
Cuba in Angola: un’odissea africana
Jacobin Italia - Tuesday, December 2, 2025
Articolo di Nicola TannoIl 1975 viene di solito considerato come un anno nero per il governo statunitense, che dopo più di un decennio di bombardamenti e massacri di massa fu costretto a ritirarsi dal Vietnam del Sud. Pochi, però, ricordano che in quello stesso anno si consumò un’altra sconfitta per l’amministrazione Ford-Kissinger, consumatasi lontana dai riflettori, ma pregna di conseguenze a lungo termine.
Nel novembre 1975 prese il via l’operazione Carlota, la missione cubana di sostegno militare al Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola (Mpla), che la vide contrapposta sul campo contro vari alleati di Washington: i movimenti angolani Fnla e Unita di orientamento anticomunista, lo Zaire di Mobutu e, soprattutto, il Sudafrica dell’apartheid.
In poche settimane il Mpla e centinaia di soldati caraibici si fronteggiarono con questi nemici ottenendo una vittoria pregna di effetti: l’indipendenza dell’Angola e la sua (momentanea) unità territoriale, l’affermazione militare di un movimento di sinistra, il ridimensionamento delle ambizioni del reazionario Mobutu e, soprattutto, la prima fondamentale sconfitta dell’esercito bianco sudafricano. Quest’ultimo evento incrinò l’immagine di invincibilità di Pretoria e aprì le porte a nuove rivolte dentro e fuori il paese.
Il 7 novembre 1975 un battaglione di 652 uomini appartenenti alle Forze Speciali del Ministero degli Interni cubano (le Tropas Especiales del Minint) prese il volo verso Luanda. Nel frattempo, un reggimento d’artiglieria con centinaia di soldati salpò a bordo della nave Vietnam Heroico diretto anch’esso verso l’Angola.
L’obiettivo era quello di fermare l’avanzata settentrionale dell’armata controllata da Mobutu (il Fronte di Liberazione Nazionale dell’Angola, Fnla) e, a sud, quella del Sudafrica. Sia gli Stati uniti che l’Unione sovietica rimasero di stucco di fronte alla spregiudicatezza dell’azione cubana. Per quale motivo Fidel Castro decise di impegnarsi in una missione a più di diecimila chilometri da casa? Quali erano le finalità dell’operazione Carlota?
Da Algeri a Luanda
Come racconta Piero Gleijeses in Conflicting Missions. Havana, Washington and Africa 1959–1976, l’attivismo cubano in Africa cominciò subito dopo la vittoria della rivoluzione del 1959. Nel 1963 trecentocinquanta soldati cubani si mobilitarono in sostegno del governo algerino di Ben Bella per resistere alle pretese espansionistiche del Marocco. Non vi furono scontri armati: la sola presenza cubana bastò a far desistere Rabat dai suoi progetti.
Cuba era convinta che l’Africa fosse in ebollizione e che il modo migliore per indebolire l’imperialismo statunitense fosse quello di esportarvi la rivoluzione. Nel 1965 Ernesto Che Guevara – per conto del governo cubano e non per una sua iniziativa personale – guidò un centinaio di volontari in sostegno alla rivolta dei Simba, di orientamento lumumbista e attiva nella zona orientale del Congo. Tuttavia, gli esiti della missione furono fallimentari, come testimoniato dalla frustrazione che emerge dalle pagine dei diari del Che: agli occhi di Guevara, i Simba apparivano indisciplinati, scarsamente motivati e incapaci di conquistare la fiducia della popolazione locale.
Nonostante quest’insuccesso, l’azione cubana in Africa non si interruppe. Il Che aveva allacciato rapporti con vari movimenti anticoloniali – soprattutto quelli della Guinea Bissau e dell’Angola – oltre che con governi d’ispirazione socialista come la Tanzania di Julius Nyerere e il Congo di Alphonse Massamba-Débat. Proprio in Congo (quello confinante con lo Zaire), i cubani installarono una base logistica e diplomatica che si rivelò fondamentale per le operazioni successive.
La più importante di queste, fino al 1975, fu il sostegno al Paigc (Partito Africano per l’Indipendenza della Guinea Bissau e di Capo Verde) nella sua lotta contro l’Impero portoghese: quello che, non a caso, gli Stati uniti definirono nel 1967 «il movimento di liberazione nazionale di maggior successo». Sostenuto dal governo della Guinea di Ahmed Sékou Touré e armato dai sovietici, il Paigc beneficiò molto dell’assistenza sanitaria cubana: quelli provenienti dall’Avana furono gli unici medici attivi in tutta la guerriglia anti-portoghese.
Tuttavia, fu in Angola che l’impatto dell’intervento cubano raggiunse il suo apice, al punto da mobilitare le maggiori potenze regionali e mondiali. A seguito della Rivoluzione dei Garofani, l’Impero Portoghese collassò. La nuova giunta militare progressista si impegnò da subito nello smantellamento delle colonie e, tra queste, la più importante era certamente l’Angola.
Grande quasi quattro volte l’Italia, l’Angola era il quarto produttore mondiale di caffè e il sesto produttore di diamanti, nonché un importante esportatore di petrolio. Inoltre, si trattava di un territorio attraversato da profonde divisioni etniche e con una numerosa popolazione bianca. A differenza della Guinea Bissau, però, la guerriglia angolana si era dimostrata non solo relativamente debole, ma anche frammentata in tre movimenti rivali. Il Mpla, di orientamento marxista, era radicato a Luanda, nella fascia centro-settentrionale del paese e nell’enclave di Cabinda, ed era guidato dall’intellettuale Agostinho Neto. Il Fnla, strumento nelle mani del presidente zaireano Joseph-Désiré Mobutu, operava nel nord e tentava di inserirsi nella capitale. Infine, la Unita del carismatico e ambiguo Jonas Savimbi, destinata a un ruolo centrale negli anni successivi ma nel 1975 militarmente inferiore alle altre due forze.
Il 15 gennaio 1975, con gli accordi di Alvor, il governo portoghese stabilì che l’Angola sarebbe diventata indipendente l’11 novembre dello stesso anno e che, nel frattempo, il paese sarebbe stato governato da un esecutivo transitorio formato dalle tre organizzazioni. Dopo poche settimane, però, quell’unità artificiale si sfaldò e scoppiò una guerra civile aperta. Il Fnla di Holden Roberto – che da più di quindici anni viveva a Kinshasa protetto da Mobutu – cercò fin da subito di prendere il controllo militare della capitale penetrando da nord, e tentò anche di conquistare l’enclave di Cabinda, contando sulla potenza militare garantita da Mobutu e dal sostegno statunitense.
Ciò che però mancava alle truppe di Roberto, e che invece possedevano Neto e il Mpla, era la motivazione dei suoi soldati e il sostegno della popolazione. Nella capitale, il movimento marxista espulse rapidamente il Fnla, mentre a nord le brigate del Mpla resistettero agli attacchi sia nei pressi di Luanda sia nell’enclave di Cabinda. La vittoria del Mpla sembrava ormai scontata quando, il 14 ottobre, le Sadf, le Forze di Difesa Sudafricane, invasero il paese da sud.
La battaglia di Ebo
L’operazione Savannah, come venne battezzata dai sudafricani, era composta prevalentemente da truppe regolari e da milizie della Unita (Unione Nazionale per l’Indipendenza Totale dell’Angola), le forze guidate da Jonas Savimbi. Caduto l’Impero portoghese, i razzisti sudafricani non potevano accettare che il grande paese centroafricano cadesse nelle mani di un movimento marxista, che avrebbe senza dubbio dato manforte ai movimenti anti-apartheid e alle forze indipendentiste della Namibia. Sostenuti segretamente dagli Stati uniti e ben consapevoli che il Mpla era pressato anche da nord, i sudafricani decisero allora di attaccare da sud, convinti che il movimento marxista angolano non avrebbe potuto reggere tre fronti contemporaneamente. In particolare, sia per Pretoria che per Kinshasa, era fondamentale raggiungere Luanda prima dell’11 novembre, data in cui sarebbe stata proclamata l’indipendenza del paese.
Come previsto dagli strateghi della Sadf, l’avanzata da sud fu rapida, nonostante le resistenze del Mpla e di alcune forze cubane già presenti sul territorio. Pressata da nord e da sud, la caduta di Luanda sembrava imminente. Fu a quel punto che Fidel Castro assunse la decisione storica di inviare un contingente molto più ampio in sostegno di Neto. I rapporti da Brazzaville e da Luanda sottolineavano la situazione critica in cui versava l’esercito angolano: per Cuba non vi erano che due opzioni, o ritirare i pochi istruttori e militari presenti sul fronte, oppure inviare migliaia di uomini. Su richiesta di Neto, Castro optò per la seconda via. Si trattava di una scelta rischiosa: l’Unione sovietica era impegnata in un delicato negoziato con gli Usa sulla riduzione degli armamenti nucleari e non vedeva di buon occhio una maggiore mobilitazione in Africa, Washington avrebbe reagito con ulteriore ostilità verso l’isola ribelle e, soprattutto, venivano schierate le migliori truppe cubane in una missione a diecimila chilometri dai propri confini. Un eventuale fallimento della missione sarebbe potuto essere fatale per l’intero progetto rivoluzionario.
Giunti a Luanda, i soldati cubani – guidati da Raúl Díaz Argüelles – furono immediatamente dirottati a Quifangondo, a difesa della strada che conduceva direttamente alla capitale. Fu lì, a soli tredici miglia da Luanda, che il 10 novembre 1975 850 angolani, 200 ribelli del Katanga (nemici di Mobutu) e 88 cubani respinsero l’attacco del contingente guidato da Holden Roberto. I 2.000 miliziani del Fnla, 1.200 zairiani, 120 mercenari portoghesi e un pugno di consiglieri sudafricani e della Cia non riuscirono a sfondare le difese e furono costretti alla ritirata. Il giorno dopo, l’11 novembre, come stabilito dagli accordi di Alvor, i portoghesi ammainarono la propria bandiera dopo quasi cinque secoli di dominio coloniale, e la sovranità passò ufficialmente al Mpla, che proclamò la Repubblica Popolare dell’Angola con Agostinho Neto presidente.
Nel frattempo, a nord, 1.000 angolani e 232 cubani respinsero un nuovo assalto delle truppe di Mobutu. Ma i pericoli maggiori provenivano dal sud. Fu lì, presso la piccola località di Ebo, che l’armata internazionalista di uno Stato socialista caraibico incontrò per la prima volta il potente esercito razzista e colonialista sudafricano.
Dopo aver travolto le forze del Mpla e conquistato l’importante nodo stradale di Cela, la colonna sudafricana della Task Force Foxbat si diresse verso la capitale. Intuendo la direttrice dell’avanzata, Díaz Argüelles organizzò un’imboscata esemplare: settanta militari cubani, affiancati da un piccolo reparto angolano, aprirono il fuoco contro le truppe bianche sudafricane e la fanteria della Unita, uccidendo una novantina di soldati nemici e distruggendo otto mezzi corazzati. Lo scontro, benché circoscritto, ebbe un impatto psicologico enorme. Nelle parole di un ufficiale sudafricano, fu «una domenica nera» per Pretoria. Per la prima volta, l’avanzata sudafricana era stata fermata, e non dall’esercito di una grande potenza occidentale, ma da una manciata di comunisti caraibici. Le immagini dei prigionieri bianchi catturati dagli angolani e dai cubani ebbero un effetto devastante in patria, incrinando l’immagine di invincibilità che la Sadf coltivava da decenni. Da quel momento in poi, l’idea che il Sudafrica potesse prendere Luanda «in poche settimane» cominciò a svanire.
La vittoria di Ebo non pose fine ai combattimenti, ma segnò un punto di non ritorno. Tra novembre e dicembre sbarcarono presso le coste angolane migliaia di giovani soldati cubani, che riuscirono a sconfiggere non solo le forze di Mobutu, ma anche mercenari britannici e francesi reclutati nell’ambito di un’operazione finanziata dagli Stati uniti. A sud, i sudafricani – nonostante diversi tentativi di penetrare verso Luanda – furono infine costretti al ritiro completo tra gennaio e marzo 1976 e preferirono concentrarsi sul riarmo della Unita di Savimbi. Nei tre lustri successivi, la guerra tra due «visioni di libertà» – come titola il libro di Piero Gleijeses Visions of Freedom, dedicato al confronto tra Cuba e Sudafrica dopo il 1976 – continuò a lungo, fino alla grande battaglia di Cuito Cuanavale del 1987.
Come dichiarò anni dopo un ufficiale sudafricano in pensione, l’Angola rappresentò «la Baia dei Porci» dell’esercito razzista. L’immagine di invincibilità della Sadf, costruita in decenni di dominio militare e di secoli di colonialismo europeo, era stata infranta. E le conseguenze non tardarono a manifestarsi. A marzo 1976 i guerriglieri della Swapo in Namibia lanciarono la loro prima grande offensiva. Due mesi dopo, in Sudafrica dopo esplose la rivolta di Soweto.
(Anche) Cuba sconfisse l’apartheid
Per quale motivo uno Stato socialista con enormi difficoltà economiche e assediato dalla più grande potenza militare della storia decise di impegnarsi attivamente in Angola, Guinea Bissau, Zaire e poi, con meno gloria, in Etiopia e Somalia? Fidel Castro e il gruppo dirigente socialista cubano, come riconosciuto dagli stessi apparati statunitensi, furono sempre «autentici» nel loro spirito rivoluzionario: più desiderosi «di essere ricordati come martiri rivoluzionari che come pianificatori economici». Fidel, Raúl e il Che erano animati da un alto grado di idealismo e credevano che l’Africa fosse il nuovo epicentro delle rivolte anticoloniali. L’enorme processo di decolonizzazione degli anni Sessanta sembrava dar loro ragione. Tuttavia, l’idealismo di Fidel era accompagnato da una strategia ben definita di tutela della propria rivoluzione. Cuba solo in parte promosse sommovimenti rivoluzionari nelle Americhe, non colpì mai la base di Guantanamo occupata dagli statunitensi e non mosse un dito per difendere il governo di Juan Bosch nella Repubblica Domenicana quando il paese venne invaso dagli Usa. Cuba si impegnò, invece, per danneggiare gli interessi statunitensi in quei posti dove sarebbe stato più difficile l’intervento nordamericano, e cercando di non correre eccessivi rischi: né in Algeria, né in Guinea Bissau i cubani si impegnarono in conflitti armati, in Zaire i caduti furono soltanto sei, e su trentamila ufficiali dispiegati in Angola tra novembre 1975 e marzo 1976, i morti furono circa duecento (tra cui Raúl Díaz Argüelles, il capo della missione militare). Fatto sta, però, che l’intervento cubano fu decisivo per le sorti dell’Africa centrale e australe: I cubani salvarono l’Algeria dalle mire marocchine (scatenando l’ira non solo di Rabat ma anche di Parigi), diedero un sostegno imprescindibile al Paigc della Guinea Bissau, salvarono l’Angola dall’invasione zairiana e sudafricana, e dopo il 1976 addestrarono e armarono i guerriglieri della Swapo namibiana e dell’Anc sudafricana. Infine, combatterono nella più grande battaglia convenzionale avvenuta sul suolo africano dalla Seconda guerra mondiale, a Cuito Cuanavale, infliggendo al Sudafrica una sconfitta strategica che avrebbe pesato enormemente sulla fine del regime dell’apartheid. Tutto ciò Cuba lo fece autonomamente: al contrario di quanto ritenevano i servizi di intelligence statunitensi, Cuba non chiese il permesso a Mosca per intervenire in Angola. Certamente, Fidel era cosciente del fatto che, in ultima istanza, l’Urss avrebbe dovuto sostenerli, ma le scelte cubane vennero prese in autonomia, nell’ambito di una politica estera rivoluzionaria che i sovietici spesso consideravano troppo avventurosa.
Nel libro-intervista con Ignacio Ramonet, Fidel Castro lamentava il fatto che l’azione cubana in Africa fosse stata dimenticata. A cinquant’anni dall’Operazione Carlota, ancora meno persone ricordano il sacrificio che Cuba sostenne per l’Africa. Oggi l’isola caraibica vive i suoi giorni peggiori, strangolata come mai prima dal blocco economico, e con grandi nubi che si addensano all’orizzonte. Ma nonostante questo, i cubani conservano un merito che nessuna crisi economica può cancellare: in Angola, nella Namibia e contro l’apartheid combatterono non per sé stessi, ma per la libertà degli altri. E questo li colloca, senza ambiguità, dal lato giusto della storia.
*Nicola Tanno è laureato in scienze politiche e in analisi economica delle istituzioni Internazionali presso l’Università Sapienza di Roma. Ha pubblicato Tutta colpa di Robben (Ensemble, 2012). Vive e lavora da anni a Barcellona.
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