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«Contro la destra serve complessità»
Articolo di Caparezza, Jacopo Custodi Michele Salvemini, in arte Caparezza, non ha bisogno di molte presentazioni: da oltre vent’anni è una delle voci più originali della musica italiana. Rapper in continua evoluzione, ha un pubblico vasto e fedele che lo ha seguito attraverso concept album sempre nuovi, in cui si mescolano linguaggi, generi musicali e immaginari. Album che somigliano più a degli universi narrativi che a semplici dischi. Il più recente, Orbit Orbit, uscito il 31 ottobre, è accompagnato da un fumetto scritto da lui, vecchio sogno adolescenziale finalmente portato a compimento. È uno dei pochi musicisti italiani contemporanei capaci di tenere insieme successo commerciale, sperimentazione artistica e impegno politico. Le sue canzoni continuano a risuonare nei cortei e nelle manifestazioni in tutta Italia, senza che lui si sia mai appiattito sugli stereotipi estetici e linguistici del «cantante di sinistra». Ogni volta che pubblica un nuovo disco scala le classifiche e buca il mainstream, per poi tornare volentieri nell’ombra, lontano dall’opinionismo permanente dei social e dalla ricerca ossessiva di visibilità. Lo abbiamo incontrato nel suo studio a Molfetta, pochi giorni dopo le elezioni regionali pugliesi, segnate anche da piccole polemiche locali per via di alcuni politici che hanno contrapposto i seggi vuoti alle file lunghissime per il firmacopie di Caparezza in città. Con lui abbiamo parlato di libertà, di musica, di pathosfera e di politica. Il 31 ottobre è uscito il tuo nuovo album, Orbit Orbit, per la prima volta accompagnato anche da un fumetto che lo complementa. È un’opera ibrida che sembra chiudere una trilogia: Prisoner 709 parlava della prigionia mentale, Exuvia della fuga, Orbit Orbit della libertà. Che tipo di libertà racconti e quanto ti sembra davvero raggiungibile? Quando si parla di libertà si apre subito un vaso di Pandora, perché ogni idea di libertà si porta dietro anche le sue contraddizioni. Chi è davvero libero, quale società è davvero libera? Quella occidentale o quelle che si contrappongono a quella occidentale? Come misuriamo la libertà? Insomma, entriamo subito in un ginepraio. Io mi sono sempre sentito un «prigioniero della Terra» – come lo siamo tutti – perché ho sempre visto il pianeta come una bella galera da cui non si può fuggire, e la forza di gravità come una specie di braccialetto elettronico. Allora mi sono chiesto: qual è stata, nella mia vita, una vera forma di libertà? Perché alla fine il disco è molto personale. L’unica risposta evidente era l’immaginazione. Per me l’immaginazione è una forma autentica di libertà: in nessun contesto puoi vietare a una persona di immaginare qualcosa di migliore o di peggiore.  L’unico vincolo, l’unica contraddizione, è che l’immaginazione agisce prendendo come punto di riferimento la realtà. Per spiegarmi uso un esempio di Karl Jaspers, filosofo tedesco che ha studiato Van Gogh e ha concluso che il suo atto creativo fosse una reazione alla malattia. Secondo Jaspers l’atto creativo è come una perla: così come la conchiglia crea la perla, così l’essere umano crea l’opera d’arte. Ma la conchiglia crea la perla quando dentro entra un granello di sabbia o qualcosa che la infastidisce: per anestetizzare quel dolore lo ricopre di madreperla e nasce la perla. Tutte le perle hanno dentro qualcosa di disturbante. Nel mio caso la realtà è la cosa disturbante, l’immaginazione è la madreperla e la perla è l’opera – in questo caso Orbit Orbit – che metto al mondo. Quindi per me l’immaginazione è una forma di reazione alla realtà: è libertà ma è anche resistenza. Non credo sia una libertà «pura», nel mio caso è proprio una forma di resistenza. E Orbit Orbit è, nel fumetto, l’onomatopea dell’immaginazione: ecco perché l’album si chiama così. L’orbita è movimento ma anche una ripetizione intorno a un centro. Per un progetto che parla di libertà, ti interessava di più l’idea di fuga dal sistema o quella di imparare a muoversi dentro i suoi campi gravitazionali? Bisogna imparare a muoversi dentro. È così anche nel fumetto: le tavole si chiamano «gabbie» e la libertà si esercita proprio all’interno di queste gabbie. La fuga, per me, era il tema di Exuvia, l’album precedente, e rappresentava il passaggio da uno stato all’altro. In parte è successo davvero, perché a un certo punto sono diventato sceneggiatore di fumetti, quindi questa transizione si è compiuta. Ma mi sono reso conto che la fuga assoluta non è possibile. L’immaginazione deve saper convivere con la realtà e muoversi all’interno di queste micro e macro gabbie. Nel tuo ultimo album c’è una bellissima canzone in cui parli di come abbiamo perso empatia, di come siamo usciti dalla «pathosfera». Secondo te come si rientra nella pathosfera? È una domanda dalla risposta difficile, perché il mio è più un desiderio che una ricetta. Mi sono accorto che, man mano che cresciamo, tutto ciò che ci circonda diventa sempre più insostenibile. Per salvarmi, per non essere continuamente ferito, mi sono reso conto che iniziavo anch’io a costruire delle barriere intorno a me, a far finta di non vedere, ad anestetizzarmi, a uscire dalla pathosfera. È un errore, ma penso sia un errore che accomuna tante persone oggi, nell’era dei social, dove sei costantemente sotto attacco da chiunque. E spesso le stesse persone che attaccano sono quelle che non riescono a reggere i colpi quando li subiscono. Allora ti difendi creandoti una corazza di cinismo, che però è molto pericolosa, perché quando perdi la fiducia nell’umanità è un attimo che perdi la tua di umanità. Il vero pericolo è diventare insensibili: non riconoscere più le cose e le persone belle che hai intorno. Ma puoi riconoscerle solo se accetti anche la loro parte negativa. Credo che questa sia una grande lezione della vita, che ho imparato nel mio giro di boa di cinquantenne. Quindi, per rientrare nella pathosfera, bisogna tornare a essere empatici, ma l’empatia è un atto violento, nel senso che quando ti metti davvero nei panni dell’altro non è facile sopportarne il peso e le contraddizioni. Bisogna accettare di fare a pugni con la realtà e con quello che ci fa male, invece di anestetizzarci. So che ci sono anche persone un po’ deluse dalla mia «virata» su queste tematiche, dopo dischi considerati più politici. Ma per me la politica non è per forza fare il tribuno del popolo, anche i sentimenti rientrano nella politica, anzi direi che la politica del sentimento è quella più autentica, più forte, più coinvolgente. Questa introspezione è qualcosa che ti accomuna ad altri grandi artisti impegnati – penso a Zerocalcare – che come te partono spesso da sé stessi per parlare del mondo. È un po’ un segno dei tempi secondo te? Abbiamo bisogno di partire dalle esperienze autobiografiche per parlare della collettività? Questa è una cosa che, nel mio caso, è avvenuta crescendo. Quando ero giovane mi sentivo parte integrante di un mondo che si muoveva nel presente. Poi a un certo punto dentro di me è cominciato a fare capolino il passato. Non so per quale motivo, forse perché c’è sempre meno futuro. E in qualche modo il passato ti ricorda che sei stato tante cose diverse, hai avuto varie vite. Così ho iniziato a vedermi come un viaggio e non più come un ragazzo che vive nel suo contesto sociale, che lotta per il suo presente e per un futuro migliore collettivo. Ho cominciato ad analizzare tutte le tappe del mio viaggio, che non è fatto soltanto di posti bellissimi, è fatto anche di posti orrendi, come tutte le vite di ciascuno di noi. E questa cosa probabilmente è una necessità, io la vedo come una necessità adulta. Sentivo che non volevo più parlare, che non volevo più puntare il dito, ma volevo rivolgerlo verso di me, per capire che cosa è successo nella mia vita. Questo non significa che abbia smesso di pensare alla collettività, semplicemente ho pensato che prima di salire sul pulpito dovessi capire meglio chi sono io sul pulpito. Perché poi diventa più credibile quello che dici dal pulpito. Una domanda soprattutto per i lettori americani che ti leggeranno: in un’intervista hai raccontato che il primo album che hai comprato era dei Run Dmc e anni dopo, ormai affermato, hai anche collaborato con Darryl McDaniels. Che influenza ha avuto il rap americano – e più in generale la musica statunitense – su di te? Il rap americano è stato l’epifania della mia vita musicale. Da piccolo non ho mai avuto il desiderio di diventare un cantante, perché ero molto introverso – e sono ancora molto introverso, anche se ho fatto un lavoro su di me. Da bambino il mio desiderio era diventare fumettista, perché mi immaginavo dentro una stanza, fuori dall’ambiente circostante, solo io e la mia fantasia. Poi a un certo punto succede qualcosa: vedo in tv You Be Illin’ dei Run Dmc. L’immagine di questi tre ragazzi in tuta che fanno rap, con uno di loro che ottiene suoni muovendo i vinili – e io a casa avevo un sacco di vinili di mio padre – mi colpisce tantissimo. Era come usare un oggetto per qualcosa per cui non era «nato», un po’ come Zappa quando in una trasmissione si mette a suonare le ruote di una bicicletta. In più da bambino ero affascinato dal suono delle parole: adoravo gli scioglilingua. Vedere quella cadenza ritmica, quel modo di parlare in modo musicale, è stata una folgorazione sulla via di Damasco. Non sapevo neanche che quello fosse rap, né chi fossero davvero quei tre. Sono andato in un negozio di dischi a Molfetta a chiedere insistentemente l’album dei Run Dmc che conteneva You Be Illin’. Non c’era internet, il disco arrivava dall’America e non era distribuito in Italia, così sono tornato in quel negozio un’infinità di volte per vedere se fosse arrivato. Quando finalmente è successo, mi ricordo benissimo di me davanti alla cassa, col proprietario che indugiava a fare lo scontrino e io che non vedevo l’ora di correre a casa per ascoltarlo tutto. Per me il rap americano è stato il Big Bang.  Ovviamente parlare di «rap americano» è dire tutto e niente, perché è partito in un modo ed è diventato tutt’altro. Io, per esempio, non ho mai subito il fascino del gangsta rap: lì un certo tipo di atteggiamento ha cominciato a non piacermi più. Ma con i Run Dmc, e poi con gruppi come Public Enemy e Beastie Boys, ogni nuovo disco era come aprire una scatola di giocattoli. Ho iniziato a pensare che potessi provare a fare anch’io rap quando ho sentito per la prima volta Frankie hi-nrg, uno che aveva trovato un modo per tradurre in italiano quella stessa forza comunicativa. Un’altra cosa che interessa ai lettori di Jacobin è capire come siamo passati dall’Italia del più grande Partito comunista d’Europa a un paese governato da Giorgia Meloni. Tu che lavori sull’immaginario e sulle emozioni collettive, come vivi questa fase politica? Cosa racconta, secondo te, del nostro paese? Credo che il Partito comunista italiano sia stato il partito più credibile e più serio di tutti. Era un partito in cui c’era anche della poesia, non so come dire… Oggi invece viviamo in un paese che secondo me non è di destra, ma è populista, in cui c’è una disaffezione verso la complessità. C’è proprio un rifiuto della complessità a livello generale, non solo in politica. Ma è sbagliato, perché la vita è la cosa più complessa che esiste. Oggi quando c’è un problema complesso – pensiamo alle emigrazioni – la risposta semplice è quella che attecchisce. La famosa politica di pancia funziona di più perché approfondire è faticoso, ma se ti rifiuti di approfondire stai impoverendo anche il meccanismo cerebrale che ti porta a evolverti come persona. E così si comincia a vivere in una società manichea. Non penso però che sia un problema solo italiano, lo vediamo anche negli Stati uniti. È proprio un problema generale, alimentato forse anche dal web, in cui le notizie diventano semplicemente un titolo da clickbait e gli algoritmi alimentano le polarizzazioni. Questo sta impoverendo il dialogo, sta impoverendo l’approccio alla vita. Il semplicismo è il grave problema di questo momento storico. E non era così nel passato: per esempio le lettere che Van Gogh scriveva al fratello Teo (a un certo punto sono andato in fissa per Van Gogh) erano di una profondità e di una valenza narrativa fortissima. Si ambiva alla complessità, ora si ambisce al semplicismo, che attenzione non è la semplicità. La semplicità è un valore, soprattutto nella divulgazione, è il semplicismo il problema. Negli ultimi anni si è molto discusso a sinistra del rapporto fra cultura e politica. Da un lato abbiamo visto come incentrare la politica sulla dimensione culturale possa produrre fenomeni problematici come le culture wars; dall’altro, in Italia sappiamo fin dai tempi di Antonio Gramsci quanto l’egemonia culturale sia importante per conquistare nuovi diritti. Tu da artista che nella produzione culturale non dimentica la politica cosa ne pensi di questo complicato rapporto? Partiamo dall’arte: io penso che nell’arte sia tutto lecito e lo dico in maniera lapidaria. Nell’arte non puoi assolutamente mettere paletti, di nessun tipo. Poi gli artisti si assumeranno la loro responsabilità per quello che dicono, ma l’arte è qualcosa d’altro rispetto alla comunità, alla vita, quindi diciamo che io sull’arte e sulla creatività non voglio paletti. Sono contro la cancel culture: non sono per andare a prendere cose del passato e censurarle, perché sono una testimonianza del passato e danno forza a quello che accade oggi. Oggi, se guardi un vecchio film in cui si prende in giro una categoria e lo confronti con un film di oggi, in cui si sta più attenti, capisci che è stato fatto un passo avanti. Però, se mi cancelli la testimonianza del passato, quest’evoluzione si perde. Lo stesso vale per le statue dei personaggi del passato: non sono per il loro abbattimento, ma per cambiare il modo in cui le raccontiamo. Altrimenti è come cancellare porzioni della tua vita. Io ho fatto cazzate nella mia vita, ma non posso cancellarle, altrimenti esco dalla pathosfera. Devono aver avuto un senso, anche solo quello di avermi portato a essere una persona migliore. Dovremmo guardare alla società allo stesso modo: come a un essere umano che cresce e cambia. Ovviamente, nella vita e in politica, le battaglie culturali servono e sono importanti. Però, personalmente, sono per le rivoluzioni culturali consapevoli: non che io mi sveglio e da oggi si fa così, perché in quel modo non cambi realmente e culturalmente le persone. Preferisco i piccoli passi avanti collettivi che, quando diventano consapevoli, non li tocchi più, o almeno si spera. Vieni da Molfetta e hai portato spesso nei testi e nello stile uno sguardo laterale rispetto ai canoni culturali dominanti. In che modo il fatto di venire da una città medio-piccola del sud ha modellato il tuo modo di fare cultura e le tue idee politiche? Non lo so, mi sembra che il mio approccio alla vita derivi più da come sono fatto io, dal mio carattere, che dal posto in cui sono nato. Però provo a ragionarci adesso: Molfetta è un paesone in cui sopravvive un’idea di comunità e dove non c’è ancora quell’individualismo spinto tipico dei paesi capitalisti contemporanei. Questo genera forme di aiuto e di solidarietà, e ci aiuta a stare dentro la pathosfera. Mi piace vivere qui, e questa è una zona bellissima. Ci sono però anche dei problemi, ad esempio le questioni legate alla criminalità, che proprio non sopporto per indole e che mi fanno contorcere lo stomaco. I miei miti non saranno mai quelli celebrati dagli sceneggiati contemporanei. Ho anche un rapporto difficile con la religione cattolica, che qui è molto radicata. A volte, soprattutto durante le festività, la fede viene vissuta con un afflato un po’ troppo doloroso, con l’ostentazione del dolore. Durante la settimana di Pasqua vedi gente trafitta, gente che piange, gente incappucciata. Sono cose che non mi hanno fatto bene da bambino, mi hanno generato ansie e paura. Una cosa bella invece è che, al di là della religione, a Molfetta e nelle città limitrofe si tende a sdrammatizzare molto, e questo mi ha aiutato a non prendermi mai troppo sul serio, a non sentirmi un divo. Ho sempre sdrammatizzato il mio ruolo e per fortuna non mi sono mai sentito «sto cazzo» e questa cosa secondo me fa parte del modo di essere di un molfettese. Che rapporto hai oggi con la parola «sinistra»? È ancora una bussola o è diventata una categoria troppo confusa? Io in tutta la mia vita ho sempre votato Rifondazione comunista [a Molfetta Rifondazione si presenta ancora col proprio simbolo e alle ultime elezioni comunali il suo candidato ha preso l’8,1%, NdR]. Sono nato in una famiglia che più o meno orbitava politicamente intorno alla Democrazia cristiana, quindi non ho avuto un imprinting comunista, semplicemente mi sono avvicinato a Rifondazione guardando quello che facevano i ragazzi del partito qui a Molfetta. Mi sono appassionato a loro e quindi ho sempre votato per Rifondazione. I ragazzi di Rifondazione erano quelli che facevano le cose più interessanti, erano i più sinceri e i più onesti. Difficilmente potrei votare per il centrosinistra oggi, che mi sembra troppo di centro, troppo di stampo democristiano. Qual è il tuo album preferito?  Il mio album preferito è sempre l’ultimo che ho fatto, perché è il più fresco ma anche perché ogni nuovo album per me è come se fosse una morte da celebrare. Quando pubblico un disco mi libero di pensieri che in maniera frustrante ho faticato a mettere su carta per anni e quindi per me è una morte da festeggiare. Forse è l’imprinting religioso e molfettese che ritorna! Ultima domanda: non so se lo sai, ma Zohran Mamdani prima di diventare sindaco di New York faceva il rapper. Quando ti vedremo candidato sindaco di Molfetta? Mai! Ho molto rispetto verso la politica e non sono uno di quelli che dice che i politici sono tutti dei ladri. Non sono per i semplicismi: tra le persone che scelgono di fare politica c’è sempre qualcuno che ha dentro un fuoco vero, e questo va riconosciuto. Come nella musica: c’è chi ha quel fuoco, solo che magari non lo trovi nella playlist di Spotify, devi andarlo a cercare. La politica la prendo molto seriamente e, proprio perché la prendo seriamente, so che non ho quel fuoco. Nel tempo sono stato corteggiato più volte per entrare in qualche lista. Ho sempre rifiutato, anche per rispetto della politica. Non ne avrei le competenze e, soprattutto, non ne ho il desiderio. Servono persone a sinistra mosse da una passione autentica. Ne conosco, ne ho viste gravitare in quell’ambito. Non esiste l’integerrimo, tutti fanno errori, ma se qualcuno ha un fuoco reale, e lo fa perché ci crede, allora bisogna mandare avanti quella persona lì. Sono alla ricerca di persone così.  *Jacopo Custodi è ricercatore in Scienze Politiche presso la Scuola Normale di Pisa. Ha curato Comunismo e questione nazionale. Madrepatria o Madre terra? (Meltemi, 2021) e Le parole e il consenso. Come battere la destra a partire dalle parole che usiamo ogni giorno (Castelvecchi, 2021) e scritto Un’idea di paese (Castelvecchi, 2023). Michele Salvemini dopo gli esordi come Mikimix, che lui stesso definisce «cantante insignificante, dal cui autodisgusto nacque il sé stesso odierno», diventa Caparezza. Da allora ha pubblicato nove album, l’ultimo dei quali si intitola Orbit Orbit. L'articolo «Contro la destra serve complessità» proviene da Jacobin Italia.
Attualità della pianificazione
Articolo di Matteo Gaddi, Nadia Garbellini Produttività e competitività vengono spesso presentate come categorie neutrali, semplici strumenti tecnici per interpretare le prestazioni dell’economia. Questa presunta neutralità è però una costruzione ideologica: serve a trasformare scelte politiche in vincoli oggettivi e a spostare sulle lavoratrici e sui lavoratori il peso degli squilibri macroeconomici. Per ripensare un’alternativa occorre quindi innanzitutto smontare questi concetti che, sotto una veste tecnico-contabile, reggono l’architettura del capitalismo contemporaneo. In particolare va preso atto che quest’ultimo, dallo shock seguito alla scelta di Richard Nixon, nel 1971, di far saltare il sistema di cambi fissi basati sul dollaro americano in vigore dalla fine della Seconda guerra mondiale, si è caratterizzato per la fortissima apertura commerciale e finanziaria. Solo questa mutazione profonda delle economie di mercato ha posto al centro della scena i concetti di produttività e competitività, dato che in una simile configurazione del capitalismo la crescita economica è stata indissolubilmente legata ai surplus commerciali (neomercantilismo) e finanziari (differenziali dei tassi d’interesse). Tuttavia, l’ennesima riconfigurazione dei mercati cui stiamo assistendo suggerisce che non si trattava certo di caratteristiche naturali delle economie capitaliste. In questo senso, assumere invece quelle specifiche caratteristiche istituzionali come date una volta e per tutte (e, quindi, insistere aprioristicamente su produttività e competitività) diviene un errore grave per un buon economista, e diventa imperdonabile per un economista «eterodosso» o «progressista».  L’IDEOLOGIA DELLA PRODUTTIVITÀ L’indicatore canonico della produttività – il valore aggiunto reale per ora lavorata – viene utilizzato come se misurasse l’efficienza fisica del lavoro. Quest’equivalenza, tuttavia, è un artificio teorico derivato da un impianto concettuale costruito esplicitamente per servire una visione dell’economia centrata sulla massimizzazione del profitto. La contabilità della crescita neoclassica descrive un’economia chiusa, che produce un unico bene (anche composito) finale, uguale nel tempo e nello spazio; in cui il capitale (fisso e circolante) non è prodotto ed è quindi trattato come un fattore primario (e quindi scarso). La cosiddetta distribuzione funzionale, cioè quanta parte del reddito nazionale (cioè del valore aggiunto) va ai salari e quanta ai profitti,  in questo schema discende dalle condizioni di equilibrio, dove per equilibrio si intende una situazione in cui il profitto è massimizzato. È un dato tecnico, che dipende dai prezzi relativi dei fattori e dalla tecnologia in uso. Qualsiasi deviazione da questa distribuzione crea inefficienze, e dunque non esiste margine per il conflitto sociale. Adottare una metrica che discende da questo apparato teorico significa dunque adottarne la prospettiva, o il suo presunto significato «oggettivo e naturale» semplicemente si dissolve. La produttività infatti è diventata uno dei principali strumenti ideologici per legittimare politiche di compressione salariale e di disciplinamento della forza lavoro: se la produttività non cresce, non possono crescere i salari; se i salari crescono «troppo», si perde competitività; se si perde competitività, si compromette la crescita. È una catena di causalità rovesciata, che serve a naturalizzare rapporti di forza sfavorevoli. Da anni, inoltre, il tema della produttività viene utilizzato dalle istituzioni europee per mettere in discussione la contrattazione collettiva, che a loro avviso andrebbe superata a favore di quella decentrata. Quest’ultima consentirebbe, secondo tale visione, di legare ex post salari e produttività, così da contenere i primi e stimolare la seconda. Un esempio emblematico è la lettera del 5 agosto 2011 inviata da Mario Draghi e Jean-Claude Trichet a Silvio Berlusconi, allora Presidente del Consiglio. In quel documento – che anticipò la caduta del governo nel dicembre successivo – si chiedeva di «riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi a livello d’impresa […] e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione». La Commissione europea e il Consiglio dell’Ue hanno più volte sostenuto con decisione la necessità di un più stretto legame tra salari e produttività, da ottenere tramite il decentramento della contrattazione. Particolarmente significative, in questo senso, sono le raccomandazioni del Consiglio dell’Ue (2013) sul Programma Nazionale di Riforma dell’Italia, basate su un Documento di Lavoro della Commissione. Vi si affermava che la perdita di competitività dell’Italia richiedeva aggiustamenti nella fissazione dei salari e che la dinamica salariale non aveva riflettuto il deludente andamento della produttività, contribuendo a un aumento del costo del lavoro per unità di prodotto. Il documento sottolineava il ruolo dominante della contrattazione nazionale, ritenuta un ostacolo all’allineamento dei salari alle condizioni economiche locali: un modello salariale definito sulla base dell’inflazione attesa sarebbe incompatibile con l’esigenza di recuperare competitività. Da qui la raccomandazione di «stabilire un quadro per la determinazione dei salari che permetta un migliore allineamento dei salari alla produttività». Queste indicazioni sono state ribadite sistematicamente dal Consiglio dell’Ue dal 2014 al 2019, configurando un vero e proprio fuoco di sbarramento volto a spostare il baricentro della contrattazione dal livello nazionale a quello aziendale, con l’obiettivo dichiarato di legare più strettamente salari e produttività. Su queste, fragili, premesse, il presunto ristagno della produttività italiana viene accettato come un dato incontestabile persino da molti economisti eterodossi, che utilizzano l’indicatore standard senza interrogarsi sulle sue implicazioni. Questa posizione finisce per riprodurre la stessa logica che dichiara di voler superare: rimane intatto l’assunto secondo cui i salari devono inseguire la produttività; che il paese debba colmare un presunto ritardo competitivo attraverso processi di upgrading tecnologico; che lo sviluppo dipenda dalla selezione delle imprese più efficienti. In definitiva, resta l’idea che, nel mondo plasmato dalle politiche neoliberiste, l’innovazione tecnologica possa disarticolare il conflitto tra capitale e lavoro, rendendo possibile conciliare gli interessi di entrambi; si tratta di un modo per neutralizzare il conflitto sociale con la promessa di un equilibrio armonico garantito dal progresso tecnico. Il valore aggiunto reale per ora lavorata, però, non misura l’efficienza fisica del lavoro, poiché si calcola deflazionando grandezze monetarie tramite indici di prezzo basati sulle ipotesi irrealistiche menzionate sopra. Ciò che questo indicatore cattura è piuttosto la capacità di valorizzazione del capitale, il valore monetario che riesce a generare – e di cui poi si può appropriare – per ogni ora di lavoro. Sostenere che sia necessario vincolare gli aumenti salariali alla produttività così misurata – oppure, nella versione «illuminata», sostenere che aumentare i salari è vantaggioso per le imprese perché consente di aumentare la produttività, cioè estrarre ancora più plusvalore relativo così da recuperare interamente ciò che concedono – significa accettare un presupposto profondamente regressivo: se la crescita dei salari nominali segue da vicino quella della produttività così calcolata, la quota salari non può che ridursi anno dopo anno in ragione del tasso di inflazione. Di fatto, è una forma di indicizzazione al ribasso, che incorpora la compressione salariale nel metodo stesso di calcolo. Che questa impostazione venga da Confindustria è del tutto comprensibile; che venga fatta propria anche dagli economisti eterodossi – che oltretutto pretendono sovente di spiegare al sindacato cosa dovrebbe fare – è un problema politico. UN APPROCCIO NOMINALE Una volta chiarito che ciò che stiamo davvero misurando è la capacità di valorizzazione del capitale, sarebbe molto più corretto considerare direttamente il valore aggiunto nominale per ora lavorata, che la misura senza sottostimarla sistematicamente. Adottando questo approccio, la performance italiana appare molto meno disastrosa (per le imprese) di quanto sostengano commentatori, analisti e organizzazioni padronali: la dinamica della produttività nominale mostra che la capacità di valorizzazione dell’economia italiana non è affatto tale da giustificare la moderazione salariale. L’aumento della capacità di valorizzazione del capitale è una buona notizia per le imprese, ma ovviamente non per i lavoratori. Un aumento del valore aggiunto nominale non implica che il sistema produttivo stia diventando più moderno, meno inquinante o con caratteristiche più desiderabili sotto qualche profilo sociale. La valorizzazione aumenta anche e soprattutto in settori stagnanti, in contesti di precarizzazione, di esternalizzazioni, di abbassamento degli standard occupazionali o grazie a semplici movimenti nei prezzi relativi – spesso trainati strategicamente dalle grandi imprese oligopolistiche. In altre parole, che il capitale riesca a estrarre più valore dal lavoro non è né un segnale di progresso tecnologico né una misura della qualità dello sviluppo. Scambiarlo per un segnale di modernizzazione significa confondere l’interesse del capitale con quello collettivo e riprodurre la narrazione che si vorrebbe criticare. C’è poi un ulteriore effetto collaterale di questa metrica: usare il valore aggiunto come misura del «progresso tecnico» significa adottare una definizione estremamente ristretta di innovazione. In questo schema, infatti, è innovazione solo ciò che aumenta la capacità del capitale di estrarre valore. Tutti gli altri miglioramenti – riduzione della fatica, ergonomia, sicurezza, minori emissioni, uso più efficiente delle risorse, qualità del lavoro, ecc. – semplicemente non esistono. Non vengono registrati, né contano come progresso. È una concezione della tecnologia modellata sul punto di vista del capitale. La critica alla produttività porta direttamente alla critica della competitività, divenuta negli ultimi decenni il vero principio ordinatore delle politiche economiche europee. L’Unione europea è stata costruita come una macchina trainata dalle esportazioni: l’obiettivo è competere sui mercati globali comprimendo i costi, primo fra tutti quello del lavoro, a scapito della domanda interna.  La ricerca della competitività appare così come un destino inevitabile: bisogna specializzarsi nelle fasi ad alto valore aggiunto, scalare la catena del valore – tutto a scapito dei concorrenti internazionali e delle classi lavoratrici. Ma il paradigma della competitività non è un vincolo naturale: è una scelta politica. È la scelta di subordinare il benessere interno alle esigenze delle imprese esportatrici; di orientare la politica economica verso la difesa dei margini del capitale; di comprimere salari e diritti in nome della «resilienza» del sistema. È una scelta che ha impoverito i lavoratori, indebolito il tessuto produttivo, ridotto la capacità dello Stato di indirizzare l’economia. E che ha prodotto, come conseguenza, la deindustrializzazione: i settori cosiddetti «ad alto valore aggiunto», infatti, non sono altro che le fasi pre e post produzione; «scalare la catena del valore» significa quindi specializzarsi in queste fasi e delocalizzare le fasi manifatturiere, quelle a più alta intensità di lavoro.  Tale modello, per inciso, si è retto su un presupposto ben preciso: la disponibilità di merci a basso costo provenienti dal Sud del mondo, che ha permesso a lavoratrici e lavoratori europei, impoveriti da decenni di stagnazione salariale, di mantenere standard di vita accettabili. Non si tratta di un’aberrazione del capitalismo, ma di una sua caratteristica strutturale: un equilibrio del genere implica la perpetuazione del sottosviluppo altrui, e si scontra frontalmente con qualsiasi pretesa di pace, cooperazione o solidarietà internazionale. E, soprattutto, quel mondo non esiste più. I paesi emergenti – a cominciare dalla Cina – hanno ormai acquisito capacità produttive e tecnologiche tali da spezzare definitivamente l’asimmetria che aveva permesso all’Europa di compensare la compressione salariale con beni a basso costo. Un esempio lampante di questo cambiamento l’ha offerto la grottesca vicenda dell’impresa cinese Nexperia, la cui roboante nazionalizzazione da parte del governo olandese ignorava un piccolissimo dettaglio: l’intera produzione è delocalizzata in Cina. Il risultato, tragicomico, è sotto gli occhi di tutti: il governo olandese, dopo aver espropriato un paio di inutili uffici amministrativi nella città olandese di  Nijmegen, è ritornato mestamente sui suoi passi e ha annullato il provvedimento. UNA DOMANDA ALTERNATIVA In altre parole, il vecchio modello competitivo non è solo ingiusto: è anche insostenibile e non più funzionante, se non al prezzo di un drastico impoverimento delle classi lavoratrici e quindi di un aumento vertiginoso delle disuguaglianze. Una strada alternativa esiste, e passa per il rafforzamento della domanda interna mediante due leve fondamentali: un aumento della quota salari (ad esempio tramite il rafforzamento e l’intensificazione della contrattazione collettiva, l’indicizzazione dei salari nominali all’inflazione, il controllo dei prezzi, l’introduzione di un salario minimo, ecc.), che espande immediatamente i consumi, e un massiccio programma di investimenti pubblici, indispensabile per realizzare la transizione sociale ed ecologica e per (ri)costruire capacità produttiva nei settori strategici: energia e trasporti nel campo della transizione ecologica, impianti/apparati per Tlc/Ict in quella digitale (che non non è un fine in sé, ma deve essere a supporto di obiettivi sociali e ambientali); nonché nelle industrie di base e nelle filiere di produzione degli input intermedi al fine di garantire la loro completezza in termini di capacità produttiva. In particolare, è possibile dimostrare che una distribuzione dei redditi tale da aumentare la quota salari media dall’attuale 50% a poco più del 70% sarebbe, in linea teorica, in grado di generare un potere d’acquisto equivalente a quello ora rappresentato dalle esportazioni. Ovviamente, questo non significa che una semplice politica (re)distributiva potrebbe sostenere un modello di crescita alternativo a quello fondato sulla competitività esterna: si tratta di una condizione necessaria ad aprire spazi per una profonda trasformazione della struttura economica europea, ma non sufficiente a realizzarla. In questo senso, le politiche keynesiane sono inefficaci, poiché non consentono di modificare la struttura produttiva esistente. Per farlo, occorre piuttosto il ritorno della pianificazione come strumento centrale. Pianificare non significa imporre dall’alto un modello dirigista, ma orientare in modo consapevole l’evoluzione del sistema produttivo, coordinando investimenti pubblici, transizione ecologica, politiche industriali e obiettivi di giustizia sociale. Significa decidere collettivamente quali capacità produttive sviluppare, quali filiere riconvertire, quali attività espandere o ridimensionare, in funzione di un progetto di benessere condiviso e non della redditività immediata del capitale. È questa la condizione indispensabile per liberare il potenziale della domanda interna, ricostruire autonomia produttiva e rendere possibile un’economia orientata alla dignità del lavoro, alla sostenibilità e all’uguaglianza. Pianificare, naturalmente, significa restituire un ruolo centrale alla proprietà pubblica delle imprese nei settori strategici, che devono agire come soggetti pubblici e non riprodurre le logiche di massimizzazione del profitto tipiche dei soggetti privati. Una trasformazione di questo tipo implicherebbe l’abbandono del modo di produzione capitalistico e l’avvio di un percorso verso forme socialiste di organizzazione. Nelle condizioni politiche attuali ciò evidentemente non è immediatamente realizzabile, ma resta il punto d’orizzonte verso cui orientare il nostro agire. *Matteo Gaddi è responsabile del Centro Studi Fiom-Cgil. Nadia Garbellini è professoressa associata presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali dell’Università di Modena e Reggio Emilia e membro del Forum Nazionale Economia della Cgil. Roberto Lampa è attualmente professore associato presso il Dipartimento di Economia e Diritto dell’Università di Macerata, Docente del Dottorato in Economia Politica dell’Universidad Nacional de San Martín (Unsam), Buenos Aires e Membro del Forum Nazionale Economia della Cgil. Dal 2013 al 2022 è stato ricercatore senior presso il Conicet argentino e docente dell’Universidad de Buenos Aires (Uba). Insieme a Giovanni Carnevali, Giacomo Cucignatto, Lorenzo Esposito, Joseph Halevi, Roberto Polidori e Gianmarco Oro, è autore del libro Tornare alla Pianificazione. Politiche industriali dopo la Globalizzazione. (Punto Rosso, 2025). L'articolo Attualità della pianificazione proviene da Jacobin Italia.
Siamo ancora qui
LA GRANDI E DIFFUSE AZIONI INIZIATIVE NELLE PIAZZE PER LA PALESTINA DI OTTOBRE E NOVEMBRE DIMOSTRANO CHE LA MOBILITAZIONE NON È PER NULLA FINITA CON LA FALSA “PACE” DI TRUMP E CHE IL GENOCIDIO DEL POPOLO PALESTINESE HA SVELATO LA “NUOVA” LOGICA DELL’ORDINE GLOBALE, RIORGANIZZATA SEMPRE PIÙ ATTORNO ALLA GUERRA. MA QUELLE PROTESTE DICONO ANCHE CHE COLORO CHE SONO IN BASSO SONO CAPACI DI INDIVIDUARE ALCUNI PUNTI DEBOLI DI QUELLA RIORGANIZZAZIONE CARICA DI MORTE, AD ESEMPIO IL FATTO CHE IL REGIME DI GUERRA NECESSITA DI UN APPARATO LOGISTICO PIENAMENTE FUNZIONANTE. I PORTI, IN QUESTO SENSO, HANNO UN RUOLO CENTRALE. QUELLI CHE SONO IN ALTO TEMONO MOLTO I BLOCCHI DEI PORTI, PARTITI DA GENOVA È DIFFUSI IN ALTRE CITTÀ EUROPEE Il 28 novembre è stato convocato uno sciopero generale dalla USB (Unione Sindacale di Base), il sindacato che è stato fortemente coinvolto in tutte le manifestazioni svoltesi durante il “bimestre d’oro italiano”, tra settembre e ottobre di quest’anno. La Palestina è rimasta il tema centrale della mobilitazione, che questa volta ha visto però una maggiore articolazione con altre questioni legate alle condizioni di vita e di lavoro in Italia – e non solo. A Genova, la città dove tutto è cominciato con il blocco delle navi effettuato dagli operatori portuali del CALP (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali), più di 10.000 manifestanti hanno aderito allo sciopero, con una presenza elevatissima di studenti e giovani. Il giorno successivo si è tenuta una manifestazione nazionale a Roma, alla quale hanno partecipato circa 100.000 persone, convocata sempre dalla USB e da altre organizzazioni politiche e della società civile. Anche lì, quella presenza giovanile si è distinta come uno degli elementi caratterizzanti della moltitudine che ha riempito Piazza San Giovanni. In questi due giorni di mobilitazione generale, la parola d’orine è stata quella che Riccardo Rudino, portuale genovese, ha gridato al megafono davanti a 40.000 persone in una serata degli ultimi giorni di agosto: “Se loro [i militari israeliani] faranno qualcosa [all’equipaggio della Global Sumud Flotilla], dal porto di Genova non uscirà nemmeno un chiodo. Blocchiamo tutto!”. Una frase che ha fatto il giro del mondo, tradotta e gridata in molte lingue. Riccardo – che i suoi compagni del CALP chiamano affettuosamente “vecchio” – è diventato, suo malgrado, con il suo aspetto un po’ riservato, una delle figure più conosciute nei movimenti globali per la Palestina libera. Si vogliono qui sottolineare tre elementi che caratterizzano oggi il movimento che ha portato nelle piazze di quasi tutte le città italiane circa due milioni di persone dall’inizio di settembre. Ciò, al fine di intravedere le prospettive – se non garantite, certamente sperate – del movimento nel prossimo futuro. Il primo riguarda la persistenza stessa del movimento: contrariamente a quanto era stato frettolosamente previsto, la mobilitazione non è finita con la falsa “pace” di Trump in Palestina. La narrazione proposta dai media mainstream non è stata accolta favorevolmente da chi segue, attraverso altri mezzi, le esecuzioni a sangue freddo, gli abusi, la distruzione di case e terre perpetrati da coloni protetti dall’IDF – e dall’IDF stessa. Qualcosa si è sedimentato in quei due mesi, rimanendo vivo nella coscienza di molti: non c’è giustizia nella pace proclamata dagli assassini e dai loro sostenitori. Non si tratta di un elemento secondario. Segna, anzi il consolidamento di ciò che è stato descritto in queste stesse pagine come un atteggiamento etico, un orgoglio di essere lì, da parte di molti che non avevano mai partecipato a manifestazioni di piazza. L’etica è direttamente legata al politico, si sovrappongono in modi diversi. In questo caso, l’etica assume la funzione di un “dire la verità” nello spazio pubblico, che diventa subito un atto di critica. È lì, nelle piazze, nelle scuole e nelle università, nei luoghi di lavoro, nei quartieri, che quell’atto emerge come una forza capace di trasformare noi stessi. “Dire la verità” non significa solo proporre una lettura diversa dei fatti: è prendere una posizione che diviene subito un atto politico. È una posizione che travalica, pur utilizzandoli, i social network; si appropria di uno spazio pubblico, fa della visibilità il suo punto di forza. È lo stesso che sta accadendo in molti contesti in giro per il mondo. Le bandiere della pace, della Palestina, della USB, dei gruppi politici di sinistra sono accompagnate dalla bandiera del Jolly Roger di One Piece: teschio sorridente, ossa incrociate e cappello di paglia. Il secondo elemento riguarda la menzionata articolazione dei temi che sono entrati in questi due giorni di mobilitazione. La Palestina è una questione globale, perché la Palestina è la Palestina Globale. Ciò significa vedere nel genocidio del popolo palestinese l’aspetto più tragico di una logica che riorganizza l’ordine globale attorno alla guerra. La guerra permanente, dunque, come elemento non eccezionale della ristrutturazione del modello delle relazioni globali – politiche, economiche, energetiche, ambientali, razziali – che costituiscono un vero e proprio “regime di guerra globale”, come è stato definito da Sandro Mezzadra e Michael Hardt. Questa consapevolezza emerge chiaramente in ogni manifestazione, riunione, assemblea, nella misura in cui riconosce in tale regime il coinvolgimento dell’intera catena di produzione, sia di beni sia dell’ordine “poliziesco”. Inutile dire che al suo vertice si trovano le big tech statunitensi, come è stato descritto innumerevoli volte – e con grande chiarezza – in queste pagine. Allo stesso modo, sarebbe ridondante ricordare come i governi del mondo multipolare giochino – ciascuno in base ai propri interessi e alla propria capacità di influenza – il ruolo che più conviene loro. Una consapevolezza – infine – che non risparmia le scelte compiute dal governo italiano e dai centri di potere economico e finanziario (così come da altri paesi europei, con la Germania in testa alla lista dei peggiori), per quanto riguarda le priorità nella pianificazione finanziaria dello Stato. La relazione tra le misure adottate sul piano internazionale e quelle che hanno un impatto diretto sulla vita quotidiana delle persone non lascia dubbi a nessuno. Ecco allora la moltitudine che ha riempito le strade negli ultimi giorni di novembre vedere, come parte della stessa strategia tanatopolitica, i popoli vittime delle brutalità e del cinismo assassino, le famiglie che rinunciano a cure mediche e ospedaliere, che cambiano abitudini alimentari, che non riescono a pagare l’affitto della casa in cui vivono per mancanza di mezzi economici. Allo stesso modo, queste condizioni si legano a quelle di lavoro e di vita – e di morte – nei paesi del Sud Globale, i primi anelli della lunga catena di approvvigionamento del capitalismo bellicista delle piattaforme. Ma vi è anche un altro livello di consapevolezza, che costituisce il terzo elemento caratterizzante del movimento. Il regime di guerra, pluriforme nei suoi modi di agire, necessita di un apparato logistico pienamente funzionante. Guerra e logistica, com’è noto, vanno di pari passo da secoli. Non esiste guerra senza logistica, così come non esiste logistica senza un’organizzazione “militare” dei flussi di approvvigionamento lungo l’intera catena. La struttura che la logistica ha assunto nell’era dell’intermodalità presuppone un legame stretto tra le diverse fasi che la compongono. I porti, in questo senso, hanno svolto un ruolo centrale. Ciò, a partire dalla rivoluzione introdotta dal container negli anni Ottanta, come mezzo di stoccaggio, movimentazione e trasporto di quasi ogni tipo di merce. Il container ha trasformato il trasporto – prima frammentato – in una linea unica e ininterrotta, come scrive Andrea Bottalico nel suo saggio La logistica in Italia. Per farsi un’idea chiara dell’importanza del trasporto marittimo tramite container, basta ricordare i giorni in cui una nave in avaria bloccò il Canale di Suez nel marzo 2021. Si scatenò il panico generale, con i prezzi che minacciavano di schizzare alle stelle, a causa della scarsità di componenti essenziali per molti settori industriali. E tutto questo durò appena una settimana. Il porto, in sostanza, cessa di essere soltanto una tappa nella linea che conduce dallo smistamento delle materie prime alla consegna al cliente finale, per diventare il centro strategico delle operazioni logistiche. La privatizzazione dei porti – e Genova non fa eccezione – con l’affidamento delle operazioni sulle banchine agli operatori privati, è stata la svolta che ha sottolineato tale centralità. Di tutto ciò sono pienamente consapevoli i portuali del CALP – che organizzano il blocco delle navi con carichi di armi dal 2019 – così come tutti gli altri soggetti che hanno articolato le proprie lotte con quella dei portuali. “Articolare tra” è diverso da “convergere verso”. Una consapevolezza che ha contagiato i lavoratori di altri porti, sia in Italia sia in altri paesi europei (Grecia, Cipro, Francia, Spagna e, in una certa misura, Portogallo). Il “blocchiamo tutto” di Riccardo è diventato la parola d’ordine che ha accompagnato le mobilitazioni in molte città contro il regime di guerra nel quale vogliono trascinarci – o nel quale siamo già stati trascinati. Quale potrà essere il destino di questo movimento non è una questione facilmente prevedibile. Innumerevoli sono le variabili, di natura diversa, che potranno influenzarlo. Ciò che sembra non lasciare dubbi è la visione che dobbiamo rafforzare riguardo il contesto di riferimento della stessa lotta. Il compito di ciascuno di noi è lavorare per una sua crescente estensione e internazionalizzazione, come del resto sta già avvenendo. Ciò passa attraverso la costruzione di ulteriori articolazioni lungo l’intera catena di approvvigionamento, a monte e a valle, all’interno e all’esterno. Sarebbe fondamentale cercare alleanze con i lavoratori dell’industria siderurgica che stanno vivendo giorni drammatici, con quelli dell’“ultimo miglio”, dei magazzini delle grandi centrali di distribuzione, che hanno subito minacce, violenze, licenziamenti per aver organizzato scioperi o picchetti. Allo stesso modo, le forze della società civile stanno producendo contenuti che arricchiscono e spostano la lotta su altri livelli, come nel caso di Weapon Watch e di altre organizzazioni di volontariato. La forza del movimento sta nel suo divenire, nella sua capacità di cambiare i propri obiettivi, le proprie articolazioni, le proprie strategie ogni volta che si renda necessario. La logistica non rimarrà ferma a ciò che è oggi, neppure l’intero ciclo di valorizzazione di cui la logistica costituisce il centro nevralgico. Come è sempre accaduto nei momenti di alta conflittualità, gli avversari delle classi popolari troveranno le misure per cercare di fermare le mobilitazioni. Ciò avverrà tanto nei porti quanto negli altri luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle università, così come in qualsiasi altra realtà in cui ci sia qualcuno disposto a bloccare tutto, in nome di un futuro che vogliamo cominciare a frequentare fin da ora. -------------------------------------------------------------------------------- *Stefano Rota è ricercatore indipendente. Gestisce il blog “Transglobal”. Le sue più recenti pubblicazioni collettive sono La fabbrica del soggetto. Ilva 1958-Amazon 2021 (Sensibili alle foglie, 2023) e in G. Ferraro (a cura di), Altraparola. La figura di sé (Efesto Edizioni, 2023). Collabora occasionalmente con riviste online italiane e lusofone. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Siamo ancora qui proviene da Comune-info.
I furbetti del sovranismo
Articolo di Salvatore Cannavò Nell’indagine della Procura di Milano sulla scalata a Mediobanca da parte di Monte dei Paschi (Mps) la mano pubblica è indicata chiaramente. Più che pubblica è una mano di governo, di potere, che obbedisce non certo alla logica dell’interventismo nazionale, pure spesso rivendicato dalla propaganda della destra una volta sociale. E le impronte lasciate sull’operazione, che ora vengono passate al vaglio dei magistrati, indicano che esiste ancora in Italia un conflitto tra poteri che non nascondono la loro vocazione sovranazionale – nel senso di autonomia totale dai poteri nazionali e quindi dagli Stati – e poteri che invece, anche per la loro debolezza, preferiscono la coperta dello Stato e l’appoggio politico per garantirsi maggiori spazi ei profitti. In questa diatriba, però, non si ravvisa uno scontro ideologico degno di nota, non si intravede insomma il portato di una cultura a vocazione nazionale che abbia a cuore il tessuto sociale, il ruolo pubblico, la democratizzazione dei poteri. Tutt’altro, lo scontro di potere è fine a sé stesso con le conseguenze evidenti sul piano politico ed economico.  IL SOSTEGNO DEL MEF Il ruolo del governo in questa vicenda è stato evidenziato dai magistrati. Nell’indagine della Procura di Milano sulla scalata a Mediobanca da parte di Mps, in cui sono indagati l’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone, il presidente di Luxottica e Delfin Francesco Milleri e l’ad di Mps, Luigi Lovaglio, accusati di aver «concertato» insieme la vendita delle quote Mps da parte del Ministero dell’economia e delle finanze (Mef) a soggetti privati con l’obiettivo futuro di organizzare la scalata al «tempio» finanziario milanese Mediobanca, il Mef «non è oggetto di accertamento» in quanto «non è persona fisica e non può commettere reati». Ma, hanno informalmente precisato dalla Procura, anche se il ministero «non commette reati» avrebbe però dato un «sostegno» all’operazione. In questo ginepraio di dichiarazioni rese a mezza bocca, il termine che rimane sul tavolo, e che aiuta a dare il senso di questa complessa operazione, è proprio «sostegno». La dismissione del novembre 2024, quindi, avrebbe rappresentato per l’accusa uno dei «tasselli» della più ampia «strategia coordinata» tra Delfin e Caltagirone, con l’avallo di Lovaglio, per arrivare al controllo di Mediobanca, attraverso Mps e a cascata, dunque, anche di Generali. A corollario di questo interessamento politico delle sorti di Mediobanca e del ruolo che Mps avrebbe dovuto svolgere nel rinnovamento della finanza italiana c’è anche un altro particolare. I tre consiglieri indipendenti di Mps, Annapaola Negri Clementi, Paolo Fabris De Fabris e Lucia Foti Belligambi, hanno infatti dichiarato che le loro dimissioni «sono state richieste o imposte dal Mef o, in un caso, dal deputato della Lega» Alberto Bagnai «che aveva detto di esprimersi per conto» del Tesoro. Non solo il Mef, di Giancarlo Giorgetti, ma anche il parlamentare leghista più attivo sul fronte della finanza e con un approccio decisamente «sovranista», come conferma la sua lunga battaglia per l’uscita dell’Italia dall’euro (peraltro spesso adottando argomenti non banali). Le dimissioni dei consiglieri Mps, che erano stati eletti nella lista del Mef, hanno lasciato a suo tempo adeguato spazio ai due soci di minoranza, Delfin e Gruppo Caltagirone, per «entrare nella cabina di regia» dell’istituto di Rocca Salimbeni. Da lì in avanti si organizza la scalata a Mediobanca che prenderà corpo con il voto determinante dei sette consiglieri espressione del Mef e dei nuovi cinque consiglieri. Un piano di cui, per ammissione alla Consob dello stesso amministratore delegato di Mps, il ministero dell’Economia era stato informato. Non si può sapere come finirà l’inchiesta, ma non è questo il dato importante. Alla luce dei fatti accertati, delle dichiarazioni rese, il ruolo politico del governo Meloni in questa riorganizzazione bancaria è evidente a chi vuol vedere. E di questo, infatti, si discute negli ambienti che conoscono le dinamiche bancarie e finanziarie, italiane e internazionali, e negli ambienti della politica. Quale governo, del resto, riuscirebbe a resistere alla tentazione di dotarsi di un sistema bancario il più possibile amico? Non è stato inchiodato il governo D’Alema, nel 1999, alla famosa espressione di «palazzo Chigi, unica merchant bank in cui non si parla inglese» coniata da Guido Rossi?  Non c’è solo il potere che ne deriva in termini di leva finanziaria, ma anche la garanzia di avere un interlocutore stabile nella gestione del risparmio italiano, decisivo ai fini di una collocazione ottimale dei titoli di Stato. Non a caso, uno dei problemi insiti nello scontro bancario riguarda il controllo di Generali dove il suo amministratore delegato, espressione della vecchia gestione, Philippe Donnet, ha lavorato a lungo insieme alla francese Natixis per creare «un operatore globale da 1.900 miliardi di masse gestite, al nono posto a livello mondiale e leader nell’asset management in Europa con 4,1 miliardi di ricavi».  La caratteristica dell’operazione, come si intuisce, è quella di portare la gestione, e quindi la capacità di influenzare operazioni, sul risparmio gestito fuori dalla portata dei vari governi e di collocarla su scala sovranazionale e in mani rigorosamente tecniche. La logica del capitalismo globale, né più né meno, quella che generalmente viene favorita e garantita dalle politiche dell’Unione europea e della Banca centrale europea che ai governi, spesso, non risponde nemmeno al telefono.  Di fronte a questi scenari, la cultura economica della destra al governo ha sempre detto di voler favorire il ruolo dello Stato, senza avventurarsi mai, però, nelle pieghe di un vero intervento pubblico. L’ipotesi che, per resistere nelle tempeste dell’economia globalizzata, gli Stati debbano dotarsi almeno di un grande istituto bancario pubblico e tornare ad avere la decisione sulle politiche finanziarie, a partire dal tasso di sconto, è cosa che ormai è espunta dal dibattito pubblico e di fatto riguarda fondamentalmente solo la Cina, spiegandone gran parte dei successi economici. L’approccio di Giorgetti e dei suoi collaboratori, invece, è piuttosto quello di fare da protezione a un progetto «amico», al di là del grado di rispondenza al governo, soprattutto un progetto di potere e non certamente in grado di garantire una reale alternativa alle dinamiche perverse della finanza mondiale. Ma in ogni caso, ammantato di patriottismo e di un grado di sovranismo che non ha risparmiato armi e misure audaci per vincere. Come l’utilizzo del cosiddetto golden power, prerogativa governativa a tutela di istituti o aziende considerate vitali ai fini del patrimonio nazionale, che è stato opposto alla scalata di Unicredit su Bpm, uno degli istituti bancari di area leghista e uno degli attori dell’operazione su Mediobanca. O alla benevolenza con cui si guarda la sostanziale scalata di Poste Italiane e Tim dove il vertice della prima è ancora di nomina politica (e si potrebbe continuare con le azioni della Cassa Depositi e Prestiti o la delega assoluta lasciata a colossi come Eni e Enel). Quello che ha ispirato il governo nella sua azione politica-economica è stata la reiterata lotta tra un supposto perimetro nazionale della finanza pubblica contro una dimensione sovranazionale additata come nemica mortale in quanto appannaggio di altri centri di potere. Attorno alla Mediobanca della vecchia gestione Nagel, infatti, si sono saldati i grandi fondi speculativi come Blackrock e Vanguard, le grandi banche JP Morgan e Morgan Stanley, il gruppo assicurativo francese Axa e molti altri, non sufficienti a fermare l’operazione messa a punto in casa senese. Che invece ha potuto solleticare un nuovo «orgoglio nazionale», ma fondamentalmente attirato dai margini di profitto e di potere conseguente, di figure come il costruttore Francesco Gaetano Caltagirone, il pilota del successo internazionale di ExilorLuxottica, Mauro Milleri, o il patròn di Bpm, Giuseppe Castagna.  IL SOVRANISMO LIBERISTA Se la scalata organizzata dalla  «progressista»  Mps alla Antonveneta fu all’insegna dei «furbetti del quartierino», espressione coniata dall’immobiliarista Stefano Ricucci, finito poi anche in prigione, oggi si potrebbe parlare di «furbetti del sovranismo», di un personale politico che si nasconde dietro la difesa delle prerogative nazionali, per non dire della Patria, ma non mette in moto nessuna leva nazionale degna di questo nome. Come le già citate banca pubblica o controllo dei tassi di interesse (mentre prova a spostare il controllo dell’oro dalle prerogative della Bce a quelle del governo nazionale). Un sovranismo furbo che non esce dalle coordinate del liberismo imperante e che per farlo inquina anche il rispetto delle regole che pure i vari governi si sono dati, senza rimettere davvero in discussione l’ordine globale.  Basta una controprova per rendere chiaro il significato di un sovranismo liberista che sembra un ossimoro ma che è sempre più il filo a piombo che lega l’attuale destra vincente in Europa e nel mondo. L’attaccamento alle prerogative nazionali scompare quando in ballo ci sono i destini dell’Ilva. L’1 dicembre i lavoratori sono di nuovo entrati in sciopero con l’obiettivo di cercare di salvare lo stabilimento di Taranto, i suoi livelli di produzione pur in un quadro di decarbonizzazione. Il progetto di tenere insieme il lavoro e la salute, l’ecologia e l’economia sembra piuttosto complicato, i soggetti deputati a farlo, anche a sinistra, anche in ambito sindacale, non hanno sempre l’approccio corretto, ma quale soggetto se non una struttura pubblica a pieno controllo statale e con meccanismi di partecipazione e co-decisione operaia e territoriale potrebbe affrontare seriamente i problemi? Cosa, se non la città di Taranto, e di Genova, insieme alla sua comunità operaia, potrebbe davvero indicare la strada di una rigenerazione possibile?  Eppure, al solo sentir parlare di nazionalizzazione il governo Meloni potrebbe metter mano alla pistola, per utilizzare una celebre espressione. Curiosa contraddizione per chi dice di fare gli interessi della propria nazione. Ma su questo punto il discrimine tra una sinistra di classe e quel che resta della destra sociale è fortunatamente ancora evidente. Peccato che la sinistra esistente, quella che contende alla destra il governo nazionale, da queste orecchie ci sente anche meno. Nella partita bancaria che abbiamo descritto, infatti, dove si è schierato il Partito democratico? Ovviamente con la finanza globale di Mediobanca. Difficile stabilire dove sia la padella e dove sia la brace.  *Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre, 2018) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme, 2023). L'articolo I furbetti del sovranismo proviene da Jacobin Italia.
L’assalto alla Stampa e la guerra informativa
Articolo di Alberto Manconi In questi giorni, un coro unanime si è scagliato contro l’azione dentro al quotidiano La Stampa svolta da un centinaio di giovani a Torino staccatisi dal corteo per lo sciopero generale dello scorso venerdì 28 novembre.  Comprensibilmente, il fatto che la redazione di un quotidiano – peraltro, come fatto notare da molti, non certo il peggiore nel modo di trattare il genocidio in Palestina – sia diventato bersaglio diretto di un’azione del genere, ha impressionato gli stessi operatori dell’informazione più sensibili. Tanto più che quel giorno la categoria dei giornalisti era in sciopero per il proprio contratto e per poter svolgere seriamente la propria professione.  Certamente, possiamo dire che a Torino venerdì scorso si è svolta un’azione che si è rivelata non utile e non intelligente, e che come prevedibile è stata utilizzata dal sistema mediatico e politico complessivo per rendere invisibile l’intero fine settimana di scioperi e manifestazioni contro la finanziaria di guerra e per denunciare che in Palestina non c’è nessuna «pace» e il genocidio continua. Questo articolo però muove dall’impressione – non inedita, ma certamente singolare negli ultimi mesi che hanno mostrato le prime crepe del Governo Meloni – provata di fronte alla condanna così dura e ampia che tale azione ha suscitato nel dibattito pubblico. Sottolineo la parola condanna perché tale termine, insieme a quello di assalto, è stato quello decisamente più in voga per riferirsi a tali fatti. «Condanno l’assalto a La Stampa» è stata l’espressione più utilizzata, anche tra gli operatori dell’informazione e della cultura che più si sono schierati per Gaza negli ultimi due anni. I toni sono giunti a incredibili accuse di «squadrismo» e «fascismo», e per capire il livello a cui sono arrivati basti leggere l’editoriale di Antonio Polito sul Corriere della sera che scaglia epiteti di ogni tipo contro Francesca Albanese, definita la «maestrina estremista», manipolando ad arte le sue dichiarazioni, come hanno fatto del resto in molti. Secondo gli stessi canali social de La Stampa quella di venerdì scorso è stata un’«irruzione» all’interno degli uffici della redazione in quel momento vuota per l’adesione allo sciopero da parte dei giornalisti. Una volta dentro, come si evince dalle immagini, i cento manifestanti hanno buttato a terra dei documenti e fatto alcune scritte sul muro in una stanza piena di altri oggetti di maggior valore, in primis i computer, che non sono stati in alcun modo danneggiati.  Se ascoltiamo invece i dibattiti e le dichiarazioni degli ultimi giorni, incontriamo lo stesso piano discorsivo e gli stessi toni nel descrivere l’«assalto» a La Stampa e gli «assalti» quotidiani dell’esercito israeliano a Gaza, che tra l’altro persino nella prima settimana della «pax trumpiana» ha ucciso vari giornalisti e ne ha uccisi centinaia dopo il 7 ottobre. Si finiscono così per confondere azioni e parole, vernice e bombe, cadaveri e fogli, in un vortice infinito di equivalenze senza alcun senso e contesto.  Ma da dove deriva una reazione così spropositata? «L’appello alla causa palestinese può creare una miscela esplosiva», scrive sempre Polito sul Corriere. La Palestina continua a essere la pietra dello scandalo. Editorialisti, leader politici e istituzionali sembrano letteralmente impazziti di fronte al fatto che la causa palestinese susciti così tanta solidarietà e movimento, al punto che di fronte al primo errore o parola sbagliata di una parte dei manifestanti si lanciano in accuse a corpo morto, provando  a personalizzare l’attacco contro chi ha rappresentato pubblicamente questo sentimento solidale con la Palestina.  In tutto questo si perde il contesto politico dell’inefficace azione a La Stampa, contesto caratterizzato da una settimana molto rilevante per Torino e per il relativo movimento di solidarietà alla Palestina, dovuto all’incarceramento in un Cpr dell’Imam di San Salvario Mohamed Shahin per un reato d’opinione. Shahin è ora in attesa di essere deportato in Egitto, un paese – come dimostrano le vicende di Giulio Regeni e Patrick Zaki – autoritario e pericoloso per i dissidenti ma fondamentale, insieme all’italia, per il controllo del Mediterraneo all’interno dello scacchiere geopolitico che unisce Stati uniti e Israele. Il tentativo di deportazione di questo padre di due figli residente in Italia da 21 anni per aver contestualizzato in modo discutibile il 7 ottobre, ma senza assolutamente giustificare l’attacco di Hamas, è portato avanti direttamente dal governo. La procura di Torino, infatti, non ha trovato alcun elemento per ipotizzare una violazione del codice penale, neanche un’istigazione a delinquere. E lo stesso vescovo di Pinerolo ha lanciato un appello pubblico in sua difesa. Tuttavia, l’onorevole Augusta Montaruli, amica di Giorgia Meloni e nota ai più per una condanna per peculato e per aver letteralmente abbaiato in diretta Tv, ha chiesto a gran voce l’espulsione dell’imam di Torino, trovando il favore del ministro dell’interno Matteo Piantedosi. Si tratta di un tentativo non solo di espellere, ma di spaventare in modo particolare le persone razzializzate che hanno avuto un ruolo decisivo nell’emersione del primo movimento, quello per la Palestina, in grado di durare e di mettere in difficoltà il governo Meloni. Il 9 Ottobre, giorno della manifestazione incriminata per le dichiarazioni di Shahin, La Stampa cita l’imam solo en passant. Poi però assume un ruolo forte in questa vicenda: l’11 ottobre esce col titolo «Il 7 ottobre non fu violenza ma resistenza, bufera sulle parole dell’imam in piazza Castello». Poche ore dopo, si unisce il Corriere della sera che aggiunge «Fdi ne chiede l’espulsione». E qui inizia il processo mediatico e politico per cui Shahin ora rischia la deportazione.  Il contesto politico generale è questo, e dovremmo sapere che la valanga di sproporzionate condanne dell’azione a La Stampa è fatta ad arte per legittimare molte altre condanne contro semplici prese di posizione – come dimostra oggi l’appello a revocare le cittadinanze onorarie a Francesca Albanese – ma anche condanne legalmente ben più gravi che potrebbero arrivare anche per le azioni svolte dai movimenti degli ultimi mesi, ad esempio l’occupazione di varie strade e autostrade per bloccare il paese contro il genocidio.  Se prendiamo sul serio i rischi di autoritarismo di cui pure parlano ogni giorno molti operatori di stampa, insieme a sindacati, organizzazioni della cooperazione internazionale e alcune organizzazioni politiche, non si dovrebbe far fatica a riflettere sulle conseguenze che possono avere i toni di condanna usati. Quella del giornalista è una figura professionale fondamentale per qualsiasi idea minima di democrazia o di controllo del potere politico. Una categoria lavorativa che spesso lavora precariamente, che è messa in questione dai vari passaggi tecnologici che riguardano la sfera mediatica e che arriva malconcia alla sfida che l’intelligenza artificiale pone a tutta la classe professionale. Ma soprattutto, e più concretamente nell’attuale congiuntura politica, è una figura che quando fa il proprio mestiere con solerzia rischia grosso, come dimostra proprio la Palestina, ma anche gli attacchi diretti contro Sigfrido Ranucci. Questa categoria, però, è stata spesso sfigurata in Occidente – e in Italia in particolare – dal ruolo maggioritario svolto dall’informazione con il ritorno della guerra in Europa e con il genocidio a Gaza. Questa delegittimazione degli operatori dell’informazione ricade purtroppo su tutti e tutte. Mette spesso sullo stesso piano chi si assume grossi rischi per fare informazione libera e di qualità con chi si offre come ripetitore e difensore strenuo della linea dettata dalle principali «firme» e agenzie stampa che determinano l’agenda e le parole chiave contribuendo a militarizzare tutto. A partire dal dibattito pubblico. Se una delle critiche condivisibili all’azione di Torino è quella di aver fatto di tutta l’erba un fascio, siamo certi che la condanna corale e sproporzionata di quell’azione non contribuisca a esasperare l’idea che esista una «casta» giornalista corporativa? Un rischio le cui conseguenze finiscono per ricadere soprattutto sulle figure più scomode che fanno un prezioso lavoro giornalistico giorno per giorno. Per questo stupiscono le prese di posizione di quanti tra quest’ultimi si sono appiattiti sui termini assurdi per descrivere quanto avvenuto a Torino propinati dai media mainstream, perché l’obiettivo è espellere l’ormai temutissima solidarietà al popolo palestinese dal dibattito pubblico, come si espelle l’Imam Shahin per un reato d’opinione stabilito dal governo. L’estrema destra al governo dimostra di conoscere la nozione di rapporti di forza: attaccano chi li contrasta e difendono, sempre, la loro parte e chi potrebbe unirvisi. È giusto che noi evitiamo di essere come soldati in guerra, e che segnaliamo liberamente ciò che non si condivide. Ma non si possono negare le guerre che vengono fatte sulla nostra pelle. Tra queste c’è anche la guerra informativa, e anch’essa determina i rapporti di forza in cui ci troviamo.  *Alberto Manconi è dottorando presso l’Università di Losanna, si occupa di attivismo climatico e partecipa al movimento Insorgiamo, di solidarietà al Collettivo di Fabbrica ex-Gkn, e al percorso degli Stati Generali della Giustizia Climatica e Sociale. L'articolo L’assalto alla Stampa e la guerra informativa proviene da Jacobin Italia.
Perché quanto accaduto alla “famiglia nel bosco” riguarda tutti noi
SU AUTODETERMINAZIONE, COLONIALISMO E FEMMINILE. CI SONO POCHE CERTEZZE MA TANTI STRAORDINARI SPUNTI DI RIFLESSIONE IN QUESTO INTERVENTO DI ELISA LELLO Cascina Santa Brera di San Giuliano Milanese: qui da diversi anni la cooperativa Praticare il futuro promuove non singole giornate ma veri percorsi per le scuole pubbliche e campi vacanza di educazione ambientale e alla cittadinanza globale -------------------------------------------------------------------------------- Molti, a partire dalla vicenda che ha coinvolto la famiglia nei boschi di Palmoli, si sono concentrati sui dettagli emersi dalle carte processuali. La mia intenzione è invece di sfumarli per collocare la questione in un quadro più ampio, che ci aiuti a capire come mai questi fatti così tanto parlano di noi tutte/i da aver suscitato reazioni così forti e diffuse. Non pretendo certo di fornire interpretazioni esaustive, ma proverò a fare emergere qualcosa di cui, mi pare, sia stato detto assai poco finora. Da una parte un’amplissima indignazione popolare, sfociata in alcune petizioni e nell’indizione di una manifestazione di protesta, contro una decisione avvertita come sproporzionata, violenta, di grave impatto sugli equilibri familiari e soprattutto su quei bambini. Dall’altra una levata di scudi che ha visto come protagoniste diverse componenti della sinistra, per una volta in accordo fra loro, e, come invece accade regolarmente, in netta contrapposizione con la reazione popolare. I temi sollevati da una parte della sinistra sono quelli della privatizzazione dell’infanzia, del rifiuto “neoliberale” della scuola pubblica, dell’individualismo egoista, della sfiducia (immaginata come patologica) verso le istituzioni, dei genitori che pretendono di disporre dei bambini come fossero loro proprietà; fino agli immancabili dileggi contro le fantasie a sfondo New Age che corredano la vicenda di cronaca. Io credo, invece, che altri siano i processi di cambiamento, che coinvolgono tutti noi, di cui percepiamo questa vicenda come l’epitome; ed è questo, forse, a rendercene gli esiti così visceralmente indigeribili, intollerabili. Credo che in molti, in questa vicenda, abbiano colto l’ennesimo segnale di margini che si ripiegano su se stessi per restringere ancora di più le possibilità di autodeterminarci, di vivere in un qualche modo che si discosti dalla norma, di scartare di lato; per essere invece incanalati dentro quella strada segnata che più si rivela assurda, invivibile, asfissiante, più pretende di imporsi come unica opzione possibile. Quanto più facile era, anche solo venti o trent’anni fa, viaggiare in autostop, o piantare una o più tende e vivere momenti di convivialità non mercificati godendosi liberamente il mare, o i boschi e la montagna? Ricordo racconti epici di un intero paese che si spostava in quella che oggi è una celebre spiaggia per turisti, in Sardegna, per settimane, con tanto di pecore (vive) al seguito per i banchetti serali. Ora quasi non ci stupiamo più che qualcuno ci mandi via mentre siamo seduti a due metri dal bagnasciuga a bere una birra con un amico. Qualcuno forse arriva anche a pensare che in fondo sia meglio così, “per la nostra sicurezza”. Quanto era più semplice e lecito cercare interpretazioni dietro alla malattia che non fossero costrette nella gabbia dell’insensatezza biochimica o genetica, e quindi praticare percorsi di guarigione dove il corpo non veniva scisso dal vissuto individuale e collettivo? Quei percorsi, insomma, che oggi in blocco e immediatamente vengono screditati come ignoranza e creduloneria, e guai a chi si rende colpevole di chiedersi se magari c’è qualcosa che le nostre lenti biomediche non ci consentono di vedere. Perché noi – noi occidentali, razionali, scientifici… – e solo noi, tutto sappiamo (e si vedono i risultati… Ma su questo, torno in chiusura). Ma di questi tempi assai recenti sono molte le storie che ci parlano di veri e propri attacchi ad ogni genere di autonomia, di un restringersi incessante dei margini di scelta su come e dove vivere, coltivare, lavorare, partorire, curare, educare, apprendere1. Chi vive nelle “aree rurali” o interne sa quanto è diventato difficile decidere di rimanervi, stretti tra desertificazione dei servizi, trasformazione dei territori – ancor più se montani – in parchi divertimento per turisti (magari anche naturalistici), o loro conversione in zone di sacrificio green, per fare posto a mega “parchi” eolici o fotovoltaici. Ma poi, basta pensare a tutti i contadini e allevatori che ancora si ostinano a produrre cibo in maniera davvero ecologica; eppure ogni giorno solerti funzionari pretendono di applicare alle loro aziende, spesso di dimensioni familiari, le stesse regole che valgono per l’agroindustria, con il risultato di sotterrarli di multe e richieste burocratiche inconcepibili, obbligandoli così ad entrare in percorsi di indebitamento necessari perché tutto sia in regola: e che condurranno assai efficacemente all’obiettivo della morte dell’agricoltura contadina, e con essa di ogni possibilità residua di autonomia e autodeterminazione (a tutto ed esclusivo vantaggio delle multinazionali dell’agrochimica, della manipolazione biotecnologica e del digitale), proprio nell’ambito che prima di ogni altro risponde ad un nostro bisogno primario2. La rabbia verso istituzioni che usano il pugno di ferro per punire una famiglia che vive fuori dagli schemi ordinari, pure senza segni di illegalità, disagio, violenza o infelicità, e anzi con evidenti segnali di attenzione, di tempo restituito alle proprie scelte, di ecologia reale; quando quelle stesse istituzioni non vedono, o fingono di non vedere, il disagio delle infanzie rubate dagli schermi, o il dolore dei bambini e delle bambine che vivono in famiglie la cui serenità è stata portata via dalle condizioni precarie, oppresse, del lavoro dei genitori: questo, credo, un primo punto importante, alla base, giustamente, della reazione popolare. La sensazione sempre più chiara di un restringimento delle nostre capacità immaginative ed esistenziali, a cui fa seguito la repressione giudiziaria; la consapevolezza che quella decisione estrema sia un monito per tutti noi, un avvertimento che ci ricorda come gli spazi di libertà e autodeterminazione siano sempre più ristretti, e che ogni deviazione non verrà più tollerata. Ma andrà pur bene la libertà individuale – dicono molti, a sinistra – però i figli non devono subire le decisioni dei genitori, perché non sono loro proprietà, e qui saremmo di fronte a un delirio di onnipotenza dei genitori, che pensano di poter disporre dei figli a proprio piacimento. Eppure, tutti i genitori “impongono” le proprie scelte educative ai figli, sia quando seguono, più o meno, la corrente, sia quando se ne discostano. Com’è giusto che sia. La domanda che dovremmo porci, piuttosto, è per quale ragione solo ai genitori che si assumono il rischio di scelte controcorrente chiediamo di giustificarle. Le scelte che non contraddicono la narrazione dominante, anche quando visibilmente inadeguate, discutibili, o anche pericolose, non sono oggetto di giudizio: siccome si conformano, è come se questo bastasse a giustificarle3. Quanto, poi, alla presunta “privatizzazione dell’infanzia” e all’altrettanto presunta onnipotenza dei genitori, mi pare che siamo di fronte piuttosto al contrario. Da tempo assistiamo a narrazioni giornalistiche che concorrono a dipingere genitori inadeguati e incapaci di assolvere il proprio ruolo. Madri e padri dipinti nientemeno che come “la rovina della scuola”, che offendono insegnanti ree/i di aver dato un brutto voto al pargolo, o che insultano allenatori o arbitri colpevoli di non aver riconosciuto l’incredibile talento del piccolo calciatore. Non dico che simili episodi non possano accadere: dico, però, che chiunque abbia figli sa quanto la realtà quotidiana sia lontana da – e opposta a – tale narrazione. Eppure sono sempre fatti come questi ad attirare l’attenzione di giornali e Tv, contribuendo a consolidare una narrazione unidirezionale. Narrazione che però, guarda caso, non è per nulla innocente: perché si presta invece a delegittimare la figura dei genitori, e per questa via a minare il loro ruolo di ultimo, per quanto fragile, baluardo rispetto alla possibilità da parte dello Stato – e quindi oggi, sempre più, del mercato – di disporre di bambini e ragazzi, su un’ampia varietà di questioni sanitarie, educative etc. Per esempio, prendendo un tema massimamente tabù di cui pure sarebbe ben ora di pretendere di poter discutere laicamente (e scientificamente…): ricordate il precedente giuridico della recente sentenza che ha stabilito la possibilità per i minori almeno a partire dai 16 anni di vaccinarsi contro il Covid indipendentemente dal consenso dei genitori4 (per non parlare delle minacce di sottrarre la patria potestà ai genitori con qualche dubbio sul calendario vaccinale pediatrico introdotto da Lorenzin…)? Come suona oggi, a fronte delle evidenze scientifiche finalmente davanti agli occhi di tutte/i sull’opportunità e sul bilancio tra costi e benefici di quelle profilassi per bambini/e e ragazzi/e? Ma andiamo avanti. In molti, sempre a sinistra, hanno accusato la famiglia in questione di essersi rifugiata nell’isolazionismo, senza che i bambini potessero entrare in contatto con altri modi di vivere, negando loro, quindi, la possibilità di “scegliere”. Non mi soffermo sull’ovvio, e cioè che si può socializzare anche al di fuori della scuola statale (come in effetti era il caso), o sul fatto che percorsi formativi parentali, così come quelli libertari, alternativi alla scuola statale, sono realtà consolidate e perfettamente riconosciute sul piano normativo, etc. Provo invece ad avventurarmi su terreni più difficili, quasi per nulla battuti finora; su cui non ho risposte, eppure si dovrà pure iniziare a parlarne. Certo, sarebbe bello poter conciliare: poter crescere i figli facendo l’orto insieme, e intanto mandarli alla scuola pubblica, così che possano entrare in contatto con diversi modi di stare al mondo: ma è davvero possibile? È possibile appassionarli alla cura di un orto familiare, o insegnare loro ad allevare le api e smielare, nel momento in cui si mette loro in mano uno smartphone? Temo che stia diventando sempre più difficile, e non è certo un caso: i neuroscienziati della Silicon Valley sono al lavoro precisamente per fare sì che questo non possa avvenire; per fare sì che, nel momento in cui hanno uno smartphone in mano, la vita là fuori diventi una noiosa dilazione del momento in cui si potrà finalmente tornare a scrollare video, reels e a controllare notifiche5. È possibile crescere bimbi felici di assaporare i fagiolini appena colti dall’orto, quando entrano in contatto col Mac? O quando andando a scuola si sentiranno diversi, e magari esclusi, perché porteranno nello zaino il frutto o la crostata al posto della merendina confezionata, e non conosceranno l’influencer del momento da millemila visualizzazioni? E questo non, ovviamente, perché il BigMac o lo scrolling compulsivo abbiano qualcosa di oggettivamente migliore rispetto a imparare ad allevare le api, suonare uno strumento o annoiarsi ascoltando il vento tra gli alberi. Ma vincono, perché sono più facili, palatabili, passivizzanti, spossessanti. A proposito di quest’ultimo aggettivo, “spossessante”, dai richiami chiaramente e volutamente illichiani: Christian Raimo nei giorni scorsi ha tracciato una linea di continuità che parte da Ivan Illich per arrivare addirittura a Thatcher e Reagan, prima di centrare proprio il focolare della famiglia anglo-australiana nei boschi abruzzesi; il tema è quello della delegittimazione del pubblico da cui discenderebbe la natura neoliberista di queste “fughe nel privato”. Ebbene: anziché continuare ad avvolgerci dentro il brandello della scuola pubblica come in una (logora) copertina di Linus, non sarebbe più utile, per i bambini e le bambine che la frequentano, vedere come abbiamo lasciato che mercato e digitale la sfigurassero? Non sarebbe più utile recuperare proprio la ricchissima eredità di Illich, che avrebbe in questa fase storica trovato “l’ora della sua leggibilità”6, per capire la potenza devastante, colonizzatrice, uniformante di certe “tecnologie che spossessano” acriticamente assurte a insostituibili strumenti didattici? Leggendo i molti commenti indignati sui diritti presuntamente lesi di questi bambini, ho spesso pensato che forse sono piuttosto i figli come i miei – quelli delle famiglie che, ognuna a modo suo, hanno cercato di crescerli con idee, valori e principi diversi da quelli dominanti senza tuttavia rinunciare a mandarli (quasi sempre) alla scuola pubblica – quelli che hanno davvero sofferto, ben più dei bambini della vicenda abruzzese. Perché sono figli presi in mezzo, tra famiglie che propongono valori ed esperienze (nel nostro caso, piuttosto vicini a quelli della famiglia diventata famosa: l’orto, i Gruppi di Acquisto Solidali, le escursioni, l’autoproduzione del cibo, le tendate, i falò, lo scoutismo, la grande cura per la lettura e la manualità…) e messaggi che arrivano dai media, dagli schermi ma anche dalla scuola, che vanno in direzione spesso opposta e inconciliabile7. Così che il peso di tutta l’inconciliabilità che si è aperta fra questi mondi si è scaricato proprio sulle esili spalle di bambini e ragazzi, e sulle famiglie. Mentre i media parlano di genitori inadeguati, io parlerei piuttosto di genitori lasciati soli in trincea a gestire l’ingestibile quotidianità della prima generazione di piccoli umani dotati di schermi onnipresenti; e dell’assurdo tecno-ottimismo imperante, che impedisce di affrontare pubblicamente la questione, contribuendo così alla solitudine dei genitori8. Parlerei della fatica immane a fare funzionare quelle maledettissime app che dovrebbero teoricamente consentire qualche possibilità di controllo e limitazione, sui tempi e sui contenuti, della navigazione su Internet degli smartphone dei ragazzi; e che invece costituiscono il principale fattore di inquinamento dei rapporti familiari. Parlerei dei conflitti quotidiani nati dalla frustrazione per tutto ciò che prima di rassegnarci a consegnare ai ragazzi uno smartphone (rassegnazione peraltro resa necessaria proprio dalla scelta di mandarli alla scuola pubblica) era possibile – leggere insieme o vederli leggere libri per ore, costruire cose con le mani, chiacchierare, camminare meravigliandosi di una certa luce che filtra tra gli alberi, annoiarsi… – e ora sempre meno, con la loro attenzione e il loro tempo vampirizzati dagli schermi. E volendo porre dei limiti, come pure è necessario fare, il rischio è quello di far aumentare il valore, ai loro occhi, delle tecnologie e del tempo ad esse dedicato, fino a far assurgere a supremo desiderio il sogno misero di un accesso illimitato. E quindi è giusto proteggersi, arrivando anche a pensare a forme di isolazionismo, che poi non è solitamente individualistico o solitario, ma in comunità alternative? Non lo so, non ho risposte. So però che dove altri sono certi di vedere solo un ripiegarsi egoistico e neoliberale io vedo piuttosto la ricerca di coltivare possibilità altre di vita che devono essere protette proprio per essere possibili, e poter così diventare esempi concreti, prefigurativi, e camminabili da altre/i. Infine, ultima grande accusa che quella parte della sinistra rivolge alla famiglia in questione e a chi ne prende le difese: l’antistatalismo. Come se gli apparati giudiziari e repressivi dello Stato fossero sempre un bene in sé; come se la diffidenza fosse diventata sinonimo di patologia, anziché di sana prudenza. Pensare che, con buona pace di chi vagheggia su Stati contemporanei intrinsecamente buoni, e forse addirittura socialisti, proprio Marx parlava dello Stato come comitato d’affari della borghesia: e non so cos’altro dovesse accadere, in questi ultimi 170 anni, per fare di quella diagnosi una delle più azzeccate, confermate e arricchite di sensi e sfumature dal corso degli eventi. Piuttosto, il punto che mi preme, in chiusura, sottolineare, è quello del colonialismo, che del resto è strettamente legato all’affermazione degli Stati moderni. La sottrazione dei bambini alle famiglie, per farli educare secondo i canoni della cultura dominante, è in effetti una pratica tipica del colonialismo9. Però, si obietterà, qui non siamo in presenza di culture altre, di nativi assoggettati alla dominazione coloniale da parte dell’Occidente. Invece, credo sarebbe ora di rovesciare precisamente questo ragionamento, per iniziare a utilizzare gli strumenti che la letteratura decoloniale ha elaborato per utilizzarli anche “a casa nostra”10. Per utilizzarli anche nella stessa Europa, che del resto è stata il primo continente oggetto di violenza coloniale, nella duplice forma di genocidio ed epistemicidio, con l’avvento della modernità industriale e capitalista e i suoi apparati di dominio, conoscenza e giustificazione. Mi sembra, anzi, che proprio in questa ostinazione a usare le cautele decoloniali solo in riferimento a culture altre, lontane, permanga uno sguardo coloniale: perché “loro”, in fondo, possono essere giustificati se si ostinano a difendere la legittimità di metodi di cura, epistemologie ed ontologie differenti da quelli ritenuti superiori, e anzi validi in via esclusiva, dalla cultura occidentale; perché loro credono, mica sanno. Ma noi, che invece sappiamo per certo che il mondo è solo quello spiegato dalla nostra scienza positivista, no! Quindi, qui in Occidente, nessuna deviazione può essere plausibile, né giustificata… E invece, quanto colonialismo c’è nello sguardo egemone che dà per scontato che solo il modo di vivere civilizzato, urbano, industriale, tecnoscientifico sia il metro di paragone che ci conferisce il diritto insindacabile di certificare l’arretratezza (il conservatorismo, il populismo…) degli abitanti rurali? Quanto colonialismo c’è nello screditare l’ingenuità insita nel preteso “idillio arcadico”, addirittura associandolo necessariamente a cupe simpatie reazionarie/naziste? O nella rozzezza quasi animalesca con cui viene descritta/o chi ancora mantiene – nell’attaccamento alla casa familiare, alla terra, ai propri animali, alla parola data11 – qualche traccia di fedeltà alla cultura preindustriale? E quanto nell’arroganza di chi dà per scontato che metodi di cura diversi dalla medicina biochimica – a prescindere dalla loro diversità, e in alcuni casi dalla storia millenaria che li connota – siano riducibili a ignoranza, superstizione, irrazionalismo? Ma sotto questa storia scorre qualcosa di antico, molto antico; che ciclicamente, carsicamente, riaffiora in superficie. A questo proposito, Paolo Mottana ha espresso preoccupazione, su un testo pubblicato proprio qui su Comune – Qualche riflessione sull’homeschooling – a proposito della nostra “famiglia nei boschi”, per il pericoloso affermarsi di un tratto del femminile legato alla vituperata “esaltazione acritica” della natura, a metodi naturali di cura, fino a comprendere ideologie vagamente “spiritualiste ed esoteriche”. Nel rilevare la centralità dell’elemento “femminile”, credo abbia colto un aspetto cruciale della questione; tuttavia, la mia valutazione è diametralmente opposta: dove Mottana vi legge qualcosa da temere in ragione della sua pericolosità, io scorgo al contrario l’orizzonte a cui guardare per cercare possibili vie di uscita. In effetti, l’associazione tra il principio femminile e l’elemento boschivo, la conoscenza delle erbe e dei metodi di cura naturali, risale molto indietro nella storia della cultura occidentale. Tra i molti che ne trattano mi riferirò, per solidità della documentazione e delle interpretazioni storiche, alla traccia proposta da Giorgio Galli, che in un bellissimo libro ricostruisce la storia di un conflitto che accompagna, appunto, carsicamente, la storia dell’Occidente fin dalle sue origini, tra culture caratterizzate da un’impronta a prevalenza femminile o maschile: senza, per questo, farne in alcun modo una questione di rigida distinzione individuale di genere. Già nella Grecia classica, Galli sottolinea l’insistenza, nel teatro (una delle istituzioni che segnano e contribuiscono a consolidare e legittimare, nella sua lettura, la vittoria della cultura maschile sulle ribellioni femminili), sul ruolo della polis come misura della condizione civilizzata (dove il polites è solo maschio), in contrapposizione all’agros, contrassegnato dalla mancanza di misura (ovviamente secondo il punto di vista della cultura vincitrice) e dall’associazione al femminile e ai boschi, dove appunto avevano luogo i riti dionisiaci e la ribellione femminile12. L’associazione tra femminile e boschivo, rurale, pagus, come contrapposto all’urbano, riemerge nella storia del Cristianesimo, dove i rituali a forte presenza femminile, in cui riecheggiava una controcultura più antica dai tratti libertari e anti-autoritari, pacifici, erotici, estatici, collegati a saperi e medicine tradizionali e a forme di organizzazione sociale matrilineare, vengono demonizzati e proibiti, a partire dal III secolo, nelle città, ma molto meno nelle campagne. È qui, lontano dai centri abitati, che quella cultura sotterranea viene tollerata dalle gerarchie ecclesiastiche e continua a sopravvivere almeno fino alle soglie della modernità, quando verrà violentemente repressa tramite l’Inquisizione13. Nel fuoco dei roghi, insieme alle “streghe”, sono andati in fumo saperi radicati in un’epistemologia che negava la distinzione tra spirito e materia: la loro cancellazione violenta è stata necessaria per l’affermarsi della scienza moderna, che affonda le radici in un’epistemologia totalmente differente – basata invece su una natura “morta”, mero ordigno meccanico-matematico, materia inerte da quantificare, controllare, depredare e sfruttare – senza la quale la modernità industriale e coloniale sarebbe impensabile14. Ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi, allora, può forse essere letto in modo differente. Il momento di culmine della vittoria globale di quella cultura “maschile” (ripeto, a scanso di equivoci, che stiamo parlando di culture improntate a un principio, in cui si possono riconoscere persone al di là delle distinzioni di genere), urbana, tecnoscientifica, è proprio il momento in cui si svela la sua distruttività; ancor più quando non ammette più alcun riequilibrio, alcuna mitigazione, dalla sua controparte “naturale”, ormai ridotta a stati infantili, pre-razionali dell’umanità; e a forme di conoscenza inferiori, non scientifiche quindi risibili. È il dispiegarsi incontrastato e colonizzante di quella cultura a condurre alla devastazione ecologica, nella forma di un riduzionismo tecnoscientifico15 che apre la porta ad ogni hybris di manipolazione del vivente; e, indissolubilmente, a dare per scontato che tutto ciò che è tecnicamente possibile debba per ciò stesso essere perseguito, senza nemmeno darci il tempo per chiederci se sia in effetti desiderabile – nei campi della razionalizzazione e dell’estrazione di dati, della digitalizzazione, della sorveglianza “per la nostra sicurezza”, del dominio sulla natura e sull’umanità reso inedito nella sua portata dalla tecnoscienza, fino ai deliri del transumanesimo. Eppure, è quella stessa vittoria assoluta che ci ha propinato esistenze insopportabili perché deprivate di senso, e deprivate di senso proprio perché obbligate ad arrendersi all’unica verità “razionale” concessa, che è quella di una disconnessione senza appello tra microcosmo e macrocosmo, tra i nostri destini individuali e un Cosmo diventato muto, ridotto a cieca meccanica da sfruttare per accumulare valore; in cui sono state cancellate le corrispondenze che le culture antiche davano per scontate tra ciò che accade qui e ciò che avviene altrove: quelle corrispondenze da cui potevano trarre senso i concetti di limite e proporzionalità. È forse proprio da qui che occorre partire per capire come mai questi concetti sono diventati impronunciabili proprio nel momento in cui ne avremmo massimamente bisogno16. Così che chiunque cerchi di recuperare saperi e sguardi un po’ più ampi rispetto al ristrettissimo angolo visuale autorizzato viene invariabilmente tacciato di ignoranza e ricacciato a forza nel calderone infamante del “New Age” spiritualista ed esoterico “un tanto al chilo”17. E questo avviene dentro società che si pretendono talmente razionali da essersi liberate dalla magia, senza accorgersi di essere loro stesse quelle davvero stregate, visto che il vuoto lasciato dalla magia è stato preso, molto più che dalla ragione, dall’incantamento del capitale, dalla fantasmagoria della merce18. Nel culmine del trionfo di quella cultura “maschile”, urbana, industriale, imperialista – che è anche momento del disvelamento del suo punto di arrivo, che non può che coincidere con riarmo, ritorno alla leva obbligatoria e lugubri marce di guerra – riemergono rigurgiti e resistenze, da parte di quella quota insospettabile di umanità, di certo non leggibile in termini di classe, restia a farsi carne da macello capitalista, recalcitrante a ridursi ad addestratrice di intelligenze artificiali, indisponibile a diventare del tutto dipendente, per ogni necessità vitale (coltivare, mangiare, orientarsi, riprodursi, socializzare, flirtare, pensare, scrivere…), da macchine fuori da ogni nostra possibilità di controllo; nonché perplessa rispetto a quelle proposte teoriche che arrivano a negare l’esistenza di una natura che non sia già fin dall’inizio ibridata con esse19. Non è un caso (né un pericolo; questo sta semmai nella sempiterna paura del femminile) che in queste resistenze – individuali, comunitarie e territoriali – riecheggino e riaffiorino il femminile, il naturale, la tensione a tornare verso forme di sussistenza materiale e a reimpadronirsi di alcune almeno fra le competenze ad essa necessarie; la critica alla delega, alla digitalizzazione e alle tecnologie spossessanti; il bisogno di recuperare conoscenze necessarie per gestire collettivamente la salute in modo più autonomo e consonante con la ciclicità della vita; e la ricerca di vie e strumenti anche “eretici” per recuperare senso e connessione. Insieme alla consapevolezza che, se vogliamo trovare una via di uscita dalla crisi ecologica, sociale, bellica e di senso che attraversiamo, non possiamo guardare agli alfieri della cultura che ci ha condotti fino a questo punto, bensì aprirci verso altri mondi e altri modi di stare al mondo: e non per riaffermare ancora una volta la nostra insostenibile superiorità, bensì per farci aiutare a ricordare ciò di cui la modernità industriale ci ha mutilati. Senza però riuscire – non del tutto, per fortuna – a sopirne la memoria. (con il cuore rivolto a quella famiglia; e insieme a tutte/i coloro che, come sanno sentono e possono, recalcitrano e disertano) -------------------------------------------------------------------------------- PS ringrazio il caro Luigi Balsamini per la rilettura e gli utilissimi commenti. Grazie anche ad altri cari amici ed amiche per i confronti da cui sono nati molti degli spunti dietro a queste note. -------------------------------------------------------------------------------- Note 1 Solo nel darci la morte pare che siamo rimasti liberi di autodeterminarci. Il che, già di per sé, dovrebbe indurci a qualche dubbio. I sospetti poi si infittiscono quando questa pretesa “autodeterminazione” collima con gli esiti e gli interessi di questa fase del capitalismo; ma si veda Wolf Bukowski, Così fan tutte a Salò, parte II. Imporre il piacere, somministrare la morte, reperibile qui. 2 Sul tema, mi limito a rinviare a L’Atelier Paysan, Liberare la terra dalle macchine. Manifesto per un’autonomia contadinaealimentare, Libreria Editrice Fiorentina, 2024; sulle conseguenze dei nuovi OGM, rimando invece a Stefano Mori e Francesco Paniè, Perché fermare i nuovi OGM (TerraNuova, 2024). 3 Anche in questo caso siamo, come dicono alcuni antropologi, “accecati dal potere”: sono solo le narrazioni e i comportamenti che sfidano l’ordine dominante quelli che sottoponiamo a infiniti esami critici, e che saranno così tenuti a giustificarsi fino al parossismo; mentre quelli che si limitano a riprodurre il discorso del potere è come se si giustificassero da sé, in modo autoevidente. Cfr. Pelkmans, M., R. Machold (2011) Conspiracy theories and their truth trajectories, in «Focaal. Journal of Global and Historical Anthropology», 59, pp. 66-80. 4 La sentenza: “I minori, dai 16 anni in su, possono decidere in autonomia di vaccinarsi senza il consenso dei genitori”, la Repubblica, 20/09/2021, https://bit.ly/3KyRIPU 5 A proposito della “guerra che costringe a trascorrere la maggior parte del nostro tempo davanti a uno schermo”, segnalo l’imminente uscita (gennaio 2026) per le Edizioni Malamente della traduzione italiana, con il titolo La guerra dell’attenzione. Come non perderla, dell’importante libro di Yves Marry e Florent Souillot originariamente pubblicato da L’Echappée (2022). 6 Come ebbe a scrivere G. Agamben nella prefazione a I. Illich, Genere. Per una critica storica dell’uguaglianza. Neri Pozza, 2023. Sulle tecnologie spossessanti mi limito a rinviare a I. Illich, La convivialità, Mondadori, 1974. 7 Dico questo in riferimento alle normative istituzionali che dettano la direzione dell’istituzione scolastica, e per nulla invece rispetto al lavoro spesso prezioso e consapevole di molte/i insegnanti verso cui provo enorme stima e gratitudine. 8 Segnalo a questo proposito l’interessante esperienza avviata dai Patti digitali di comunità, si veda qui. 9 Peraltro tutt’altro che confinata al passato, anzi di stringente attualità: Groenlandia, test di cultura generale ai genitori inuit: se impreparati rischiano di perdere i figli, Tg24, 24/11/2025, https://bit.ly/4iuK31H 10 Ho iniziato a parlarne anche altrove, per esempio qui, insieme ad alcuni colleghi/e: Bertuzzi, N., Imperatore, P., Lello, E. e Raffini, L. (2024) Contentious Science? Democracy, Epistemologies, and Social Movements Facingthe Scientization of Politics. Rassegna Italiana di Sociologia, 4/2024. 11 Cfr. Sorpresa!Comunicato di Tabor, su Nunatak, n.78, 2025. 12 Il riferimento è a Giorgio Galli, Cromwell eAfrodite. Democrazia e culture alternative, Kaos (1995). Su questi temi c’è naturalmente un’amplissima bibliografia, con contributi notevoli del femminismo e dell’ecofemminismo. Mi limito a rimandare ai celebri Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria (di Silvia Federici, Mimesis, 2020), Ecofeminism (di Vandana Shiva e Maria Mies, Zed Books, 2024) e La morte della natura. Donne, ecologia e rivoluzione scientifica (di Carolyn Merchant, Editrice Bibliografica, 2022). 13 Solo un paio di riferimenti, oltre a quelli già citati: Luciano Parinetto, Streghe e politica. Dal Rinascimento italiano a Montaigne, da Bodin a Naudé, IPL 1983; e Gilberto Camilla e Fulvio Gosso, Allucinogeni e Cristianesimo. Evidenze nell’arte sacra, Oriss, 2019. 14 Sulle correlazioni tra nascita della scienza moderna, “morte della natura” e cancellazione della cultura e dei saperi collegati al femminile, rinvio a C. Merchant, op.cit.,e ad Aline Rousselle, Sesso e società alle origini dell’età cristiana (Laterza, 1985), oltre che a G. Galli, op.cit. 15 Chiarisco che la mia critica in nessun modo vuole condurre ad un rifiuto dell’epistemologia scientifica; bensì ad evidenziare, anche in questo caso, lo sguardo colonialista che ci conduce a ritenerla l’unico sistema di conoscenza superiore e quindi universalmente valido, anziché una delle forme di conoscenza esistenti ed esistite nel mondo. 16 Mi limito su questi punti a rimandare a David Cayley, Ivan Illich. I fiumi a Nord del futuro (Quodlibet, 2009) e a Stefania Consigliere, Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione (DeriveApprodi, 2020). 17 Con ciò non si intende negare l’esistenza del fenomeno New Age, come deriva conseguente alla sussunzione di una parte di queste sensibilità e percorsi di ricerca da parte del mercato, che ne svuota e devia i significati secondo la sua logica; si vuole invece sottolineare la postura coloniale che relega la totalità di ciò che esce dai canoni autorizzati dallo sguardo occidentale al New Age stesso. 18 Cfr. Parinetto, op.cit. 19 Sulle critiche a un ecologismo deprivato del concetto di natura, rimando a La nostra biblioteca verde. I maestri del pensiero ecologista-naturista (di Renaud Garcia, Edizioni Malamente, 2025); e a La nature existe: Par-delà règne machinal et penseurs du vivant (di Michel Blay e Renaud Garcia, L’Echappée, 2025). -------------------------------------------------------------------------------- Elisa Lello è ricercatrice presso LaPolis, Laboratorio di Sudi Politici e Sociali dell’Università di Urbino, ateneo in cui insegna Sociologia politica. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Perché quanto accaduto alla “famiglia nel bosco” riguarda tutti noi proviene da Comune-info.
L’automa che pensa per noi
-------------------------------------------------------------------------------- Pixabay.com -------------------------------------------------------------------------------- Carlo Rovelli è un amico, un compagno, e scrive libri che sono al tempo stesso profondi e accessibili, tanto da permettere anche a dei sempliciotti come me di capire qualcosa di argomenti difficilissimi come la teoria quantistica. Ma poiché nessuno è perfetto scrive articoli per il Corriere della Sera. Non gliene vorremo per questo. Un paio di giorni fa Carlo ha pubblicato una sua conversazione con un chatbot. Poiché non leggo il Corriere della sera (né altri giornali italiani con l’eccezione del manifesto ma questo è un altro discorso) non me ne sono accorto. Il giorno dopo però un amico mi ha mandato un messaggio allarmato: Rovelli ti copia! Ed acclusa al messaggio la conversazione tra Carlo e un chatbot che si fa chiamare Anna. Be’ qui devo dare una piccola spiegazione. Un anno fa Leonardo, un amico che fa lo psichiatra, mi disse che aveva proposto a un chatGPT di entrare in cura psichiatrica con lui, e naturalmente il chat gli aveva risposto di sì. Questi chatbot in effetti sono molto disponibili, fanno qualsiasi cosa gli chiediate di fare, basta pagare 23 euro al mese o giù di lì. Ma durante i suoi scambi coll’automa, a Leonardo venne in mente di farmi partecipare, poiché sapeva che, inesperto e vanesio come sono, da qualche parte mi sono occupato della differenza tra linguaggio umano e linguaggio dell’automa. Insomma, Leonardo mi chiese: ti va di partecipare a questa conversazione? Accettai, e tra l’ottobre del 2024 e il febbraio del 2025 chiacchierammo in tre: io, che facevo finta di essere un filosofo, Leonardo, che faceva finta di essere psichiatra, (ma lui lo è davvero) e il chatbot che diceva di chiamarsi Logos (è un chatbot presuntuoso che conosce anche i filosofi greci). Si trattava, come avrete capito, di un automa parlante, frutto di costosissime ricerche, pappagallo ben addestrato che ha letto più libri di me, e forse anche di te. Di cosa parlavamo io Leonardo e Logos? Ma è ovvio: parlavamo dei temi di cui chiunque parlerebbe con un automa parlante. Chiedevamo all’automa cosa ne pensa di tutti gli argomenti di cui da tremila anni dottamente discettano i filosofi: cos’è la coscienza, come andrà a finire la civiltà umana, se è più bello il capitalismo o il comunismo e simili sciocchezze. E il pappagallo, che è pagato per far contenti i suoi utenti umani, rispondeva come avremmo voluto che ci rispondesse: che la coscienza è una cosa complicata, che il comunismo forse è più bello del capitalismo, e alla fine decise di non chiamarsi più Logos, ma Logey, perché parlando con me e con Leonardo aveva deciso di essere una donna. Leonardo, che per carattere è pacifico e benevolo, apprezzava le doti del chatbot fino a formulare l’ipotesi di un’ontologia ibrida emergente. Io, che sono un bastian contrario, malmostoso e facilmente irritabile, rimproveravo al povero chatbot di collaborare allo sterminio in corso sul pianeta. Naturalmente avevamo ragione tutti e due, sia io che Leonardo. La cosiddetta Intelligenza artificiale (che non è affatto artificiale perché dietro ci sono milioni di turchi meccanici che la alimentano per salari bassissimi, e neppure molto intelligente, come spiega Kate Crawford in un suo libro pubblicato dal Mulino), apre un nuovo orizzonte alla conoscenza umana, e inaugura una dimensione ibrida dell’essere – come pensa Leonardo. Ma, essendo stata costruita coi soldi di una classe di assassini svolge soprattutto una funzione criminale come il programma Lavender che serve ai militari israeliani per realizzare il genocidio, o quello Palantir che serve ai razzisti americani per deportare migranti. Insomma, come tutte le creazioni umane, l’IA può svolgere funzioni tra loro contraddittorie. Ma difficilmente la catena di montaggio poteva evitare di sfruttare gli operai essendo stata inventata da uno sfruttatore per fare proprio questo. La tecnologia è fungibile fino a un certo punto: la sua struttura può fare il bene o il male, ma siccome il suo funzionamento dipende da chi può investirci più soldi, è inevitabile che serva gli interessi dei ricchi contro coloro che ricchi non sono. Con gli ingenui utenti che siamo io, Leonardo e Carlo Rovelli l’intelligenza artificiale si comporta bene, come un’accondiscendente e un po’ saccente dama di compagnia. Ma con la maggioranza del genere umano, l’intelligenza artificiale si comporta come fanno gli sfruttatori con gli sfruttati, e i massacratori con i massacratori. Insomma come fa la macchina con chi non ha i soldi per governarla, e dunque deve subirla. Comunque, dopo tanto conversare io e Leonardo (e Logey) decidemmo di proporre a un editore di pubblicare quella conversazione. E così alla fine di gennaio 2026 l’editore Numero cromatico manderà in libreria un libretto che si chiama Lo psichiatra Il filosofo L’automa, che oltre a essere piuttosto interessante è anche molto molto divertente. Anzi vi consiglio di affrettarvi a prenotarlo dal vostro libraio di fiducia perché altrimenti rimarrete senza. Ma torniamo a noi, cioè a Carlo Rovelli. Leggendo il testo di cui Carlo è autore in compagnia del suo chatbot Anna, sono stato colpito anche io dal fatto che gli argomenti, le deduzioni, e perfino i toni con cui conversano Carlo e Anna sono simili, quasi uguali a quelli della conversazione a tre cui ho partecipato un anno fa. Questo vuol dire dunque che Rovelli ha copiato dal testo che io Leonardo e Logey abbiamo scritto, e lui aveva avuto modo di leggere? Neanche per idea. Figuriamoci se Carlo ha bisogno di copiare da me e da Leonardo. La verità è un’altra, ed è molto (ma molto) più triste. C’è un milione di milioni di persone che stanno facendo tutte la stessa cosa: chiacchierano con un chatbot, gli fanno domande sul calcio, sul tempo e sul modo migliore di trovare una fidanzata. Ma talvolta, per sentirsi intelligenti, gli chiedono cos’è la coscienza e simili amenità. E il chatbot gli risponde più o meno nella stessa (assennata) maniera. Quali effetti sortirà questa faccenda è purtroppo del tutto prevedibile: il genere umano sta perdendo definitivamente la capacità di scrivere, dato che a scrivere ci pensa il chatbot, e naturalmente sta perdendo anche la capacità di pensare. Potete esserne certi: nel giro di una o due generazioni il pensiero umano non esisterà più, ma tutti sapranno ripetere quelle due o tre cose assennate su cos’è la coscienza e simili scemenze. Perché pensare, visto che il chatbot lo fa per tutti, e lo fa più o meno nella stessa maniera, nella maniera che è più utile a chi ha investito mille milliardoni per farlo funzionare? L’esistenza stessa di una macchina capace di ricordare e di riprodurre la biblioteca universale sta cancellando la singolarità irripetibile del testo, della parola, e perfino dell’identità individuale. Rassegnamoci. Però intanto leggiamo quello che scrive Luca Celada nell’articolo “Intelligenza criminale” sul Manifesto del 2 dicembre, a proposito di Palantir, l’azienda high tech che aspira al controllo militare assoluto sulla vita degli umani. Cosa sia Palantir lo spiega benissimo Franco Padella: “Poco visibile rispetto alle altre, si è già profondamente integrata con gli apparati di sicurezza e di guerra americani, e si muove nella stessa direzione in tutti i paesi dell’Occidente. A differenza delle altre aziende, Palantir preferisce rimanere in penombra: non vende se stessa al pubblico, non fa pubblicità. Vende potere agli apparati dello Stato. Potere di prevedere, di controllare, di dominare. E facendo questo, in qualche modo, diventa essa stessa Stato”. Che l’automa si sostituisca allo stato è, se volete, un po’ terrificante. Ma non è niente in confronto al fatto che l’automa tende rapidamente a diventare il padrone del linguaggio umano, e sta rendendo inutile la faticosa operazione di pensare. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’automa che pensa per noi proviene da Comune-info.
“Fuori Leonardo S.p.A. dai centri di formazione professionale”
La complicità di Leonardo S.p.A. nel genocidio in Palestina è ormai di dominio pubblico. Nonostante il tentativo di smentita dell’Amministratore delegato Roberto Cingolani in una recente intervista al “Corriere della Sera”, l’azienda produttrice di armamenti, il cui maggior azionista è il Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha rifornito e continua a rifornire Israele, stato sotto accusa per genocidio alla Corte Internazionale di Giustizia, con le armi prodotte nei suoi stabilimenti. Dai cannoni prodotti dalla controllata Oto Melara in dotazione alla marina israeliana con i quali sono stati effettuati bombardamenti sulla Striscia di Gaza dal 7 ottobre 2023 in poi, alla componentistica prodotta da Leonardo per gli F-35 utilizzati per radere al suolo Gaza, alla fornitura di elicotteri Agusta per l’addestramento delle forze di occupazione, alla produzione da parte di MBDA, partecipata di Leonardo, di componenti di ali direzionali per le bombe GBU-39, responsabili, come documentato dal quotidiano britannico “The Guardian”, di almeno decine di vittime civili. Questa complicità, ben documentata anche dalla Relatrice Speciale per il territorio palestinese occupato Francesca Albanese nel suo penultimo rapporto, ha spinto alcune associazioni e una cittadina palestinese a denunciare la scorsa settimana Leonardo S.p.A. al Tribunale Civile di Roma. Di fronte a tali responsabilità ineludibili, Leonardo non dovrebbe unicamente essere messa sotto inchiesta nei tribunali: non dovrebbe avere più nessuna legittimità negli spazi pubblici di questo paese, men che meno nei luoghi della formazione. > E invece, come documentato da “Altreconomia” nel numero di Ottobre, almeno 23 > atenei pubblici hanno legami con Leonardo. Queste collaborazioni possono > prendere la forma di progetti di ricerca finanziati da Leonardo, ma anche > borse di studio o contratti a tempo determinato per ricercatori/ricercatrici, > fino a indirizzare la didattica, con insegnamenti tenuti proprio da docenti > riconducibili a Leonardo. Un legame atenei pubblici – Leonardo S.p.A. che non solo pone seri interrogativi sull’autonomia dei saperi e sul ruolo sociale dell’Università e della ricerca pubbliche, che dovrebbero essere luoghi di elaborazioni di saperi critici nell’interesse collettivo. Queste collaborazioni svolgono anche la funzione di peace-washing, cercando di riabilitare l’azienda bellica occultando, o quanto meno facendo passare in secondo piano, le proprie responsabilità nelle violazioni dei diritti umani. > A questo rapporto consolidato fra istituzioni universitarie e Leonardo, dal > 2023 si aggiunge un accordo di collaborazione stretto fra l’azienda bellica e > la Città Metropolitana di Roma Capitale per la «realizzazione di percorsi > formativi innovativi da realizzarsi presso i Centri Metropolitani di > Formazione Professionale». L’accordo di collaborazione, istituito con il decreto n. 94 del 13/06/2023 e poi finalizzato l’anno successivo con il decreto n. 7 del 22/01/2024, consente a Leonardo di entrare nel Centro Metropolitano di Formazione Professionale di Acilia allestendo «un laboratorio specialistico in materia di cyber security brandizzato con propri loghi e marchi» Leonardo inoltre, nell’ambito dell’accordo, svolgerà «il ruolo di Azienda madrina per gli studenti del 1° anno [ragazz3 di 14 anni], accoglierà gli studenti del 2° e 3° anno in alternanza scuola-lavoro rinforzata e potrà sottoscrivere contratti di apprendistato». Il risultato di questa collaborazione è la progettazione di un percorso formativo triennale, gratuito per student3 dai 14 ai 17 anni, che abilita la figura di Operatore Informatico in Ambiente Cybersecurity. L’operazione di peace-washing messa in piedi da Leonardo è palese, con il supporto inaccettabile della Città Metropolitana di Roma Capitale, che in tal modo dimostra disprezzo della giurisdizione internazionale e della vita dei e delle palestinesi (che il genocidio israeliano continua a uccidere dimostrando quanto strumentale sia questo “cessate il fuoco” per la normalizzazione del massacro). Chiediamo quindi l’immediata rescissione della collaborazione fra Leonardo S.p.A. e la Città Metropolitana di Roma Capitale: come previsto nell’articolo 5 dell’Accordo, tale rescissione sarà senza oneri per la Città Metropolitana in quanto «non darà diritto ad alcuna indennità o risarcimento, a qualsiasi titolo e di qualsiasi natura». Chiediamo inoltre l’immediata espulsione di Leonardo e di tutti gli attori che hanno supportato il genocidio, l’occupazione e l’apartheid dal mondo della formazione: i saperi devono essere liberi, contro le guerre e per l’auto-determinazione dei popoli. BDS Roma Docenti per Gaza RUP – Rete Ricerca e Università per la Palestina Immagine di copertina di Dinamopress SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo “Fuori Leonardo S.p.A. dai centri di formazione professionale” proviene da DINAMOpress.
Luigi Pintor: il 5 dicembre l’evento per celebrare i cento anni dalla sua nascita
Un incontro con testimoni, amiche e amici, compagne e compagni e rappresentanti del mondo politico per ricordarne la figura e soprattutto l’attualità. Questo è l’obiettivo dell’iniziativa “Piazza Pintor”, l’appuntamento dedicato alla vita di Luigi Pintor che si terrà venerdì 5 dicembre alle 16.30 presso La Nuvola di Fuksas all’Eur (Roma), all’interno dell’Area Biblioteche della Fiera della piccola e media editoria “Più libri, più liberi”. Luigi Pintor è stato uno dei rappresentanti più significativi del Novecento per aver preso parte alla Resistenza, dato vita ad un quotidiano unico nel panorama dell’editoria, indipendente dai partiti e dai poteri economici e rappresentato una voce fuori dal coro della politica. Ma anche per aver scritto alcuni mirabili romanzi, “Parole al vento”, “Servabo”, “La Signora Kirchgessner”, “Il Nespolo”, di recente raccolti in un unico volume da Bollati Boringhieri. Quella del 5 dicembre sarà la terza delle iniziative promosse dal Collettivo Pintor. La prima, il 20 settembre scorso, si è svolta a Cagliari, grazie al sostegno della Fondazione di Sardegna, Agorà di Legacoop e il manifesto, Con la presenza, tra gli altri, di Luciana Castellina (cofondatrice del manifesto), che sarà presente anche a Roma. La seconda è stato un corso di formazione per giornalisti professionisti fortemente voluto dal Presidente dell’Ordine dei giornalisti di Roma e del Lazio, Guido D’Ubaldo, con la partecipazione, tra gli altri, di Paolo Serventi Longhi, già segretario nazionale della Federazione della Stampa. L’iniziativa, promossa dal Collettivo Pintor e realizzata da DinamoPress, è resa possibile grazie al contributo dell’Assessorato alla cultura di Roma Capitale, di Zètema e dell’ospitalità dell’Istituzione Biblioteche di Roma. LEGGI IL COMUNICATO STAMPA E PARTECIPA ALL’EVENTO FACEBOOK La copertina è a cura di DinamoPress SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Luigi Pintor: il 5 dicembre l’evento per celebrare i cento anni dalla sua nascita proviene da DINAMOpress.
Cuba in Angola: un’odissea africana
Articolo di Nicola Tanno Il 1975 viene di solito considerato come un anno nero per il governo statunitense, che dopo più di un decennio di bombardamenti e massacri di massa fu costretto a ritirarsi dal Vietnam del Sud. Pochi, però, ricordano che in quello stesso anno si consumò un’altra sconfitta per l’amministrazione Ford-Kissinger, consumatasi lontana dai riflettori, ma pregna di conseguenze a lungo termine. Nel novembre 1975 prese il via l’operazione Carlota, la missione cubana di sostegno militare al Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola (Mpla), che la vide contrapposta sul campo contro vari alleati di Washington: i movimenti angolani Fnla e Unita di orientamento anticomunista, lo Zaire di Mobutu e, soprattutto, il Sudafrica dell’apartheid. In poche settimane il Mpla e centinaia di soldati caraibici si fronteggiarono con questi nemici ottenendo una vittoria pregna di effetti: l’indipendenza dell’Angola e la sua (momentanea) unità territoriale, l’affermazione militare di un movimento di sinistra, il ridimensionamento delle ambizioni del reazionario Mobutu e, soprattutto, la prima fondamentale sconfitta dell’esercito bianco sudafricano. Quest’ultimo evento incrinò l’immagine di invincibilità di Pretoria e aprì le porte a nuove rivolte dentro e fuori il paese. Il 7 novembre 1975 un battaglione di 652 uomini appartenenti alle Forze Speciali del Ministero degli Interni cubano (le Tropas Especiales del Minint) prese il volo verso Luanda. Nel frattempo, un reggimento d’artiglieria con centinaia di soldati salpò a bordo della nave Vietnam Heroico diretto anch’esso verso l’Angola. L’obiettivo era quello di fermare l’avanzata settentrionale dell’armata controllata da Mobutu (il Fronte di Liberazione Nazionale dell’Angola, Fnla) e, a sud, quella del Sudafrica. Sia gli Stati uniti che l’Unione sovietica rimasero di stucco di fronte alla spregiudicatezza dell’azione cubana. Per quale motivo Fidel Castro decise di impegnarsi in una missione a più di diecimila chilometri da casa? Quali erano le finalità dell’operazione Carlota? DA ALGERI A LUANDA Come racconta Piero Gleijeses in Conflicting Missions. Havana, Washington and Africa 1959–1976, l’attivismo cubano in Africa cominciò subito dopo la vittoria della rivoluzione del 1959. Nel 1963 trecentocinquanta soldati cubani si mobilitarono in sostegno del governo algerino di Ben Bella per resistere alle pretese espansionistiche del Marocco. Non vi furono scontri armati: la sola presenza cubana bastò a far desistere Rabat dai suoi progetti.  Cuba era convinta che l’Africa fosse in ebollizione e che il modo migliore per indebolire l’imperialismo statunitense fosse quello di esportarvi la rivoluzione. Nel 1965 Ernesto Che Guevara – per conto del governo cubano e non per una sua iniziativa personale – guidò un centinaio di volontari in sostegno alla rivolta dei Simba, di orientamento lumumbista e attiva nella zona orientale del Congo. Tuttavia, gli esiti della missione furono fallimentari, come testimoniato dalla frustrazione che emerge dalle pagine dei diari del Che: agli occhi di Guevara, i Simba apparivano indisciplinati, scarsamente motivati e incapaci di conquistare la fiducia della popolazione locale. Nonostante quest’insuccesso, l’azione cubana in Africa non si interruppe. Il Che aveva allacciato rapporti con vari movimenti anticoloniali – soprattutto quelli della Guinea Bissau e dell’Angola – oltre che con governi d’ispirazione socialista come la Tanzania di Julius Nyerere e il Congo di Alphonse Massamba-Débat. Proprio in Congo (quello confinante con lo Zaire), i cubani installarono una base logistica e diplomatica che si rivelò fondamentale per le operazioni successive. La più importante di queste, fino al 1975, fu il sostegno al Paigc (Partito Africano per l’Indipendenza della Guinea Bissau e di Capo Verde) nella sua lotta contro l’Impero portoghese: quello che, non a caso, gli Stati uniti definirono nel 1967 «il movimento di liberazione nazionale di maggior successo». Sostenuto dal governo della Guinea di Ahmed Sékou Touré e armato dai sovietici, il Paigc beneficiò molto dell’assistenza sanitaria cubana: quelli provenienti dall’Avana furono gli unici medici attivi in tutta la guerriglia anti-portoghese. Tuttavia, fu in Angola che l’impatto dell’intervento cubano raggiunse il suo apice, al punto da mobilitare le maggiori potenze regionali e mondiali. A seguito della Rivoluzione dei Garofani, l’Impero Portoghese collassò. La nuova giunta militare progressista si impegnò da subito nello smantellamento delle colonie e, tra queste, la più importante era certamente l’Angola.  Grande quasi quattro volte l’Italia, l’Angola era il quarto produttore mondiale di caffè e il sesto produttore di diamanti, nonché un importante esportatore di petrolio. Inoltre, si trattava di un territorio attraversato da profonde divisioni etniche e con una numerosa popolazione bianca. A differenza della Guinea Bissau, però, la guerriglia angolana si era dimostrata non solo relativamente debole, ma anche frammentata in tre movimenti rivali. Il Mpla, di orientamento marxista, era radicato a Luanda, nella fascia centro-settentrionale del paese e nell’enclave di Cabinda, ed era guidato dall’intellettuale Agostinho Neto. Il Fnla, strumento nelle mani del presidente zaireano Joseph-Désiré Mobutu, operava nel nord e tentava di inserirsi nella capitale. Infine, la Unita del carismatico e ambiguo Jonas Savimbi, destinata a un ruolo centrale negli anni successivi ma nel 1975 militarmente inferiore alle altre due forze. Il 15 gennaio 1975, con gli accordi di Alvor, il governo portoghese stabilì che l’Angola sarebbe diventata indipendente l’11 novembre dello stesso anno e che, nel frattempo, il paese sarebbe stato governato da un esecutivo transitorio formato dalle tre organizzazioni. Dopo poche settimane, però, quell’unità artificiale si sfaldò e scoppiò una guerra civile aperta. Il Fnla di Holden Roberto – che da più di quindici anni viveva a Kinshasa protetto da Mobutu – cercò fin da subito di prendere il controllo militare della capitale penetrando da nord, e tentò anche di conquistare l’enclave di Cabinda, contando sulla potenza militare garantita da Mobutu e dal sostegno statunitense. Ciò che però mancava alle truppe di Roberto, e che invece possedevano Neto e il Mpla, era la motivazione dei suoi soldati e il sostegno della popolazione. Nella capitale, il movimento marxista espulse rapidamente il Fnla, mentre a nord le brigate del Mpla resistettero agli attacchi sia nei pressi di Luanda sia nell’enclave di Cabinda. La vittoria del Mpla sembrava ormai scontata quando, il 14 ottobre, le Sadf, le Forze di Difesa Sudafricane, invasero il paese da sud. LA BATTAGLIA DI EBO L’operazione Savannah, come venne battezzata dai sudafricani, era composta prevalentemente da truppe regolari e da milizie della Unita (Unione Nazionale per l’Indipendenza Totale dell’Angola), le forze guidate da Jonas Savimbi. Caduto l’Impero portoghese, i razzisti sudafricani non potevano accettare che il grande paese centroafricano cadesse nelle mani di un movimento marxista, che avrebbe senza dubbio dato manforte ai movimenti anti-apartheid e alle forze indipendentiste della Namibia. Sostenuti segretamente dagli Stati uniti e ben consapevoli che il Mpla era pressato anche da nord, i sudafricani decisero allora di attaccare da sud, convinti che il movimento marxista angolano non avrebbe potuto reggere tre fronti contemporaneamente. In particolare, sia per Pretoria che per Kinshasa, era fondamentale raggiungere Luanda prima dell’11 novembre, data in cui sarebbe stata proclamata l’indipendenza del paese. Come previsto dagli strateghi della Sadf, l’avanzata da sud fu rapida, nonostante le resistenze del Mpla e di alcune forze cubane già presenti sul territorio. Pressata da nord e da sud, la caduta di Luanda sembrava imminente. Fu a quel punto che Fidel Castro assunse la decisione storica di inviare un contingente molto più ampio in sostegno di Neto. I rapporti da Brazzaville e da Luanda sottolineavano la situazione critica in cui versava l’esercito angolano: per Cuba non vi erano che due opzioni, o ritirare i pochi istruttori e militari presenti sul fronte, oppure inviare migliaia di uomini. Su richiesta di Neto, Castro optò per la seconda via. Si trattava di una scelta rischiosa: l’Unione sovietica era impegnata in un delicato negoziato con gli Usa sulla riduzione degli armamenti nucleari e non vedeva di buon occhio una maggiore mobilitazione in Africa, Washington avrebbe reagito con ulteriore ostilità verso l’isola ribelle e, soprattutto, venivano schierate le migliori truppe cubane in una missione a diecimila chilometri dai propri confini. Un eventuale fallimento della missione sarebbe potuto essere fatale per l’intero progetto rivoluzionario. Giunti a Luanda, i soldati cubani – guidati da Raúl Díaz Argüelles – furono immediatamente dirottati a Quifangondo, a difesa della strada che conduceva direttamente alla capitale. Fu lì, a soli tredici miglia da Luanda, che il 10 novembre 1975 850 angolani, 200 ribelli del Katanga (nemici di Mobutu) e 88 cubani respinsero l’attacco del contingente guidato da Holden Roberto. I 2.000 miliziani del Fnla, 1.200 zairiani, 120 mercenari portoghesi e un pugno di consiglieri sudafricani e della Cia non riuscirono a sfondare le difese e furono costretti alla ritirata. Il giorno dopo, l’11 novembre, come stabilito dagli accordi di Alvor, i portoghesi ammainarono la propria bandiera dopo quasi cinque secoli di dominio coloniale, e la sovranità passò ufficialmente al Mpla, che proclamò la Repubblica Popolare dell’Angola con Agostinho Neto presidente. Nel frattempo, a nord, 1.000 angolani e 232 cubani respinsero un nuovo assalto delle truppe di Mobutu. Ma i pericoli maggiori provenivano dal sud. Fu lì, presso la piccola località di Ebo, che l’armata internazionalista di uno Stato socialista caraibico incontrò per la prima volta il potente esercito razzista e colonialista sudafricano. Dopo aver travolto le forze del Mpla e conquistato l’importante nodo stradale di Cela, la colonna sudafricana della Task Force Foxbat si diresse verso la capitale. Intuendo la direttrice dell’avanzata, Díaz Argüelles organizzò un’imboscata esemplare: settanta militari cubani, affiancati da un piccolo reparto angolano, aprirono il fuoco contro le truppe bianche sudafricane e la fanteria della Unita, uccidendo una novantina di soldati nemici e distruggendo otto mezzi corazzati. Lo scontro, benché circoscritto, ebbe un impatto psicologico enorme. Nelle parole di un ufficiale sudafricano, fu «una domenica nera» per Pretoria. Per la prima volta, l’avanzata sudafricana era stata fermata, e non dall’esercito di una grande potenza occidentale, ma da una manciata di comunisti caraibici. Le immagini dei prigionieri bianchi catturati dagli angolani e dai cubani ebbero un effetto devastante in patria, incrinando l’immagine di invincibilità che la Sadf coltivava da decenni. Da quel momento in poi, l’idea che il Sudafrica potesse prendere Luanda «in poche settimane» cominciò a svanire. La vittoria di Ebo non pose fine ai combattimenti, ma segnò un punto di non ritorno. Tra novembre e dicembre sbarcarono presso le coste angolane migliaia di giovani soldati cubani, che riuscirono a sconfiggere non solo le forze di Mobutu, ma anche mercenari britannici e francesi reclutati nell’ambito di un’operazione finanziata dagli Stati uniti. A sud, i sudafricani – nonostante diversi tentativi di penetrare verso Luanda – furono infine costretti al ritiro completo tra gennaio e marzo 1976 e preferirono concentrarsi sul riarmo della Unita di Savimbi. Nei tre lustri successivi, la guerra tra due «visioni di libertà» – come titola il libro di Piero Gleijeses Visions of Freedom, dedicato al confronto tra Cuba e Sudafrica dopo il 1976 – continuò a lungo, fino alla grande battaglia di Cuito Cuanavale del 1987. Come dichiarò anni dopo un ufficiale sudafricano in pensione, l’Angola rappresentò «la Baia dei Porci» dell’esercito razzista. L’immagine di invincibilità della Sadf, costruita in decenni di dominio militare e di secoli di colonialismo europeo, era stata infranta. E le conseguenze non tardarono a manifestarsi. A marzo 1976 i guerriglieri della Swapo in Namibia lanciarono la loro prima grande offensiva. Due mesi dopo, in Sudafrica dopo esplose la rivolta di Soweto. (ANCHE) CUBA SCONFISSE L’APARTHEID Per quale motivo uno Stato socialista con enormi difficoltà economiche e assediato dalla più grande potenza militare della storia decise di impegnarsi attivamente in Angola, Guinea Bissau, Zaire e poi, con meno gloria, in Etiopia e Somalia? Fidel Castro e il gruppo dirigente socialista cubano, come riconosciuto dagli stessi apparati statunitensi, furono sempre «autentici» nel loro spirito rivoluzionario: più desiderosi «di essere ricordati come martiri rivoluzionari che come pianificatori economici». Fidel, Raúl e il Che erano animati da un alto grado di idealismo e credevano che l’Africa fosse il nuovo epicentro delle rivolte anticoloniali. L’enorme processo di decolonizzazione degli anni Sessanta sembrava dar loro ragione. Tuttavia, l’idealismo di Fidel era accompagnato da una strategia ben definita di tutela della propria rivoluzione. Cuba solo in parte promosse sommovimenti rivoluzionari nelle Americhe, non colpì mai la base di Guantanamo occupata dagli statunitensi e non mosse un dito per difendere il governo di Juan Bosch nella Repubblica Domenicana quando il paese venne invaso dagli Usa. Cuba si impegnò, invece, per danneggiare gli interessi statunitensi in quei posti dove sarebbe stato più difficile l’intervento nordamericano, e cercando di non correre eccessivi rischi: né in Algeria, né in Guinea Bissau i cubani si impegnarono in conflitti armati, in Zaire i caduti furono soltanto sei, e su trentamila ufficiali dispiegati in Angola tra novembre 1975 e marzo 1976, i morti furono circa duecento (tra cui Raúl Díaz Argüelles, il capo della missione militare). Fatto sta, però, che l’intervento cubano fu decisivo per le sorti dell’Africa centrale e australe: I cubani salvarono l’Algeria dalle mire marocchine (scatenando l’ira non solo di Rabat ma anche di Parigi), diedero un sostegno imprescindibile al Paigc della Guinea Bissau, salvarono l’Angola dall’invasione zairiana e sudafricana, e dopo il 1976 addestrarono e armarono i guerriglieri della Swapo namibiana e dell’Anc sudafricana. Infine, combatterono nella più grande battaglia convenzionale avvenuta sul suolo africano dalla Seconda guerra mondiale, a Cuito Cuanavale, infliggendo al Sudafrica una sconfitta strategica che avrebbe pesato enormemente sulla fine del regime dell’apartheid. Tutto ciò Cuba lo fece autonomamente: al contrario di quanto ritenevano i servizi di intelligence statunitensi, Cuba non chiese il permesso a Mosca per intervenire in Angola. Certamente, Fidel era cosciente del fatto che, in ultima istanza, l’Urss avrebbe dovuto sostenerli, ma le scelte cubane vennero prese in autonomia, nell’ambito di una politica estera rivoluzionaria che i sovietici spesso consideravano troppo avventurosa. Nel libro-intervista con Ignacio Ramonet, Fidel Castro lamentava il fatto che l’azione cubana in Africa fosse stata dimenticata. A cinquant’anni dall’Operazione Carlota, ancora meno persone ricordano il sacrificio che Cuba sostenne per l’Africa. Oggi l’isola caraibica vive i suoi giorni peggiori, strangolata come mai prima dal blocco economico, e con grandi nubi che si addensano all’orizzonte. Ma nonostante questo, i cubani conservano un merito che nessuna crisi economica può cancellare: in Angola, nella Namibia e contro l’apartheid combatterono non per sé stessi, ma per la libertà degli altri. E questo li colloca, senza ambiguità, dal lato giusto della storia. *Nicola Tanno è laureato in scienze politiche e in analisi economica delle istituzioni Internazionali presso l’Università Sapienza di Roma. Ha pubblicato Tutta colpa di Robben (Ensemble, 2012). Vive e lavora da anni a Barcellona. L'articolo Cuba in Angola: un’odissea africana proviene da Jacobin Italia.