
Attualità della pianificazione
Jacobin Italia - Friday, December 5, 2025
Articolo di Matteo Gaddi, Nadia GarbelliniProduttività e competitività vengono spesso presentate come categorie neutrali, semplici strumenti tecnici per interpretare le prestazioni dell’economia. Questa presunta neutralità è però una costruzione ideologica: serve a trasformare scelte politiche in vincoli oggettivi e a spostare sulle lavoratrici e sui lavoratori il peso degli squilibri macroeconomici.
Per ripensare un’alternativa occorre quindi innanzitutto smontare questi concetti che, sotto una veste tecnico-contabile, reggono l’architettura del capitalismo contemporaneo. In particolare va preso atto che quest’ultimo, dallo shock seguito alla scelta di Richard Nixon, nel 1971, di far saltare il sistema di cambi fissi basati sul dollaro americano in vigore dalla fine della Seconda guerra mondiale, si è caratterizzato per la fortissima apertura commerciale e finanziaria. Solo questa mutazione profonda delle economie di mercato ha posto al centro della scena i concetti di produttività e competitività, dato che in una simile configurazione del capitalismo la crescita economica è stata indissolubilmente legata ai surplus commerciali (neomercantilismo) e finanziari (differenziali dei tassi d’interesse).
Tuttavia, l’ennesima riconfigurazione dei mercati cui stiamo assistendo suggerisce che non si trattava certo di caratteristiche naturali delle economie capitaliste. In questo senso, assumere invece quelle specifiche caratteristiche istituzionali come date una volta e per tutte (e, quindi, insistere aprioristicamente su produttività e competitività) diviene un errore grave per un buon economista, e diventa imperdonabile per un economista «eterodosso» o «progressista».
L’ideologia della produttività
L’indicatore canonico della produttività – il valore aggiunto reale per ora lavorata – viene utilizzato come se misurasse l’efficienza fisica del lavoro. Quest’equivalenza, tuttavia, è un artificio teorico derivato da un impianto concettuale costruito esplicitamente per servire una visione dell’economia centrata sulla massimizzazione del profitto.
La contabilità della crescita neoclassica descrive un’economia chiusa, che produce un unico bene (anche composito) finale, uguale nel tempo e nello spazio; in cui il capitale (fisso e circolante) non è prodotto ed è quindi trattato come un fattore primario (e quindi scarso). La cosiddetta distribuzione funzionale, cioè quanta parte del reddito nazionale (cioè del valore aggiunto) va ai salari e quanta ai profitti, in questo schema discende dalle condizioni di equilibrio, dove per equilibrio si intende una situazione in cui il profitto è massimizzato. È un dato tecnico, che dipende dai prezzi relativi dei fattori e dalla tecnologia in uso. Qualsiasi deviazione da questa distribuzione crea inefficienze, e dunque non esiste margine per il conflitto sociale.
Adottare una metrica che discende da questo apparato teorico significa dunque adottarne la prospettiva, o il suo presunto significato «oggettivo e naturale» semplicemente si dissolve.
La produttività infatti è diventata uno dei principali strumenti ideologici per legittimare politiche di compressione salariale e di disciplinamento della forza lavoro: se la produttività non cresce, non possono crescere i salari; se i salari crescono «troppo», si perde competitività; se si perde competitività, si compromette la crescita. È una catena di causalità rovesciata, che serve a naturalizzare rapporti di forza sfavorevoli.
Da anni, inoltre, il tema della produttività viene utilizzato dalle istituzioni europee per mettere in discussione la contrattazione collettiva, che a loro avviso andrebbe superata a favore di quella decentrata. Quest’ultima consentirebbe, secondo tale visione, di legare ex post salari e produttività, così da contenere i primi e stimolare la seconda.
Un esempio emblematico è la lettera del 5 agosto 2011 inviata da Mario Draghi e Jean-Claude Trichet a Silvio Berlusconi, allora Presidente del Consiglio. In quel documento – che anticipò la caduta del governo nel dicembre successivo – si chiedeva di «riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi a livello d’impresa […] e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione».
La Commissione europea e il Consiglio dell’Ue hanno più volte sostenuto con decisione la necessità di un più stretto legame tra salari e produttività, da ottenere tramite il decentramento della contrattazione. Particolarmente significative, in questo senso, sono le raccomandazioni del Consiglio dell’Ue (2013) sul Programma Nazionale di Riforma dell’Italia, basate su un Documento di Lavoro della Commissione. Vi si affermava che la perdita di competitività dell’Italia richiedeva aggiustamenti nella fissazione dei salari e che la dinamica salariale non aveva riflettuto il deludente andamento della produttività, contribuendo a un aumento del costo del lavoro per unità di prodotto.
Il documento sottolineava il ruolo dominante della contrattazione nazionale, ritenuta un ostacolo all’allineamento dei salari alle condizioni economiche locali: un modello salariale definito sulla base dell’inflazione attesa sarebbe incompatibile con l’esigenza di recuperare competitività. Da qui la raccomandazione di «stabilire un quadro per la determinazione dei salari che permetta un migliore allineamento dei salari alla produttività».
Queste indicazioni sono state ribadite sistematicamente dal Consiglio dell’Ue dal 2014 al 2019, configurando un vero e proprio fuoco di sbarramento volto a spostare il baricentro della contrattazione dal livello nazionale a quello aziendale, con l’obiettivo dichiarato di legare più strettamente salari e produttività.
Su queste, fragili, premesse, il presunto ristagno della produttività italiana viene accettato come un dato incontestabile persino da molti economisti eterodossi, che utilizzano l’indicatore standard senza interrogarsi sulle sue implicazioni.
Questa posizione finisce per riprodurre la stessa logica che dichiara di voler superare: rimane intatto l’assunto secondo cui i salari devono inseguire la produttività; che il paese debba colmare un presunto ritardo competitivo attraverso processi di upgrading tecnologico; che lo sviluppo dipenda dalla selezione delle imprese più efficienti.
In definitiva, resta l’idea che, nel mondo plasmato dalle politiche neoliberiste, l’innovazione tecnologica possa disarticolare il conflitto tra capitale e lavoro, rendendo possibile conciliare gli interessi di entrambi; si tratta di un modo per neutralizzare il conflitto sociale con la promessa di un equilibrio armonico garantito dal progresso tecnico.
Il valore aggiunto reale per ora lavorata, però, non misura l’efficienza fisica del lavoro, poiché si calcola deflazionando grandezze monetarie tramite indici di prezzo basati sulle ipotesi irrealistiche menzionate sopra. Ciò che questo indicatore cattura è piuttosto la capacità di valorizzazione del capitale, il valore monetario che riesce a generare – e di cui poi si può appropriare – per ogni ora di lavoro.
Sostenere che sia necessario vincolare gli aumenti salariali alla produttività così misurata – oppure, nella versione «illuminata», sostenere che aumentare i salari è vantaggioso per le imprese perché consente di aumentare la produttività, cioè estrarre ancora più plusvalore relativo così da recuperare interamente ciò che concedono – significa accettare un presupposto profondamente regressivo: se la crescita dei salari nominali segue da vicino quella della produttività così calcolata, la quota salari non può che ridursi anno dopo anno in ragione del tasso di inflazione. Di fatto, è una forma di indicizzazione al ribasso, che incorpora la compressione salariale nel metodo stesso di calcolo.
Che questa impostazione venga da Confindustria è del tutto comprensibile; che venga fatta propria anche dagli economisti eterodossi – che oltretutto pretendono sovente di spiegare al sindacato cosa dovrebbe fare – è un problema politico.
Un approccio nominale
Una volta chiarito che ciò che stiamo davvero misurando è la capacità di valorizzazione del capitale, sarebbe molto più corretto considerare direttamente il valore aggiunto nominale per ora lavorata, che la misura senza sottostimarla sistematicamente.
Adottando questo approccio, la performance italiana appare molto meno disastrosa (per le imprese) di quanto sostengano commentatori, analisti e organizzazioni padronali: la dinamica della produttività nominale mostra che la capacità di valorizzazione dell’economia italiana non è affatto tale da giustificare la moderazione salariale.
L’aumento della capacità di valorizzazione del capitale è una buona notizia per le imprese, ma ovviamente non per i lavoratori. Un aumento del valore aggiunto nominale non implica che il sistema produttivo stia diventando più moderno, meno inquinante o con caratteristiche più desiderabili sotto qualche profilo sociale. La valorizzazione aumenta anche e soprattutto in settori stagnanti, in contesti di precarizzazione, di esternalizzazioni, di abbassamento degli standard occupazionali o grazie a semplici movimenti nei prezzi relativi – spesso trainati strategicamente dalle grandi imprese oligopolistiche.
In altre parole, che il capitale riesca a estrarre più valore dal lavoro non è né un segnale di progresso tecnologico né una misura della qualità dello sviluppo. Scambiarlo per un segnale di modernizzazione significa confondere l’interesse del capitale con quello collettivo e riprodurre la narrazione che si vorrebbe criticare.
C’è poi un ulteriore effetto collaterale di questa metrica: usare il valore aggiunto come misura del «progresso tecnico» significa adottare una definizione estremamente ristretta di innovazione. In questo schema, infatti, è innovazione solo ciò che aumenta la capacità del capitale di estrarre valore.
Tutti gli altri miglioramenti – riduzione della fatica, ergonomia, sicurezza, minori emissioni, uso più efficiente delle risorse, qualità del lavoro, ecc. – semplicemente non esistono. Non vengono registrati, né contano come progresso. È una concezione della tecnologia modellata sul punto di vista del capitale.
La critica alla produttività porta direttamente alla critica della competitività, divenuta negli ultimi decenni il vero principio ordinatore delle politiche economiche europee. L’Unione europea è stata costruita come una macchina trainata dalle esportazioni: l’obiettivo è competere sui mercati globali comprimendo i costi, primo fra tutti quello del lavoro, a scapito della domanda interna.
La ricerca della competitività appare così come un destino inevitabile: bisogna specializzarsi nelle fasi ad alto valore aggiunto, scalare la catena del valore – tutto a scapito dei concorrenti internazionali e delle classi lavoratrici.
Ma il paradigma della competitività non è un vincolo naturale: è una scelta politica. È la scelta di subordinare il benessere interno alle esigenze delle imprese esportatrici; di orientare la politica economica verso la difesa dei margini del capitale; di comprimere salari e diritti in nome della «resilienza» del sistema. È una scelta che ha impoverito i lavoratori, indebolito il tessuto produttivo, ridotto la capacità dello Stato di indirizzare l’economia. E che ha prodotto, come conseguenza, la deindustrializzazione: i settori cosiddetti «ad alto valore aggiunto», infatti, non sono altro che le fasi pre e post produzione; «scalare la catena del valore» significa quindi specializzarsi in queste fasi e delocalizzare le fasi manifatturiere, quelle a più alta intensità di lavoro.
Tale modello, per inciso, si è retto su un presupposto ben preciso: la disponibilità di merci a basso costo provenienti dal Sud del mondo, che ha permesso a lavoratrici e lavoratori europei, impoveriti da decenni di stagnazione salariale, di mantenere standard di vita accettabili. Non si tratta di un’aberrazione del capitalismo, ma di una sua caratteristica strutturale: un equilibrio del genere implica la perpetuazione del sottosviluppo altrui, e si scontra frontalmente con qualsiasi pretesa di pace, cooperazione o solidarietà internazionale.
E, soprattutto, quel mondo non esiste più. I paesi emergenti – a cominciare dalla Cina – hanno ormai acquisito capacità produttive e tecnologiche tali da spezzare definitivamente l’asimmetria che aveva permesso all’Europa di compensare la compressione salariale con beni a basso costo. Un esempio lampante di questo cambiamento l’ha offerto la grottesca vicenda dell’impresa cinese Nexperia, la cui roboante nazionalizzazione da parte del governo olandese ignorava un piccolissimo dettaglio: l’intera produzione è delocalizzata in Cina. Il risultato, tragicomico, è sotto gli occhi di tutti: il governo olandese, dopo aver espropriato un paio di inutili uffici amministrativi nella città olandese di Nijmegen, è ritornato mestamente sui suoi passi e ha annullato il provvedimento.
Una domanda alternativa
In altre parole, il vecchio modello competitivo non è solo ingiusto: è anche insostenibile e non più funzionante, se non al prezzo di un drastico impoverimento delle classi lavoratrici e quindi di un aumento vertiginoso delle disuguaglianze.
Una strada alternativa esiste, e passa per il rafforzamento della domanda interna mediante due leve fondamentali: un aumento della quota salari (ad esempio tramite il rafforzamento e l’intensificazione della contrattazione collettiva, l’indicizzazione dei salari nominali all’inflazione, il controllo dei prezzi, l’introduzione di un salario minimo, ecc.), che espande immediatamente i consumi, e un massiccio programma di investimenti pubblici, indispensabile per realizzare la transizione sociale ed ecologica e per (ri)costruire capacità produttiva nei settori strategici: energia e trasporti nel campo della transizione ecologica, impianti/apparati per Tlc/Ict in quella digitale (che non non è un fine in sé, ma deve essere a supporto di obiettivi sociali e ambientali); nonché nelle industrie di base e nelle filiere di produzione degli input intermedi al fine di garantire la loro completezza in termini di capacità produttiva.
In particolare, è possibile dimostrare che una distribuzione dei redditi tale da aumentare la quota salari media dall’attuale 50% a poco più del 70% sarebbe, in linea teorica, in grado di generare un potere d’acquisto equivalente a quello ora rappresentato dalle esportazioni. Ovviamente, questo non significa che una semplice politica (re)distributiva potrebbe sostenere un modello di crescita alternativo a quello fondato sulla competitività esterna: si tratta di una condizione necessaria ad aprire spazi per una profonda trasformazione della struttura economica europea, ma non sufficiente a realizzarla. In questo senso, le politiche keynesiane sono inefficaci, poiché non consentono di modificare la struttura produttiva esistente.
Per farlo, occorre piuttosto il ritorno della pianificazione come strumento centrale. Pianificare non significa imporre dall’alto un modello dirigista, ma orientare in modo consapevole l’evoluzione del sistema produttivo, coordinando investimenti pubblici, transizione ecologica, politiche industriali e obiettivi di giustizia sociale. Significa decidere collettivamente quali capacità produttive sviluppare, quali filiere riconvertire, quali attività espandere o ridimensionare, in funzione di un progetto di benessere condiviso e non della redditività immediata del capitale. È questa la condizione indispensabile per liberare il potenziale della domanda interna, ricostruire autonomia produttiva e rendere possibile un’economia orientata alla dignità del lavoro, alla sostenibilità e all’uguaglianza.
Pianificare, naturalmente, significa restituire un ruolo centrale alla proprietà pubblica delle imprese nei settori strategici, che devono agire come soggetti pubblici e non riprodurre le logiche di massimizzazione del profitto tipiche dei soggetti privati. Una trasformazione di questo tipo implicherebbe l’abbandono del modo di produzione capitalistico e l’avvio di un percorso verso forme socialiste di organizzazione. Nelle condizioni politiche attuali ciò evidentemente non è immediatamente realizzabile, ma resta il punto d’orizzonte verso cui orientare il nostro agire.
*Matteo Gaddi è responsabile del Centro Studi Fiom-Cgil. Nadia Garbellini è professoressa associata presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali dell’Università di Modena e Reggio Emilia e membro del Forum Nazionale Economia della Cgil. Roberto Lampa è attualmente professore associato presso il Dipartimento di Economia e Diritto dell’Università di Macerata, Docente del Dottorato in Economia Politica dell’Universidad Nacional de San Martín (Unsam), Buenos Aires e Membro del Forum Nazionale Economia della Cgil. Dal 2013 al 2022 è stato ricercatore senior presso il Conicet argentino e docente dell’Universidad de Buenos Aires (Uba). Insieme a Giovanni Carnevali, Giacomo Cucignatto, Lorenzo Esposito, Joseph Halevi, Roberto Polidori e Gianmarco Oro, è autore del libro Tornare alla Pianificazione. Politiche industriali dopo la Globalizzazione. (Punto Rosso, 2025).
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