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L’astuzia del delfino tra gli squali
Articolo di Eileen Jones La morte di Robert Redford ha scatenato un’ondata di elogi insoliti anche per quelli che di solito accompagnano la scomparsa delle celebrità. Data la straordinaria longevità della sua fama nel corso di molti decenni e la natura poliedrica dei suoi interessi, c’è un Robert Redford diverso per ognuno di essi. Si può considerare il suo vasto contributo al cinema indipendente con il Sundance Film Festival da lui fondato, così come il suo impegno nello sviluppo di talenti cinematografici emergenti con il Sundance Institute. Si può apprezzare la sua ampia filmografia. Era un produttore attento e, da regista affermato, ha esordito con Gente comune (1980), che ha vinto l’Oscar come miglior film e gli è valso subito anche un Oscar come miglior regista. Puoi scegliere una fase preferita della sua leggendaria carriera di attore. Giovane e irresistibile (The Chase, A piedi nudi nel parco, The Hot Rock, La stangata)? Thriller politico (I tre giorni del Condor, Tutti gli uomini del presidente)? Romantico (Come eravamo, La mia Africa, Qualcosa di personale)? Neo-western (Butch Cassidy, Jeremiah Johnson, Tell Them Willie Boy Is Here, Il cavaliere elettrico, L’uomo che sussurrava ai cavalli)? Sports drama (Downhill Racer, Il migliore)? Maturo ma ancora sexy, che ruba la scena alle star maschili più giovani (Proposta indecente, Spy Game)? Venerabile saggio del cinema (A spasso nel bosco, Il vecchio e la pistola)? Potete dare un’occhiata al giovanissimo Redford anche nei primi anni Sessanta, quando recitava in televisione. E se volete apprezzare la sua calda voce tipicamente statunitense, sappiate che ha anche fatto da voce narrante di moltissimi film, soprattutto documentari sull’ambiente. Politicamente, ha coperto molti spazi. La sinistra può apprezzarlo per il suo impegno serio e a lungo termine per l’ambiente e i diritti dei nativi americani, nonché per i suoi film politici intelligenti della fine degli anni Sessanta e Settanta. I progressisti centristi possono apprezzarlo per il suo impegno di lunga data nel Partito democratico e per il suo impegno nel sistema esistente. E i conservatori di destra possono abbracciare il suo amore romanticizzato per il West americano, che ha ispirato il ruolo di Redford, un rude montanaro, in Jeremiah Johnson (1972) e il suo omaggio al Vecchio West, il suo libro del 1978, The Outlaw Trail: A Journey Through Time. E tutti possono apprezzare la sua bellezza, in termini di aspetto e di longevità. Tra questi, anche Donald Trump, che ha reso omaggio a Redford con una dichiarazione delle sue: «C’è stato un periodo in cui era il più sexy. Pensavo che fosse fantastico». La devozione di Redford al golden boy era così estrema che dovette trovare modi intelligenti per gestirla, per evitare che diventasse limitante e, francamente, un po’ nauseante. All’inizio, non aveva alcuna intenzione di diventare un ragazzo glamour di Hollywood in un modo che limitasse la sua carriera. Ecco perché rifiutò due dei ruoli più importanti degli anni Sessanta, entrambi pensati per «ragazzi d’oro»: Nick in Chi ha paura di Virginia Woolf? (1966), interpretato poi da George Segal, e Benjamin Braddock ne Il laureato (1967), il ruolo che rese Dustin Hoffman una star del cinema improbabile. Entrambi i film sono stati diretti da Mike Nichols, che aveva contribuito a rendere Robert Redford una star del teatro guidandolo nella commedia di successo A piedi nudi nel parco, scritta da Neil Simon. Nella biografia di Mark Harris, Mike Nichols: A Life (2021), Nichols descrive l’intelligenza laboriosa e scrupolosa che Redford ha messo a frutto in quel ruolo, il modo in cui ha trovato il nucleo comico del suo personaggio di avvocato teso e appena sposato: mille tic dettagliati, smorfie, serrate le mascelle, sguardi cupi e battute morse a denti stretti. Potete vedere Redford ricrearlo nella versione cinematografica del 1967 con Jane Fonda. È ancora molto divertente. E tenete presente che Redford aveva solo trent’anni quando rifiutò Chi ha paura di Virginia Woolf?, che lo avrebbe visto al fianco di star di Hollywood come Elizabeth Taylor e Richard Burton. Quell’audace atto di calcolo professionale fu un’eccellente indicazione della sua assoluta fiducia nel fatto che stava facendo progressi costanti e inevitabili verso la celebrità cinematografica. Fin dall’inizio, fu astuto. Direi che l’astuzia era la sua caratteristica principale come star, ma era così splendente nella sua bellezza che potreste non notarlo. Quei lievi movimenti oculari fulminei, quel sorriso disonesto, il duro lampo di intelligenza che traspariva. È strano ammirare l’astuzia in una star? È una qualità che trovo così rara nella società americana contemporanea. Il modo in cui ha costruito e sostenuto la sua carriera per avere il potere di passare dal mainstream all’estremo e viceversa è un modello di come affrontare un sistema spietato come l’industria dell’intrattenimento e vincere. Il suo uso selettivo del suo bell’aspetto e del suo carisma sullo schermo per mantenere la sua carriera fiorente in termini commerciali era bilanciato dalla complicazione e sovversione di quelle caratteristiche in film più cupi, strani e impegnativi. Prima di realizzare la versione cinematografica di successo di A piedi nudi nel parco, ad esempio, ha interpretato un attore hollywoodiano bisessuale enigmatico e tormentato che conduceva una doppia vita in A proposito di Daisy Clover (1965). E dopo aver consolidato la sua fama cinematografica con il doppio colpo di A piedi nudi nel parco e il colossale successo Butch Cassidy (entrambi del 1967), ha diretto il neo-western di grande impatto Tell Them Willie Boy Is Here (1969). È basato sulla storia vera di un giovane Paiute, interpretato da Robert Blake, in fuga dalla legge nel deserto della California meridionale del 1909 dopo aver ucciso il padre violento della sua ragazza (Katherine Ross) per legittima difesa. Redford interpreta il vicesceriffo a capo della squadra – presumibilmente l’ultima squadra di vecchia scuola western di cui si abbia notizia – che sta dando la caccia a Willie. Arriva ad ammirare l’uomo che sa essere destinato alla distruzione. Il film è stato scritto e diretto dal famoso regista Abraham Polonsky, inserito nella lista nera, che non dirigeva un film dai tempi dello straziante noir Le forze del male del 1948. Per me, il periodo meno attraente della carriera di Redford sono gli anni Ottanta, quando consolida la sua fama mainstream con tre film costruiti attorno alle sue attrattive da rubacuori: Il Migliore (1984), La mia Africa (1985) e Un amore senza fine (1986). Ha quasi cinquant’anni quando gira questi film e, ancora una volta, è stato intelligente da parte sua tentare un’ultima volta di interpretare un ruolo da protagonista romantico, mentre appariva ancora sensazionale. Il Migliore lo rappresenta come un dio che vive tra i comuni mortali, emanando un’aura dorata e nebulosa per gentile concessione del reparto luci, il tipo di tecnica cinematografica disgustosa che era molto popolare in quel decennio orribile. Ma quell’ultimo sforzo ha senza dubbio mantenuto attuale la fama di Redford e ha finanziato i suoi numerosi altri impegni per molti anni a venire. E ha realizzato quei film dopo il suo grande decennio degli anni Settanta, quando le sue posizioni politiche di sinistra potevano trovare la loro espressione più incisiva. Il Candidato (1972) di Michael Ritchie, ad esempio, è ancora oggi un’interpretazione straordinariamente mordace del processo politico, con Redford nel ruolo principale, un ambientalista appassionato che viene arruolato come il nuovo candidato democratico per la corsa al Senato della California. L’influenza costantemente corruttrice della politica è esaminata con acre dettaglio. E come spesso faceva, Redford fa un uso intelligente della sua sorprendente bellezza fisica in modi complessi. Contribuisce a rappresentare il suo ardente idealismo all’inizio del processo, e rende i modi insidiosi del suo ego gonfio e delle manovre sempre più ciniche che rovinano l’impressione di bellezza al tempo stesso cupamente comici e scoraggianti. La pronuncia perfettamente piatta dell’ultima battuta del film da parte di Redford, dopo che il suo personaggio gravemente sminuito vince le elezioni, lo rende indimenticabile: «Cosa facciamo adesso?». Redford chiude il decennio con Brubaker (1980), diretto da Stuart Rosenberg (Luke mano fredda). È un dramma carcerario poco visto in cui interpreta un nuovo direttore determinato a riformare radicalmente il sistema carcerario in una struttura del Sud degli Stati uniti. I fallimentari tentativi di affrontare la violenza e la corruzione endemiche del sistema penale si concludono con la nomina di un nuovo direttore, un brutale disciplinatore che probabilmente peggiorerà ulteriormente la situazione dei detenuti. Brubaker sembra rappresentare un cupo addio all’era della New Hollywood, caratterizzata da una breve lotta politica liberatoria, mentre iniziava la reazione reaganiana. L’astuta determinazione di Redford a sopravvivere e prosperare come star del cinema nel corso dei decenni gli ha permesso di fare, con ferrea concretezza, un calcolo azzardato per quanto riguarda il suo impegno politico e come esprimerlo nel cinema. Come eravamo è un ottimo esempio di un film politicamente sviscerato durante la sua realizzazione, al punto che è quasi impossibile capire cosa stia succedendo nelle sequenze successive che riguardano la rottura cruciale di un matrimonio tra un’attivista politica ebrea di nome Katie Morosky, interpretata da Barbra Streisand, e suo marito, lo scrittore Wasp Hubbell Gardiner, interpretato da Redford. Questo perché quelle scene chiariscono che Hubbell è essenzialmente un traditore preoccupato di salvare la propria carriera di sceneggiatore a Hollywood durante la lista nera, e le idee socialiste della moglie minacciano di trascinarlo verso il basso, così lei sacrifica il suo grande amore per lui e divorzia. Nella recente autobiografia di Streisand, My Name is Barbra, l’autrice entra nei dettagli delle pressioni esercitate dai Columbia Studios sul regista Sydney Pollack affinché tagliasse scene cruciali in modi che avrebbero oscurato il nocciolo della trama. È probabile che questi tagli abbiano reso il film un successo ancora maggiore, perché le caratteristiche da soap opera della storia d’amore emergono senza essere ostacolate da una distraente e spietata politica americana. E sebbene Streisand, Pollack e Redford fossero tutti egualmente insoddisfatti del film finale, sembra che Redford non abbia mai lottato molto per preservare il nucleo politico del film. Dopotutto, è comunque un ruolo da ragazzo d’oro fantastico per Redford. Ancora una volta complica e sovverte il suo tratto più essenziale e allo stesso tempo distraente come star del cinema. La bellezza di Hubbell è venerata da Katie, ma lui si rende conto fin da subito che bellezza e privilegi gli rendono «tutto troppo facile», in modi che rappresentano un pericolo per se stesso come scrittore e come essere umano. Mentre viene sempre più svuotato dal successo rapido e da un carrierismo astuto, si rivela sempre più simile a un manichino, finendo per avere una bionda alla Barbie come sostituto di Katie. Insieme sembrano attori in una pubblicità patinata. Questa settimana, un titolo del Guardian lo ha definito «un delfino tra gli squali», rafforzando l’idea che fosse un essere troppo raffinato per vivere tra i rozzi carnivori di Hollywood. Questo ha senso solo se si considera che i delfini sono anche animali formidabili che possono uccidere gli squali se si uniscono, non certo i simboli di pace della New Age. L’intelligenza è la loro caratteristica principale, e l’astuzia di Redford – anche se si è rivelata un’astuzia da traditore quando necessario per ottenere guadagni a lungo termine – era un tratto distintivo con cui bisognava fare i conti. *Eileen Jones è critica cinematografica per Jacobin, conduce il podcast Filmsuck e ha scritto Filmsuck, Usa. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione. L'articolo L’astuzia del delfino tra gli squali proviene da Jacobin Italia.
Come scioperare il 22 settembre? Le FAQ verso la mobilitazione
Dopo la partenza della Global Sumud Flotilla e le grandi mobilitazioni che ne sono seguite, diversi Sindacati di base hanno indetto uno sciopero generale in solidarietà con la Palestina, per la fine del genocidio e in supporto alla Global Sumud Flottila per lunedì 22 settembre. In un secondo momento, la CGIL ha convocato un mobilitazione per la giornata del 19 settembre con alcune ore di sciopero solo per alcuni settori industriali e non per la maggior parte dei settori e categorie economiche. E questo sta creando molta confusione nei luoghi di lavoro. > Procediamo con ordine, e cerchiamo di risolvere alcuni dubbi, rispetto allo > sciopero generale del 22 settembre. Prima di tutto, lo sciopero è un diritto costituzionale, garantito dall’art. 40 della nostra Costituzione, “Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”, e le leggi che lo regolano hanno cercato in molti modi di limitare questo diritto, così come l’attacco padronale e visioni molto corporative della pratica sindacale. Molte, però, sono state le pratiche per rivendicare un pieno diritto di sciopero, a partire dallo sciopero femminista e transfemminista dell’8 marzo che negli ultimi dieci anni ha posto il tema di cosa significa scioperare in un economia che si regge sul lavoro precario, in nero, grigio, sottopagato, e sempre più frammentato, e dove ancora il lavoro di cura è riproduttivo non viene considerato come un lavoro. Proviamo a rispondere, quindi, ad alcune domande sullo sciopero. Non sono iscritta/o a nessun sindacato, posso scioperare? Il diritto di sciopero in Italia è libero, non bisogna essere iscritte/i a un sindacato per poter scioperare. Serve l’indizione della giornata di sciopero da parte di un sindacato, cosa che esiste per la giornata del 22 settembre, per tutti i settori pubblici e privati. L’indizione dello sciopero arriva alle aziende direttamente dalla Commisione Garanzia per lo Sciopero. Spesso il datore di lavoro non conosce le regole per l’indizione degli scioperi, non è preparato, e minaccia sanzioni, ma non ti devi preoccupare. Se non ha ricevuto la comunicazione di indizione puoi fargliela inviare, chiedi le informazioni specifiche al/la delegato/a sindacale, o scrivi direttamente ai sindacati di base che hanno indetto lo sciopero per maggiori informazioni sul tuo specifico settore. Ma ricorda che è un tuo diritto scioperare in qualunque luogo di lavoro. Il 22 settembre è sciopero generale, quindi possono scioperare tutti i settori? Lo sciopero è stato indetto per tutti i settori pubblici e privati. Ed è valido praticamente in tutti settori. Nel nostro Paese alcuni settori pubblici sono considerati essenziali (come la sanità, i trasporti) e sono sottoposti a una legislazione specifica (legge 146/1990), questi settori devono rispettare fasce orarie di garanzie e tempi più lunghi per l’indizione. Lo sciopero del 22 è stato indetto garantendo il preavviso previsto dalla legge, e la Commissione di Garanzia ha escluso soltanto alcune categorie e settori, come il trasporto aereo, che comunque sciopera il 26 settembre, oltre ad alcune realtà territoriali.  Se fai parte di un settore essenziale devi seguire le regole del tuo settore, ma è importante che lo sciopero sia valido e indetto. Chiedi le informazioni specifiche al/la delegato/a sindacale, o scrivi direttamente ai sindacati di base che hanno indetto lo sciopero per maggiori informazioni sul tuo specifico settore. Ma ricorda che è un tuo diritto scioperare in qualunque luogo di lavoro. Nel mio posto di lavoro, il delegato sindacale ha detto che non sono rispettati i termini per l’indizione dello sciopero per il 22 settembre, è vero? Lo sciopero del 22 settembre è valido in tutti settori, a parte nel settore dei trasporti aerei, e con alcune specifiche territoriali (qui puoi trovare tutti i dettagli). Per tutti i settori pubblici e privati lo sciopero è valido. In che modo dichiaro al mio datore di lavoro la mia decisione di scioperare? Devo darne notizia scritta? Non sei obbligato/a a comunicare la tua decisione di scioperare al datore di lavoro, né in forma scritta, perché l’astensione dal lavoro è un tuo diritto e non richiede giustificazioni, quindi puoi scegliere se farlo o meno. Puoi essere invitata/o a manifestare la tua intenzione, ma non puoi essere obbligato/o a rispondere, quindi l’adesione allo sciopero anche all’ultimo momento e senza preavviso è legittima. Nella mia scuola non è ancora stata pubblicata la circolare per lo sciopero del 22 settembre, posso scioperare? Le circolari nelle scuole pubbliche, come nelle amministrazioni pubbliche, stanno uscendo in questi giorni. Se non fossero ancora circolate si può sollecitare la segreteria amministrativa perché sia data debita informazione all’utenza e alle famiglie. La presidenza non può obbligare il personale scolastico a dare comunicazione obbligatoria della propria intenzione di scioperare o meno. L’immagine di copertina è di Gabriele Campanale Domande e risposte sono state elaborate e riviste insieme al sindacato di base Clap – Camere del lavoro autonomo e precario SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Come scioperare il 22 settembre? Le FAQ verso la mobilitazione proviene da DINAMOpress.
La geografia sa da che parte stare?
Articolo di Gaia Florese Gambase Di solito si pensa che lo studio della geografia sia limitato a memorizzare le capitali internazionali e a identificare le coltivazioni di barbabietole da zucchero. Nonostante, sin dai banchi di scuola, la disciplina venga presentata perlopiù in questo modo, a livello scientifico la geografia si occupa in realtà di temi diversi e complessi, come le relazioni fra i fenomeni sociali e i territori, l’educazione ambientale, le catene globali del valore, le disuguaglianze socio-spaziali, le riconfigurazioni urbane e rurali nei processi globali, o il ruolo delle dinamiche economiche e geopolitiche. Tuttavia, come disciplina moderna, la geografia è stata soprattutto uno strumento coloniale e militare per l’Occidente, sia attraverso la ragione cartografica, sia attraverso la costruzione di una visione egemonica del mondo, per il controllo e il dominio dei territori. Se da una parte esiste un’ampia produzione scientifica di geografie critiche e decoloniali, dall’altra, la relazione tra geografia, potere e disegno del mondo continua a godere di ottima salute – un esempio, tra altri, gli accordi fra il Politecnico di Torino e l’agenzia europea Frontex per la produzione di materiale cartografico utile per monitorare le rotte migratorie. Questi approcci differenti alla disciplina sono entrati in conflitto tra loro durante il XXXIV Congresso Geografico Italiano, svoltosi a Torino tra il 3 e il 5 settembre. Se di solito questi eventi hanno carattere perlopiù istituzionale, questa edizione del Congresso è stata caratterizzata da una mobilitazione contro le scelte del comitato scientifico e organizzativo, che ha deciso di aprire il Congresso lasciando parola, tra altri, a Michael Storper, geografo esperto di disuguaglianze socio-spaziali che negli ultimi anni ha fatto parlare di sé per le sue posizioni in merito al genocidio a Gaza e alla solidarietà verso la Palestina.  L’ASSEMBLEA «NO COMPLICITY IN GENOCIDE»  È il 2024, il campus dell’Ucla (University of California – Los Angeles), viene occupato dalle acampadas animate dalle mobilitazioni studentesche in solidarietà alla Palestina. Un gruppo di oltre 300 persone del corpo docente afferenti all’Università statunitense, incluso Storper, firma una lettera che esprime una ferma condanna delle occupazioni studentesche, definendole terroristiche e «pro-Hamas». La stessa lettera contiene attacchi espliciti anche alla componente del corpo docente solidale con il movimento studentesco, e una netta critica al movimento Bds (Boycott, Disinvestment, and Sanctions), presentato come intrinsecamente violento, antisemita e lesivo della libertà di parola e di pensiero. Lo stesso docente risultava già firmatario di un appello del 2023 in cui si chiedeva all’Ateneo di prendere misure contro le prime iniziative in supporto alla Palestina, con argomentazioni simili a quelle appena elencate.  Agosto 2025. A poche settimane dal XXXIV Congresso Geografico Italiano, un gruppo di geografi e geografe – perlopiù persone precarie – venute a Torino per l’evento, vengono a conoscenza di queste informazioni. Il gruppo si riunisce sotto il nome di Assemblea Geografa per chiedere chiarimenti al comitato organizzatore del Congresso, sottolineando che affidare l’apertura dell’evento al professor Storper, durante il perpetuamento di un genocidio, rischia di trasmettere un messaggio politicamente e moralmente problematico. Lo stesso gruppo nota che, fra le Università di provenienza dei relatori e relatrici delle presentazioni, figura anche un’affiliazione alla Hebrew University of Jerusalem, nota per la sua complicità con il complesso militare-industriale israeliano. Come ampiamente documentato da numerose organizzazioni, l’Università ha infatti una storia profondamente intrecciata con l’occupazione militare israeliana. Il suo campus principale, sul Monte Scopus, si trova a Gerusalemme Est – territorio palestinese occupato illegalmente anche secondo il diritto internazionale – e parte del campus è stato ampliato dopo il 1967 su terre espropriate a famiglie palestinesi. Per questi motivi è stata indicata dalla Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel (Pacbi) come una delle istituzioni attivamente complici del sistema di occupazione, colonizzazione e apartheid. A questa richiesta di chiarimenti, il Comitato organizzatore risponde confermando l’invito al professor Storper e raddoppiando la sua presenza, con l’aggiunta della tavola rotonda Political activism and academic freedom in times of crisis, a cui invita una persona – preferibilmente precaria – in rappresentanza dell’Assemblea Geografa. Il processo collettivo, forte dell’adesione all’appello di oltre 100 persone partecipanti al Congresso, rifiuta la proposta di prendere parte alla tavola rotonda, ritenuta non orizzontale, squilibrata dal punto di vista delle relazioni di potere e fuori fuoco rispetto ai temi politici sollevati dal programma dell’evento. Ecco perché, in alternativa, si decide di disertare l’apertura del Congresso e la plenaria con la presenza di Storper convocando l’assemblea «No complicity in genocide».  L’intento di questa assemblea, introdotta da un intervento sui rapporti profondi e sempre più chiari tra Università e militarizzazione e da contributi di rappresentanti della campagna Bds, è stilare una mozione, in linea con altre associazioni scientifiche, affinché l’A.Ge.I (Associazione dei Geografi Italiani) applichi le linee guida del boicottaggio accademico e si dissoci da ogni complicità con il genocidio. Nel corso dell’assemblea, partecipata da oltre 150 persone, alcune di queste decidono di andare ad ascoltare la plenaria in cui era presente Storper e riportano, indignate, alcuni contenuti. In quell’aula, interrotto da qualche fischio, Storper rilascia dichiarazioni gravi. Come testimoniano alcune registrazioni, l’accademico ribadisce la sua adesione al contenuto delle lettere sopracitate; critica l’ossessione da parte dell’Occidente per i crimini di Israele, menzionando un doppio standard; tenta di delegittimare la solidarietà alla causa palestinese con argomentazioni deliranti riguardo al trattamento riservato da parte di Hamas alle persone queer. Queste dichiarazioni scatenano l’indignazione dell’Assemblea Geografa che, in modo spontaneo, chiama un’azione di contestazione nelle fasi conclusive del suo intervento. Alcune persone con striscioni irrompono nell’aula: al grido di «Palestina Libera» e «Fuori i sionisti dall’Università» si pone fine a un momento vergognoso. GEOGRAFIE CRITICHE E BOICOTTAGGIO ACCADEMICO Ma perché l’Associazione dei Geografi Italiani e il comitato scientifico del Congresso più importante della disciplina in Italia non sono riusciti a prendere una chiara e netta posizione rispetto al genocidio? Perché è servito un gruppo di persone, in maggioranza vulnerabili dal punto di vista lavorativo, per avanzare la richiesta minima di riconoscere come un genocidio ciò che avviene in Palestina per mano di Israele? Gli strumenti epistemologici non mancano. Tra questi, le numerosissime pubblicazioni e prese di posizioni scientifiche in merito, come quella dell’International Association of Genocide Scholars (Iags) che, con una risoluzione di agosto 2025, ha dichiarato che le politiche israeliane e le azioni a Gaza ricadono nella definizione legale di genocidio. Considerati i molteplici posizionamenti in merito, continuare a sostenere che la parola genocidio sia divisiva e possa generare opinioni contrastanti è grave e rimanda, in realtà, a nodi politici e di accumulo di potere all’interno dell’accademia contemporanea che si estendono ben oltre questo evento scientifico. In questo modo, la complicità accademica al genocidio non si esplica soltanto con il sostegno materiale, ma anche nella validazione epistemica di posizioni e figure come quella di Storper, cui si è deciso di affidare l’apertura di un congresso scientifico. Nel panorama dell’accademia contemporanea, infatti, si nota una profonda reticenza a sostituire – o trasformare – i termini del potere scientifico con quelli del posizionamento politico. Se da una parte abbiamo assistito all’emergere di «saperi critici» e al loro affermarsi dentro i quadri di finanziamento del ministero nazionale e comunitario, dall’altra questa dimensione critica rimane estremamente vuota di contenuti quando si tratta di prendere un posizionamento politico, o di trasformare le modalità e i luoghi stessi attraverso i quali si costruisce conoscenza. Quindi, nonostante l’impianto accademico di stampo conservatore, positivista e neutrale sia stato superato a livello scientifico, l’impianto istituzionale che supporta la ricerca piega questi concetti a logiche di mercato, in linea con la crescente aziendalizzazione dell’Università neoliberale che delegittima i saperi critici, soprattutto fra le scienze sociali, seguendo l’agenda militare e industriale che co-finanzia tali progetti in linea con le agende internazionali sul riarmo.  Ecco perché non è un caso che la maggior parte delle mobilitazioni sul boicottaggio accademico emerga da chi rifiuta un modello di università antico e «critico» soltanto quando questo non significa perdere privilegi, sodalizi e finanziamenti. Il genocidio diventa allora un’opinione di cui dibattere attorno a una tavola rotonda, e chi porta avanti forme di boicottaggio e prese di posizioni radicali un promotore della censura della «libertà accademica».  Invece, in questo momento storico, il boicottaggio è uno degli  strumenti più potenti che, come accademiche, possiamo utilizzare per fare emergere i nodi di accumulo della militarizzazione progressiva della società, e per contestare la complicità del sapere accademico nel legittimare morte, guerra e colonialismi contemporanei.  Ciò che è avvenuto a Torino è uno spartiacque importante, di certo all’interno della disciplina geografica. Ha fatto emergere le gerarchie di potere, gli strumenti collettivi possibili per prendere posizione, ma anche il tipo di saperi e di Università che vogliamo costruire, vivere e attraversare in questo momento storico. Di certo, l’Assemblea Geografa non è sola in questo processo. Mentre la Global Sumud Flottilla sta percorrendo lo spazio marittimo costruendo contro-geografie di solidarietà e attraversamento, il 13 settembre si è tenuta a Roma l’assemblea «La conoscenza non marcia» per contrastare la militarizzazione di Università e scuole, a cui hanno aderito moltissime associazioni e collettività scientifiche che non vogliono rendersi complici del genocidio in corso.  Il duo di geografe Gibson-Graham si chiedeva: «In che modo il nostro lavoro può aprire nuove possibilità? Che tipo di mondo vogliamo contribuire a costruire? Quali possono essere gli effetti di un avanzare teorizzazione piuttosto che un’altra?» Di che tipo di Università vogliamo essere parte? Nel contesto del Congresso Geografico Italiano, chi ha preso parte alla mobilitazione ha deciso da che parte stare: quella del sapere critico e libero, ma soprattutto posizionato contro il genocidio. *Gaia Florese Gambase è l’anagramma di Assemblea Geografa, una firma collettiva scelta da chi scrive, da una parte per incorporare le forme di distribuzione collettiva di co-autorialità, dall’altra per scorporare forme di individualizzazione nel contesto accademico, e dai testi, e dai processi. L'articolo La geografia sa da che parte stare?  proviene da Jacobin Italia.
Crisi climatica, bisogna agire: la terra è sempre più calda
Bisogna agire, e in fretta. È quello che un appello, firmato da decine di ricercatori e ricercatrici di rilevanza nazionale, chiede al governo e al Ministero dell’Ambiente e della Transizione Energetica. L’appello riguarda l’obiettivo suggerito dal European Scientific Advisory Board on Climate Change (Comitato Scientifico Europeo sul Cambiamento Climatico, ESABCC) di ridurre le emissioni di gas climalteranti del 90%-95% entro il 2040 (calcolate rispetto al 1990).   «La preoccupante realtà del surriscaldamento globale non può più essere negata. Per questo è necessario che tutti facciano la loro parte per ridurre le emissioni climalteranti, in particolare quei Paesi come l’Italia e l’Europa che hanno una chiarissima responsabilità storica», recita una parte dell’appello. Tra le firme si trovano un gran numero di studiose e studiosi­ che si occupano di ricerche collegate al riscaldamento globale, tra cui Giorgio Parisi, Nobel in fisica, il climatologo del CNR Antonello Pasini, le climatologhe Elisa Palazzi (Università di Torino), Susanna Corti (Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del CNR), e molte altre figure rilevanti nell’ambito. > Quest’appello giunge in un momento in cui l’azione per contrastare il > riscaldamento climatico è più importante che mai: il 2024 è stato l’anno più > caldo registrato nella storia, durante il quale la World Meteorological > Organization (WMO) ha rilevato una temperatura media globale 1,55°C sopra i > livelli pre-industriali. Ciò accade mentre si è registrato il record di emissioni di CO2 da combustibili fossili, come riportato di nuovo dalla WMO stessa. La strada per evitare le conseguenze più catastrofiche della crisi climatica è stretta ma è ancora percorribile, come descritto nell’ultimo report dell’International Panel on Climate Change (IPCC) e passa necessariamente per l’abbattimento delle emissioni di gas serra, al fine di raggiungere il livello net zero. Il tempo con cui si raggiunge questo obiettivo è cruciale: i gas climalteranti permangono in atmosfera, dunque più rapida è la transizione e minori saranno le conseguenze delle emissioni sul clima del pianeta. L’appello al governo riguarda esattamente il punto della rapidità dell’azione contro la crisi climatica. Tra gli stati europei, l’Italia è tra paesi che più è (e sarà) colpito dalle conseguenze del riscaldamento globale: il record della temperatura più alta mai registrata in Europa è stato raggiunto nel 2021 in Sicilia con 48.8­°C.  Oltre a ciò, nel 2025 sono stati osservati 110 eventi climatici estremi in Italia, solamente nei primi 5 mesi dell’anno. Tra questi ricordiamo l’alluvione in Piemonte ad aprile, con picchi registrati di oltre 400 mm di pioggia nel giro di 24 ore, un evento climatico estremo che ha causato lo sfollamento di oltre 200 persone e la morte di una. Ricordiamo anche l’alluvione in Emilia Romagna nel 2023, che ha causato 17 vittime e decine di migliaia di persone sfollate. > Quest’estate ha visto il manifestarsi di notevoli ondate di calore in Europa: > uno studio pubblicato su “Nature”, che considera 12 città europee, mostra che > 1500 delle 2300 morti a causa di temperature elevate avvenute in un arco di 10 > giorni a giugno, il 65%, siano direttamente collegate all’incremento di > temperatura causato dalle emissioni legate ai combustibili fossili Le conseguenze del riscaldamento globale saranno sempre più rilevanti con il passare del tempo se i provvedimenti per la transizione ecologica tardano ad arrivare. A giugno di quest’anno, l’Ufficio Parlamentare di Bilancio ha stimato che, nello scenario di politiche climatiche invariate, l’Italia nel 2050 si troverebbe a spendere annualmente il 5% del PIL per fronteggiare le conseguenze di fenomeni meteorologici estremi, valore da confrontare con lo 0.9% nel caso in cui l’obiettivo di neutralità carbonica entro il 2050 venga raggiunto. Nonostante questo, la presidente Meloni risulta essere una delle voci più critiche in Europa nei confronti del Green Deal: ad esempio in aprile, a seguito della minaccia dei dazi statunitensi, la premier ha suggerito di rivedere «le normative ideologiche del Green Deal e l’eccesso di regolamentazione in ogni settore» in quanto «costituiscono dei veri e propri dazi interni che finirebbero per sommarsi in modo insensato a quelli esterni». Affermazione a cui ha fatto eco anche il Ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso a un question time alla Camera. L’antagonismo del governo verso le istanze della transizione ecologica trova sponda in Europa, dove il PPE (Partito Popolare Europeo), che durante la scorsa legislatura ha appoggiato l’introduzione del Green Deal, guarda sempre più spesso a destra verso i Conservatori e Riformisti (ECR), collaborando a provvedimenti che complicano il percorso di transizione, ad esempio votando per l’istituzione di una commissione con il fine di rivedere il budget assegnato alle ONG che si occupano di temi legati all’ecologia e affossando una proposta di direttiva contro le pratiche di greenwashing. Tutto questo accade mentre l’attenzione dei media sul tema della crisi climatica non sembra essere commisurata con la gravità della situazione. Ne abbiamo già parlato in un articolo di Riccardo Carraro. Al contrario, si vede una diminuzione della copertura mediatica: nel 2024 c’è stato un dimezzamento del numero di notizie riguardanti la crisi climatica rispetto al 2023, sia su carta sia sui telegiornali, come riporta Greenpeace. Il momento migliore per agire per fermare la crisi climatica era decine di anni fa, il secondo momento migliore è oggi. Per questo è estremamente importante agire in modo collettivo, al fine di mantenere alta l’attenzione sul tema e di spingere i governi a intraprendere azioni urgenti su questo fronte. > Gli occhi sono puntati sulla COP30, che avverrà a novembre a Belém, città > brasiliana nelle vicinanze della foresta amazzonica. Sarà un momento cruciale > di mobilitazione per attiviste e attivisti da tutto il mondo e per le > popolazioni indigene, i cui territori si sono dimostrati resistenti > all’aumento delle deforestazione che ha caratterizzato gli anni della > presidenza Bolsonaro. La COP29, che ha avuto luogo in Azerbaigian l’anno scorso, ha visto la partecipazione di un folto gruppo (più di 1700 persone) di lobbysti delle industrie del petrolio, carbone e gas, più numeroso delle delegazione di gran parte dei paesi partecipanti. Probabilmente, anche per via di ciò, il documento finale della conferenza ha deluso le aspettative di diverse organizzazioni ambientaliste e di molti paesi del sud globale, che sottolineano, tra le altre cose, una mancanza di finanziamenti atti a fronteggiare la crisi climatica. Anche per questo è importante la mobilitazione in vista della COP30. La Direttrice Esecutiva della Conferenza delle Parti di quest’anno, Ana Toni, sostiene che «il clima è la nostra guerra più grande», si tratta però di agire di conseguenza. L’autore dell’articolo ha frequentato il Corso di giornalismo sociale 2025 organizzato da Dinamopress L’immagine di copertina è di Marta D’Avanzo SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Crisi climatica, bisogna agire: la terra è sempre più calda proviene da DINAMOpress.
Zaga for Gaza: in piazza per fermare il genocidio
Zagarolo è scesa in piazza, con più di 500 persone che hanno risposto all’appello di Zaga for Gaza «Restiamo umani, fermiamo il genocidio». Il bisogno di reagire umanamente in solidarietà col popolo palestinese, infatti, ha spinto a partecipare al corteo anche numerose persone di altri paesi limitrofi e della provincia tutta. Una partecipazione emozionante, pacifica, colorata e intergenerazionale. Una iniziativa nata dal basso ed in maniera spontanea che, finalmente, è riuscita ad unire invece che dividere. Zagarolo si è associata alla voce dei movimenti che in tutto il mondo stanno scuotendo la terra e il mare, per chiedere la fine di un genocidio di un intero popolo, quello palestinese. Il diritto a essere e restare bambini, la Libertà di un Popolo e il riconoscimento di uno Stato. A costo di bloccare tutto e di «non fare uscire più nemmeno un chiodo», come hanno dichiarato i lavoratori e le lavoratrici portuali di Genova. Tra la commozione generale nel ricordare Vittorio Arrigoni e sentire la sua presenza ancora viva in mezzo a noi, abbiamo voluto ripercorrere insieme 78 anni di storia e di occupazione. Abbiamo voluto leggere i numeri, scandendo chiaramente le cifre dei civili morti e dei feriti, degli ospedali distrutti, delle scuole bombardate. > Abbiamo gridato quanto il pensiero dominante occidentale ed eurocentrico – di > cui facciamo parte – in realtà ci schiacci e ci renda impotenti. Abbiamo voluto dare voce alle docenti di scuola, le stesse voci che lo stesso sistema tenta di imbavagliare e mettere a tacere per non “turbare gli animi” delle bambine e dei bambini. Ma sappiamo bene che la rivoluzione più importante è quella culturale ed è anche dalla scuola che è necessario ripartire, perché rendere partecipi ed esseri partecipi è un dovere morale. Abbiamo voluto esprimere la nostra rabbia di fronte alla complicità dei governi occidentali. Ma, soprattutto, abbiamo voluto reclamare l’intervento e l’azione concreta da parte di tutte le istituzioni affinché riconoscano lo Stato di Palestina e, partendo dal comune di Zagarolo, richiedere l’esposizione, all’esterno di una delle sedi comunali, della bandiera della Palestina autoprodotta proprio in occasione del 12 settembre. Vogliamo confidare in una presa di posizione chiara e definitiva sul tema, affinché il nostro comune possa essere di esempio anche per le amministrazioni limitrofe. Ciò che è accaduto venerdì 12, forse non è accaduto mai a Zagarolo, ma abbiamo appena cominciato. Nelle prossime settimane continueremo a sostenere e organizzare iniziative a sostegno del popolo palestinese e per fermare il genocidio in atto. Continueremo a seguire e chiedere di tutelare l’equipaggio della Global Sumud Flotilla, fino a che non saranno consegnati gli aiuti e saranno tornati tutti sani e salvi. Continuate a seguirci, a supportarci e soprattutto a partecipare. Aiutiamoci a restare umani! L’immagine di copertina è di ZagaForGaza (Facebook) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Zaga for Gaza: in piazza per fermare il genocidio proviene da DINAMOpress.
Antisemitismo presunto e nuovo maccartismo
Articolo di Corey Robin Judith Butler è una dei 160 membri del corpo docente, studente e personale dell’Università della California, Berkeley, il cui nome è stato  fornito all’amministrazione Trump per contribuire alle indagini del governo federale sul presunto antisemitismo nel campus di Berkeley. Proviamo a spiegare più lentamente questa affermazione, così da comprenderne più chiaramente i componenti. Sin da febbraio, il Dipartimento dell’Istruzione (Doe) di Donald Trump ha avviato  un’indagine  sulle università, tra cui Berkeley e altri campus dell’Università della California (Uc), per la gestione di presunti episodi di antisemitismo nei loro campus. A marzo, il Dipartimento di Giustizia  ha annunciato un’indagine separata ma parallela sui campus dell’Uc. A luglio, una commissione congressuale della Camera  ha convocato  tre dirigenti universitari per testimoniare su presunti episodi di antisemitismo nei loro campus. Uno dei convocati è il rettore della City University of New York, o Cuny (tornerò sull’argomento). Un altro è il rettore di Berkeley. Tutti e tre sono stati messi a dura prova da un gruppo di rappresentanti repubblicani che si sono accaniti contro di loro. Nessuno si è impegnato abbastanza nel difendere i diritti di docenti, studenti o personale. Allo stesso tempo, l’amministrazione Trump ha trattenuto mezzo miliardo di dollari in sovvenzioni federali per la ricerca dall’Università della California di Los Angeles (Ucla), che il presidente dell’intero sistema Uc, James Milliken, ex cancelliere della Cuny sta cercando disperatamente di recuperare.Così, quando il Dipartimento dell’Istruzione ha chiesto a Berkeley di consegnare i nomi, l’Università della California ha acconsentito. Ciò è accaduto, secondo vari  resoconti giornalistici , il 18 agosto, quasi un mese fa. Da allora, il principale avvocato di Berkeley ha inviato lettere individuali a ciascuno dei 160 docenti, studenti e personale, tra cui Butler, informandoli che i loro nomi sono stati consegnati all’amministrazione Trump. Ma cosa significa? Consegnare nomi? Suona minaccioso, ma è facile perdere di vista il nocciolo della questione. Secondo l’avvocato di Berkeley, il Dipartimento dell’Istruzione ha “richiesto la produzione di documenti completi, inclusi fascicoli e relazioni relativi a presunti episodi antisemiti”. Poiché le indagini del Dipartimento dell’Istruzione sono in corso, aggiunge l’avvocato, “l’Università potrebbe essere soggetta a ulteriori obblighi di produzione”. In altre parole, quando l’Uc consegna i nomi, non sta semplicemente consegnando un elenco di nomi e nient’altro. Sta consegnando – scusate, «producendo» – «documenti completi, inclusi fascicoli e relazioni» che, per qualsiasi motivo, coinvolgono o menzionano i nomi di queste persone. A causa di “ulteriori obblighi di produzione” – adoro questa espressione; come se fossero una copisteria – l’Uc  potrebbe dover produrre molti altri documenti di questo tipo. Secondo un portavoce di Berkeley, questi documenti potrebbero persino riguardare solo il «potenziale collegamento» di questi individui a segnalazioni di presunto antisemitismo a Berkeley. Capito? Solo il loro «potenziale collegamento» a quei presunti incidenti. Come spiega Butler  in vari articoli, nessuno degli individui che hanno ricevuto una lettera ha la minima idea di quale specifica condotta, azione o dichiarazione gli venga imputata (anche se circola la sensazione che, qualunque cosa sia, riguardi  la Palestina). In effetti, come chiarisce il portavoce di Berkeley, potrebbe semplicemente essere che i nomi di questi docenti, personale o studenti abbiano solo una “potenziale connessione” con segnalazioni di presunto antisemitismo da parte di altre persone. Torniamo al Cuny. Negli ultimi anni, l’istituzione è stata impegnata in molteplici indagini su presunti episodi di antisemitismo nei suoi numerosi campus di New York. Il suo  rettore  e l’istituzione  hanno anche concordato una  definizione  di antisemitismo che potrebbe imporre indagini su chiunque, da Zohran Mamdani all’ex direttore del  Jewish Theological Seminary,  ai principali esperti e organizzazioni per i diritti umani in Israele, fino a… me. Negli ultimi tre mesi, quattro docenti a contratto del  Brooklyn College sono stati licenziati e gli amministratori hanno convocato per interrogarli anche cinque docenti a tempo pieno e un membro dello staff. In qualsiasi momento, l’amministrazione Trump potrebbe chiedere al Cuny di consegnare «documenti completi, compresi fascicoli e rapporti» che semplicemente implicano il «potenziale collegamento» di questi individui a segnalazioni di presunto antisemitismo. Cerchiamo di essere chiari sulle conseguenze della consegna di questi fascicoli esaustivi. Butler, nei suoi  commenti  alla  stampa , invoca giustamente l’esperienza del maccartismo. Ma per chiarire cosa significhi concretamente, ricordiamo i dettagli del funzionamento del maccartismo. Come spiega la storica Ellen Schrecker nel suo prezioso studio Many Are the Crimes , come fosse una rete («Redbaiters, Inc.» è il titolo del suo secondo capitolo) di funzionari governativi, investigatori privati, leader istituzionali e politici. Le indagini su persone politicamente sospette spesso iniziano, sotto pressione del governo, collaborando con attivisti di varie organizzazioni di destra, del settore privato e di quella che chiamiamo società civile, ovvero università, chiese, sindacati, organizzazioni non profit e così via. Trattandosi degli Stati uniti, le indagini vengono spesso subappaltate ad altre organizzazioni private e studi legali specializzati in questo genere di attività, combinando un mix di iperideologia e pseudo-proceduralità. I rapporti vengono redatti e conservati al sicuro negli schedari – ora computer – di queste istituzioni. Il governo – all’epoca era invariabilmente l’FbiI – entra in possesso di quei rapporti, che costituiscono parte del dossier dell’Fbi su un individuo. Questi rapporti circolano nuovamente nel settore privato e nella società civile. Ancora più importante ai nostri fini, finiscono anche nelle mani delle commissioni del Congresso, che spesso collaborano con quegli investigatori privati e attivisti professionisti di cui ho parlato sopra. Da lì, si arriva alle famose udienze che ricordiamo della Commissione per le Attività Antiamericane della Camera (Huac), della commissione McCarthy e di altre commissioni. A cui si aggiunge l’intensa copertura mediatica che, se non è già avvenuta, rovina la vita delle persone. Per non parlare di tutti gli altri effetti collaterali: passaporti revocati (Paul Robeson), posti di lavoro negati, possibili processi penali e punizioni (se ci si rifiuta di rispondere alle domande o si commette un errore e si commette falsa testimonianza) e altro ancora. Oggi dovremmo aggiungere la possibilità molto concreta di violenza o, come minimo, di molestie e minacce prolungate. Tutto questo, dovremmo ricordarlo, è dovuto all’esercizio del discorso politico. All’epoca, il discorso poteva essere qualsiasi cosa, dal sostenere l’Unione sovietica al sostenere prematuramente la guerra contro il fascismo (che era una cosa normale) all’organizzare la desegregazione delle scorte di sangue della Croce Rossa (anche quello era una cosa normale). Oggi potrebbe significare, come  ci ha ricordato Mamdani  lo scorso fine settimana al Brooklyn College, la difesa dei diritti umani fondamentali dei palestinesi. In altre parole, chiunque di noi nei campus universitari ha motivo di preoccuparsi per queste indagini universitarie sul presunto antisemitismo; per il fatto che Berkeley abbia consegnato i fascicoli su Butler e altri 159 tra docenti, personale e studenti; per cosa potrebbe derivarne; e se qualcosa di simile stia accadendo nelle nostre istituzioni accademiche. O sia già accaduto. Nel mio  libro sulla paura, ho sostenuto che i regimi di paura dipendono in modo cruciale da due tipi di individui: i carrieristi e i collaborazionisti. Oggi la parola che sentiamo è «complicità». Ciò che tutte queste parole intendono suggerire è che i regimi di paura non sono mai semplicemente un’azione dall’alto verso il basso. Hanno anche una forte componente dal basso verso l’alto. Purtroppo, nel nostro discorso odierno, anche a sinistra, quell’elemento dal basso viene spesso interpretato come una massa di razzisti a caso sui social media o di ingenui negli stati repubblicani. Ma questa è una consolazione e una presunzione. La verità è che i collaboratori sono agenti particolari, a cui vengono affidate responsabilità discrete e potere concreto a vari livelli, in molteplici istituzioni, che prendono decisioni, a volte per le migliori ragioni, con conseguenze che potrebbero non aver previsto ma che probabilmente si verificheranno comunque. *Corey Robin è autore di The Reactionary Mind: Conservatism from Edmund Burke to Donald Trump e collaboratore di JacobinMag, da dove è tratto questo articolo. L'articolo Antisemitismo presunto e nuovo maccartismo proviene da Jacobin Italia.
Luigi Pintor, cento anni in un giorno
Ha senso chiamare a parlare, in un giorno di fine settembre, chi ha conosciuto Luigi Pintor, e anche chi non lo ha conosciuto, in occasione dei cento anni dalla sua nascita?  È lecito chiederselo e perciò vale la pena trovare risposte adeguate all’uomo Luigi Pintor e al secolo che ha attraversato, a volte in buona compagnia, a volte meno, e in piccola parte vissuti assieme, al “manifesto”, il “quotidiano comunista”. Cercare qualche risposta è lo scopo principale dell’incontro che si terrà a Cagliari il 20 settembre prossimo, dal titolo “Piazza Pintor”, organizzato dal Collettivo Pintor, in collaborazione con Il Manifesto e grazie al sostegno della Fondazione Sardegna e alla cooperativa Agorà Legacoop.  Come fosse la targa di una via cittadina, nella locandina c’è la data di nascita, 1925, e quella della sua imprevista scomparsa, il 2003. Ma c’è anche una riga che spiega, per chi non lo sa, chi era Luigi Pintor: «Giornalista, scrittore, comunista, sardo». La targa è anche un auspicio: che al «più grande giornalista italiano», come lo aveva definito Enrico Berlinguer, la città che lo ha visto nascere dedichi una strada, un luogo, una memoria indelebile. Così come hanno fatto a Orgosolo i cittadini che lo hanno immortalato nel murale che compare sulla locandina che chiama, chi lo ha conosciuto e chi no, a un incontro costruito sui ricordi ma anche su una visionaria idea di futuro. Così come è stata la biografia di Pintor. È stato giornalista nel senso migliore di questa accezione, ormai caduta in prescrizione, perché ha saputo costruire dal nulla, assieme a un piccolo gruppo di suoi pari, un oggetto scandaloso e perciò straordinario: un giornale fuori dai partiti e dai potentati economici, frutto della sapienza e della irriverenza verso ogni dottrina. Un’eresia, senza però la pretesa di dar vita a una nuova religione. Da quel 1971 (e dalla radiazione dal Pci), per trent’anni ogni mattina Luigi, Rossana, Valentino e un pugno di giovani per la maggior parte senza bussola, hanno potuto navigare in direzione ostinata e contraria a volte arrancando ma sempre imponendo un punto di vista originale e dissacrante. Con quel «pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà» di cui Pintor è stato uno dei più degni interpreti. Ed è stato scrittore di libriccini piccoli ma densi e sapienti e commoventi e laceranti che hanno sbaragliato la metrica e l’ortografia regalando quattro petali di un fiore desinato a non appassire mai. Chi li ha letti li ha anche letti di nuovo e forse continuerà a farlo fino a che quella sua intima storia raccontata con pudore, quasi con timidezza, non tracimerà restituendoci l’immagine migliore e più disperata di un paese assediato. È la storia di un mondo che non c’è più del quale Pintor è stato testimone distaccato e al tempo stesso protagonista. Ed è la sarditudine indelebile con il suo accento che non ha mai perso le vocali e il suo stupore condito con oassione e orgoglio per questo mare troppo azzurro per essere vero e queste erbe troppo verdi per essere nate su terreni aridi. Ed ecco, infine, perché è stato comunista sempre, con o senza il Partito. Comunista nello sguardo sulle persone, sugli eventi che hanno segnato il Novecento, sui processi, sulle sconfitte. Sulla volontà di ricominciare senza perdere un briciolo della capacità di interpretare il presente per immaginare il futuro. Perfino nel suo ultimo editoriale, Senza confini, riesce a non farsi travolgere dalle devastazioni culturali e politiche pur capendone la carica dirompente. Io vorrei che  tutti lo leggessero (è stato scritto nel 2003, pochi mesi prima della morte). Anzi, forse, se fosse stato letto e capito allora, l’orrore del presente avrebbe potuto essere meno devastante. Qualche riga, e chi vuole può andare a leggerlo o a rileggerlo sul sito della Fondazione Pintor: «Non ci vuole una svolta ma un rivolgimento. Molto profondo. C’è un’umanità divisa in due, al di sopra o al di sotto delle istituzioni, divisa in due parti inconciliabili nel modo di sentire e di essere ma non ancora di agire. Niente di manicheo ma bisogna segnare un altro confine e stabilire una estraneità riguardo all’altra parte. Destra e sinistra sono formule superficiali e svanite che non segnano questo confine. Anche la pace e la convivenza civile, nostre bandiere, non possono essere un’opzione tra le altre, ma un principio assoluto che implica una concezione del mondo e dell’esistenza quotidiana. Non una bandiera e un’idealità ma una pratica di vita». L’immagine di copertina è tratta dal manifesto dell’iniziativa SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Luigi Pintor, cento anni in un giorno proviene da DINAMOpress.
Tira un vento nuovo: verso lo sciopero del 22 settembre
Si respira un’ aria diversa in Italia in questi giorni, è innegabile. All’inizio lo abbiamo solo sussurrato, per paura che non fosse vero. Dopo le manifestazioni della sera di martedì 9 invece in moltə si sentono più liberə di condividerlo e commentarlo. Da quando è in carica il governo Meloni per la prima volta si ha la netta sensazione di riuscire a ritrovare in piazza una ampiezza di soggettività che va ben oltre la cerchia dei gruppi organizzati. Va detto e va ripetuto, il movimento transfemminista, anche nei duri anni della pandemia, non ha mai smesso di continuare a creare maree in occasione di momenti come l’8 marzo, il 25 novembre o a seguito di tremendi episodi di violenza di genere e femminicidi. È sempre stato molto più complesso riuscire a raggiungere paragonabili mobilitazioni su altre tematiche anche gravi e urgenti. Sono innumerevoli le ragioni di questa difficoltà che prosegue quanto meno dalla pandemia e le motivazioni sono varie e complesse, e forse difficili da comprendere. Potrebbe essere  utile, invece, comprendere le ragioni della eccedenza di mobilitazione davanti alla quale ci troviamo, una eccedenza da preservare e sostenere. Le mobilitazioni di Genova per la partenza della Global sumud flotilla e di Venezia durante il festival del cinema sono state evidentemente dei cortei di massa con una partecipazione eccezionale. Il corteo milanese a seguito dello sgombero del Leoncavallo ha continuato a produrre mobilitazione variegata e plurale. La marea notturna di domenica 7 a Roma e le mobilitazioni coordinate in decine di città contemporaneamente, per rispondere all’attacco notturno contro la Global Sumud Flotilla martedì 9 sono state una significativa conferma. > Ci troviamo davanti a momenti di attivazione larghi e orizzontali che riescono > a riempire le piazze in un arco di tempo notevolmente circoscritto. > Intendiamoci, non sono piazze scevre da complessità, ci sono posizionamenti > variegati, e anche problematici, pensiamo semplicemente alla partecipazione di > alcuni  sindaci del PD ai cortei. Ma l’enorme partecipazione ha di fatto preso > il centro della scena, oltrepassando e limitando le strumentalizzazioni > possibili. Nella piazza di Genova hanno partecipato partiti del campo largo e sindacati confederali, ma il messaggio centrale è stato quello dei portuali, circolato in tutta Europa: “Se qualcosa succede alla Flotilla, blocchiamo tutto!”   Un elemento che contraddistingue tutte queste mobilitazioni – che differenziandole rispetto a passate manifestazioni sulla Palestina – è il tentativo di essere marea, ossia ritrovarsi assieme senza bandiere che non siano quella palestinese e senza identità o afferenze partitico-sindacali, cercando linguaggi e slogan inclusivi e radicali al tempo stesso. Non a caso questo è un tratto comune a tutte le chiamate di piazza del movimento transfemminista.  Il secondo fattore caratterizzante è la volontà di difendere i simboli della possibilità di costruire solidarietà vera ed efficace, espressione concreta di quella umanità di cui ci scriveva Vittorio Arrigoni da Gaza quindici anni fa. Si scende in piazza perchè ci si sente un po’ sulla barca anche noi, e vorremmo tuttə partire per Gaza per provare a fermare il genocidio.  Il terzo fattore è dato probabilmente da un senso di saturazione rispetto alla morte e alla violenza che si vive a vari livelli e che la minaccia incombente della guerra in Europa rende insostenibile, una risposta al senso di impotenza che si sente di fronte gli schermi guardando le immagini del genocidio in corso in Palestina senza riuscire a fare nulla. La GSF è la materializzazione concreta di una reazione. La possibilità di parlare di vita, dignità, solidarietà mentre attorno tutto si incupisce, in Italia come all’estero, tra spese militari alle stelle, restrizione dello spazio democratico, arretramento socioculturale e guerra. > Si può pure immaginare che l’accanimento grottesco con cui la destra sta > strumentalizzando l’omicidio di Charlie Kirk – promettendo leggi securitarie > contro la “violenza rossa” –  sia pure spinto da qualche timore che queste > mobilitazioni prendano piede, o, ancora più opportunisticamente, sia il > preambolo di una strategia di repressione a tappeto di scioperi, occupazioni > studentesche o altro che l’autunno possa portare. Il nostro paese negli ultimi anni non ha mai smesso di assistere a piccole o talvolta grandi forme di mobilitazione nei luoghi di lavoro, nei collettivi delle scuole, nelle acampade studentesche, nei comitati a difesa del territorio, nelle associazioni di quartiere. Purtroppo però, spesso le realtà organizzate, presidiando le proprie nicchie, o non hanno intercettato questi contesti o non li hanno attraversati e supportati in forma sufficientemente efficace e rispettosa. Di conseguenza ciclicamente queste mobilitazioni sono tornate nella loro dimensione carsica – anche per la repressione che è sempre in aumento –  senza connettersi ad altri rivoli, senza diventare, appunto, marea. Forse è proprio questa la sfida più grande che ci troviamo di fronte. Riusciranno le realtà organizzate a sostenere, facilitare e allargare le mobilitazioni in corso? Riusciranno a fermare le mosse delle strutture identitarie che invece tendono in queste situazioni a massimizzare il ritorno e il vantaggio solo per la propria organizzazione? Ormai è evidente a tuttə che è necessario fare un passo indietro per farne due avanti, ma farli assieme oppure qualcuno cercherà che il vento giri solo verso la propria vela?  > La sfida è quella di superare il carattere ancora frammentario che > contraddistingue le tante mobilitazioni programmate per l’autunno prossimo. La > sfida è porsi su un livello più alto: organizzare uno sciopero contro la > guerra europeo.  Un primo passo è lo sciopero del 22 settembre. La chiamata, lanciata da USB, sta raccogliendo sostegno e adesione trasversale, e potrebbe essere la prima giornata che si muove nell’ottica del “blocchiamo tutto” lanciato dal CALP di Genova e che risuona con il “Bloquons tout” del 10 settembre francese. Se poi si arrivasse ad una convocazione di sciopero in forma unitaria da parte sindacale, forse allora qualcosa sarebbe cambiato per davvero.  Se saremo all’altezza della sfida, saremo davvero marea, qualcosa di incontenibile e radicale che potrebbe porsi l’ambizione di invertire la rotta e creare un problema reale, tanto al governo fascistoide quanto all’opposizione liberale, totalmente inadeguata rispetto alla gravissima situazione attuale.  La flottilla che salpa da Catania sembra dirci che le sfide vanno raccolte anche quando sono difficili, in alto mare bisogna stare insieme, conoscersi e darsi supporto, sarà in grado l’equipaggio di terra di fare altrettanto? L’immagine di copertina è di Milos Skakal SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Tira un vento nuovo: verso lo sciopero del 22 settembre proviene da DINAMOpress.
Dove siamo?
-------------------------------------------------------------------------------- Migliaia di persone sono in fuga in questi giorni da Gaza (Ph pixabay.com) -------------------------------------------------------------------------------- All’inferno. Ogni discorso che non parta da questa consapevolezza, siamo all’inferno, è semplicemente privo di fondamento. I gironi in cui ci troviamo non sono disposti verticalmente, ma disseminati nel mondo. Ovunque gli uomini si associano, producono inferno. I gironi e le bolge sono dappertutto intorno a noi, che riconosciamo, come nei caprichos di Goya, i mostri e i diavoli che li governano. Cosa possiamo fare in quest’inferno? Non tanto o non solo, come diceva Italo, custodire una parcella di bene, quello che nell’inferno non è inferno (riferimento alla citazione “Riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” provenente dal libro Le città invisibili di Italo Calvino, amico fraterno di Agamben, ndr). Poiché è stata anch’essa, tutta o in parte, contaminata – in ogni caso no te escaparas. Piuttosto fermati, taci, osserva, e, al giusto momento, parla, spezza la cortina di menzogne su cui riposa l’inferno. Perché lo stesso inferno è una menzogna, la menzogna delle menzogne che impedisce il varco al non inferno, al lietamente, semplicemente, anarchicamente esistente. Al mai stato che l’inferno ogni volta ricopre col suo stato, come se non ci fosse altra possibilità al di fuori delle bolge e i gironi in cui ti hanno già sempre necessariamente iscritto. Sii tu il punto, la soglia in cui lo stato viene meno, in cui sorgivamente sbuca il possibile, la sola vera realtà. Il pensiero non consiste nel realizzare il possibile, come i demoni ti invitano a fare, ma nel rendere possibile il reale, nel trovare una via di uscita dall’ineluttabilità dei fatti che l’ideologia dominante cerca di imporre in ogni ambito – e innanzitutto nella politica. Mentre nell’infernale vocio intorno a te tutti cercano di realizzare diabolicamente, tecnicamente a qualsiasi costo il possibile, per te ogni stato, ogni cosa, ogni filo d’erba, se li percepisci nella loro verità, diventano nuovamente, silenziosamente, lucidamente possibili. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Quodlibet (qui con l’autorizzazione della casa editrice). Tra i i libri più importanti di Giorgio Agamben: Homo Sacer. Edizione integrale 1995-2015, (Quodlibet) e L’uomo senza contenuto (Quodlibet). Il suo ultimo libro invece è Amicizie (Einaudi). -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Dove siamo? proviene da Comune-info.
Consumo di suolo e diritti eco-sistemici: guarda il nostro videopodcast
Aree verdi, corridoi ecologici, fauna urbana, ripristino e deurbanizzazione.. Questi sono solo alcuni dei temi affrontati nella prima puntata del videopodcast curato da DINAMOpress. La puntata ha visto la partecipazione di Alessandra Valentinelli, del Forum exSnia, e di Stefano Simoni, ricercatore del dipartimento di Urbanistica dell’università La Sapienza, ed è stata presentata da Milos Skakal, della redazione di DINAMOpress. Qual è il ruolo che giocano le aree verdi nel tessuto urbano della città di Roma, e perché è importante preservarle? Questa la domanda che ha guidato la nostra conversazione. Gli spazi non edificati e non cementati sono a tutti gli effetti dei regolatori della temperatura della città, e hanno per questo un ruolo fondamentale nel proteggere la salute della cittadinanza. Le aree verdi sono anche delle oasi dove la fauna e la flora urbane riescono a trovare spazi esistenziali dove poter vivere e riprodursi. La biodiversità, cioè la presenza di tante specie diverse nello stesso territorio, rende più forti gli spazi verdi, perché parassiti e malattie hanno meno possibilità di riprodursi. Al contrario, lì dove il verde è prevalentemente omogeneo, con piante tutte uguali, gli alberi corrono maggiori rischi di ammalarsi e di morire. Per questo i corridoi ecologici, dei veri e propri ponti naturali che collegano le aree urbani con la città, sono fondamentali preparare Roma ai cambiamenti climatici del prossimo futuro. Ma la questione dello spazio verde è collegata anche con il diritto alla città e alle lotte sociali. A causa del suo sviluppo urbano sregolato, le cui logiche sono sempre state più inclini a favorire gli interessi di costruttori e proprietari terrieri, Roma incorpora nel suo perimetro vaste aree verdi, di campagna e agricole. Queste zone non edificate sono state difese dalle lotte dal basso, passate e presenti, che hanno riunito cittadine e cittadini intorno alla difesa di spazi sottratti al cemento. E oggi, di fronte alla crisi climatica, la questioni delle aree verdi e naturali in città è sempre più importante. > Guarda il video e facci sapere cosa ne pensi! Continuiamo la discussione venerdì 19 alle 18.30 a Esc Atelier autogestito. Al primo dibattito “Roma divorata dal cemento” del progetto “Rome for Climate Justice” insieme alle realtà sociali che animano alcune tra le più emblematiche lotte ecologiche della città, tra cui il Comitato Pratone di Torre spaccata, Collettivo No Porto di Fiumicino, Comitato territoriale Parco delle Energie – Lago exSnia e il Coordinamento cittadino Parco di Pietralata. Le iniziative si svolgono nell’ambito del progetto “Rome for Climate Justice”, un’iniziativa promossa da Esc Atelier Autogestito con il contributo della Città metropolitana di Roma Capitale L'articolo Consumo di suolo e diritti eco-sistemici: guarda il nostro videopodcast proviene da DINAMOpress.