possediamo. È altrove, in una regione che forse non appartiene all’uomo, ma che continua a illuminare le sue notti. Il desiderio, in fondo, non serve a ottenere. Serve a ricordarci che qualcosa manca, che potremmo essere altro, che il mondo così com’è non basta. Kafka ci obbliga a restare in quella mancanza, a non voltare lo sguardo. È lì che si apre uno spazio fragile, ma reale, in cui la disperazione e la speranza non si escludono, ma si accompagnano: una dà forma all’altra, la tiene viva, la impedisce di diventare illusione. Per questo Kafka non è solo uno scrittore del disagio, ma della resistenza, di quella resistenza che nasce quando, anche nel buio, una mano continua a bussare. Non per aprire una porta, forse, ma per dire che siamo vivi. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Ripensando alla speranza con Kafka proviene da Comune-info.
LETTERATURA: L’INTERVISTA A RADIO ONDA D’URTO (2013) AL NEO PREMIO NOBEL LAZLO KRASZNAHORKAI
Il Nobel per la letteratura 2025 va allo scrittore ungherese Lazlo Krasznahorkai per, spiega l’Accademia di Svezia, “la sua opera avvincente e visionaria che, nel mezzo del terrore apocalittico, riafferma il potere dell’arte”. Nato a Gyula nel 1954, Krasznahorkai è uno dei maggiori scrittori ungheresi viventi, già vincitore del Man Booker Prize nel 2015 e finalista al Premio Strega Europeo 2017. Tra i suoi libri ci sono Satantango, Melancolia della resistenza, Il ritorno del barone Wenckheim, Guerra e guerra e Seiobo è discesa quaggiù. Alcuni dei suoi lavori sono stati trasposti – a partire dall’esordio, Satantango – in opere cinematografiche, in particolare dal regista ungherese Béla Tarr. Dopo l’annuncio del Nobel, a Krasznahorkai sono arrivati i complimenti del premier magiaro di estrema destra, Viktor Orbán. “Lo ringrazio – la replica dello scrittore – per le sue congratulazioni, ma mi opporrò sempre alle sue idee e azioni politiche. Rimango uno scrittore libero”. Un ritratto della figura e della poetica di Krasznahorkai, su Radio Onda d’Urto, con Francesco Cataluccio, critico e autore, esperto di letteratura est-europea e magiara, già direttore dei Tascabili Feltrinelli, ex docente di Letterature comparate alla facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano e collaboratore della Fondazione Gariwo – La foresta dei Giusti. Ascolta o scarica Nel 2013 Radio Onda d’Urto aveva intervistato lo scrittore ungherese Lazlo Krasznahorkai , in occasione del Festival Letteratura di Mantova. Ascolta o scarica.
[L'orda d'oro] Good morning, Khabarovsk
Nell'agosto del 1991 Tiziano Terzani sta viaggiando sul fiume Amur in Siberia quando lo raggiunge la notizia del golpe contro Gorbachev. Decide di convergere su Mosca facendo una lunga deviazione in Asia Centrale e Caucaso che lo porterà a essere uno degli unici giornalisti stranieri a osservare lo sviluppo di questi eventi nella periferia orientale dell'Unione Sovietica. Dal questo viaggio nasce quello che è IL memoir di viaggi in Asia Centrale: 'Buonanotte Signor Lenin'. Oggi analizziamo le maniere più infide in cui lo sguardo colonialista italiano fa capolino anche nei lavori di autori benintenzionati. Una puntata che non poteva essere breve. Scaletta musicale: * Jarl Flamar - Medusa * DSL System - Tashkent Groove * Gaia - Vokaliz La sigla è Bitch I'm Akyn di Subsonic Vodoo.
Marcello Galati / Il ritorno della “morte del narratore”
Svariati anni or sono nell’ambito della critica letteraria sorse il concetto di “morte del narratore”. Il dibattito originò dal seminale saggio di Roland Barthes La morte dell’autore (1967) e dalle considerazioni di Michel Foucault nel suo Che cos’è un autore (1969), che misero in questione la centralità dell’autore come fonte di significato. Per alcuni versi era stato preceduto dagli studi portati avanti dalla scuola di critica letteraria nota negli Stati Uniti come New Criticism, e si accese nel ventennio ’70‑’80. In quel torno di tempo la narratologia strutturale di Gérard Genette (che operò la distinzione tra “voce” e “narrazione”) aprì la strada a una più accorta analisi delle funzioni del narratore, e parallelamente la critica post‑strutturalista (il concetto di “spazio vuoto” del lettore proposto da Wolfgang Iser, dove la presenza del narratore può essere ridotta al minimo, il pensiero di Derrida, ecc.) e le teorie della metanarrazione (esempio emblematico alcune opere di Italo Calvino e di Jorge Luis Borges) mostrarono come la voce narrante di un’opera letteraria possa diventare un personaggio consapevole della propria finzione, entità non stabile ma elemento in fluida trasformazione, sino addirittura alla scomparsa. Queste considerazioni riaffioravano mentre leggevo un breve “romanzo” di Marcello Galati, dal titolo ossimorico: Intervalli. L’assenza della presenza. Per più d’un verso appare come uno scritto “fuori epoca”, che si staglia sulla melassa di tante stucchevoli opere narrative odierne, incentrate sulle piccinerie del quotidiano e incapaci di uno sguardo storico, prive della benché minima consapevolezza di una tradizione letteraria. Nel suo richiamarsi (o alludere) al dibattito cui si accennava, il lavoro dell’autore mostra infatti una certa eccentricità, a partire dalla struttura: un apparente monologo, articolato in dodici agili capitoletti, che si rivela un soliloquio segnato, appunto, dall’assenza. Galati porta alle estreme conseguenze il discorso della “morte del narratore”: a mancare non è soltanto quello tradizionale, onnisciente o meno, ma financo l’interlocutore, la cui identità (comunque cangiante e mai determinata) varia in ogni capitolo, della cui presenza è anzi lecito dubitare: le storie e i personaggi solo accennati potrebbero essere quelli di una voce che articola i suoi discorsi in un vuoto, ma tremendamente lucidi nel tratteggiare un mondo di “assenze” e di “intervalli” – il nostro mondo. Un concretissimo simbolo dell’assenza lo si trova nel capitolo VII, con il racconto della singolare sorte di Papa Formoso (siamo sul limitare del IX secolo), soggetto a un processo post mortem in quello che venne chiamato “Sinodo del cadavere”, il cui corpo fu disseppellito per essere processato “in presenza”, con la voce di un diacono a dargli vita – è storia, non invenzione! Così come è storia il ricordo della battaglia di Ypres durante la Prima guerra mondiale (nella quarta sezione), dove l’esercito tedesco impiegò per la prima volta l’iprite, e il successivo impegno di due scalpellini inglesi che avrebbero dovuto scolpire i nomi dei settantamila caduti sull’Arco di Menin, opera mai conclusa per lo scoppio del successivo conflitto mondiale: appunto un “intervallo” tra eventi bellici, che sinistramente richiama i fatti odierni del conflitto russo-ucraino e israelo-palestinese (e di infiniti altri) cui assistiamo con muto orrore senza la volontà di porvi fine. La mutevolezza degli interlocutori fantasmatici che popolano queste righe si specchia in quella degli argomenti trattati. Non v’è dunque una trama univoca, ma una proliferazione di motivi sottilmente uniti da ricorrenze simboliche e da “personaggi” in bozzolo. In particolare, a legare storie, dialoghi e temi intessuti in nodi significativi v’è la figura del paradosso, suggestivamente anche evocata con il racconto erodoteo dell’“intervallo” di potere in epoca persiana risolto col nitrito d’un cavallo. Essa struttura ogni riga, ogni “episodio”, come nei reiterati e assurdi tentativi di suicidio messi in atto da un “amico” del narratore, o quelli di un tale che prepara con meticolosa tigna il proprio funerale nella speranza di unicità e della stima che gli verrà accordata nel ricordo postumo. Paradossali non sono però i temi trattati, che la voce aggredisce con piglio filologico interrogando e mettendo in discussione i significati che conferiamo alle parole: lo sono i loro risvolti – l’impatto che hanno sulle nostre vite –, sempre calati nel quotidiano e nelle esperienze di chi ce li presenta, con quel suo “lasciarsi andare a ricordi”: dalla musica (Jimi Hendrix, la classica e il jazz), affrontata nelle varie declinazioni (concerto e ascolto, esecuzione e sua decodifica) all’antropologia, dall’eccezionalità dell’essere mancini all’Utopia, dallo sfruttamento capitalista della forza lavoro (amaro ed esilarante il capitolo IX in cui si ripercorrono i surreali ma concretissimi passi che portano ad un licenziamento) alla vita familiare (i rapporti filiali e matrimoniali), dalla malattia e dalla morte (e la sua presunta sconfitta, come si declama per le strade) alla religione (o meglio, alla religiosità), dalla filosofia politica alla meteorologia, dal cinema alla televisione, e così via. Brani di discorsi, abbozzi di racconti che, come si diceva, trovano concreto riscontro nella Storia, nel vuoto di valori dei nostri giorni – l’assenza per eccellenza – epitomizzato dalle insensatezze del fittizio universo dei social network. Insomma, una strategia stilistica che privilegia la frammentazione e la polifonia, messa in atto con una voce che, creando una sensazione di instabilità, disorienta, dando in pasto al lettore un testo polisemico per spingerlo ad una disperata ricerca di senso. E così di passo in passo, sino al termine liberatorio, con quel “Ma chi se ne frega” e il richiamo all’importanza della materialità dei corpi e del loro reciproco donarsi – un’allusione al finale dell’ultimo capolavoro kubrickiano, Eyes Wide Shut? –, ideale coronamento di un “viaggio” nelle follie del mondo in cui, malgrado tutto, continuiamo a vivere e a proliferare. L'articolo Marcello Galati / Il ritorno della “morte del narratore” proviene da Pulp Magazine.
Il disfacimento del mondo e il diritto di trattenere la bellezza
-------------------------------------------------------------------------------- Nella Striscia di Gaza c’è chi sa trasformare un tendone in un luogo di accoglienza e di apprendimento. Una foto del progetto “MAKANI” promosso da Vento di terra -------------------------------------------------------------------------------- «Nelle limpide giornate di ottobre, venendo da Radetzystrasse si può vedere (…) un gruppo di alberi nel sole. Il primo albero, che si erge davanti a quei ciliegi rosso cupo che non danno frutti, è così fiammeggiante di colori autunnali, è una macchia d’oro così smisurata da sembrare una fiaccola lasciata cadere da un angelo. E ora che arde, né il vento di autunni, né il gelo riusciranno a spegnerlo. Chi mai vorrà parlarmi di foglie che cadono e di morte bianca di fronte a quest’albero, chi impedirmi di conservare l’immagine negli occhi e di credere che per me continuerà a risplendere per sempre come quest’ora e che su di esso non grava la legge del mondo?» Il frammento tratto da Giovinezza in una città austriaca di Ingeborg Bachmann ci offre un esempio straordinario di come la letteratura possa trasfigurare l’esperienza quotidiana in visione poetica (il racconto è incluso nella raccolta Il trentesimo anno, edito da Adelphi). L’albero che incontra non è più semplicemente un albero: diventa “una fiaccola lasciata cadere da un angelo”, un simbolo di bellezza eterna che sfida le leggi del tempo e della morte. In quel momento, l’autrice non sta più guardando la natura con occhi ordinari, ma sta vedendo attraverso di essa qualcosa di più grande, una verità sulla possibilità della bellezza di resistere alla distruzione. L’immagine fonde il terreno con il celeste, il naturale con il soprannaturale, rivelando la capacità della scrittrice di vedere oltre la superficie delle cose. Il cuore del brano risiede nella tensione tra accettazione e ribellione. L’autrice non nega la realtà del disfacimento – riconosce l’esistenza delle “foglie che cadono” e della “morte bianca” – ma rivendica il diritto di trattenere la bellezza oltre il tempo. Quella domanda retorica finale (“chi impedirmi di conservare l’immagine negli occhi?”) è un atto di sfida poetica contro la “legge del mondo”, quella legge inesorabile che vuole che tutto passi e muoia. Dietro questa ricerca di bellezza e di eternità si nasconde però un’esperienza più profonda e dolorosa. Bachmann, cresciuta durante l’Anschluss e testimone della brutalità nazista, porta sempre con sé la ferita della guerra. Il suo sguardo è reso più sensibile dal dolore: sa riconoscere la bellezza proprio perché ha visto l’orrore, sa quanto sia fragile e preziosa. In questo senso, quella “legge del mondo” contro cui si ribella non è solo la naturale caducità delle cose, ma anche la legge della violenza, della distruzione sistematica di tutto ciò che è bello e innocente. La sua ricerca diventa quindi “tormentata”, non può essere ingenua contemplazione, ma deve sempre fare i conti con la consapevolezza del male. L’intensità con cui Bachmann si aggrappa all’immagine dell’albero fiammeggiante acquista una dimensione quasi disperata se letta in questa luce. È il tentativo di salvare almeno un frammento di mondo dall’oblio e dalla distruzione, di opporre alla logica della guerra una logica della preservazione attraverso la memoria e l’arte. La sua diventa così una poetica della sopravvivenza – non solo personale, ma di tutto ciò che merita di essere salvato dall’orrore della storia. In questo albero che “continuerà a risplendere per sempre” vive la speranza che la bellezza possa resistere alla brutalità, che la parola poetica possa fermare, almeno per un attimo, la corsa verso la distruzione. Dietro la bellezza di quell’albero dorato si nasconde tutta la complessità di un’esistenza segnata dalla storia, ma anche la forza di chi non rinuncia a cercare e a preservare ciò che di luminoso può ancora brillare nel buio del mondo. Forse è quello che dovremmo fare tutti noi. Continuare a guardare in mezzo all’orrore la bellezza che comunque persiste e si manifesta quando meno la cerchiamo, in modo improvviso in tutta la sua grandezza. Ma è il nostro sguardo che non deve smettere di vedere. La bellezza può durare dentro di noi per sempre, un “per sempre” fragile eppure vero. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI ANA CECILIA DINERSTEIN: > Come recuperare il terreno della speranza -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il disfacimento del mondo e il diritto di trattenere la bellezza proviene da Comune-info.