
Israele non è Netanyahu. Ricordare Yehoshua
Comune-info - Saturday, October 25, 2025Israele, così come qualsiasi paese, non è il suo governo. La società è sempre più complessa della politica istituzionale. Anche dentro la storia recente di Israele ci sono donne e uomini che, in tanti modi diversi, hanno percorso strade diverse, opponendosi al nazionalismo, alla logica della violenza, alla chiusura identitaria. Abraham Yehoshua, ad esempio, con i suoi romanzi e saggi è stato tra i primi a denunciare l’uso odioso dell’antisemitismo per giustificare l’oppressione di un altro popolo e a fare della scrittura un luogo nel quale la storia si fa interrogazione etica
Roma. Foto di Nilde GuiducciLa politica devastante e il carattere apertamente genocidario dell’attuale governo israeliano ci impediscono, spesso, di distinguere tra Israele e Netanyahu. Ma Israele non è — o non è solo — il suo governo. Dentro la sua storia recente ci sono stati uomini e donne che hanno percorso strade diverse, opponendosi al nazionalismo cieco, alla logica della forza, alla chiusura identitaria. Persone che hanno cercato, attraverso la parola e il pensiero, di costruire un’idea di convivenza possibile. Non dobbiamo dimenticarli. Non saranno la maggioranza, ma proprio per questo la loro voce va ricordata, fatta risuonare, restituita alla memoria collettiva come segno di un’altra possibilità.
Tra quelle voci c’è quella limpida, razionale e insieme appassionata di Abraham Yehoshua, che ha saputo interrogare l’identità israeliana e la relazione con il popolo palestinese senza mai rinunciare alla speranza di una coesistenza giusta, fondata su responsabilità reciproca e su un umanesimo concreto.
Antisemitismo e sionismo. Rileggere Yehoshua in tempi di guerra
Vent’anni fa, in un’Europa ancora segnata dal trauma della Shoah ma non ancora travolta dalle guerre di oggi, Yehoshua pronunciava una conferenza destinata a restare attuale: Antisemitismo e sionismo. In poche pagine, lo scrittore israeliano formulava una tesi tanto scomoda quanto necessaria: l’identità ebraica contemporanea rischia di restare prigioniera del proprio passato di vittima, e il sionismo, nato per liberarla, si è trasformato in un sistema che perpetua quella dipendenza.
Oggi, mentre Gaza brucia e la parola “antisemitismo” torna a essere brandita come un’arma, rileggere Yehoshua non è un esercizio di memoria: è un atto politico e morale.
Il sogno etico del sionismo e la sua corruzione politica
Il sionismo nacque come progetto di emancipazione. Voleva restituire agli ebrei una normalità storica e politica: un territorio, un lavoro produttivo, una lingua, una cittadinanza. Non una superiorità, ma una uguaglianza rispetto agli altri popoli. Yehoshua, e con lui la generazione dei sionisti laici, vedeva in questo un gesto di liberazione: uscire dal destino dell’ebreo errante, senza patria e senza potere. Ma la storia ha preso un’altra direzione. Israele è diventata una nazione potente, tecnologicamente avanzata, armata, eppure sempre più chiusa in una logica di eccezionalità. La legge sullo “Stato-nazione del popolo ebraico” del 2018 — che riconosce il diritto all’autodeterminazione solo agli ebrei — ha sancito una deriva teocratica e discriminatoria.
Il sionismo, nato per normalizzare, si è fatto ideologia di separazione. Per Yehoshua, questo era il segno di un fallimento morale: la libertà conquistata si è trasformata in dominio, e la promessa di un popolo che cercava casa è diventata l’esclusione di un altro popolo dalla propria.
Uso e abuso dell’antisemitismo
Yehoshua sapeva che l’antisemitismo è un male reale, antico, mai davvero sconfitto. Ma denunciava anche il suo uso politico: la tendenza, sempre più diffusa, a equiparare la critica a Israele con l’odio contro gli ebrei. Oggi questa confusione è sistematica. Ogni denuncia delle violenze a Gaza viene accusata di antisemitismo; ogni richiesta di giustizia per i palestinesi è vista come negazione della Shoah.
Così la parola “antisemitismo” perde la sua forza morale e diventa una corazza ideologica. In nome della protezione dell’ebreo, si giustifica l’oppressione di un altro popolo. In nome della memoria della vittima, si smarrisce la responsabilità del presente.
Yehoshua invitava a un rovesciamento: ricordare la Shoah non per chiudersi, ma per aprirsi alla sofferenza altrui. La memoria deve rendere più umani, non più ciechi. È un pensiero che oggi suona quasi eretico, ma è forse l’unico modo per salvare la dignità della memoria ebraica.
Un pensiero radicato nella narrazione
Nei suoi romanzi — da Il signor Mani a Viaggio alla fine del millennio, da La sposa liberata a Fuoco amico (in Italia editi da Einaudi) — Yehoshua ha esplorato la complessità dell’identità ebraica e israeliana con la stessa lucidità che troviamo nei suoi saggi. Ogni storia diventa per lui una metafora della scissione tra appartenenza e libertà, tra memoria e presente.
In Il signor Mani, la voce plurale delle generazioni rivela un’identità in continuo esilio da se stessa; in Fuoco amico, l’angoscia della guerra e la perdita della misura morale diventano un dramma familiare e collettivo. La narrativa, in Yehoshua, non è evasione: è il luogo in cui la storia si fa interrogazione etica.
Leggere oggi quelle pagine significa assistere, con dolore, a ciò che lui aveva intuito: che Israele rischiava di perdere non solo la sua innocenza, ma la sua anima.
Sotto le maceria di Gaza
Rileggere Antisemitismo e sionismo (Einaudi) oggi non è un gesto di fiducia, ma di lutto. L’Israele che Yehoshua aveva immaginato — laico, giusto, capace di riconoscere l’altro — sembra dissolto sotto le macerie di Gaza e della propria coscienza morale. La violenza ha divorato il linguaggio, e la memoria della Shoah, anziché educare alla compassione, viene usata per giustificare l’ingiustificabile.
Yehoshua avrebbe guardato a tutto questo con dolore, come chi vede crollare la casa che ha amato e costruito. Non avrebbe rinnegato Israele, ma gli avrebbe chiesto conto della sua perdita di umanità. Forse la morte lo ha risparmiato da questa devastazione — non solo delle città, ma delle coscienze.
Resta però la sua domanda, più spoglia e urgente che mai: che ne è del popolo che voleva essere libero, se la sua libertà dipende dalla distruzione di un altro?
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